"Quid tum?". Presentazione del volume L'occhio alato. Migrazioni di un simbolo
Alberto Giorgio Cassani
English abstract
Il volume L’occhio alato. Migrazioni di un simbolo, edito da Nino Aragno nel 2014, raccoglie una serie di studi, di cui alcuni già pubblicati, che prendono avvio dal saggio dedicato all’interpretazione dell’impresa albertiana dell’occhio alato presentato da Alberto Giorgio Cassani in occasione dell’importante Convegno parigino sull’Alberti (1995). Da allora l’autore ha continuato a occuparsi di questo simbolo e dell'impresa albertiana, cercando di ripercorrerne la fortuna critica, sia all’interno della cultura alta (Dosso Dossi, Gabriele D’Annunzio e Tomaso Buzzi) che di quella popolare (psychedelic art e fumetti, in particolare giapponesi), nell’ottica delle ricerche che Aby Warburg aveva dedicato ad alcune immagini del passato, come la Ninfa, da lui inseguita nelle sue migrazioni fino al Novecento. Il testo è introdotto da uno scritto di Massimo Cacciari, da anni studioso del pensiero filosofico dell’Alberti, dedicato all’immagine solare dell’occhio alato. Qui di seguito l'Introduzione tratta dal volume Aragno.
Introduzione. Simbolo o indovinello?
Ma, palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi,
che una volta visti non si possono dimenticare né confondere.
Italo Calvino, Le città invisibili, Torino 1972
Evidentemente anche le vie dei simboli sono infinite. Sfogliando l’edizione italiana dell’ultimo best-sellers di quella letteraria dedicata alla risoluzione di più o meno probabili ‘misteri’ della storia passata, di Ian Caldwell e Dustin Thomason[1], ci si imbatte inaspettatamente, a p. 152, nell’impresa di Leon Battista Alberti: l’“occhio alato”. Detto in breve, il protagonista del romanzo, lo studente universitario Paul Harris, uno dei cervelli più brillanti di Princeton, ‘fanatico’ del Rinascimento, riuscirà a decifrare il segreto crittografico, nascosto nel testo dell’Hypnerotomachia Poliphili, proprio grazie a questa ‘key-word’ albertiana. Chi parla è l’amico Tom Sullivan, figlio di Patrick – noto storico del Rinascimento – morto, guarda caso, in un misterioso e tragico incidente:
“Il passo che stavo studiando, nel disegno che lo illustra, inizia con uno speciale geroglifico: l’occhio. […] Dal momento che l’occhio era il primo simbolo della xilografia, decisi che doveva essere importante. Il problema era che non sapevo come procedere. Polifilo dice che l’occhio è il simbolo di Dio, o della divinità, ma anche questa spiegazione non mi portava da nessuna parte. È a questo punto che ho avuto un colpo di fortuna. […] Durante il Rinascimento un famoso umanista aveva usato l’occhio come simbolo. Lo aveva impresso persino su monete [sic!] e medaglie. […] Leon Battista Alberti”. Paul mi indicò un piccolo volume [sic!] sullo scaffale. Sul dorso lessi il titolo De re ædificatoria. “Ecco che cosa aveva in mente Colonna. Aveva preso l’idea dall’Alberti e voleva che il lettore lo sapesse. Se fosse riuscito a decifrare il rebus dell’occhio, il resto si sarebbe chiarito da sé. Nel suo trattato, l’Alberti crea gli equivalenti latini dei termini architettonici di derivazione greca. Francesco [scil. Colonna] si serve dei neologismi albertiani in tutta l’Hypnerotomachia Poliphili, tranne in un punto. L’avevo notato la prima volta che avevo tradotto quel passo in inglese, perché avevo incontrato vocaboli vitruviani, che altrove Colonna non usa. Ma non avevo attribuito un particolare significato a quella scelta linguistica. Il trucco era semplice: bisognava sostituire tutti i termini architettonici greci che apparivano in quel passo con gli equivalenti latini, come nel resto del testo. Dopo la sostituzione, se si applica la regola dell’acrostico – la prima lettera di ciascun capitolo – il codice si svela. Trovi un messaggio in latino. Il problema è che se fai un solo errore traducendo dal greco al latino, l’intero messaggio risulta incomprensibile”[2].
Inutile dire che il piccolo genio Paul non sbaglia un colpo. Per la cronaca, il Colonna aveva progettato quest’immane gioco enigmistico per cercare di salvare i capolavori dell’arte rinascimentale dalla furia iconoclasta del Savonarola. Tra i sapienti che hanno istruito il Colonna nell’arte di comporre i suoi indovinelli non può naturalmente mancare Leon Battista: “Il grande Alberti, che apprese la sua arte dai grandi maestri Masaccio e Brunelleschi (possa il loro genio non essere mai dimenticato), mi istruì, molto tempo fa, nella scienza degli orizzonti e nella pittura; che sia lodato ora e sempre”[3]. Il brillante Paul sembra dunque essere venuto a capo di uno dei più misteriosi testi del Rinascimento. Ma sarebbe in grado di svelare il significato non più di un ‘indovinello’ ma di un vero ‘simbolo’? La ‘key-word’ stessa: l’occhio alato?
