Pittura vascolare, mito e teatro: l'immagine di Medea tra VII e IV secolo a.C.
Saggio e galleria
Silvia Galasso
English abstract
Il mito di Medea è strettamente connesso a quello, antichissimo, degli Argonauti, che precede cronologicamente la guerra di Troia e narra le avventure di Giasone alla conquista del Vello d’oro. Figlia di Eeta, re della Colchide e, a seconda delle tradizioni, di un’Oceanina (Idia) oppure di Ecate, Medea discende direttamente da Helios ed è nipote di Circe. Secondo uno scoliaste di Euripide, era immortale: e in effetti la tradizione non conosce la sua morte. Secondo Ibico e Simonide avrebbe sposato Achille nell’Elisio (Ibyc. fr. 291 Page; Simon. fr. 558 Page; Apollod. Epith. 5, 5; v. Giannini 2000).
Nelle fonti più antiche Medea è essenzialmente una semidea figlia di re (Hes. Th., 956-962, 992-1002; cfr. Herod. I, 1-4); in una seconda fase, probabilmente in concomitanza con lo sviluppo e la diffusione del mito argonautico, le vengono attribuite doti magiche, derivanti dalla sua ascendenza divina e fondamentali ai fini della buona riuscita dell’impresa di Giasone. Medea è maga già nell’epos postomerico, ma il miglior riscontro del fatto che in età alto-arcaica questa prerogativa fosse decisamente prevalente si trova nella tradizione figurativa, specialmente nelle scene vascolari del VI secolo a.C., dove essa appare sempre in vesti barbariche impegnata a compiere incantesimi (Il. II, 711-715; VII, 467-469; XXI 40-41; XXIII, 747; Nostoi, fr. 7 Bernabé; Apollod. I 8, 2; I 9, 16-28; II 6, 3; Epith. 1, 5-6; Ap. Rhod. III, 477-478: «C’è una fanciulla […] che pratica la magia in nome di Ecate Perseide»).
L’episodio più noto è la magia dell’ariete connessa con l’uccisione di Pelia: per vendicare Giasone dei torti subiti, Medea convince il re Pelia a farsi ringiovanire, dando prova del suo potere con un incantesimo, mediante il quale un ariete torna a essere agnello dopo essere stato bollito in un calderone. Pelia si persuade e le sue figlie, con l’eccezione di Alcesti, accettano di partecipare all’empia impresa e fanno a pezzi il padre, i cui resti vengono gettati nel calderone; al momento di compiere il sortilegio, però, Medea non pronuncia le formule necessarie e il prodigio non si compie, causando la morte del re (Meyer 1980).
Nell'Atene del V secolo a.C. Medea si umanizza, pur conservando il suo prestigio di maga potente, e si accentuano gli aspetti crudeli ed efferati della sua indole. Il primo assassinio che le viene addebitato è quello del fratello Apsirto, fatto a pezzi e gettato in mare per agevolare l’impresa di Giasone: le fonti, Ferecide e Sofocle, fanno pensare all’ambiente ateniese della seconda metà del V secolo come possibile ambito di nascita dell’innovazione mitografica (FgrHist 3 F 32; fr. 343 Radt). Ma la vera rivoluzione avviene con Euripide: non più solo maga, le cui arti vengono ora rivolte contro la nuova promessa sposa di Giasone, la principessa Creusa, ma soprattutto donna, offesa nei suoi sentimenti più profondi, che reagisce con il più barbaro e disumano dei comportamenti possibili: l'uccisione dei propri figli (Eur. Med., 786-789, 1125-1126, 1186-1219). In questo caso la tradizione iconografica procede in parallelo, per cui, accanto alla figura tradizionale di Medea-maga (che nel IV secolo, in Magna Grecia, sarà amplificata con l'esaltazione della dimensione divina mediante l’immagine del volo trionfale a bordo del carro del Sole: figg. 9, 10, 13, 14), si afferma l’immagine di Medea infanticida (fig. 16). Così, anche se umanizzata, Medea continua ad apparire come la straniera capace di contravvenire ai fondamenti etici della società organizzata, fondamenti nei quali i cittadini ateniesi si riconoscevano e consideravano condizione imprescidibile di vita civile (Eur. Med., 1323-1350).
All’inizio, dunque, di Medea è sottilineato il profilo divino. Poi, associata al mito degli Argonauti, Medea acquista la sua connotazione definitiva: in qualità di figlia del re della Colchide, dotata di poteri magici, diventa un personaggio fondamentale per lo sviluppo della storia e sta in lei la chiave del successo dell’impresa di Giasone. È lei che spiega all'eroe come superare le prove impostegli da Eeta come condizione per ottenere il Vello; è sempre lei che addormenta il drago posto a guardia del Vello, permettendo a Giasone di impossessarsene; è ancora lei che rallenta la flotta lanciata da Eeta all’inseguimento della nave Argo, impedendone la cattura. Nella versione tradizionale dell’impresa degli Argonauti, l'eroe è Giasone; ma, dal V secolo a.C., Giasone senza Medea non sarebbe eroe. Medea consente di condurre a buon fine l’impresa eroica attraverso ‘mezzi’ negativi: l’inganno, il tradimento, l’omicidio. Quasi un preludio del tragico epilogo immaginato da Euripide: prima ingannatrice e assassina per amore di Giasone, poi ingannatrice e assassina per vendetta contro Giasone.
La tradizione figurata
Le origini
La più antica immagine che è forse possibile accostare a Medea si trova su un’anfora ceratana dipinta nella cosiddetta tecnica del ‘rosso su bianco’ e attribuita al Pittore di Amsterdam, attivo nei decenni centrali del VII secolo a.C. La scena raffigura una donna che indossa un lungo mantello, intenta ad affrontare un enorme serpente a tre teste (Martelli 1987, 94; 265, nota 41; Schmidt 1992, 388, n. 2; Strazzulla 2006, 631-672). Potrebbe trattarsi di Medea che ammansisce il drago posto a guardia del Vello d’oro, ma l’assenza di iscrizioni non permette un’identificazione certa. La relativa somiglianza con la Medea dell’olpe di Cerveteri (fig. 2), nonché la notorietà dell’episodio mitico, sono elementi a favore di una identificazione del personaggio femminile con Medea. Comunque è importante osservare che, se ammettiamo che la scena rappresenti proprio Medea nell'atto di incantare il drago, l'episodio mitico risulta recepito assai precocemente in Etruria, al di fuori dell’Ellade, e che la caratterizzazione che prevale fin da epoca così antica è quella della maga potente presente nella saga di Giasone e degli Argonauti.
