“Blocco cognitivo”, paranoia nazionale e nuovo teatro del grottesco
Oliviero Ponte di Pino
English abstract
Qualche tempo fa Claudio Mencacci, il presidente della società italiana di psichiatria, ha scritto un breve articolo per il Corriere della Sera: non è apparso in prima pagina, ma in un inserto relegato nelle pagine finali del quotidiano. Spiegava che non solo gli individui, ma anche le nazioni, possono impazzire: il nostro paese, scriveva, è
sempre più contagiato da una venatura paranoica. La diffidenza, il sospetto, la rissosità che permeano e inquinano i rapporti tra le persone, le accuse che acriticamente e in modo stereotipato rivolge all’altro, la negazione della possibilità di un dialogo che non si traduca in un alterco o in un pubblico dileggio, accompagnati dalla proiezione sistematica sull’altro delle responsabilità di programmi disattesi, dimostrano quanto gli aspetti, appunto paranoicali, siano operanti nel tessuto sociale attuale. […] Questo ‘virus della paranoia’ è già in azione, circola nella nostra vita, amplifica la diffidenza dello Stato sui comuni cittadini che a loro volta ricambiano diffidenza e sospetto. E la Storia ci ha insegnato che il passaggio, a volte indolore, dallo Stato di diritto a quello paranoico, non è improbabile (Corriere della Sera, 28 aprile 2013).
La ‘follia degli italiani’ – e più in generale la ‘follia collettiva di una nazione’ – è da qualche tempo una questione controversa nei corridoi dei convegni internazionali di psichiatria. Ma forse la questione era già entrata, da qualche anno, nella drammaturgia di alcuni giovani gruppi teatrali (e di alcuni giovani autori): in una forma indiretta, sghemba, e tuttavia percepibile.
A lungo, agli inizi, il nuovo teatro si è preso tremendamente sul serio. Era in gioco la rifondazione del teatro (se non del mondo). Bisognava inventarsi una grammatica e un linguaggio partendo da segni e oggetti (e dunque limitando ironia e ambiguità). La poesia era in agguato, con la tentazione del sublime, dell’ineffabile, dell’esoterico. Il corpo si fortificava e macerava nel training, o si martirizzava e trasfigurava nella body art. Non c’era molto da ridere.
O meglio, c’è sempre stato e c’era molto da ridere. Ma per questo c’erano gli specialisti, da Dario Fo giù giù fino agli ultimi comici da cabaret, dai cine-panettonari natalizi ai barzellettieri in stile Drive In. Era una risata a volte bonaria, consolatoria, altre aggressiva, feroce. Ma partiva dal presupposto che una battuta, un’imitazione, una gag potessero servire a migliorare il mondo, innescare una scintilla di felicità, e magari innescare la rivoluzione. La satira intrattiene con la realtà un rapporto spesso condito di moralismo, ma intimo, stretto, e alla fine positivo.
Poi qualcosa è cambiato, anche nel nuovo teatro. È difficile cogliere il punto di svolta. Forse se ne possono individuare alcuni segni premonitori che non a caso insospettirono alcuni maîtres-à-penser del nuovo teatro. C’era, nei primi spettacoli della Società Raffaello Sanzio (non ancora Socìetas), una vena allegramente dissacrante: bastava prendere sul serio quello che ‘crede la gente’ (politica, filosofia, religione...) e portarlo fino alle conseguenze estreme, per svuotarlo di senso.
C’è stata anche la profetica invenzione della Romagna Africana da parte delle Albe di Verhaeren (non ancora Ravenna Teatro), da un lato fondata scientificamente, dall’altro assurda e surreale, grimaldello per raccontare un problema reale: un’urgenza sociale, e drammaturgica, di cui nessuno (o quasi) si accorgeva. L’unico modo per metterla al centro dell’attenzione era spingerla oltre il limite del reale, farla esplodere come provocatoria metafora. (E forse qualche riverbero di questo atteggiamento c’era anche nei primi film di Nanni Moretti, e in certi romanzi di Aldo Busi...)