Sigmund Freud, nella sua Interpretazione dei sogni, contro ogni ottimistica visione del mondo come un enigma che possa risolversi, aveva ammonito che quando la soluzione sembra soddisfacente e senza lacune, è sempre possibile che un sogno abbia ancora un altro significato. Questa ammissione di relatività e di modestia ermeneutica si adatta perfettamente al problema dell’impresa dell'Alberti[4], il suo canting device, che da anni la critica iconologica sta cercando di ridurre ad una spiegazione plausibile: un occhio alato fiammeggiante, circondato da una corona d’alloro, col motto QVID TVM. Ma più le interpretazioni si accumulano, più sembra che l’impresa albertiana rimanga impermeabile ad ogni tentativo di svelarne un possibile significato.
La frustrazione intellettuale può però rivelarsi catartica. Come già Edgar Wind[5] aveva perfettamente compreso, l’emblema albertiano non è una ‘sfinge’, un ‘indovinello’ che presuppone una risposta nel momento stesso in cui viene escogitato e, dunque, sapida scommessa nei confronti dell’arguzia dei contemporanei, ma un vero e proprio ‘simbolo’[6], che, se anche interpretato con le più affilate arti della ricerca iconologica[7], continua a mantenere intatto il suo potere di seduzione e di mistero racchiuso nella sua ineffabile domanda: QVID TVM? Il simbolo, infatti, è sempre ancipite e ambivalente:
La funzione simbolica è in continuo rapporto di ambiguità, di relazione, di coppie bipolari e antitetiche, di catene di significanti, di metamorfosi continue; il simbolo funge da ‘sigillo’, scopre e nasconde incessantemente i significati e i rapporti semiologici, infinite ‘tessere’ del ‘rabesco’ dell’universo[8].
La stessa ambiguità simbolica si trova nel ‘sigillo’, con cui l’impresa è in stretto rapporto semantico:
Il simbolo funge, con il suo scoprire e celare significati, da sigillo; con tutta l’ambiguità del sigillo – indicata anche dalla parola greca symbolon, designante la tessera, metà della quale era consegnata all’ospite come segno di riconoscimento […]. Sigillo che sigilla il caos vitale che preme dentro le opere umane, il quale così sigillato viene consegnato all’intelligenza interpretante[9].
Dunque tutte le interpretazioni vanno bene?[10] Sulla polisemanticità dei simboli ha riflettuto già il Gombrich, arrivando alla conclusione che, se non si fa parte della schiera degli indovini, dei mistagoghi o dei sacerdoti, dobbiamo accettare che esista un contesto che permette al simbolo di divenire decodificabile: “L’immagine non ha molteplici significati, ma uno solo”[11]. Ma che accade se è proprio il contesto che ci sfugge? Il problema è che la figura dell’Alberti elude ancora un’interpretazione univoca, celata, come lui stesso si è forse divertito ad esserlo, dietro le sue tante maschere. Moralista, ma anche ironico sbeffeggiatore dei supercilii stoici, caustico fustigatore dell’imperizia e insipienza del principe, paziente e iracondo al tempo stesso, amante della verità, ma simulatore per cause di forza maggiore in mezzo ai tanti obrectatores delle corti italiane – quella papalina in primis – sperimentatore incessante e instancabile indagatore delle cose occultissime, forse mago e preveggente… e quanto ancora? È evidente che di fronte a tanta paradossalità, a tanti diversi aspetti della personalità, a tanta ‘schizofrenia’ il critico-psicanalista ha qualche ragione di sentirsi in imbarazzo. A maggior ragione se, dietro tutte queste facce, si coglie e intravede, però, un pensiero forte, che dopo sei secoli dalla sua nascita, pone ancora la figura di Leon Battista al centro dell’interesse di ricerche, pubblicazioni innumerevoli e convegni. Fino a far spesso litigare tra sé la comunità scientifica. E forse di questo egli ride, essendo riuscito, come Momo, a portare scompiglio nel mondo degli uomini – e dei professori universitari – da vero consceleratissimus rerum perturbator[12]. Ma forse ride di più per la nostra insania.
È evidente, allora, che una personalità così complessa non poteva che nascondersi, facendosi rappresentare da un’impresa tanto icastica quanto sfuggente e inquietante. Sì da costituire un unicum, uno di quegli hapax legomena che tanto piacevano all’Alberti: come i lemmi latini da lui utilizzati nelle sue opere letterarie, così rari da apparire neologismi, e come, in campo architettonico, le citazioni da opere antiche, tanto poco conosciute da esser credute sue invenzioni (è il caso del famoso “capitello belissimo” del suo tempio Malatestiano[13]). Ma che un senso l’occhio alato debba averlo è lo stesso Leon Battista ad assicurarcene con quel suo irridente “tum etiam tu pro tua, qua vales, sapientia plane atque aperte poteris agnoscere, si quid huc adhibueris animum”[14].
“Explicanda igitur hæc sunt mysteria”[15]: sta a noi, se saremo docti, portare a termine l’impresa di svelare l’impresa. Perché in ciò consiste il significato del termine: un progetto di vita, una linea di condotta, il cui programma è riassunto in un’immagine sintetica. Occorre risalire dunque dall’immagine al programma[16] , come sintetizza il Gombrich. La difficoltà sta ancora una volta nel riuscire ad inserire le immagini in un contesto[17], come detto, nel contesto cioè della complessa personalità dell’Alberti.
