"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

108 | luglio/agosto 2013

9788898260539

Schneewittchenwerk 

Appunti per una riflessione su Biancaneve e la cultura del XIX secolo*

Elena Pirazzoli

English abstract

La misero allora in una bara, e tutti e sette si disposero attorno a lei e la piansero per tre giorni e tre notti. Poi vollero seppellirla, ma videro che aveva ancora un'aria fresca e colorita e non sembrava affatto morta. Quindi fecero fabbricare una bara di vetro, la sistemarono in modo che la si potesse contemplare. Incisero a caratteri d'oro il suo nome e la sua origine, e ogni giorno uno di loro rimaneva a vegliarla. 
Così Biancaneve restò molto, molto a lungo nella bara senza deperire. Era ancora bianca come la neve e rossa come il sangue, e se avesse potuto aprire gli occhi sarebbero stati neri come l'ebano – e restava sempre lì, come addormentata.
Un giorno un giovane principe si trovò a passare di lì e chiese ospitalità ai sette nani. Entrò e vide subito la bara di vetro illuminata dalle sette lucerne. Non riusciva a saziare gli occhi di tanta beltà e lesse nell'iscrizione d'oro che si trattava di una figlia di re. Avrebbe voluto comprare la bara con dentro Biancaneve morta, ma loro non l'avrebbero ceduta per tutto l'oro del mondo.
La chiese allora in dono, ché non poteva più vivere senza averla sotto gli occhi, e disse che l'avrebbe innalzata e onorata come la cosa più preziosa e più cara al mondo. A quel punto i nanetti s'impietosirono e gli consegnarono la bara. Il principe la fece trasportare nel suo castello e sistemare nei suoi appartamenti. Stava seduto lì, tutto il giorno a fissarla, senza riuscire a distogliere lo sguardo. E quando doveva uscire e non poteva guardarla era preso da umor nero, e senza la bara accanto non riusciva a mandar giù nemmeno un boccone.
Ma la collera montava tra i servitori costretti a scarrozzare la bara di qua e di là, finché un giorno uno di loro aprì il coperchio, tirò su Biancaneve e imprecò: "Per questa morta siamo costretti a faticare tutto il giorno", e le assestò un gran colpo alla schiena. E fu così che le tornò su il tocco di mela avvelenato, per tutto il tempo rimasto incastrato in gola, e Biancaneve si risvegliò. (Grimm [1812] 2012, 72-73)

Bara (tedesco Bahre): dal longobardo *ba¯ra "lettiga", dal germ. *beran "portare".
1. cassa da morto, feretro | avere un piede nella bara, (fig.) essere molto malato, in punto di morte; anche, essere vecchio e malandato; 2. carro su cui vengono portate in processione le reliquie di un santo; 3. (ant.) lettiga usata per trasportare malati, feriti e cadaveri | barella.

Sarg (sinonimo tedesco di Bahre): antico sarc, probabile abbreviazione del lat. sarcophagus, gr. Sarkophágos, propr. "che mangia le carni", comp. di sárx sarkós "carne" e -phágos "-fago, che mangia".

Sarcofago: cassa sepolcrale di particolare solennità e imponenza, in pietra o legno, spesso ornata di pitture, fregi o sculture in rilievo, usata nell'antichità classica e nel medioevo.

(da sin. a des.) 1a-1b-1c: Tre cartoline illustrate raffiguranti Biancaneve che giace nella bara di cristallo, area tedesca, 1901-1920 ca (disegni di Paul Hey, Franz Hein, Erich Schütz), www.goethezeitportal.de; 1d: Lo sconforto del principe e la bara portata dai servitori (illustrazione tratta dalla traduzione islandese delle Fiabe dei Grimm, 1852), commons.wikimedia.org.