Poi Romeo Castellucci si è inabissato nei misteri (serissimi...) dell’origine del tragico e del sacro, mentre nei testi di Marco Martinelli una scheggia della vena paradossale di quel teatro politico ogni tanto riemerge.
Ecco. Due parole. Grottesco. Politico.
A un certo punto, per alcuni di noi, il rapporto con la realtà ha iniziato a prendere una brutta piega. I sintomi erano chiari nella sfera politica ed economica, ma la malattia era più profonda: culturale, intellettuale (l’istupidimento collettivo, quello che di recente in Parlamento è stato definito ‘blocco cognitivo’), ma prima ancora morale. Le cose non andavano bene, e peggioravano, e si è intuito che non c’era più niente da fare. Senza volerci credere, pensando che non fosse possibile, che qualcosa si poteva – e doveva – pur fare!
Accadevano cose ridicole e assurde, e insieme feroci e squallide: uno dei primi esempi di questa deriva è stato il feroce e insensato delirio omicida delle Brigate Rosse, che ha segnato la cronaca e la politica italiane dalla metà degli anni Settanta. Ma le cronache di questi decenni tracimano di scandali che colpiscono prima di tutto per la stupidità e l’arroganza dei protagonisti e del sistema che ha costruito e coperto questi antieroi della contemporanea commedia dell’arte italiana.
Ce ne accorgevamo tutti. Ci indignavamo, ci arrabbiavamo. Non serviva a nulla. Continuavano ad accadere cose sempre più ridicole, sempre più assurde, sempre più feroci, sempre più squallide. Mentre la retorica ufficiale continuava a dipingere un panorama sempre più lontano dalla realtà, dalla nostra esperienza.
La spirale è diventata inarrestabile. La realtà è diventata inaccettabile, per il più semplice dei motivi: perché era diventato impossibile invertire la tendenza. Era il trend. Lasciava una scia di furore, disgusto, impotenza.
Ecco, neanche il gesto della P38 riesco più a fare bene. Non mi si piegano le dita. Tutta storta, sta pistola, e moscia. Appunto. Anche se potessi, anche se volessi, non lo farei, non potrei farlo; io non saprei e non vorrei uccidere nessuno; io lo sento, sento che oggi, in questo stato, in cui siamo, è impossibile l’azione; no, non è un fatto morale, è proprio impossibile qualunque reazione alla ‘Reazione’. (pausa) Vabbè. (pausa) Niente di importante. (Daniele Timpano, Aldo morto, in Storia cadaverica d’Italia, Titivillus, Corazzano, 2012, 152)
Come spesso accade, a interiorizzare, metabolizzare ed esprimere questo sentimento sono stati i teatranti. Quelli più giovani, cresciuti in questo clima. Per reagire a questa deriva, a questo sbriciolamento. Il metodo era quasi obbligato: prendere sul serio la favola che ci stavano raccontando, le verità proclamate dai politici e dai loro mass media, le fanfare del neoliberismo globalizzato, solo esagerando un po’. In modo che emergesse l’assurdo e il lieto fine diventasse impossibile. Cercando in ogni caso di divertirsi, salvaguardando il principio del piacere. Trasformando la propria impotenza in gesto espressivo.
