Aree tutelate e territorio interstiziale
Aldo Aymonino
English abstract
È indubbio che il proliferare dei recinti specialistici nei nostri territori, tipologie inquinanti del paesaggio e delle città contemporanei, non solo contribuiscono ulteriormente a rendere ermetico qualsiasi tentativo di definire una forma riconoscibile di brani territoriali sempre più estesi, ma soprattutto negano qualsiasi possibilità di coinvolgere aree sempre più vaste nella quotidianità di chi quelle aree attraversa e usa. Dalle aree di espansione industriale alle piccole città murate medievali adorate dal turismo di massa (e che, come San Marino e Aigues Mortes, vengono praticamente chiuse nelle ore notturne per assenza di residenti, esattamente come un parco tematico), i recinti che ormai contengono competenze sempre più distanti tra loro per funzione e significato, disegnano un territorio collettivo interstiziale che sembra aver seppellito per sempre quella capacità specifica dell’architettura italiana degli anni ’70 di immaginare e progettare un paesaggio fatto di grandi telai territoriali infrastrutturali, agricoli, paesistici e culturali strettamente interrelati tra loro.
In questo panorama altamente problematico, i recinti archeologici non fanno eccezione anzi, con le loro necessarie problematiche di difesa e tutela di un patrimonio collettivo, e soprattutto con la loro varietà di localizzazioni, (altamente differenziate per forme, condizioni di conservazione, estensioni e massimamente nei rapporti con l’intorno) aumentano la differente moltitudine di aree escluse, marginali e ostili, nel tempo cruciale per ognuno di noi della conoscenza e dell’esperienza continuativa e costante. Infatti il rapporto quotidiano con i resti archeologici, vero e proprio memento della specifica complessità e provenienza italiana, è spesso inficiato da una serie di difficoltà (di ordine viabilistico, normativo, vincolistico, etc.) che ci pone sempre più spesso nella condizione degli esclusi piuttosto che in quella degli appartenenti. E l’esclusione, come sappiamo bene, genera nel migliore dei casi una diffidenza che si trasforma rapidamente in indifferenza, e nel peggiore, sospetto, antagonismo e recriminazione.
In un paese che forse ha più di ogni altro presenze archeologiche che compongono intere parti di città e di territorio, l’architettura può (e a giudizio di chi scrive deve) contribuire a uscire dall’aporia consolidata che il contemporaneo, inteso non solo come tempo, ma anche e soprattutto come forme e funzioni, sia strutturalmente in opposizione con la conservazione del patrimonio archeologico. La fragilità (apparente?) delle strutture e dei segni delle presenze da tutelare non si aiuta con una preservazione autistica che escluda la presenza (e perché no, l’uso) del nostro tempo, ma con il costante fluire del quotidiano attraverso esse.
Nel breve e illuminante saggio Pompei, scene da un patrimonio, Raffaele Oriani spiega con chiarezza che il sistema più sicuro per preservare le domus appena scavate della città campana è quello di aprirle istantaneamente al pubblico, sperando che l’afflusso sia il più numeroso possibile. Così, sostiene l’autore, a fronte di qualche (modesto) disagio per gli studiosi e qualche (modesta) traccia d’uso, si incrementano attenzione, diffusione e conoscenza, che impediscono i macroscopici fenomeni di spolio e furti su commissione che sono purtroppo la regola degli scavi archeologici a qualsiasi latitudine planetaria. Se conosco, sembra dirci Oriani, mi sento investito e partecipe, e l’indifferenza attecchisce con più difficoltà. Del resto alcuni esempi sono sotto gli occhi di tutti: siamo certi che l’Arena di Verona sarebbe ancora così ben conservata se non vi si svolgessero attività costanti che vanno dalla lirica al Festivalbar? E’ così intollerantemente prosaico usare i monumenti per attività dell’oggi, nobili e non? E l’attraversamento dei recinti archeologici, anche fatto in maniera quotidianamente distratta e frettolosa, siamo sicuri che non contribuisca alla creazione anche minima di una coscienza collettiva?
Due esempi, distantissimi per geografia, scala d’intervento e possibilità di controllo progettuale come il progetto di Carlo Scarpa a Feltre e il Parco dell’Appia Antica possono aiutarci a chiarire meglio questo concetto cruciale per il territorio e la città contemporanei. Il progetto per la copertura degli scavi di Piazza Duomo a Feltre rappresenta una modalità paradigmatica di intervento in centri storici densamente costruiti, disegnando al contempo un intervento capace di generare una nuova spazialità fruibile per i resti archeologici trovati sotto il sagrato, modificando in maniera minima la percezione spaziale ante-quam dell’invaso urbano, ma cambiandone in maniera significativa l’esperienza visiva e la complessità cognitiva della stratificazione temporale, resa evidente dalla esibita sovrapposizione dei livelli urbani. Una soluzione simile sarebbe auspicabile in molte aree archeologiche all’interno del tessuto consolidato delle città europee, dalla Grecia alla Francia, e maggiormente nel nostro paese, dove spesso la presenza archeologica occupa il centro geometrico e geografico di molti insediamenti urbani.