La prima testimonianza figurata certa che possediamo è ancora di ambito ceretano: un’olpe in bucchero risalente al 630 a.C. circa, rinvenuta in una tomba principesca di Cerveteri (Rizzo, Martelli 1988-1989, 7-56; Schmidt 1992, 388, n. 1; Isler-Kerényi 2000, 117-138). Si tratta di un piccolo vaso decorato a rilievo e incisione, sul quale il fregio è disposto su due registri: in quello superiore è raffigurata una teoria di animali ispirata al repertorio naturalistico di matrice siro-fenicia, secondo i modelli in voga nello stile tardo orientalizzante etrusco; in quello inferiore, sopra il punto di massima espansione del vaso, troviamo invece rappresentata una scena mitica. La composizione è inusuale: si distiguono tre gruppi e una figura isolata. Il primo gruppo è costituito da due figure stanti ai lati di una struttura alta e sottile decorata da un reticolo graffito, apparentemente un muro o un pilastro, ma forse più probabilmente un altare rappresentato in forma simbolica. A destra dell’altare una donna con un pesante himation dall’orlo ricamato tiene in mano un bastone che termina all’estremità superiore con un anello. L’identificazione è assicurata dall’iscrizione graffita sull’himation: METAIA. Si tratta dunque di Medea, forse caratterizzata dallo scettro che impugna come discendente di stirpe regale. Di fronte a Medea, dalla parte opposta all’altare, un giovane nudo sbuca con la parte superiore del corpo da un calderone, afferrandosi con le mani alle anse ad anello, forse nell’atto di trarsi fuori dal bacino. Il secondo gruppo, a destra, è costitituito da sei giovani nudi che trasportano un oggetto che sembra un lunghissimo tessuto dagli orli ricamati, decorato alle estremità da frange. In corrispondenza del primo portatore si legge l’iscrizione KANNA, di incerto significato. All’estremità destra del campo figurato c’è un personaggio maschile nudo e alato, probabilmente in volo, come suggeriscono le braccia tese verso l’alto. L’iscrizione TAITALE segnala che si tratta di Dedalo. Il terzo gruppo infine, all’estremità opposta del fregio, è costituito da una coppia di pugili o di lottatori impegnati in un combattimento. La scena è nel complesso di difficile interpretazione, poiché il nesso fra quelli che, all’apparenza, sono tre nuclei narrativi distinti – ovvero Dedalo, i lottatori e l’episodio di Medea – non è affatto scontato, e la presenza di Dedalo dissuade dal cercare esegesi esclusivamente legate al mito argonautico.
Non è questa la sede per approfondire la complicata questione mitografica: ci importa sottolineare il fatto che Medea sia qui rappresentata come maga alle prese con uno dei casi di ringiovanimento che la tradizione le attribuisce. Insomma è importante sottolineare che già alla fine del VII secolo si sia in qualche modo configurata l'iconografia di quello che, per i due secoli successivi, sarà l'episodio ricorrente nelle raffigurazioni del mito di Medea. Che il ringiovanito sia Giasone, come è stato proposto sulla base di alcune fonti recenziori, e che i giovani portatori siano gli Argonauti che ritornano con il Vello conquistato, è in sé plausibile, ma né l’una né l’altra identificazione si possono considerare provate. L’ostacolo maggiore è la forma del vello, per cui bisognerebbe ammettere che l’artigiano etrusco ne abbia equivocato – o volontariamente modificato – la natura al punto da raffigurarlo come un lungo tessuto invece che come la pelle di un animale scuoiato.
Nella madrepatria greca la tradizione è attestata per la prima volta a Corinto, dove un’antica versione mitografica, risalente a Eumelo all’inizio del VII secolo, riconosceva Medea come legittima sovrana della città (Eumel. Kor. fr. 3 Bernabé (= Schol. Pind. Ol. XIII), 34f; Paus. II, 3, 10-11). L’artigianato corinzio pone Medea e Giasone fra le coppie ‘esemplari’ del mondo eroico. In questa chiave la scena era rappresentata sull’arca offerta dai Cipselidi a Olimpia, secondo la descrizione di Pausania (V, 18, 2): «Accanto a Medea, che siede in trono, ci sono Giasone in piedi a destra, Afrodite dall’altra parte, e fra loro è un’iscrizione: Giasone sposa Medea, lo ordina Afrodite» (Splitter 2000, 34). Il tema delle nozze di Giasone e Medea, con la maga seduta al centro della scena, è privo di confronti nella tradizione corinzia arcaica e, in verità, anche nella successiva storia figurativa del mito. È però in linea con la tradizione epica locale, che attraverso Medea costruisce un’ascendenza divina per la stirpe di Corinto.
Nella tradizione attica Medea diverrà popolare – peraltro molto rapidamente – solo più tardi. Ammesso che il materiale conservato possa essere considerato un campione rappresentativo dello sviluppo della tradizione, le prime attestazioni attiche risalgono ai decenni finali del VI secolo a.C. Il primo gruppo è costituito da quattro lekythoi a figure nere strettamente imparentate fra loro, assegnate da Beazley ai Gruppi di Medea e del Gallo e prodotte intorno al 530 a.C. (ABV, 471, nn. 117-120). Esse presentano sulla faccia principale un busto femminile visto di profilo, affiancato da serpenti con le fauci spalancate. Il collegamento con Medea è attestato dal nome iscritto sull’esemplare più noto, conservato al British Museum (fig. 3).
Il VI secolo a.C.
L’iconografia attica appare fin da subito saldamente codificata: Medea è rappresentata nell’atto di ringiovanire un ariete posto dentro un grande calderone alla presenza delle figlie di Pelia e, talvolta, dello stesso Pelia. Lo schema, che compare intorno al 510 a.C., si mantiene pressochè inalterato fino agli anni conclusivi del V secolo a.C. Il vaso più antico della serie è un’anfora a collo distinto a figure nere da Vulci, attribuita da Beazley al Gruppo di Medea (ABV, 321, n. 4). Al centro della scena è il lebete bronzeo sotto il quale è acceso il fuoco e dal quale sbuca con slancio l’ariete dalle corna sovradipinte in bianco. Medea, che indossa un polos orientale, è a sinistra accanto a Pelia, il quale, canuto e parzialmente calvo, assiste al prodigio seduto su un elaborato sedile a zampe leonine. Dalla parte opposta del lebete due Peliadi gesticolanti interagiscono con la scena.
Il medesimo schema compositivo è utilizzato su un’hydria attica a figure nere attribuita al Gruppo di Leagros, contemporanea o appena posteriore alla precedente. Vi compaiono ancora Pelia seduto, Medea che si appresta a compiere l’incantesimo e una delle Peliadi. La sola differenza significativa rispetto all’anfora londinese è la sostituzione della seconda Peliade con un personaggio maschile inginocchiato di fianco al calderone, forse un inserviente intento ad attizzare il fuoco o forse Giasone stesso. Le due scene, nella loro sostanziale identità, dimostrano che lo schema narrativo era ormai consolidato. E in effetti i documenti che si susseguono nel corso di circa un secolo, anche dopo l’introduzione della tecnica a figure rosse, non presentano varianti importanti e significative.
Un’anfora a collo distinto, ancora una volta da Vulci, attribuita al Pittore di Leagros, nella quale la scena del prodigio è presente su entrambi i lati, offre un esempio di versione per così dire compendiata del mito, nella quale Medea e una sola delle Peliadi ai lati del lebete con l’ariete sono sufficienti a richiamare sommariamente l'intera vicenda.
Il V secolo a.C.