Leon Battista è forse il primo, nel Quattrocento, a dare il via a quella che dilagherà come una moda nel Cinquecento e oltre, tanto da richiedere dizionari esplicativi e manuali consultabili da chi fosse interessato a trovarsi un motto a propria immagine e somiglianza[18]. L’Alberti non aveva a disposizione nulla di tutto questo (il famoso, e subito divenuto mitico, manoscritto degli Hieroglyphica di Orapollo, apparso sulla scena umanistica nel 1419, in cui veniva descritta l’immagine dell’occhio[19], non conteneva illustrazioni, che saranno aggiunte solo in seguito[20] nell’edizione parigina del 1543[21]), ma, conoscendo la sua tendenza alla ricerca della ‘rarità’, è molto dubbio che ne avrebbe fatto uso. Il suo emblema rimane isolato nella sua mancanza di collegamento con modelli più o meno codificati: infatti, non ne troviamo diretti precedenti nell’antichità. Esisteva, sì, il ‘genere’, fin dall’antichità greca e romana: lo testimoniano le sette imprese dei guerrieri greci all’assalto delle porte di Tebe, nei Sette contro Tebe di Eschilo[22], o la famosa moneta di Tito recante sul verso il delfino attorcigliato all’ancora (poi futura impresa di Aldo Manuzio). Anche se l’impulso a considerarlo una reinterpretazione di geroglifici è forte, dal momento che i diversi componenti che formano l’emblema – l’occhio, l’ala, i raggi solari, il ‘serpente’ – fanno tutti parte del bagaglio di quei signa egiziani di cui proprio allora l’Occidente cominciava di nuovo ad interessarsi dopo la moda che aveva caratterizzato a più riprese l’Impero romano.
A sostegno di questo impulso a guardare all’Egitto come possibile fonte d’ispirazione ci sorregge anche il pluricitato passo sui geroglifici del De re ædificatoria (VIII 4), con l’ipotesi sbagliata, ma seducente, che l’alfabeto egizio, parlando mediante ‘cose’, sarà sempre comprensibile[23], mentre gli altri alfabeti, una volta perduto il codice interpretativo, diverranno muti e incomprensibili. Ma, per ironia della sorte, proprio le ‘cose’ dell’emblema ci sfuggono e non ci parlano chiaramente. Certo, Leon Battista ce lo dice sia nel trattato che in Anuli, l’occhio è immagine di Dio e la corona di lætitia e gloria. E ci dice una cosa ancor più importante: che l’occhio non è solo emblema di Dio, ma anche, al tempo stesso, degli uomini, degli homunculi. Quindi l’occhio è ‘doppio’, il suo significato è ambivalente, divino e umano, nello stesso tempo[24]. Questa duplicità occorre salvaguardare nell’interpretazione, mantenendo unite, pur nella loro ineliminabile separatezza, come in un vero symbolon, le due parti ‘gettate’ insieme. Questo cerca di fare il capitolo sull’interpretazione del simbolo, che costituisce il nucleo più importante di questo lavoro. Il testo ha origini lontane. Apparso sulla rivista “Paradosso” nel 1994[25], è stato in seguito ripensato in occasione del Convegno parigino sull’Alberti del 1995[26]. Ho creduto opportuno di ripresentarlo in quella forma, tranne qualche leggera modifica nel linguaggio e solo aggiornandone la bibliografia[27].
Fatta salva l’interpretazione dell’impresa di Leon Battista come ‘simbolo’, in cui si incontrano e si scontrano, convivendo in due facce della stessa medaglia – l’occhio divino e l’occhio umano, l’illimitato e il limitato, l’onniscienza e la vigilanza (lo star desti, perché non sappiamo quando verrà l’ora del giudizio), l’occhio della prospettiva che tutto inquadra e l’occhio demolitore del cynicus e dell’erro, che guarda a ciò che gli cade sotto gli occhi con la più assoluta ironia distruttrice – vorrei qui solo aggiungere alcune considerazioni a margine. La soluzione, se soluzione sarà mai trovata (ma il capitolo primo dice che forse non è questo il punto essenziale), dovrà essere la più semplice, concisa come conciso è il simbolo dell’Alberti – occhio, ali, raggi e quello strano serpente – e come, ancor più, lo è il motto: QVID TVM. In questo senso, due interpreti dell’emblema sembrano aver raggiunto questa simplicitas.
Da una parte David Marsh, che ha scoperto l’assai probabile fonte della pictura – l’occhio e l’ala – nell’Icaromenippus di Luciano[28] (ipotesi da me ampiamente ripresa e approfondita nel primo capitolo). Dall’altra Guglielmo Gorni, che ha proposto come possibile fonte del motto un verso delle Bucoliche di Virgilio[29] che allude alla nascita illegittima di Leon Battista e, quindi, al lungo e irrisolto rapporto con la 'famiglia Alberta'. Da cui deriverebbe, di conseguenza, il desiderio dell’Alberti di mostrare ai suoi familiari tutta la sua virtus, per farsi accettare come uno ‘alla pari’, e dimostrare, forse, di essere migliore. Significativamente, David Marsh riconosce nella proposta del Gorni la più convincente soluzione dell’interrogazione albertiana[30]. Ma l’unione tra le due spiegazioni, dell’immagine e del motto, di Luciano e Virgilio, non mi sembra risolvere plane et aperte il rebus albertiano.
Sembra che con l’impresa di Leon Battista sia necessario ogni volta ricominciare da capo. Una fatica di Sisifo. Tornando a cercare possibili fonti (egizie, romane?) nel tentativo, sempre frustrante, di riuscire ad essere quei docti di cui parla l’Alberti. Allora, lasciando da parte per un momento la mia personale interpretazione, vorrei rifare anch’io il percorso da capo, aggiungendo qualche ulteriore nuova riflessione all’errare (nel senso di poter essere anche andato ‘fuori strada’) ermeneutico da me compiuto nel primo capitolo. Innanzitutto, quali possono essere state le fonti visive di Leon Battista?