1. Il guscio, la fodera, il dagherrotipo

La difficoltà di riflessione sull'abitare deriva dal fatto che da una parte vi deve essere riconosciuto ciò che è antichissimo – forse eterno –, l'immagine del soggiorno dell'uomo nel grembo materno; e che, d'altra parte, malgrado questo motivo storico-originario, nell'abitare deve essere compresa, nella sua forma più estrema, una condizione di esistenza del XIX secolo. La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio. Questo reca l'impronta di chi vi abita. Nel caso più estremo l'abitazione diventa il guscio. Il XIX secolo è stato, come nessun'altra epoca, morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell'uomo e l'ha collocato lì dentro con tutto ciò che gli appartiene, così profondamente da far pensare all'interno di un astuccio per compassi, in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. Per cosa non ha inventato i gusci il XIX secolo: orologi da tasca, pantofole, portauovo, termometri, carte da gioco. E, in mancanza di gusci, fodere, passatoie, rivestimenti e coperture. (Benjamin [1982] 2000, 234-235)

Nel XIX secolo la casa diviene il guscio in cui il suo abitante si rappresenta e si identifica, il luogo dove l'intérieur si dispiega sulle pareti: in particolare, la dimora del collezionista è espressione di una cultura borghese che democratizza e diffonde le attrazioni e ossessioni che avevano generato i Cabinets des curiosités e le Wunderkammern dei secoli precedenti, allora appannaggio di principi e facoltosi umanisti. Nel corso dell'Ottocento, la passione per l'accumulo di meraviglie – naturalia et artificialia – si espande e contagia anche il vivere e l'abitare borghese, che si popola di oggetti preziosi, ma soprattutto di suppellettili, ninnoli, bibelots. Come i principi raccoglievano cose rare e preziose, inestimabili reliquie di animali mitici (come il dente di narvalo, creduto corno dell'unicorno), esotiche uova di struzzo, coccodrilli impagliati, rami di corallo fino ad arrivare ai feti deformi o le coppie di gemelli siamesi, così un secolo dopo la dimora borghese diviene un guscio per le cose curiose o amate. Diviene un "nido".

L'aspetto fisiologico del collezionismo è importante. Nell'analisi di questo comportamento non va tralasciato il fatto che il collezionare e raccogliere riveste tra gli uccelli un'evidente funzione biologica nel caso della costruzione del nido. Pare che nel Trattato sull'Architectura di Vasari se ne trovi un accenno. (Benjamin [1982] 2000, 221)

Ma la dimora borghese non può contenere le meraviglie principesche: ci si accontenta di mirabilia minori, in cui il coccodrillo cede il passo al pappagallo impagliato, attorniato da esotismi ormai più a portata di mano e souvenir di mete sì lontane, ma non più raggiungibili solo attraverso spedizioni d'avventura.

28 giugno 1850
«... alla sua Speranza la sua Carlotta...»
(dall'album: dedica d'una fotografia)

Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po' scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,
le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,
i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cucu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco
chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
I fratellini alla sala quest'oggi non possono accedere
che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili. È giorno di gala).
Ma quelli v'irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta […].
Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita
si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita.
O musica! Lieve sussurro! E già nell'animo ascoso
d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!
(Gozzano [1907] 1980, 183-185)

L'interno borghese è il luogo dell'imbalsamazione e conservazione delle cose ritenute belle. Benjamin nel Passagenwerk riporta anche una citazione apparentemente minore, ma che dà la misura di questa pulsione diffusa: "I giornali di moda dell'epoca contenevano istruzioni su come conservare i bouquet". Ecco allora che custodie, astucci, scrigni e campane di vetro entrano nell'appartamento borghese, ne costituiscono il paesaggio in ogni parte d'Europa. E nell'ovatta di quel nido, i sussurri delle fanciulle borghesi danno forma ai loro desideri, nati in seno a quella protezione e fatti di sogni, aneliti per trame di fiabe, cui la realtà corrisponderà con difficoltà.

(fig. 2) Doppio ritratto, donna e ragazza. Dagherrotipo colorato, 1850 ca, Nordiska Museet, 113499 (CC 1.0 Universal), commons.wikimedia.org.