Le scene su vasi a figure rosse confermano la stabilità dello schema, che, sotto il profilo compositivo, continua a essere imperniato sul motivo del lebete intorno al quale si muovono Medea e gli altri protagonisti della storia. Medea entra dunque nell’immaginario degli Ateniesi del V secolo strettamente legata alla sua fama di maga, e il lebete diventa una sorta di immancabile suo attributo iconografico. Il cratere a colonnette del Museum of Fine Arts di Boston, per il quale l’attribuzione al Pittore di Egisto comporta una datazione non anteriore al 470 a.C. circa, mostra da sinistra Pelia che si avvia riluttante verso il bacino, attorno al quale operano Medea e una delle Peliadi. L’identità della figura che incoraggia il vecchio re prendendolo per mano non è chiara: nei vasi a figure nere questa è la posizione di Medea ma il ruolo della figura in questa scena sembrerebbe piuttosto indicare una delle Peliadi.
L’hydria attica a figure rosse del Pittore di Copenhagen riporta la scena con una diversa ma importante variante contenutistica: la figura maschile che fronteggia Medea (intenta a compiere il solito incantesimo) non è, come ci si potrebbe aspettare, Pelia, bensì Giasone. L’identificazione sicura è resa possibile dalla presenza di due iscrizioni che riportano i nomi dei personaggi. La tradizione mitografica accenna a vari episodi di ringiovanimento operati da Medea, il più famoso dei quali è senza dubbio quello dell’ariete, che si conclude con la morte di Pelia. Ma secondo altre varianti la maga aveva prima ringiovanito anche Giasone, suo padre Esone (secondo altre fonti ucciso o indotto al suicidio da Pelia) e le nutrici di Dioniso. La somiglianza con le scene precedentemente descritte, tuttavia, farebbe pensare a una variante non tanto mitica quanto piuttosto iconografica: il pittore (o il suo committente) sceglie di raffigurare non la vittima convenzionale (Pelia), ma il ‘mandante’ (Giasone), che qui sarebbe raffigurato come un anziano cittadino ateniese, canuto e abbigliato secondo la foggia attica tradizionale (chitone, mantello e bastone), mentre si rivolge a Medea, parlandole o pregandola. Vero è che nell’hydria del Gruppo di Leagros, Giasone (se di Giasone si tratta) è raffigurato come un giovane nudo accovacciato (cfr. fig. 5); è quindi altresì possibile, data anche la scarsità e lacunosità delle fonti, che l’episodio illustrato faccia riferimento a una versione del mito secondo la quale Medea avrebbe ringiovanito Giasone quando l'eroe era divenuto anziano (e questa sarebbe la spiegazione dell'inusuale connotazione dell'eroe come vecchio canuto); il pittore si sarebbe avvalso di uno schema iconografico affermato, trovandosi per questo costretto a esplicitare la natura dei personaggi mediante iscrizioni. È stata anche avanzata l’ipotesi di un errore nell’iscrizione e che l’uomo raffigurato non sia 'Giasone', bensì suo padre 'Esone'. Quale che sia l’interpretazione corretta, comunque, ciò che conta è la persistenza dell'iconografia di Medea, che continua evidentemente a essere percepita e raffigurata come maga.
Nel rilievo, copia romana di un originale greco, di fine V secolo a.C., Medea, chiaramente identificabile rispetto alle altre due figure per l’abbigliamento orientale, è ancora una maga barbara, rappresentata nell’atto di aprire un contenitore (di ingredienti magici?), assistita da due fanciulle chiaramente greche (le Peliadi?).
Il IV secolo a.C.
A partire dall’inizio del IV secolo a.C. emerge, in Italia meridionale, un'iconografia nuova: Medea trionfante sul carro del Sole. La prima testimonianza attestata di questa iconografia è su un’hydria lucana attribuita al Pittore di Policoro. La scena raffigurata richiama da vicino quello che è l’epilogo della storia narrata da Euripide: dopo aver ucciso i propri figli per vendicarsi del tradimento di Giasone, Medea sale trionfante sul carro del Sole, suo nonno, sottraendosi all’ira disperata di Giasone che vanamente la minaccia e deve rassegnarsi a vederla fuggire vittoriosa. Pur richiamando la tragedia euripidea, tuttavia, la scena presenta alcune discrepanze significative rispetto al testo (in primis i corpi dei figli a terra e non sul carro come parrebbe suggerire Eur. Med., 1378-1414), che suggeriscono di esercitare cautela nel riconoscere un’influenza teatrale diretta. Ciò che pare degno di nota è il drastico cambiamento dell'iconografia.
Similmente e in maniera ancor più grandiosa, complice anche la forma diversa del vaso che offre maggiori disponibilità di spazio, troviamo raffigurata la medesima scena nello splendido e celebre cratere a calice lucano a figure rosse, datato come la precedente hydria al 400 a.C. circa e attribuito a un pittore della cerchia del Pittore di Policoro, oggi conservato nel Museum of Art di Cleveland. Lo schema iconografico è molto simile: Medea sul carro in posizione predominante si staglia trionfalmente contro il Sole, mentre a terra da una parte giacciono i corpi senza vita dei figli, con accanto due vecchi che disperatamente li piangono, dall’altra Giasone inerme e rassegnato osserva la figura quasi divina di Medea, mentre due Erinni alate completano la cornice che circonda la protagonista.
Interessante notare come contemporaneamente in Attica continui la tradizione figurata che vede Medea non come protagonista, ma come personaggio secondario della saga argonautica.
Una testimonianza importante della continuità di questo filone è il cratere a volute del Pittore di Talos, in cui è raffigurata appunto la scena della morte di Talos, guardiano dell’isola di Creta, eponimo di uno dei migliori artigiani attici della generazione a cavallo fra quinto e quarto secolo (sul quale: ARV2, 1338, n. 1; Addenda2, 386; Robertson 1992, 256-259; Böhr 2013).
La scena principale rappresenta la morte del gigante di bronzo che, secondo la versione narrata da Apollonio Rodio, scagliava enormi massi contro i naviganti per impedirne l'approdo sull'isola di Creta di cui era custode; così tiene lontani anche gli Argonauti finché non cade vittima degli incantesimi di Medea che, con i suoi filtri, riesce a fare in modo che il gigante inciampi contro uno scoglio ferendosi mortalmente nell'unico punto vulnerabile del suo corpo altrimenti inattaccabile: la vena posteriore vicino al tendine della caviglia (Ap. Rhod. Arg. IV, 1620-1672). Medea è in abiti di foggia orientale, in mano la pixis contenente forse i filtri che la connotano come maga e che causano la fine del gigante, il quale si abbandona morente fra le braccia dei Dioscuri osservato da Poseidone e Anfitrite, e il cui culto era vivo a Creta (sulla diffusione del mito di Talos: Buxton 2002, Ruggeri 2004; sulla tradizione iconografica, e specialmente sul cratere Jatta, da ultimo: Riccardi 2005, 72; Monte 2006).
Il tipo di Medea come maga orientale, nel quale la scatola degli ingredienti magici sostituisce allusivamente l’apparato del calderone e dell’ariete, si diffonde nei decenni conclusivi del V secolo: lo troviamo documentato per la prima volta nell'hydria londinese attribuita al Pittore di Meidias (v. Galleria), di uno o due decenni più antico del nostro cratere.