Forse l’occhio di Ra’, rappresentato nelle antiche scritture egizie come un cerchio alato[31]. La Leggenda dell’occhio di Ra’ racconta della nascita degli uomini: un occhio di Ra’ si stacca dal dio e fugge. Non ritrovandolo, pur dopo aver mandato sulle sue tracce Shu e Tefnut, il dio si crea un occhio in sostituzione. L’occhio, ritornato, e veduto quanto accaduto, piange e dalle sue lacrime hanno origine gli uomini. Attraverso quest’occhio “alato” il dio poteva osservare dall’alto il suo popolo – come l’occhio alato dell’Alberti, che sembra sorvolare il nostro mondo fiammeggiando come un sole. L’occhio è inoltre legato ad un’altra divinità del Pantheon egizio, Horus[32]. Rappresentato come falco[33], del rapace ha la vista acutissima. Ad Horus, coinvolto in una lotta drammatica per la successione a Osiri per il trono d’Egitto con Seth – fratello e uccisore di Osiri –, in uno dei tanti scontri con lo ‘zio’ vengono strappati gli occhi mentre dorme. In seguito, grazie all’intervento di Hathor, Horus riacquista la vista. Ad Horus, perciò, si collega direttamente, nella produzione artistica egizia, l’occhio di Horus o occhio-udjat – per metà umano e per metà di falco – potente amuleto diffusissimo durante tutte le dinastie. Di origini complesse, è il risultato della fusione di due diversi miti e di due differenti divinità ieracocefale: quello di Horus l’Antico, in cui i due occhi rappresentavano il sole e la luna, e quello di Horus in lotta con Seth, dove l’occhio-udjat rappresenta l’occhio risanato. Per questo motivo l’udjat è simbolo di pienezza e integrità, con un grande potere magico di protezione. Di analogo significato sono gli occhi, frequentemente dipinti sui sarcofagi dalla parte della testa del defunto, che assumevano un duplice significato: apotropaico-protettivo contro gli influssi del male (come l’udjat), e come strumenti magici che permettevano ai defunti di osservare, seppure immobili, lo spettacolo del mondo esterno[34]. All’occhio-udjat è spesso accompagnato un cobra eretto detto “ureo”, simbolo del sole e regale (che ricorda da vicino, anche se soltanto come forma, lo strano “serpente-timone” presente nell’emblema albertiano[35]). Inoltre, in qualche esempio, l’occhio è sostenuto da una o due ali[36]. In un unico caso, a mia conoscenza, le ali sono poste sopra l’occhio, come nell’impresa albertiana[37].
Questo pittogramma egizio è, senza alcun dubbio, quello che più si avvicina, per forza icastica, ad essa[38]. Ma nessuno ha ancora trovato una precisa fonte cui Leon Battista può aver attinto direttamente (se non forse gli amuleti con l’occhio-udjat in faïence[39], probabilmente circolanti al tempo, o gli obelischi[40] presenti a Roma; però si rimane troppo nel vago). Ma, forse, ancor più ‘albertiano’, è il racconto mitico dell’origine dell’uomo, noto come Monologo del signore di tutto: “Io ho fatto nascere gli dèi dal mio sudore[41], ma gli uomini dalle lacrime del mio occhio”[42]. La spiegazione che ne dà Erik Hornung sarebbe pienamente sottoscritta dal pessimismo creazionistico albertiano:
Questo getta un lampo di luce sulla nostra contrastante origine: “noi veniamo tutti dal suo occhio”, dall’occhio piangente di dio, che era appannato a causa di una cecità temporanea. “Io dovevo piangere a causa del tumulto contro di me. L’umanità appartiene alla cecità che è dietro di me”, dice Nun, in quanto dio originario, nei Testi dei Sarcofagi (CT, vi 344). Dio ha superato l’intorbidamento del suo occhio, ma la loro nascita ha dato agli uomini il destino di non condividere mai il modo chiaro di vedere le cose che è tipico di dio, a loro è toccato di vedere tutto in modo appannato. Questa immagine, che emerge dalle profondità dell’antica umanità, ci rimanda in modo doloroso all’insufficienza che caratterizza anche le più esatte teorie circa l’origine dell’uomo[43].
Detto en passant, anche presso la cultura greca è presente una sorta di ‘occhio alato’ (che certamente l’Alberti non ha potuto conoscere): si tratta della raffigurazione della sirena ‘ad occhio’. In una coppa attica, conservata al Museum of Fine Arts di Boston, compare un grande occhio sbarrato che costituisce il corpo della sirena: da quest’occhio spuntano una coda, due zampe e due ali d’uccello, oltre a due braccia e a una testa umane[44].