Tra gli oggetti a nascere insieme alla loro custodia, ci sono i primi esempi di riproduzione fotografica: dagherrotipi e ambrotipi vengono solitamente preparati per i clienti assieme agli astucci per custodirli ed esporli. Si tratta di una necessità dovuta alla loro conservazione, ma anche un modo per sottolineare ed enfatizzare la preziosità dell'immagine contenuta. 

Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest'ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un'ultima trincea, che è costituita dal volto dell'uomo. Non a caso il ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo rifugio. Nell'espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l'ultima volta l'aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza. (Benjamin [1936] 1966, 38).

Le fotografie di Daguerre erano lastre d'argento allo jodio impresse nella camera oscura, che richiedevano di essere voltate e rivoltate in tutti i sensi per potervi riconoscere la giusta illuminazione, un'immagine di un grigio delicato. Erano esemplari unici; nel 1839, per una lastra si pagavano 25 franchi d'oro. Non di rado venivano conservate in appositi astucci, come gioielli. (Benjamin [1931] 1966, 61)

Nei primi anni della sua diffusione, il procedimento fotografico resta nel reame dell'eccezionalità: ad esso ci si rivolge per registrare i momenti fondamentali della vita dell'individuo, le tappe che segnano i cambiamenti, le cesure: battesimi, comunioni, matrimoni, la partenza per il servizio militare. "La mort, étape ultime, ne peut échapper à ce besoin de mémoire" (Bolloch 2007). 

Nel XIX secolo, il confronto con la morte è ancora qualcosa di comune: la maggior parte dei decessi avvengono all'interno della casa, della camera da letto. Le difficoltà nel corso del parto, le malattie infantili rendono la morte parte della vita domestica. In modo naturale, la fotografia post mortem diviene una delle possibilità di ritratto-ricordo generate dalla nuova tecnica. Non vi è nulla di morboso in questo genere di scatto, tanto che alcuni fotografi lo indicano direttamente nei propri annunci pubblicitari senza imbarazzo né scandalo. Sottolinea ancora Bolloch come lo studio di Boston Southworth & Hawes descrivesse chiaramente la disponibilità di questa offerta nel proprio volantino pubblicitario:

Our arrangements as such that we take miniatures of children and adults instantly, and of DECEASED persons, either at our rooms or at private residences. We take great pains to have Miniatures of deceased persons agreeable and satisfactory and they are often so natural as to seem, even to Artists, in a quiet sleep.

(fig. 3a) Bambini accanto alla sorellina defunta. Seconda metà dell’Ottocento; (fig. 3b) Volantino pubblicitario dello studio Southworth&Hawes di Boston, 1848.

I dagherrotipi vengono deposti e custoditi in astucci, preziosi ricordi di cari vicini, lontani o scomparsi, a volte insieme a ciocche di capelli o altre tracce della loro presenza. L'effigie stessa si fa 'reliquia', oggetto sacro di un culto domestico non più rivolto solo agli antenati ma agli affetti. L'astuccio diviene la teca, il reliquiario laico.

2. Santi incorrotti, ritratti in cera, automi e marionette

(fig. 4) Schneewittchen im Sarg (Biancaneve nella bara di cristallo), tratta da Albert Hendschel’s Skizzenbuch, Frankfurt am Main 1871 <www.goethezeitportal.de>.

Nella dimora nobiliare, ancora nell'Ottocento era uso raccogliere reliquie di santi, più o meno veritiere: Tomasi di Lampedusa ricorda questa abitudine, con ironia sottile, nella parte finale del Gattopardo in cui viene descritto l'attaccamento delle anziane figlie del principe di Salina per le settantaquattro reliquie che "coprivano fitte" le pareti della cappella del palazzo, "ciascuna [...] chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l'indicazione di che cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentazione di autenticità" (Tomasi di Lampedusa [1957] 1969, 254). Quasi nessuna di esse, con grande ira delle sorelle Salina, sopravvisse al vaglio delle autorità ecclesiastiche.