In Italia meridionale, invece, l’iconografia pare risentire sensibilmente dell’influenza teatrale; un’influenza forse favorita dall’assenza di una tradizione a cui fare riferimento consolidata come nella madrepatria, ma anche, com’è stato suggerito, dalla spiccata passione dei Greci d'occidente per il teatro (Taplin 2007; ma sulla questione del repertorio mitografico greco in contesti anellenici, v. anche Aa.Vv. Pots&Plays 2012). Le scene che troviamo raffigurate, per la maggior parte, richiamano, più o meno puntualmente, episodi narrati nel dramma euripideo (che è per altro l'unico pervenutoci integralmente). Su due crateri a campana apuli, per esempio, attribuiti uno al Pittore di Dolone e l'altro a un pittore della cerchia del Pittore dell’Ilioupersis, datati rispettivamente all’inizio e alla metà del IV secolo a.C., troviamo raffigurati due momenti della vendetta di Medea: l’offerta alla principessa Creusa, promessa sposa di Giasone, dei doni fatali che la uccideranno (v. Galleria), e la morte della giovane per opera della magia contenuta in quegli stessi doni (fig. 13). Il richiamo alla tragedia euripidea è in questo caso evidente – anche se varrà la pena di sottolineare che il richiamo è al contenuto del testo, non a una scena teatrale, dato che la morte di Creusa, nel dramma euripideo non è rappresentata in scena, ma riferita dal Messaggero (Eur. Med., 1136 ss.; sull'efficacia drammaturgica e sulla forte impressione icastica dei resoconti di fatti extrascenici mediante rhesis, soprattutto in relazione alla pittura vascolare, v. Aa.Vv. Pots&Plays 2012).
Poco dopo la metà del IV secolo, il Pittore di Dario dipinge su un’anfora apula la scena della fuga di Medea sul carro del Sole. In questo caso, diversamente dall’hydria e dal cratere di fabbrica lucana sopracitati (figg. 9-10), il pittore, costretto forse anche dalla ripartizione della superficie del vaso in registri lunghi e stretti, pone le figure su uno stesso piano e varia l’iconografia: Medea fugge sul carro che sta a terra, inseguita da un giovane eroe a cavallo (forse Giasone?), con al seguito due giovani guerrieri. A terra giace il corpo di uno dei due figli assassinati, mentre l’altro si intravede parzialmente sporgere dal carro ai piedi di Medea; a terra è anche la spada che Medea probabilmente ha usato per uccidere i fanciulli. Dalla parte opposta stanno un’Erinni armata di spada e la dea Selene, altra facies di Ecate, protettrice delle arti magiche, a cavallo.
E ancora Medea a bordo di un carro trainato da draghi alati, in questo caso senza Giasone e altri personaggi di contorno ma con in braccio i corpi senza vita dei suoi due figli – un'immagine unica nella serie fra quelle a noi note, che scarta in modo traumatico anche rispetto all'innovazione iconografica post-euripidea – troviamo raffigurata su un cratere a campana falisco, datato alla seconda metà del IV secolo a.C. Da notare come l'immagine di Medea sul carro risulti ormai codificata (senza dubbio la sua fuga trionfale doveva produrre un effetto scenico clamoroso che ben si prestava a essere utilizzata nell’iconografia vascolare), mentre variabile è lo schema figurativo dei fanciulli cadaveri, che vengono differentemente rappresentati ora a terra, ora ai piedi o a bordo del carro, ora su un altare – simili a vittime sacrificali (cfr. figg. precedenti), oppure, come in questo caso, in braccio alla loro madre, che con la destra impugna ancora la spada servita probabilmente a ucciderli. Un'immagine questa di forte impatto visivo ed emotivo, che dal punto di vista contenutistico richiama senz'altro l'epilogo della tragedia euripidea, pur nella sostanziale autonomia dello schema iconografico; che Medea abbia con sé i cadaveri dei figli, infatti, non è detto esplicitamente da Euripide, anche se lo si può intuire dalle parole che Giasone le rivolge ai vv. 1316-1414. Una 'vaghezza' che favorisce la libertà interpretativa del pittore, il quale sembra peraltro voler porre qui l'accento non tanto sull'infanticidio, quanto piuttosto sulla fuga di Medea con i figli: li ha uccisi, ma se non fosse per la presenza della spada sguainata, potrebbe sembrare che li stia traendo in salvo. Una possibile allegoria del trionfo della vita sulla morte, quasi a voler dire: anche tu, defunto, ti salverai.
Sempre nella seconda metà del IV secolo a.C., il Pittore di Dario ricorre a uno schema iconografico che si discosta completamente dai precedenti e dipinge su un cratere a volute apulo una scena diversa e di incerta interpretazione (Taplin 2007, 238 ss.; Trendall 1984). Medea, identificata mediante iscrizione, è raffigurata all’interno di un tempio, che un’iscrizione posta sul fregio indica come il tempio di Eleusi, in compagnia di uomo anziano, da interpretarsi forse come il Pedagogo dei suoi figli (Taplin 2007, 239); a destra troviamo raffigurate due coppie di personaggi: in alto Demetra e Persefone, titolari dei culti eleusini, che tengono in mano la sacra fiaccola dei Misteri, in basso Iris, messaggera degli dei, si rivolge a Eracle che tiene in mano un ramoscello votivo; a sinistra figurano la dea Atene incoronata da Nike e due giovani, di cui uno, coronato d’alloro (?), tiene in mano una fiaccola. Nel registro inferiore sono infine raffigurati due giovani seduti su un altare, identificati con i figli di Medea o, secondo una diversa interpretazione, con quelli di Eracle (Schmidt 1986; Taplin 2007, 238 ss.). La lettura della scena, molto controversa e incerta, ci rivela comunque che ci troviamo dinnanzi a un episodio sconosciuto del mito. La distanza, anzi l’assoluta estraneità rispetto al testo euripideo è evidente; Euripide racconta che prima di portare a compimento i suoi propositi di vendetta, Medea si assicura ospitalità e asilo ad Atene presso Egeo, ma non fa alcun riferimento a Eleusi (Eur. Med., 708-759). Sappiamo da fonti antiche che esistevano altre versioni del mito, che attribuivano l'infanticidio ora allo spirito di vendetta, ora all'ostilità dei Corinzi nei confronti di Medea (Paus. II 3, 6; Creofilo, fr. 9 Bernabé2 = fr. 3 Fowler; Parmenisco, schol. Eur. Med., 264), o ancora a un maldestro e vano tentativo di Medea di donare ai propri figli l'immortalità (Paus. II 3, 11; Eumelo, fr. 5 Bernabé; in generale sulle versioni della morte dei figli di Medea, v. Susanetti 20022); ma chiaramente non è questo l’episodio raffigurato. È stato ipotizzato che esistesse una variante di questa versione del mito, secondo la quale Medea riusciva a sottrarre i propri figli alla furia omicida dei Corinzi traendoli in salvo a Eleusi, dove si sarebbe rifugiata con loro nel tempio (Taplin 2007, 240). In questo caso la figura tradizionale di Medea risulterebbe completamente stravolta: non più maga infanticida, ma salvatrice benevola. Allo stato attuale delle nostre conoscenze e in assenza di altri riscontri sia pittorici sia letterari, tuttavia, qualsiasi ipotesi risulta possibile eppure nella sostanza infondata. Il solo dato, quindi, che in questo caso vale la pena di rilevare è l’assoluta novità di questa variante rispetto a tutta la produzione iconografica precedente (e successiva), e la sua completa estraneità rispetto a tutte le fonti letterarie in nostro possesso.