Presso gli Etruschi, invece, Leon Battista poteva ritrovare la versione italica della figura del Caronte greco – da lui ben conosciuta e posta fra i protagonisti assoluti del Momus – raffigurata come un essere dal naso adunco, le orecchie ferine e vestito di una corta tunica e di alti calzari, denominata, a seconda dei casi, Charu o Charun. In almeno due esemplari, quello dipinto all’interno della Tomba 5512 (detta anche Tomba Doppia o degli Anina II) nella Necropoli dei Monterozzi, località Calvario presso Tarquinia[45] e quello scolpito sull’urna cineraria in alabastro (seconda metà del III secolo a.C.) conservata al Museo Guarnacci di Volterra, Charun è dotato di ali fornite di occhi (nel caso dell’urna l’occhio compare soltanto su una delle due ali), chiaro segno apotropaico[46]. Se poi diamo ragione al grammatico bizantino Tzetzes, per il quale Charun significherebbe ‘Leone’, il gioco si farebbe ancor più interessante[47]. Ma anche qui, come indicare una fonte attendibile?[48]
Con la vista, poi, l’Alberti ha un rapporto del tutto privilegiato. Oltre a tutto ciò che sarà sottolineato nel capitolo primo, è da ricordare come il frenetico studio condotto negli ‘anni di apprendistato’ porti Leon Battista a vedere ‘scorpioni’ al posto delle lettere[49], fino a rischiare di ammalarsi seriamente agli occhi[50]. Ma l’Alberti sembra possedere anche una vista soprannaturale, una sorta di ‘terzo occhio’ con cui il ‘veggente’ Leon Battista riesce a prevedere gli eventi futuri: che sia, questo, il segreto nascosto nell’occhio ‘alato’?[51] Sul QVID TVM, motto ciceroniano o virgiliano, ma anche interrogazione ultima sul senso del nostro stare nel mondo (almeno questa è l’interpretazione da me data nel capitolo primo), si può forse indagare ancora più a fondo nell’opera stessa dell’Alberti e in particolare nel Momus, testo in cui ricorre davvero con frequenza sospetta. Rilevando qui un’ulteriore, ennesima trappola da parte di Leon Battista: se in genere il motto è stato posto per aiutare la soluzione dell’enigma («acciò che si conosca l’oggetto», come scrive Giulio Cesare Capaccio[52]), l’Alberti, con la disarmante “laconicità” del motto, ha reso, al contrario, tutto più complicato e indecifrabile.
Il libro prosegue poi con i restanti capitoli. Alessandro Parronchi ed altri hanno visto nell’occhio alato la ‘firma’ di Leon Battista. Questo ha fatto attribuire all’Alberti alcune opere pittoriche e non[53]. Sulla scia di questi tentativi, ho cercato di scoprire non opere autografe, ma ‘omaggi’ a Leon Battista di epoche successive. E ho creduto di ritrovarli in Cosimo Bartoli e in Dosso Dossi (argomenti del terzo capitolo). Il quarto e il quinto capitolo (ma anche il secondo paragrafo del terzo, dedicato al Filarete) indagano invece la fortuna dell’impresa albertiana. O, per meglio dire, la sfortuna. Molto probabilmente per l’oscurità del suo significato, infatti, l’occhio alato si può dire non sia mai stato utilizzato in seguito dalla cultura alta, forse con la sola eccezione del Filarete (che alla cultura alta appartiene di diritto). Questi, nell’immagine della Fama dei libri nono e diciottesimo del Trattato di architettura, ‘copia’ l’occhio alato dell’Alberti, utilizzandolo, però, per altri fini. A quanto ho potuto appurare, nell’emblematistica cinquecentesca e dei secoli successivi, di occhi ce ne sono tanti e così pure di ali e di raggi, ma mai combinati fra loro, come nell’impresa albertiana[54]. Bisogna perciò lasciar passare ben cinque lunghi secoli (con forse la sola eccezione di una possibile ‘citazione’ piranesiana), prima di poter vedere una ripresa esplicita dell’occhio alato albertiano da parte di un altro coltissimo architetto: Tomaso Buzzi. Alla sua impresa, che recupera in pieno (motto escluso) quella di Leon Battista, ho dedicato il secondo paragrafo del quarto capitolo. Lo aveva anticipato, però, di qualche decennio, Gabriele D’Annunzio (definito poco eufemisticamente, proprio dal Buzzi, “caprone abruzzese”), che aveva fatto disegnare da Renato Brozzi, l’amato “animaliere”, delle spille maschili a forma di occhio alato. A lui – che, inutile dirlo, non cita mai la sua fonte – è assegnato il primo paragrafo del quarto capitolo.
Ma le strade della ‘trasmigrazione dei simboli’ sono imperscrutabili: e Aby Warburg, che ne era il paziente investigatore, non se ne sarebbe affatto meravigliato, lui che ritrovava ninfe e menadi danzanti nei francobolli della Republique Française. Non si sarebbe perciò stupito degli occhi alati – che costituiscono l’argomento dell’ultimo capitolo, il quinto – che compaiono nelle imprese della RAF e della Marina di sua maestà britannica; così come non si sarebbe scomposto nel ritrovare l’occhio volante come protagonista di due delle nuove forme artistiche del nostro tempo: la graphic art e il fumetto. Nel primo caso parlerò del pinstriping di Kenny Howard e della ‘psychedelic-art’ di Rick Griffin; nel secondo, l’occhio alato apparirà nella versione “colta” di Dylan Dog e in quella più international style dei manga giapponesi (serie del Principe Chobin, di Yu degli Spettri e di Guru Guru). Infine, amuleti dalla forma di occhi alati si possono acquistare con pochi dollari navigando in quell’enorme biblioteca di Babele malriuscita che è il web. Anche l’Alberti, probabilmente, come le ninfe e i satiri, ne avrebbe sorriso.