Fuori dalla cappella stava un'altra reliquia, non religiosa ma sulla cui veridicità non si potevano sollevare dubbi: collocato nelle stanze private, affollate di altri oggetti del ricordo, "da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato", stava il cane Bendicò, ridotto a "un mucchietto di pelliccia tarlata", "un muso di legno nero", "due attoniti occhi di vetro giallo", "aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l'abbandono all'immondezzaio" (Tomasi di Lampedusa [1957] 1969, 257). Cane amatissimo dal Principe, figura che lo stesso Tomasi considerava "chiave" per la comprensione del romanzo, Bendicò, benché imbalsamato, deperisce, partecipando al decadimento proprio di qualsiasi corpo di fronte al tempo. E non solo dei corpi, ma anche delle famiglie, delle casate, di mondi interi, come lascia intendere lo scrittore siciliano. 

Solo alcuni corpi di santi e beati – i cosiddetti 'santi incorrotti' – hanno la fortuna miracolosa di sottrarsi a questa condizione necessaria dell'esistere – che si traduce nel suo contrario – e vengono conservati in luoghi di culto per secoli senza che le loro spoglie mortali mostrino i segni del trascorrere del tempo. 

Uno dei casi più noti è quello di Santa Caterina de' Vigri (1413-1463), clarissa bolognese canonizzata nel 1712. Quando morì, venne sepolta nella terra, ma i miracoli verificatisi presso la sua tomba portarono alla sua esumazione: le testimonianze tramandate dalla tradizione raccontano che il suo corpo, ancora morbido e fresco, profumava soavemente e trasudava un liquido, raccolto poi in ampolle. Venne allora esposta alla venerazione dei fedeli, in posizione seduta, in una teca del Monastero del Corpus Domini a Bologna, di cui fu fondatrice e badessa, dove nei secoli le suore si sono prese cura del suo corpo e dove è tutt'ora visibile.

Tuttavia, le gerarchie religiose cercarono di approfondire questi 'casi': papa Benedetto XIV, ad esempio, entrò nel merito della questione – analizzata dal punto di vista medico-legale prima che spirituale – sottolineando che alcune pretese resurrezioni presenti nelle storie dei santi non sono state altro che casi di morte apparente. In altri casi, alcuni cadaveri incorrotti devono la loro conservazione a un processo di mummificazione. Le indagini indicano come lo stesso miracolo del profumo, in diversi casi, risulta essere temporaneo e addirittura nocivo. In questo contesto di processi all'incorruttibilità miracolosa, si avanzano dubbi persino sul caso di Caterina de' Vigri (Palmieri 2012, 35).

(fig. 5) Marianne Stokes, Snow White, Wallraf-Richartz-Museum (WRM 3624), Colonia <commons.wikimedia.org>.

Nella sua riflessione sulla rappresentazione in Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (1998), Carlo Ginzburg cita il saggio di Robert Hertz, Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte (1907): "Hertz mostra che la morte, ogni morte, è un evento traumatico per la comunità: una crisi vera e propria, che deve essere dominata mediante riti che trasformano l'evento biologico in un processo sociale, controllando il passaggio dal cadavere putrescente (oggetto instabile e minaccioso per eccellenza) allo scheletro. Tra questi riti c'è la sepoltura provvisoria o, in altre culture, la mummificazione o la cremazione, talvolta combinate" (Ginzburg 1998, 84). Proseguendo con un excursus storico, Ginzburg ricorda: "A Sparta, come ci informa Erodoto (VI, 58), quando un re moriva in guerra se ne faceva un simulacro che veniva esibito in un letto ben adorno" (Ginzburg 1998, 87). Nei riti funerari di diverse epoche del passato, l'uso di manichini – copie – di cera, ma anche cuoio o legno, è stato ampiamente diffuso, dagli imperatori romani ai sovrani francesi e inglesi dell'età medioevale: per alcuni giorni l'effigie del re/imperatore veniva adornata con abiti sfarzosi, oppure attorno ad essa si svolgevano banchetti, mettendo in scena la sovranità post mortem durante una necessaria fase di transizione e lutto.