A parte l'eccezione di Medea a Eleusi, e accanto al successo dell’immagine trionfale di Medea sul carro, a partire dalla seconda metà del IV secolo, si afferma una nuova iconografia, che per un certo periodo è attestata in modo importante: quella di Medea infanticida. Se la fuga trionfale aveva colpito visivamente l’immaginario popolare, l’uccisione dei figli dovette colpire profondamente la sensibilità del pubblico. Euripide stesso descrive la vicenda come un atto contro natura, quasi impossibile da concepire (Eur. Med., 1279-1292), un atto tanto più assurdo e inaccettabile in quanto perpetrato essenzialmente per una “mera questione di letto” (Eur. Med., 1323 ss.). Ed è proprio l’atto dell’infanticidio che troviamo raffigurato su due anfore campane a collo distinto, una proveniente da Cuma e l’altra da Nola (v. Galleria), datate entrambe al 330 a.C. circa, delle quali solo la prima è stata attribuita a un ceramografo particolare, il Pittore d’Issione. In essa si vede Medea mentre trafigge il figlio che tenta inutilmente di divincolarsi. Nell’anfora proveniente da Nola, invece, Medea ha già ucciso uno dei figli, il cui cadavere giace riverso su un altare, e si appresta ad assassinare il secondo, che agguanta bloccandogli la fuga, mentre il Pedagogo (?) in secondo piano osserva impotente e disperato la scena.
L’ultimo vaso qui considerato è un enorme cratere a volute apulo (alto più di un metro), datato al 320 a.C. circa, attribuito al Pittore dell’Oltretomba. I personaggi che popolano la scena sono numerosi e alcuni di loro sono identificabili certamente mediante iscrizioni. Al centro in primo piano è raffigurato un tempio, secondo la moda tipicamente apula di rappresentazione del defunto entro naiskos, al cui interno l’anziano re Creonte cerca di abbracciare con gesti disperati il corpo della figlia Kreonteia che giace riversa su un trono, in preda a contorsioni, mentre suo fratello Hippotes accorre in suo soccorso e tenta inutilmente di strapparle dal capo la corona mortifera. Sul lato opposto Merope, moglie di Creonte e madre della principessa morente, accorre disperata, mentre personaggi secondari, alcuni dei quali non identificabili con certezza, affollano le estremità della scena (tra questi Eracle, Atena e due giovani, forse identificabili coi gemelli Castore e Polluce: Taplin 2007, 102-103). Sul registro inferiore troneggia al centro il famoso carro del Sole, che prefigura la fuga di Medea, occupato però da una figura estranea: Oistros, la personificazione del Furore (Aesch. Pr., 567). La presenza di Oistros, oltre a indicare l’assillo destinato ad accompagnare Medea e Giasone, ha qui probabilmente una spiegazione di carattere prettamente iconografico: nella convenzione compositiva della pittura vascolare greca di V e IV secolo a.C., infatti, è evitata la cosiddetta ‘narrazione continua’, che spesso si trova invece utilizzata sui fregi marmorei, dove uno stesso personaggio è rappresentato come protagonista di diversi episodi rappresentati in sequenza. Nell’iconografia vascolare questo non succede mai. In questo caso, quindi, laddove l’interesse del pittore era evidentemente quello di raccontare una storia (la storia di Creusa, in primo piano, e di Medea), non di rappresentare un singolo episodio, raffigurando Medea impegnata a uccidere i suoi figli, non poteva riprodurre la protagonista anche a bordo del carro del Sole, la cui presenza sulla scena serve però a prefigurare la sua fuga imminente; ecco allora che ricorre all’espediente di Oistros: una personificazione utile sia dal punto di vista contenutistico, sia, soprattutto, tecnico. Questo dettaglio significativo, insieme a tutti quelli sin qui raccolti, concorre a escludere l’ipotesi di una derivazione diretta dell’immagine da fonti letterarie, e specificamente dalla fonte maggiore del dramma euripideo. Ciò che al pittore interessa rappresentare è la drammaticità complessiva della vicenda, e per farlo si serve di un linguaggio, quello pittorico, che segue regole e schemi propri, senza curarsi della corrispondenza con il dettaglio della versione letteraria o teatrale.
L'influsso della tragedia euripidea sulle scene vascolari del mito di Medea
Lo studio formale e iconografico delle attestazioni figurate del mito di Medea evidenzia un dato inequivocabile: tra il VII e il V secolo a.C. (e poi anche dopo, per tutta la letteratura e l’iconografia ellenistica e latina) Medea è raffigurata pressoché esclusivamente nel ruolo di maga, soprattutto in relazione all’uccisione di Pelia, e così viene trattata anche nelle fonti letterarie, dove figura come personaggio secondario, seppure non privo d’importanza, della saga argonautica. La messa in scena della Medea di Euripide nel 431 a.C. pone le condizioni per un drastico mutamento. Infatti, pur collegandosi per molti aspetti alla tradizione, Euripide presenta al pubblico una Medea nuova e rivoluzionaria, che appassiona e scandalizza. Nella tragedia, Medea è la protagonista che si rende artefice di azioni efferate e crudeli – il supplizio di Creusa, l’uccisione dei suoi figli – per mandare ad effetto la vendetta contro il compagno infedele. Come in molti altri casi (cfr. ad esempio il caso di Niobe: Rebaudo 2012), sembra essere stato il pubblico della Magna Grecia a recepire più vivamente la nuova versione del mito e la nuova immagine di Medea, tanto da determinare nelle produzioni artigianali locali, e in primo luogo nella pittura vascolare, il diffondersi di una iconografia innovativa che presenta evidenti elementi di prossimità al dramma euripideo. A tale proposito non è inutile ricordare come, a parte l’opera di Euripide giuntaci per intero, di altre opere teatrali precedenti o ispirate alla sua abbiamo solo notizie indirette, frammentarie e parziali. Perciò l’analisi del rapporto intercorrente tra iconografia e teatro e, più ampiamente, tra iconografia e fonti scritte, è limitata e ovviamente condizionata dall'influenza del dramma euripideo sul nostro immaginario – un'influenza tanto pesante che rischia di risultare fuorviante.