Note
1. The Rule of Four, New York 2004, trad. it. di Isa Vaj, Il Codice del Quattro, Casale Monferrato 2004.
2. Ibid., 153-154.
3. Ibid., 215.
4. Userò indifferentemente i due termini che, come avvertono gli studiosi, non sono effettivamente distinguibili se non per il fatto che nell’impresa non poteva apparire la figura umana, mentre nell’emblema sì. Per il resto, "impresa ed emblema, in una analisi e classificazione di sistemi significanti diversi, non sono distinguibili", Loretta Innocenti, Vis eloquentiæ. Emblematica e persuasione, Palermo 1983, p. 32. Si veda anche quanto scrive Donald J. Gordon: "Possiamo così constatare quanto fluida fosse la terminologia in voga. Il tipo di linguaggio figurativo che stiamo considerando deriva da molte fonti: testi di mitologia classica, solitamente concepiti quali manuali di carattere generale e completi di esposizioni allegoriche circa gli dei e le loro vicende; monografie o enciclopedie sulle antichità classiche, le monete, le medaglie, le opere d’arte; collezioni di immagini – geroglifici, emblemi, imprese – e iconologie, sistemi iconografici. Tutti questi generi confluiscono l’uno nell’altro, come pure le fonti e le tradizioni cui attingono; sbaglia chi, per troppa curiosità, vuole distinguere i generi", The Renaissance Imagination. Essays and Lectures, Collected and edited by Stephen Orgel, Berkeley & Los Angeles 1975, trad. it. di Paolo Cesaretti, L’immagine e la parola. Cultura e simboli del Rinascimento, a cura di Stephen Orgel, Prefazione di Eugenio Garin, Milano 1987, 32. Su maggiori differenze insiste invece Giancarlo Innocenti, L’immagine significante. Studio sull’emblematica cinquecentesca, Padova 1981, 14-19.
5. Cfr. Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance, London 1958; trad. it. di Piero Bertolucci, Misteri pagani del Rinascimento, Milano 1971 e 1985, 283-288.
6. Anche Ernst Gombrich riconosce “l’alone di vago, il carattere “aperto” del simbolo” come “una componente importante di ogni vera opera d’arte”, Ernst Gombrich, Symbolic Images. Studies in the art of the Renaissance, London 1972, trad. it. di Renzo Federici, Immagini simboliche. Studi sull’arte nel rinascimento, Torino 1978, 28.
7. Se accettiamo la differenziazione tra iconografia e iconologia proposta da Gombrich che, sulla scia di Panofsky, fissa la differenza tra le due intendendo per iconologia «la ricostruzione di un programma più che la identificazione di un particolare testo», E. Gombrich, Symbolic Images…, trad. it. cit., 11.
8. G. Innocenti, L’immagine significante, cit., 9.
9. Rubina Giorgi, Simbolo e interpretazione, in Umanesimo e Simbolismo (Archivio di Filosofia), Padova 1958, 66. Prendo la citazione da G. Innocenti, L’immagine significante, cit., 9.
10. Tra le interpretazioni più “estreme”, ma anche stimolanti, quella di Franco Farinelli che, recensendo il libro di Paul Virilio, La bomba informatica, cita il "mostruoso occhio alato" dell’Alberti come esempio ante litteram dello sguardo unico come ultima forma di globalizzazione: “simbolo della prospettiva che abilita a rappresentare non quel che uno conosce ma semplicemente quel che si vede, e che rappresenta con precisione matematica non la realtà ma la percezione della realtà” (Reale o virtuale l’apparenza inganna. C’era una volta la Terra uccisa dalla ciberneticasostiene Virilio nel libro “La bomba informatica”: Ma forse ha torto, “L’Unità”, 17 aprile 2000; ora in Franco Farinelli, L’invenzione della Terra, Con una nota di Sergio Valzania, Palermo 2007, 78). L’occhio alato, dunque, come l’occhio della prospettiva che decide cosa rappresentare sulla base di un’astrazione matematica e di un conseguente “riduzionismo”.
11. E. Gombrich, Symbolic Images…, trad. it. cit., 24. In un altro passo (ibid., 29), Gombrich definisce “fuorviante parlare di diversi livelli di significato” per quel che riguarda l’interpretazione di un soggetto.
12. Cfr. Leon Battista Alberti, Momo, Testo critico e Nota al testo di Paolo d’Alessandro e Francesco Furlan, Introduzione e Nota bibliografica di F. Furlan, Traduzione del testo latino, note e Posfazione di Mario Martelli, Volume a cura di F. Furlan, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007, III 74: “consceleratissimum rerum perturbatorem Momum”.
13. In realtà ispirato ad un prototipo ionico-focese conservato oggi al musée Archéologique di Nîmes, come ha scoperto Howard Burns in Un disegno architettonico di Alberti e la questione del rapporto fra Brunelleschi ed Alberti, in Filippo Brunelleschi. La sua opera, il suo tempo, Firenze 1980, vol. I, 116. La definizione, come noto, è di Pietro de Gennari e Matteo de’ Pasti nella lettera del 17 dicembre 1454 inviata a Sigismondo Pandolfo Malatesta (pubblicata, da ultimo, in Angelo Turchini, Il Tempio malatestiano, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Leon Battista Alberti, Cesena, 2000, 622).