Una pagina ben nota della Storia romana di Dione Cassio descrive la statua in cera dell'imperatore Pertinace, morto nel 193, 'adorna di abiti trionfali': di fronte ad essa, 'un giovane schiavo allontanava le mosche con un ventaglio di piume di pavone, come se il sovrano stesse dormendo'. (Giesey 1960, 228-229)

Le statue di cera nell'ambito funerario e gli automi meccanici in quello dei prodigi meravigliosi hanno grande fortuna, dall'antichità fino ai giorni nostri, per via del loro statuto ambiguo, in cui la finzione e la realtà generano un cortocircuito per l'osservatore. Il termine automa, in particolare, deriva dal greco automatos, che significa "spontaneo, che agisce da sé": è per la prima volta Aristotele a utilizzarlo per designare le marionette; successivamente, viene usato per indicare i congegni meccanici, idraulici e pneumatici dotati di movimento indipendente, per lo più usati in orologi, giochi d'acqua e altri dispositivi in cui appaiono animali e figure umane interagenti e talvolta canore (Grube 1991).

(fig. 6) Marionetta di Biancaneve, Heimattheater di Kuno Ossberger, 1930 ca. Münchner Stadtmuseum, Puppentheatermuseum (© Foto David Brandt <dhmd.de>).

Nel saggio Zur Psychologie des Unheimlichen (1906), Ernst Jentsch è il primo a ragionare sull'aggettivo unheimlich, cercando di capire quali siano le condizioni psicologiche perché la sensazione provata possa essere definita in quel modo. In particolare, egli indica come:

Ancora più chiaramente si manifesta questo effetto strano quando imitazioni della forma umana non soltanto sono riuscite simili al vero, ma appaiono anche dotate di certe funzioni fisiche o intellettuali. È questo il caso dell'impressione, così penosa per molti, che provocano gli automi. […] Quanto più raffinato è il meccanismo e quanto più conforme al vero è la copia, tanto più fortemente si manifesterà il particolare effetto. Questa realtà è stata ripetutamente utilizzata nella letteratura per provocare nel lettore la nascita dello stato emotivo dell'Unheimliche. (Jentsch [1906] 1983, 406).

Come già quello di Jentsch del 1906, il più famoso saggio di Freud del 1919 prende l'avvio dalla definizione etimologica di heimlich, dal suo uso nella lingua e le sue traduzioni a partire dalla sua occorrenza nel Wörterbuch der Deutschen Sprache di Daniel Sanders (Lipsia 1860).

In questo testo, l'aggettivo tedesco unheimlich viene usato da Sigmund Freud nella sua forma sostantivata das Unheimliche per indicare quella dimensione della paura le cui radici affondano in quello che è più profondamente noto, nel familiare. Il rapporto tra i due termini, heimlich e unheimlich, è allora molto più complesso di quello che appare: se il primo termine significa familiare (propriamente, quello che è della casa) allora il suo opposto è ciò che viene percepito come sconosciuto, non noto, non familiare. Ma alcuni dizionari riportano anche un'altra accezione di heimlich come quello che viene celato, nascosto, nel chiuso della casa (verheimlichen: tenere segreto, tenere nascosto). Unheimlich diviene allora quello che affiora, quello che viene messo in luce, generando una paura profonda proprio perché va a toccare quello che la dimensione domestica ha rimosso, adombrandolo al suo interno. 

3. Fiabe del focolare e del salotto buono

(fig. 7) Frontespizio della seconda edizione delle Kinder und Hausmärchen dei Fratelli Grimm, 1819.