Comunque, a partire dall’inizio del IV secolo a.C., in Italia meridionale si registra la diffusione di un’iconografia nuova, chiaramente ispirata alla tragedia euripidea. Alcuni dettagli eclatanti, come il carro del Sole trainato da serpenti su cui troneggia Medea e l’infanticidio, sono con tutta probabilità innovazioni mitografiche introdotte da Euripide e compaiono nell’iconografia per la prima volta in Lucania (figg. 10-11). La scena raffigurata rappresenta il nucleo della storia raccontata da Euripide: dopo aver ucciso i propri figli, Medea fugge sul carro del Sole, minacciata da Giasone che tenta invano di inseguirla (peraltro, l’inseguimento di Giasone non è presente nel testo di Euripide, se non nella forma delle battute disperate che l'eroe rivolge vanamente contro il carro in volo).
Dal confronto iconografico fra i diversi vasi che presentano scene analoghe, ma con particolari diversi, appare evidente che l’interesse degli artisti è rivolto non tanto ai dettagli specifici della tragedia cui le loro raffigurazioni paiono ispirarsi, quanto piuttosto alla vicenda drammatica genericamente intesa. Tanto è vero che, per esempio, la figura dolente posta accanto ai fanciulli morti è raffigurata una volta come un uomo (fig. 10), un’altra come una donna (fig. 11); se si trattasse di una rappresentazione fedele di una scena della tragedia i personaggi non sarebbero intercambiabili. È altresì vero che Euripide non mette in scena l’infanticidio, ma lo fa narrare dal Coro, senza menzionare alcun Pedagogo o Nutrice piangente sui cadaveri (Eur. Med., 1251-1260). La figura dolente serve al pittore per rendere chiaro ed evidente il contenuto della scena: i fanciulli sono morti, ma in assenza della figura dolente che li piange potrebbero apparire dormienti. Si tratta dunque, chiaramente, di un espediente narrativo: in altre parole potremmo dire che i pittori stanno raccontando il mito secondo la versione euripidea, non stanno rappresentando puntualmente la Medea di Euripide. Come sempre accade, il pittore tiene presente la situazione di base ma si sente poi libero di usare i personaggi secondari che risultano tecnicamente funzionali alla completezza della composizione, facendo ricorso al repertorio iconografico di cui dispone. Questa situazione ha presente il pittore: Medea fugge sul carro, Giasone la insegue, i figli morti giacciono a terra. Questi sono gli elementi necessari per capire la situazione e riconoscere l'episodio mitografico di riferimento. Le varianti che intervengono nello schema iconografico di base, anche con l’introduzione di personaggi marginali, dipendono dallo stile dell'artista e dalle esigenze tecnico-compositive che di volta in volta si presentano nella fase di esecuzione dell'opera.
A sostegno di questa ipotesi, si può citare un caso simile: quasi negli stessi anni, sempre in Lucania, un altro pittore, il Pittore di Dolone, per inscenare il mito di Medea, sceglie una situazione, e dunque un’iconografia, completamente diversa: l'episodio dei doni fatali di Medea a Creusa (v. Galleria). Anche in questo caso il pittore raffigura la scena molto liberamente: non sono infatti i figli di Medea a consegnare i doni a Creusa, come vorrebbe la versione di Euripide, bensì una fanciulla. Ancora una volta, quindi, il pittore ha presente la situazione nel suo complesso ma la adatta alla pittura secondo il proprio gusto, la propria inventiva e il proprio repertorio iconografico. Il fatto poi che il vaso sia lucano ma trovato in Apulia è molto significativo, poiché sta a significare che quell'innovazione aveva avuto successo al punto che un acquirente apulo preferisce un vaso che viene da lontano nonostante abbia a disposizione varie officine locali che producono vasi di ottima qualità. È probabile comunque che entrambe le iconografie (sia Medea sul carro sia i doni a Creusa) siano state ideate più o meno nello stesso periodo, ed entrambe ebbero successo, come dimostra il fatto che entrambe vengono poi riprese e adottate anche in Apulia dove i pittori locali le sviluppano liberamente, dimostrando come verso la metà del IV secolo a.C. esse fossero ormai entrate a far parte del repertorio iconografico corrente relativo al mito di Medea.
Riassumendo: abbiamo due scene diverse che raccontano la stessa storia ispirata al mito di Medea come lo narra Euripide, entrambe inventate probabilmente in Lucania da officine di Policoro. Queste scene hanno successo, al punto che si ritrovano adottate e riadattate anche in Apulia. Il dato importante è che queste scene, una volta inventate, si diffondono all'interno delle officine appunto come schemi iconografici. Che a piangere i fanciulli morti sia un uomo o una donna, che Giasone sia a piedi o a cavallo, che i figli siano sul carro oppure no, che Medea sia abbigliata da barbara o da greca (pur tenendo conto della possibile connotazione ideologica di una qualificazione di Medea come straniera o come cittadina), non cambia la sostanza del nucleo narrativo; si tratta semplicemente di varianti iconografiche dovute al gusto del pittore, al repertorio figurativo di una data officina, alla forma del vaso e allo spazio disponibile. Quello che non può cambiare, e non cambia, sono gli elementi di base dell'episodio mitografico scelto come esemplare della vicenda mitica di Medea. Il fatto, per esempio, che nell’anfora apula del Pittore di Dario, dove appunto l’iconografia appare un po’ diversa rispetto a quella lucana precedente, Giasone sia a cavallo non deve ingenerare particolari sofismi interpretativi, poiché il nucleo narrativo è il seguente: Giasone minaccia e impreca contro Medea (così nel testo di Euripide) e quindi la insegue per vendicarsi (così nella traduzione figurativa delle battute di Giasone nel finale del dramma); che la insegua a piedi o cavallo non è questione decisiva ai fini della comprensione della storia. In questo caso il pittore può aver cambiato lo schema corrente (Giasone a piedi, con la spada sguainata) perché lo consigliava la forma del campo pittorico, oppure perché riteneva la composizione più appropriata, visto che Medea non fugge a piedi ma su un carro trainato da mostri.
Chiaramente gli artisti sono interessati a rappresentare il mito nella forma più comprensibile e incisiva possibile. Alla tragedia non pensano. O per lo meno non si impongono di riprodurla fedelmente e alla lettera. Forse non sono ignari che l'iconografia da loro adottata derivi, alla lontana, da Euripide, ma ciò che a loro interessa è rappresentare il mito, così come si è configurato dopo la fortunata tragedia euripidea. L’influenza tragica, che pure risulta evidente, si manifesta a livello contenutistico; Medea non è più la maga barbara che aiuta Giasone nelle sue imprese, non è più solo la maga che compie rituali magici ma è una sposa tradita che punisce l’infedeltà del marito, facendo ricorso alle proprie arti magiche e colpendolo nei suoi affetti e nella sua potenza generativa: la nuova sposa e i figli. E l'azione di Medea colpisce e sconvolge il pubblico per l’atrocità della sua vendetta e per l’epilogo inaspettato della vicenda: uccide i propri figli e poi si sottrae alla vendetta o a un eventuale giudizio, grazie all’appoggio di Helios e al rifugio che si è assicurata presso il re dell’Attica, Egeo. Dopo Euripide, ancor più che nella tradizione precedente, Medea doveva quindi apparire come una figura soprannaturale e tremenda. Ed è questa l’immagine nuova di Medea che il pubblico assimila e che la mitografia e l’arte includono come immagine forte; e questa è l'immagine che i pittori riproducono di preferenza quando vogliono raffigurare Medea.