So che la soluzione, la vera soluzione finale, è quella di mangiarmele queste mie cosce, ed è solo così, mangiandomele, e sbranandole a morsi, togliendole da me per sempre, cacandole fuori dal culo una volta mangiate, queste mie cosce, mi lasceranno libera, libera di essere la donna che sono e di firmare mille autografi e di essere adorata e di sentire mille applausi che mi toccano il sedere e poi vado alle feste e cammino sui tappeti rossi e tutte le sere c’è qualcuno che mi aspetta con un taxi e poi concedo interviste e mia madre non pensa che ho un problema nella testa ma quando va al supermercato le fanno i complimenti per sua figlia, e io divento alta e non c’è più nessun problema ma soltanto dei ministri che mi portano in vacanza e che mi baciano la schiena e mi tengono sulle ginocchia come faceva il mio papà. (Christian Ceresoli, La merda, Oberon Books, London, 2012, 11-12)
L’etichetta di ‘grottesco’ forse semplifica troppo, e accomuna visioni politiche ed esperienze estetiche molto diverse. È stata già usata in passato, dato che ha “un valore lontano nel tempo, nella storia della poesia e dell’arte drammatica italiana e richiama le ragioni più remote e presenti del nostro teatro, dall’antica espressione oraziana dell’Italicum acetum al comico drammatico moderno”, come scriveva Luigi Ferrante nell’introduzione a Teatro italiano grottesco (Cappelli, Bologna 1964). Più specificatamente, è stata utilizzata per identificare un filone della drammaturgia italiana d’inizio Novecento, comprendendo tra gli altri i testi di Luigi Chiarini (La maschera e il volto, 1916, considerato il capostipite del genere), Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli e Pier Maria Rosso di San Secondo, fino al primo Eduardo.
Al centro di queste ‘favole amare’, ha notato Ferdinando Taviani, c’era “il conflitto tra l’intimità della persona e la pressione sociale che su di lei si esercita, l’immagine dell’individuo come un martire senza gloria, incatenato al giudizio altrui, trafitto dagli sguardi degli altri”. A unire “le opere del cosiddetto ‘teatro del grottesco’ non era tanto una vicinanza di idee e di visioni, quanto un comune desiderio di prendere le distanze dalle trame ricorrenti del teatro borghese”. Cogliamo forse la scintilla che ha innescato questo nuovo teatro grottesco, quello che sta emergendo in questo nuovo inizio secolo, se alle “trame ricorrenti del teatro borghese” sostituiamo la rappresentazione sociale condivisa, diffusa e imposta dai mass media. Proseguiva Taviani: “Le trame dei ‘grotteschi’ usano […] una prospettiva aberrante e deformante sia spingendo all’eccesso i paradossi della vita, sia inventando intrecci fantastici capaci di tradurre il paradosso in favola” (Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 1995, 162).
Questo richiamo al passato può aiutare a cogliere la spinta che ha generato molti spettacoli: un profondo disagio rispetto al degrado italico e alle sue ipocrisie, il rifiuto di un estetismo fine a se stesso; e anche a individuare il piano di comunicazione con il pubblico, e il successo di tanti spettacoli.
L’autoritratto generazione e disperato di Ricci/Forte, Daniele Timpano con il rifiuto del racconto della nostra storia recente (compresi gli anni di piombo) da parte dei ‘fratelli maggiori’, Babilonia Teatri che amplifica il rumore di fondo della ‘gente’ per svuotarlo di senso, il fortunato La Merda di Christian Ceresoli con la critica politica del velinismo televisivo, i “brutti sporchi e cattivi” di Fibre Parallele, Soprattutto l’anguria di Armando Pirozzi, e poi certi schizzi degli Omini, o del Teatro Sotterraneo (che non a caso si è esercitato su teoria e pratica del comico), e ancora l’irritabilità attoriale di Astorri e Tintinelli, con i loro riferimenti pasoliniani...