All'inizio del XIX secolo, Jacob e Wilhelm Grimm iniziarono l'opera di raccolta e sistematizzazione dei racconti popolari e delle leggende tedesche. All'epoca, la Germania era ancora un territorio complesso, configurato come un'insieme di diversi principati sovrani nati dalla dissoluzione del longevo Sacro Romano Impero. I popoli tedeschi, divisi in entità statali diverse e in molti casi anche dalla confessione religiosa, erano però uniti da una lingua comune e una cultura condivisa, costituita anche da un immaginario mitico. I due fratelli Grimm, filologi e linguisti formatisi in realtà come giuristi presso l'Università di Magdeburgo, rivolsero la loro attenzione proprio agli elementi fondativi della tradizione popolare – del Volk –, ossia le fiabe e le saghe tramandate oralmente. Vide così la luce nel 1812 la prima edizione di Kinder- und Hausmärchen, fiabe per bambini e del focolare (il termine Haus va inteso nel senso di domus, quindi lo spazio dove la famiglia si riunisce): in questa prima stesura – legata alle versioni delle fiabe riportate dai "raccoglitori", appartenenti a una cerchia di amici e ispirati dagli ideali del romanticismo – i testi erano spesso molto secchi, crudi e crudeli, e solo nelle edizioni successive i racconti assunsero le formule divenute tradizionali, la violenza si ridusse, le madri invidiose e terribili divennero più accettabili matrigne, furono edulcorati i riferimenti alla morte e praticamente azzerati quelli di natura sessuale. Ma nell'edizione del 1812, "nella sostanza essi si attennero all'originario principio di recupero delle reliquie del passato" (Zipes 2012, XVI).

La differenza tra le fiabe per bambini e quelle del focolare e il rimprovero che ci viene mosso di avere utilizzato questa combinazione nel nostro titolo è più una questione di lana caprina che di sostanza. Altrimenti bisognerebbe letteralmente allontanare i bambini dal focolare dove sono sempre stati e confinarli in una stanza. Le fiabe per bambini sono mai state concepite e inventate per bambini? Io non lo credo affatto e non sottoscrivo il principio generale che si debba creare qualcosa di specifico appositamente per loro. Ciò che fa parte delle cognizioni e dei precetti tradizionali da tutti condivisi viene accettato da grandi e piccoli, e quello che i bambini non afferrano e che scivola via dalla loro mente, lo capiranno in seguito quando saranno pronti ad apprenderlo. È così che avviene con ogni vero insegnamento che innesca e illumina tutto ciò che era già presente e noto, a differenza degli insegnamenti che richiedono l’apporto della legna e al contempo della fiamma. (Jacob Grimm in una lettera ad Achim von Arnim del 28 gennaio 1813, cit. in Zipes 2012, XVII)

Tuttavia, nelle edizioni successive le scelte filologiche di Jacob finirono per cedere il passo alla visione poetica di Wilhelm e alla trasformazione delle fiabe orali del Volk in morbide storie letterarie che meglio si addicevano ai lettori borghesi e ai loro bambini.

Attualmente la versione più diffusa, e tradotta, delle fiabe è quella che risale all'ultima edizione, quella del 1857. In quell'ultima stesura i Grimm operarono con le fiabe quello che l'interno borghese fece con gli arredi: ne smussarono gli angoli con il velluto.

Accanto a questa raccolta e sistematizzazione della tradizione orale germanica – che li ha resi noti in tutto il mondo – i Grimm intrapresero un lavoro ancor più fondamentale nell'ambito della germanistica: il loro dizionario etimologico, il Deutsches Wörterbuch, venne iniziato alla fine degli anni Trenta dell'Ottocento per essere concluso solo all'inizio degli anni Sessanta del Novecento, con la collaborazione di numerose generazioni di linguisti. Jacob e Wilhelm riuscirono a lavorarci solo per una trentina d'anni (senza riuscire a completare i volumi dalla lettera A alla F), dando la linea operativa: i significati delle parole erano da ricercare nell'uso e così nelle citazioni, dalla Bibbia di Lutero fino alla coeva poesia romantica, come l'opera di Goethe. Questo approccio 'romantico', criticato da altri filologi (come, ad esempio, Daniel Sanders), generò anche scandalo quando portò, per la prima volta, all'inclusione di insulti e termini rozzi all'interno del vocabolario. A questo proposito, Jacob Grimm scrisse nella prefazione alla prima edizione che il dizionario non è un manuale di morale o di buone maniere (Sittenbuch), quanto un lavoro animato da scopo scientifico, e che persino nella Bibbia non mancano parole che sono malviste nella società raffinata. Una puntualizzazione affine si era resa necessaria anche per le fiabe: nella prefazione al volume del 1815, i Grimm devono sottolineare come il loro lavoro non sia un manuale educativo (Erziehungsbuch), e per questo motivo vi trovano spazio anche allusioni che possono sembrare imbarazzanti, offensive o disdicevoli. 