Quando gli artisti dipingono miti, non sono i dettagli di scena che riproducono, ma gli episodi esemplari, utili a riconoscere quel determinato mito. Devono rappresentare il mito e per farlo si servono di un'iconografia immediatamente comprensibile al pubblico e ai committenti (sul rapporto tra committenza e produzione, con particolare riferimento alla funzione funeraria della produzione vascolare di soggetto tragico, v. Todisco 2003; Todisco 2006; Aa.Vv. 2012). Le figure utilizzate, specialmente quelle secondarie che fanno da contorno e che dunque sono in misura minore sottoposte a variazioni, costituiscono spesso delle forme standard che vengono riprese e utilizzate variamente in composizioni diverse. L’influenza del dramma interviene e si manifesta a livello di percezione e ricezione complessiva del mito da parte di chi lo fruisce. I pittori, così come la committenza, conoscono i miti nelle loro versioni più diffuse e fortunate, forse anche talvolta in alcune loro varianti, e la scelta della rappresentazione cade su quelle scene che meglio identificano la versione mitografica di maggior successo, o comunque più utile per la funzione dell'opera. A parte alcuni casi, rari e particolari, in cui possiamo ipotizzare che il committente richieda specificamente al pittore di rappresentare una scena particolare o una variante (a noi) meno nota – come forse è il caso della scena raffigurata sul cratere del Pittore di Dario (fig. 16). In questo caso non solo l’iconografia è diversa, ma anche la scena rappresentata è un’altra. Dalle iscrizioni apposte sul vaso si deduce che la scena è localizzata a Eleusi, nel tempio di Demetra, e noi non conosciamo nessuna versione del mito ambientata in quel luogo. La vicenda di Medea, come è giunta fino a noi, si sviluppa tra la Colchide, Corinto e Atene. Doveva peraltro trattarsi di una variante davvero minore, se lo stesso Pittore di Dario sente in quel caso la necessità di apporre iscrizioni per identificare la scena e alcuni dei personaggi, dando per presupposta, quindi, una non immediata comprensione del contenuto narrativo della raffigurazione; un accorgimento che non aveva ritenuto necessario adottare nell’anfora da lui dipinta una decina di anni prima. In questo caso, tuttavia, in assenza di riscontri letterari o iconografici di conforto, ogni ipotesi appare speculativa e velleitaria, e conviene limitarsi a prendere atto dell’esistenza di varianti che offrono prospettive completamente nuove e diverse, ma che non siamo in grado, allo stato attuale delle conoscenze, di spiegare.
English Abstract
This essay aims to reconstruct the mythological stories about Medeia, related to the iconographical versions of the barbarian sourceress from VII to IV c. BC. At the beginning, Medeia is represented uniquely as a sourceress, enchanting the dragoon guardian of the Golden Fleece, or rejuvenating the ram in the cauldron. After the successful Euripidean dramatic version, we register a change in the iconography: Medeia is now the Divine Lady triumphant on the flying chariot, with or without the bodies of the murdered sons with her. The powerful image of Medeia as a killer-mother produces a new impressive iconography, certainly related to the spectacular ending of the Euripidean drama. But not all the details of the theatrical scene have a precise comparison in the images on the vases. The case-study confirms that the scenes actually performed on stage provoke only suggestions on popular and artistic imagery. For this reason, on pots we cannot always find stage shots but images strongly influenced by the new version, which, for a certain time, prevailed on all others.
keywords | Medeia; iconography; Euripides; theatre; vase-painting
Riferimenti bibliografici
ABBREVIAZIONI
- ABV
J. D. Beazley, Attic Black-Figure Vase-Painters, Oxford 1956. - ARV2
J. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters, Oxford 19632 - EAA
Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, I-VIII, Roma 1958-1966. - LCS
A. D. Trendall, The Red-figured vases of Lucania, Campania and Sicily, 1. Text; 2. Indexes and plates, Oxford 1967. - LIMC
LIMC - Lexicon iconographicum mythologiae classicae, I-VIII, Index, Suppl. 2009, Zürich at al., 1981-2009.
FONTI
- Apollodoro, I miti greci, introduzione e commento a cura di P. Scarpi, traduzione di M. G. Ciani, Milano 1998.
- Apollonio Rodio, Le Argonautiche, traduzione di G. Paduano, introduzione e commento di G. Paduano e M. Fusillo, Milano 1986.
- Apollonio Rodio, Argonautiche, introduzione, traduzione e commento a cura di A. Borgogno, Milano 2007.
- Esiodo, Opere, introduzione, traduzione e commento a c. di G. Arrighetti, Milano 2007.
- Euripide, Medea, introduzione e traduzione a cura di M. G. Ciani, commento di D. Susanetti, Venezia 1997 (20022).
- Omero, Iliade, introduzione e traduzione a cura di G. Cerri, commento di A. Gostoli, Milano 2004.
- PEG = Poetae Epici Graeci. Testimonia et fragmenta, ed. A. Bernabé, Lipsiae 1987, 1962.
- PMG = Poetae Melici Graeci, ed. D.L. Page, Oxford 1962.