14. L.B. Alberti, Anuli, in Leonis Baptistæ Alberti, Opera inedita et pauca separatim impressa, Hyeronimo Mancini curante, Florentiæ, Sansoni, 1890, p. 230. È quantomeno curioso che Nostradamus, al secolo Michel de Notre-Dame, in una delle sue “centurie”, la I 6, abbia utilizzato proprio l’immagine dell’occhio alato riferendola a Ravenna, città in cui abita chi scrive: “L’œil de Ravenne sera destitué / Quand à ses pieds les aisle failliront” (Nostradamus, Centurie e presagi, a cura di Renucio Boscolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, 1982, p. 6; ed. orig. Torino, M.E.B., 1972). Un bel rompicapo per ermeneuti di profezie.
15. Ibid., p. 229.
16. E. Gombrich, Symbolic Images…, trad. it. cit., 17. L’Alberti è inoltre tra i primi, nell’età moderna, a scrivere un’autobiografia, a lungo ritenuta anonima, ed ora pienamente riconosciuta come di sua mano. Autobiografia e medaglia costituiscono, dunque, un’iniziativa ‘autopubblicitaria’ da leggersi unitariamente.
17. Sull’importanza di capire il contesto per non sbagliare l’interpretazione si veda ibid., 14, 18 e 24.
18. Inutile ricordare i nomi di Andrea Alciato e Pierio Valeriano e le loro celebri opere, l’Emblematum liber (1531) e gli Hieroglyphica sive de sacris Ægyptiorum aliarumque gentium literis (1556), per il versante degli emblemi, e di Paolo Giovio e il suo Dialogo delle imprese militari e amorose (1555), per quello delle imprese. Ma, ancor prima, occorre ricordare il capostipite di tutti, l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499. Sull’Alciato e sul Valeriano si veda Stéphane Rolet, Entre forgerie et æmulatio: le «tombeau d’Auréolus» dans les Antiquitates mediolanenses d’Alciat et les Hieroglyphica deValeriano, “Albertiana”, V, 2002, 109-140. Sul linguaggio geroglifico alla fine del XVI secolo si veda Isabelle Bouvrande, Les termes zoomorphes de Joseph Boillet. Étude sur le language hiéroglyphique à la fin du XVIe siècle, “Albertiana”, V, 2002, pp. 165-187.
19. Orapollo, Hieroglyphica, I 27 e 67.
20. Anonime, anche se in genere attribuite a Jean Cousin.
21. I due geroglifici che rappresentano dio e i mani, “Quomodo Deum” e “Quomodo Manes”, e le loro rispettive immagini, furono inseriti, assieme ad altri cinque, nell’edizione parigina di Jacques Kerver del 1543 (e poi ripresi in quella curata da Jean Mercier nel 1551, nell’edizione Kerver del 1553 e in quella di Giulio Franceschini del 1599, edita a Roma). Come scrivono Mario Andrea Rigoni ed Elena Zanco nell’edizione degli Hieroglyphica edita da Rizzoli, entrambi i geroglifici e le loro illustrazioni furono probabilmente ispirati a quelli contenuti nell’Hypnerotomachia Poliphili, che compaiono alle pp. 41, 244, 245 (col significato di “deus”) e a p. 262 (con quello di “manes”). Cfr. Orapollo, I geroglifici, introduzione, traduzione e note di Mario Andrea Rigoni e Elena Zanco, testo greco a fronte, Milano, Rizzoli, 1996, 20013, 225-227. Come scrivono ancora i due curatori, “nell’opera di Orapollo all’immagine dell’occhio non vengono mai attribuiti né il significato di ‘divinità’, né quello di ‘giustizia divina’”, ibid., 226, nota 4. È in queste xilografie che compare la figura dell’occhio ‘volante’ sopra un paesaggio di rovine, sormontato da un sopracciglio-ala che è forse il lontano archetipo del successivo occhio ledouxiano (su cui si veda più avanti).
22. Cfr. vv. 375-652.
23. E in questo, scrive l’Alberti, gli Egizi furono imitati da quasi tutti gli altri popoli: “Ad sepulchrum Diogenis Cinici columna erat erecta, in qua ex Pario lapide canem imposuerant. Sepulchrum apud Syracusas Archimedis vetustate neglectum et vepribus obrutum suisque incognitum civibus Arpinas Cicero se invenisse gloriabatur coniectura ex chilindro et spherula, quam vidisset insculptam eminenti quadam in columna. Ad sepulchrum Simandi Ægyptiorum regis sculpta eius erat mater saxo cubitorum viginti, tria regia insignia supra caput gestans, quo ostendebat filiam uxorem et matrem fuisse regis. Sardanapalli Assyriorum regis statuam sepulchro apposuere manus collidentem plausu, atque subscripserant: ‘Tarsum Archileumque condidi die non plus una; at tu, mi hospes, agedum comede et bibe cum festivitate iocoque, quandoquidem cætera, quæ hominum sunt, haudquaquam hoc digna sunt idest plausu’”, Leon Battista Alberti, De re ædificatoria [L’architettura], testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi, Introduzione e note di Paolo Portoghesi, Milano 1966, VIII 4, 697.
24. Sul significato dell’occhio nella cultura occidentale si vedano: Jean-Pierre Vernant, La mort dans les yeux, Paris 1985, trad. it. di Caterina Saletti, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna 1987; L’occhio, il volto. Per un’antropologia dello sguardo, a cura di Francesco Zambon e Fabio Rosa, Trento, Dipartimento di Scienze filologiche e storiche, 1999; Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Milano 1999; Mikel Dufrenne, L’œil et l’oreille, Montreal, l’hexagone, 1987, trad. it. di Claudio Fontana, L’occhio e l’orecchio, a cura di C. Fontana, Milano 2004; Umberto Curi, La forza dello sguardo, Torino 2004.