Sono esperienze divergenti, e che tuttavia reagiscono in maniera diversa a una catastrofe condivisa. In questo, l’attualizzazione, lo smontaggio e il ribaltamento delle fiabe dei Fratelli Grimm operato da Ricci/Forte in Grimmless assume un valore esemplare. Si tratta di filtrare il racconto che ci viene imposto alla luce dell’esperienza personale, individuale (forse generazionale) ma in qualche modo condivisa. La distanza tra questi due poli produce un effetto di straniamento che conduce al grottesco, attraverso un meccanismo di semplificazione e amplificazione, e ancora più oltre può approdare al tragico.
c’è una cosa che non ho mai detto a nessuno
sono morta
un mucchio di volte
continuo a morire quasi ogni giorno
la prima
quando ho deciso di imparare
ad allacciarmi le scarpe da sola
nessuno di voi due me l’ha insegnato
quarantotto ore dopo
sapevo fare il fiocco e resuscitavo
sono morta
quando ho scoperto che papà
non aveva mai appeso il mio disegno
in ufficio
una tormenta di ghiaccio mi ha brinato le ciglia
assiderata
(Bianca e Neve, da Ricci/Forte, Grimmless, Titivillus, Corazzano, 2012)
Di fronte alla patologia collettiva degli italiani, questo nuovo teatro del grottesco – con tutto il suo esibito istinto autodistruttivo – ha senz’altro un valore cognitivo, perché mette a nudo i meccanismi della retorica nazionale; permette di riconoscere e condividere il proprio disagio; offre uno sfogo a rabbia e indignazione, spesso usando meccanismi comici; apre qualche squarcio sulla nostra situazione politica, o meglio (in)civile.
Voglio il mio boia
voglio affittarlo
prenotarlo
comprarlo ora
voglio che viaggi con me
sempre
fedele al mio fianco
voglio sia scritto nero su bianco
sono il tuo boia
sono il tuo boia
voglio il sigillo del notaio
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
voglio un colpo di pistola
uno solo
qui
in testa
in mezzo agli occhi
la chiamate vita
non la voglio
non voglio viverla
non voglio vederla
non voglio soffrirla
non mi interessa
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
non pensate di fottermi
di aggirami
di incularmi
lo dico adesso
lo scrivo
pago
dovrete farlo
basta schiacciare il grilletto
voglio un’assicurazione sulla morte
sulla mia morte
un’assicurazione contro la morte lenta
voglio il mio boia.
(Babilonia Teatri, This Is The End, My Only Friend The End, 2010)
Forse queste favole senza lieto fine e senza morale, con la loro retorica del grottesco, approdano a quello che Aristotele chiamava catarsi. Sono un piccolo antidoto alla paranoia collettiva. Quello sberleffo è la voce del bambino che dice che il re è nudo e sgretola l’ipocrisia di una nazione. Quella puntura acida è l’aculeo che punge Rosaspina, la Bella Addormentata, per risvegliarla dal suo torpore e rompere il perfido incantesimo che ha congelato il tempo.
English abstract
It is perhaps possibile to identify some shared features in the work of several Italian theatre makers of the younger generation. The common ground is the widespread use of grotesque in the shows of playwriters, actors, or groups, such as Ricci/Forte, Babilonia Teatri, Daniele Timpano, Christian Ceresoli, Astorri e Tintinelli, Teatro Sotterraneo... It is a reaction to the Italian political and social situation, to its immobility (in spite of apparent turmoils) and deterioration. It is nurturted by a feeling of helplesness, and by distrust in the portrait of the nation drawn by politicians and by the media they control. The mechanism is based on the amplification of some elements of reality, in order to unmask its absurdity and stupidity, and often overturns the ‘fairy tale’ told by mainstream media, exposing the moral and social uneasiness, the distress, and the rage of the new generations. The definition “teatro del grottesco” has been used to identify the work of some Italian playwriters (Chiarelli, Pirandello, Rosso di San Secondo, De Filippo) at the beginning of the XX Century. It could also be used to group these shows, of course without forgetting the peculiarities of each artistical experience.
keywords | Theatre; New Theatre; Grotesque; Teatro del grottesco; XX Century; Distress; Rage.
Per citare questo articolo / To cite this article: O. Ponte di Pino, “Blocco cognitivo”, paranoia nazionale e nuovo teatro del grottesco, “La Rivista di Engramma” n. 108, luglio/agosto 2013, pp. 81-95 | PDF di questo articolo