Con i suoi 3500 ettari (di cui, è bene sottolinearlo, l’85% in mani private) il Parco Regionale dell’Appia Antica è sicuramente il più grande parco agricolo-archeologico italiano. La sua peculiarità primaria, oltre lo sterminato patrimonio di resti archeologici di notevole consistenza volumetrica, è rappresentata dalla sua forma geografica: il cuneo verde che esso forma nella planimetria radiocentrica della conurbazione romana, non rappresenta soltanto una vittoria della collettività sugli interessi dei privati, ma anche una sorta di stratigrafia urbana orizzontale, un catalogo delle situazioni di interrelazione tra aree diversissime tra loro, all’interno di una metropoli europea di medie dimensioni. Lungo i suoi 18 chilometri di estensione cambiano radicalmente strutture territoriali e fatti urbani, passando dai paesaggi bucolici dell’Agro Romano al centro urbano e monumentale di Roma.
Questa narrazione, variegata nelle forme e nelle strutture, impone una approfondita riflessione sui rapporti e sui conflitti che si instaurano tra aree tutelate e quotidianità. Infatti il fenomeno dell’abusivismo nell’area del parco sta cambiando radicalmente: da evento prettamente a destinazione abitativa di lusso o di bassissimo livello, si è trasformato in occupazione illecita con uso prevalentemente commerciale e terziario, con la costruzione di capannoni, circoli sportivi, depositi per le merci e per l’agricoltura, spazi per movimentazioni di terra etc. Questa inversione di tendenza si spiega in maniera evidente osservando l’uso (quotidiano) che la città fa del parco: gli attraversamenti trasversali necessari al funzionamento urbano circostante, data l’enorme estensione territoriale del parco, rappresentano spesso la via più breve e con meno carico di traffico per raggiungere altre parti di città, rendendo quelle aree strategicamente appetibili, in quanto collocate su linee di spostamento rapido e con un potenzialmente estesissimo bacino d’utenza. Quindi la rendita non è più incrementata dalla collocazione all’interno o in prossimità dell’area tutelata, bensì dal suo insistere su un’infrastruttura a scorrimento veloce.
E il fenomeno non tende a depotenziarsi, nonostante gli oltre 200.000 metri cubi di costruzioni illegali demoliti all’interno del parco in neanche vent’anni. Bisogna saper quindi trasformare queste disfunzioni in meriti attraverso l’incrementazione delle pluralità d’uso: è evidente che le funzioni insediate non sono frutto di una speculazione pianificata, ma esse sono alcune delle necessità che la città esige da quei luoghi che, proprio dove l’area tutelata può essere assimilata a un parco urbano, hanno bisogno di attrezzature “interne” alla città. Quindi alcuni bordi vanno rafforzati e consolidati per un uso numericamente il più esteso possibile e molte funzioni vanno opportunamente riconfigurate, ma non cancellate.
Gli attraversamenti “lenti” vanno connessi con le reti di trasporto pubblico attraverso dei nodi urbani o territoriali progettati ex novo e non lasciati al caso, mentre le aree agricole periurbane dovrebbero avere una forma di tutela del marchio “archeologico”, una sorta di DOCG che ne identifichi la specificità e la prossimità al bene culturale. Credo che gli abitanti urbani e periurbani di qualsiasi regione abbiano meglio metabolizzato nella loro esperienza quotidiana il loro piccolo patrimonio archeologico attraversandolo in continuazione portando a spasso il cane o facendo jogging, che quelli costretti a guardare da lontano, oltre una cancellata, i magnifici resti di un teatro romano.
Sempre più spesso amministratori coscienti, gestori capaci e architetti (bravi e non, ma questa è un’altra storia…) si trovano ad affrontare problemi finalmente condivisi e non a guardarsi con sospetto dalle trincee delle rispettive epistemologie e ideologie disciplinari. I recinti devono diventare (e, siamo ottimisti, stanno diventando) sempre più permeabili, aperti e sicuri (no, i due termini non sono in contraddizione…), capaci di essere dei microcosmi di sperimentazioni in grado di contribuire a rimandarci le possibilità e la straordinaria complessità del tempo che stiamo vivendo, per far sì che l’eredità culturale diventi una forma quotidiana di leisure necessaria e indispensabile, da usare e in cui identificarsi.
English abstract
Ain’t no doubt that the proliferation of specialist enclosures in our territories, morphological types that are polluting the landscape and contemporary city, not only contribute further to make airtight any attempt to define a recognizable form of territorial pieces ever larger, but mostly deny any possibility of involving more and more areas of everyday life of whose that areas crosses and uses. From the areas of industrial expansion to the small medieval walled cities worshiped by mass tourism (and, as San Marino and Aigues Mortes, are practically closed at night due to lack of residents just like a theme park), the precinct that now contain competence more distant from each other in their function and meaning, define a collective interstitial territory that seems to have buried forever the specific capability of Italian architecture of the '70s to imagine and design a landscape of large territorial frames, infrastructural, agricultural, cultural and landscaped that are strictly interrelated. In this highly problematic scenario, archaeological precinct make no exception indeed, with their necessary issues of defense and protection of a collective heritage, and especially with their variety of locations, (highly differentiated forms, storage conditions, and especially in relations with the surroundings) increase the multitude of different areas excluded, marginal and hostile, in the crucial time for each of us of the knowledge and continuous and constant experience. In fact, the daily relationship with the archaeological remains , a true memento of the particular italian complexity and provenance, it is often vitiated by a number of difficulties (roadway regulations, normative, superintendence bindings, etc.). That puts us more and more often in the position of the excluded rather than that of belonging. And the exclusion, as we all know, generates a distrust that quickly turns into indifference, and at worst, suspicion, antagonism and recrimination.
keywords | Territory; Landscape; Project; Archeology; Ruins.
Per citare questo articolo: Aree tutelate e territorio interstiziale, a cura di A. Aymonino, “La Rivista di Engramma” n. 110, ottobre 2013, pp. 53-57 | PDF dell’articolo