In certi casi, tale preoccupazione può essere anche condivisibile, e del resto è facile scegliere quali fiabe leggere. Più in generale, ciò non è affatto necessario. Niente è in grado di proteggerci meglio della natura stessa, che lascia crescere certi fiori e certe foglie con un particolare colore e una particolare forma. Chiunque non li consideri di giovamento, né idonei ai propri specifici bisogni, peraltro non necessariamente noti, può anche passare oltre e ignorarli. Ma non può pretendere che i fiori e le foglie prendano un colore e una forma diversi. (cit. in Zipes 2012, XVII-XVIII)

La distanza che in passato era stata frapposta tra le fiabe popolari e le loro raccolte per le corti viene a essere azzerata nel XIX secolo e, in questo processo, il pubblico delle fiabe diviene sempre più quello infantile, all'interno del suo habitat domestico. Nel primo Ottocento, il milieu ideale delle favole non è più né il pubblico colto delle corti (come per le novelle barocche italiane), né l'aristocratica società dei salotti (come per le feerien francesi) ma la cerchia degli amici di famiglia, che non coincide ancora con il nucleo familiare, "ma ne condivide la struttura relazionale di intimità personale e di vita domestica" (Richter [1987] 1992, 218).

In particolare, tramite questo modo di rendere le fiabe si genera una sorta di 'ponte' tra cultura popolare e colta, ma anche tra il mondo adulto e la nuova categoria d'infanzia, come si stava delineando grazie all'evoluzione della società, la nascita della psicologia e della pedagogia. Il bambino, nell'interno domestico borghese, viene a essere protetto e tutelato come mai prima. 

In quell'ambiente, il libro di fiabe figura sempre più spesso tra i regali di Natale. Anche la prima raccolta dei Grimm viene donata per quella festività da Achim von Arnim alla moglie Bettina Brentano e al figlio, cui il volume, rilegato in verde con il taglio dorato, era stato dedicato dalla coppia di fratelli, che dedicheranno a Bettina altre edizioni della raccolta. 

La dimensione familiare e amicale, a partire dall'Ottocento, diviene anche circolo letterario, luogo di lettura delle fiabe, come, in prima istanza, era stata la cerchia dei Grimm, dei Brentano, dei von Arnim. 

Ci accoglieva nei lenti anni scolastici un letto e una cameretta. Sedevamo là, lavorando allo stesso tavolo. In seguito, negli anni dell'università, c'erano due letti e due scrivanie nella stessa stanza e anche più tardi in quella stessa camera continuavano a esserci due scrivanie. Poi, finalmente, in due camere contigue, sempre sotto lo stesso tetto, condividendo in pieno, senza problemi, i nostri averi e i nostri libri, ad eccezione di quelli che dovevamo leggere contemporaneamente e che allora venivano comprati doppi. E credo proprio che anche i nostri ultimi letti saranno l'uno accanto all'altro. (Jacob Grimm, Rede auf Wilhelm Grimm, cit. in Richter [1987] 1992, 218)

(fig. 8) Cartoline fotografiche con scene da Biancaneve. Contrassegnate BNK (Berlin-Neuroder Kunstanstalten AG), timbro postale 1908-1911 <www.goethezeitportal.de>.

* La prima versione di questo testo è stata pubblicata come accompagnamento al libro d'artista di PetriPaselli, Il Compianto – Biancaneve (2013).

English abstract

“Snow-White lay there in the crystal coffin a long, long time, and she did not decay”: this is the crucial point of the well-known Grimm's tale. The prince is completely fascinated by the beauty of this (apparently) dead maiden. But, this feeling, in the original tale, is not 'love': its compulsion looks like that of the collector, the creator of his own Wunderkammer. 