BIBLIOGRAFIA
- Aa.Vv. Pots&Plays 2012
Aa.Vv., Pots&Plays. Teatro attico e iconografia vascolare: appunti per un metodo di lettura e di interpretazione, “Engramma”, 99 (luglio-agosto 2012), 4-23. - Böhr 2013
E. Böhr, Talos-Maler, in Der Neue Pauly, a c. di H. Cancik, H. Schneider et al., "Brill's Online", 2013 (accesso: 27 giugno 2013). - Buxton 2002
R. Buxton, The myth of Talos, in Monsters and monstrosity in Greek and Roman culture, Bari 2002, 83-112. - Caruso 2005
F. Caruso, Medea senza Euripide. Un frammento attico da Siracusa e la questione della Medea di Neofrone, in Megalai Nesoi. Studi dedicati a Giovanni Rizza per il suo ottantesimo compleanno, Catania 2005, 341-354. - Catenacci 2009
C. Catenacci, L’infanticidio di Medea, tragedia e iconografia, in La tragedia greca. Testimonianze archeologiche ed iconografiche. Atti del Convegno (Roma 2004), 111-133. - Dyck 1989
A. R. Dyck, On the Way from Colchis to Corinth: Medea in Book 4 of the 'Argonautica', “Hermes”, 117 (1989), 455-470. - Elice 2003-2004
M. Elice, Il mirabile nel mito di Medea: i draghi alati nelle fonti letterarie e iconografiche, "Incontri triestini di filologia classica", 3 (2003-2004), 119-160. - Fileni 2004
M. G. Fileni, Medea: il fascino di un mito al femminile, in G. Sena Chiesa, E. A. Arslan (a cura di), Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo, Milano 2004, 37-39. - Gadaleta 2003
G. Gadaleta, Temi ‘tragici’ nell'Italia meridionale e nella Sicilia del IV secolo a.C.: provenienze e contesti, in A. Martina (a cura di), Teatro greco postclassico e teatro latino. Teorie e prassi drammatica. Atti del Convegno Internazionale (Roma 16-18 ottobre 2001), Roma 2003, 111-133. - Gentili, Perusino 2000
B. Gentili, F. Perusino, Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia 2000. - Giannini 2000
P. Giannini, Medea nell'epica e nella poesia lirica arcaica e tardo-arcaica, in B. Gentili, F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, cit., 13-28. - Graf 1997
F. Graf, Medea, the enchantress from Afar: remarks on a well-known myth, in J. J. Clauss, S. I. Johnston (edds.), Medea. Essays on Medea in Myth, Literature, Philosophy, and Art, Princeton 1997, 21-43. - Griffiths 2006
E. Griffiths, Medea, London&New York 2006, 3-10. - Holland 2008
L. L. Holland, Last Act in Corinth: The Burial of Medea's Children (Eur. Med. 1378-83), “The Classical Journal”, 103, 4 (2008), 407-430. - Isler-Kerényi 2000
C. Isler-Kerényi, Immagini di Medea, in Medea nella letteratura e nell'arte, cit. - Johnston 1997
S. I. Johnston, Medea: Essays on Medea in Myth, Literature, Philosophy, and Art, Princeton 1997. - Klöckner 2005
A. Klöckner, Mordende Mütter. Medea, Prokne und das Motiv der furchtbaren Rache im klassischen Athen, in G. Fischer, S. Moraw (hrsg. v.), Die andere Seite der Klassik. Gewalt im 5. und 4. Jahrhundert v. Chr. Kulturwissenschaftliches Kolloquium Bonn, Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland, 11-13 Juli 2002, Stuttgart 2005, 247-263. - Knight 1991
V. Knight, Argonautica 4.167-70 and Euripides’ Medea, “The Classical Quarterly”, 41 (1991), 248-250. - Manuello 2011
P. Manuello, La Trattazione del Mito Argonautico nella Pitica IV di Pindaro e in Apollonio Rodio, “Digressus”, 11 (2011), 74-151. - Manuwald 2005
B. Manuwald, Jasons dynastische Pläne und Medeas Rachekalkül. Zur Konzeption der Rachehandlung in der "Medea" des Euripides, “Gymnasium”, 112 (2005), 515-530. - Martin-Velasco 2007
M. J. Martin-Velasco, Medea. An Example of How Destructive Rhetoric Can Become, “Rosetta”, 3 (2007), 1-16. - Meyer 1980
H. Meyer, Medeia und die Peliaden. Eine attische Novelle und ihre Entstehung. Ein Versuch zur Sagenforschung auf archäologischer Grundlage, Roma 1980. - Monte 2006
L. Monte, Talos, l'uomo di bronzo, “Annali. Associazione nomentana di storia e archeologia”, 7 (2006), 61-63. - Moreau 1994
A. Moreau, Le mythe de Jason et Médée. Le va-nu-pied et la sorcière, Paris 1994. - Mugione 2000
E. Mugione, Miti della ceramica attica in Occidente. Problemi di trasmissioni iconografiche nelle produzioni italiote, Taranto 2000, 134-135. - Neils 1990
J. Neils, s. v. "Iason", in LIMC, V.1, 1990, 629-638. - Neer 2002
R. T. Neer, Style and Politics in Athenian Vase-Painting. The Craft of Democracy, Cambridge 2002. - Rebaudo 2012
L. Rebaudo, Il tema di 'Niobe in lutto', "Engramma", 99 (luglio-agosto 2012), 24-34. - Riccardi 2005
A. Riccardi, Il cratere del Pittore di Talos, in E. Lo Sardo (a cura di), Eureka. Il genio degli antichi, Napoli 2005, 72. - Ruggeri 2004
P. Ruggeri, Talos, l'automa bronzeo contro i Sardi. Le relazioni più antiche tra Creta e la Sardegna, in R. Zucca (a cura di), Λόγoς περὶ τῆς Σάρδoυς. Le fonti classiche e la Sardegna, Atti del convegno (Lanusei, 29 dicembre 1998), Roma 2004, 63-70. - Rizzo, Martelli 1993
M. A. Rizzo, M. Martelli, Un incunabolo del mito greco in Etruria, “Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente”, LXVI-LXVII (1993), 7-56. - Salvadori 2009
M. Salvadori, "Nec mora, balatum mirantibus exilit agnus". Medea e le Peliadi nella Casa del gruppo dei vasi di vetro, in M. Salvadori, M. Baggio (a cura di), Gesto, immagine. Tra antico e moderno. Riflessioni sulla comunicazione non-verbale, Atti del convegno (Isernia, 18 aprile 2007), Roma 2009, 63-74. - Schmidt 1992
M. Schmidt, s.v. "Medeia", in LIMC, VI.1, 1992, 386-398. - Sisto 2003
M. A. Sisto, Scene di ispirazione tragica, forme vascolari, contesti tombali, in A. Martina (a cura di), Teatro greco postclassico e teatro latino. Teorie e prassi drammatica, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 16-18 ottobre 2001), Roma 2003, 135-145. - Splitter 2000
R. Splitter, Die Kypseloslade in Olympia. Form, Funktion und Bildschmuck: eine archäologische Rekonstruktion, Mainz am Rhein 2000. - Strazzulla 2006
M. J. Strazzulla, Medea nell'iconografia greca dalle origini al V secolo a.C., in F. De Martino (a cura di), Medea. Teatro e comunicazione, Bari 2006, 631-672. - Susanetti 2002
D. Susanetti, Nota al testo, in Euripide, Medea, introduzione e traduzione a cura di M. G. Ciani, commento di D. Susanetti, Venezia 1997 (20022). - Taplin 1993
O. Taplin, Comic Angels and other approaches to Greek Drama through vase-paintings, Oxford 1993. - Taplin 2007
O. Taplin, Pots & Plays. Interactions between Tragedy and Greek Vase-painting of the Fourth Century B.C., Los Angeles 2007. - Tedeschi 2010
G. Tedeschi, Commento alla Medea di Euripide, Trieste 2010. - Tedeschi 2005
G. Tedeschi, Medea e gli Argonauti nei poeti greci, in Scrivere Leggere Interpretare: studi di antichità in onore di Sergio Daris, Trieste 2005, 303-334. - Todisco 2002
L. Todisco, Teatro e spettacolo in Magna Grecia e in Sicilia. Testi, immagini, architettura, Milano, 2002. - Todisco 2003
L. Todisco, La ceramica figurata a soggetto tragico in Magna Grecia e in Sicilia, Roma 2003. - Todisco 2006
L. Todisco, Pittura e ceramica figurata tra Grecia, Magna Grecia e Sicilia, Bari 2006. - Trendall 1984
A. D. Trendall, Medea at Eleusis on a Volute Krater by the Darius Painter, “Record of the Art Museum, Princeton University”, 43, 1 (1984), 4-17.
Per citare questo articolo: Pittura vascolare, mito e teatro: l'immagine di Medea tra VII e IV secolo a.C. Saggio e galleria, a cura di S. Galasso, “La Rivista di Engramma” n. 107, giugno 2013, pp. 47-78 | PDF dell’articolo