This point of the tale become a lens through which analyse some aspects of the 19th century, the period when the brothers Grimm started their work of gathering the traditional german tales. As Walter Benjamin underlines in the Passagenwerk, the condition of existance of that century was marked out by the form of dwelling: the dwell is conceived like a shell, where it is possible to conserve and treasure everything in the right and appropriate case. Also the daguerrotype is produced together with its box; sometimes, moreover, the subject of this first form of photographical reproduction, were deceased persons. So, the dwell of the 19th century become a sort of chest for the beloved relics. This aspect, for the contemporary observer, causes a sense of “unheimilich”: un-familiar but, at the same time, that is hidden inside the “heim”, the home, the family.

The gatherings of fairy tales, in the 19th century, started to be addressed to the domestic circle of relatives and friends, in a typical approach of the Romanticism. This happened in the Grimm's case, too: in this way, the fairy tale (like Snow White) moves inside the house 'unheimlich feelings', those could be then domesticated.

 

keywords | Schneewittchenwerk; Snow White; Grimm's tale; Benjamin; 19th century; unheimilich.

Bibliografia
  • Ariès 1968
    P. Ariès, Padri e figli nell'Europa medievale e moderna [L'enfant et la vie familiale sous l'ancien régime, Paris 1960], trad. di M. Garin, Bari 1968.
  • Assel, Jäger 2013
    J. Assel, G. Jäger, Märchenmotive auf Postkarten und Werbemarken: Schneewittchen, “Goethezeitportal” (aprile 2013) <www.goethezeitportal.de>.
  • Benjamin [1931] 1966
    W. Benjamin, Piccola storia della fotografia [Kleine Geschichte der Photographie, “Die Literarische Welt” (1931)], in Id., L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. di E. Filippini, Torino 1966, 57-78.
  • Benjamin [1936] 1966
    W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa [Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, “Zeitschrift für Sozialforschung” (1936)], trad. di E. Filippini, in Id., L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966, 17-56.
  • Benjamin [1982] 2000
    W. Benjamin, I «passages» di Parigi [Das Passagenwerk, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main 1982], trad. di R. Solmi, A. Moscati, et al., Torino 2000.
  • Bolloch 2007
    J. Bolloch, Post mortem, Paris 2007.
  • Freud [1919] 1977
    S. Freud, Il perturbante [Das Unheimliche, “Imago”, 1919], trad. di S. Daniele, in Id., Opere 1917-1923. L'io e l'es e altri scritti, Torino 1977, 79-118.
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  • Gozzano [1907] 1980
    G. Gozzano, La via del rifugio, Genova - Torino - Milano 1907, ora in Tutte le poesie, Milano 1980.
  • Grimm [1812] 2012
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  • Grube 1991
    E. J. Grube, voce “Automa”, in Enciclopedia dell'Arte Medievale, Roma 1991 <www.treccani.it>.
  • Jentsch [1906] 1983
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  • Palmieri 2012
    P. Palmieri, La santa, i miracoli e la Rivoluzione. Una storia di politica e devozione, Bologna 2012.
  • Richter [1987] 1992
    D. Richter, Il bambino estraneo. La nascita dell'immagine dell'infanzia nel mondo borghese [Das fremde Kind. Zur Entstehung der Kindheitsbilder des bürgerlichen Zeitalters, Frankfurt am Main 1987], trad. di P. Viti, Scandicci 1992.
  • Tomasi di Lampedusa [1957] 1969
    G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo [ed. conforme al manoscritto del 1957], Milano 1969.
  • Zipes 2012
    J. Zipes, introduzione a J. e W. Grimm, Principessa Pel di Topo, Roma 2012, IX-XXIV.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Pirazzoli, Schneewittchenwerk. Appunti per una riflessione su Biancaneve e la cultura del XIX secolo, “La Rivista di Engramma” n. 108, luglio/agosto 2013, pp. 54-68 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2013.108.0002