25. L’occhio e l’ala. Un’interpretazione dell’emblema di Leon Battista Alberti, “Paradosso”, III, n. 8, 1994, 39-91.
26. Explicanda sunt mysteria. L’enigma albertiano dell’occhio alato, in Leon Battista Alberti, Actes du Congrès International de Paris (Sorbonne, Institut de France-Institut culturel italien-Collège de France, 10-15 avril 1995) tenu sous la direction de Francesco Furlan, Pierre Laurens, Sylvain Matton, Édités par Francesco Furlan, avec la collaboration de A. P. Filotico et alii, Paris 2000, 245-304. Saggio che, come tutti quelli che riguardano l’iconologia, si trascina "dietro montagne di note a piè di pagina" (prendendo a prestito l’ironia di Gombrich in Symbolic Images…, cit., p. XXII), e di ciò mi scuso in anticipo con i pazienti lettori.
27. In particolare vorrei segnalare tre nuovi studi sull’impresa albertiana pubblicati in questi ultimi anni: Ulrich Pfisterer, “Soweit die Flügel meines Auges Tragen”. Leon Battista Albertis Imprese und Selbstbildnis, in “Mitteilungen des Kunsthistoriscen Institutes in Florenz”, 1998, 205-251; Gábor Hajnóczi, «Quid tum». L’emblema con occhio alato e il programma per il pittore ideale nel De pictura di Leon Battista Alberti, “Nuova Corvina”, n. 5, 1999, 75-89; Huub van der Linden, Alberti, Quid tum?, and the redemption of Terence in early Renaissance humanism, “Albertiana”, XI-XII, 2008-2009, 83-104. Il primo legge l’occhio alato come occhio del pittore; il secondo punta molto su un’interpretatio cristiana dell’emblema stesso; il terzo individua una possibile fonte del Quid tum in un passo dell’Eunuchus terenziano, riletto nell’ottica escatologica del Giudizio universale. Il motto Quid tum è poi stato scelto da Carlos Antônio Leite Brandão, come titolo del suo libro sull’Alberti: Quid Tum? O combate da arte em Leon Battista Alberti, Belo Horizonte 2000.
28. David Marsh, II. Alberti as Satirist, in Id., Poggio and Alberti. Three Notes, “Rinascimento”, s. II, XXIII, 1983, 189-215: 198-212: 202, nota 3; Id., [Notes], in Leon Battista Alberti, Dinner Pieces. A translation of the Intercenales by D. Marsh, Binghamton & New York, Medieval & Renaissance Texts & Studies in conjunction with The Renaissance Society of America, 1987, 261. Quest’ipotesi è stata da me ampiamente ripresa ed approfondita in L’occhio e l’ala. Un’interpretazione dell’emblema di Leon Battista Alberti, cit., 59-68 e in Explicanda sunt mysteria. L’enigma albertiano dell’occhio alato, cit., 273-279.
29. Guglielmo Gorni, Storia del Certame Coronario, in Rinascimento, s. II, XII, 1972 [ma: 1974], 135-181: 139-140, nota 2.
30. Cfr. D. Marsh, [Notes], cit., p. 261, nota 14, ribadito in Id., “So what?”, (letter to the Editors), “The New York Review of Books”, 12 january, 1995: “The riddle of Alberti’s enigmatic Latin motto Quid tum? (“So what?”) was solved by Guglielmo Gorni in the 1972 issue of Rinascimento. Where previous scholars had desperately sought a model in Latin prose, Gorni recognized it as a poetic citation from Vergil’s Eclogues 10.38: quid tum si fuscus Amyntas? (“What if Amyntas is swarthy?”). Viewed in this context, the motto makes light of Alberti’s illegitimacy”.
31. Anche Ahura Mazda, “colui che vede lontano”, dio supremo, dio del cielo, e rappresentazione divina del sole nelle religioni mesopotamiche, viene rappresentato come un disco con due grandi ali, da cui pendono due riccioli di ‘vaga’ assonanza albertiana.
32. Come si legge nel Libro dei morti: “Io sono Horus che proviene dall’Occhio di Horus”. Simile ad Horus è anche il dio Behedti.
33. Anche Ra’ prende spesso le sembianze del falco, creando una sorta di “doppio” con Horus. Simile a Ra’ è Harachte (il cui nome significa «Horus dell’orizzonte»), dio del sole del mattino, raffigurato anch’esso come un falco. Cfr. Manfred Lurker, Lexicon der Götter und Dämonen, Stuttgart 1989, trad. it. di Antonella Riccio, Grande Dizionario Illustrato. Dèi Angeli Demoni, Edizione italiana a cura di Arij A. Roest Crollius, S.J., Casale Monferrato 1994, s.vv. “Harachte”, p. 236, “Horus”, pp. 251-252 e “Re”, 467 e 469.
34. Per tutte queste notizie sull’occhio mi sono avvalso di L’Egitto antico, a cura di Sergio Pernigotti, Imola, Editrice La Mandragora, 1996, in particolare il capitolo “La religione”, 105-135, a firma di Paola Davoli.
35. Elemento che finora nessuno, tra gli ermeneuti albertiani, è riuscito a interpretare.
36. Si veda, ad esempio, il sarcofago di Khonsumosi conservato al Museo Egizio di Torino (riprodotto in Civiltà degli Egizi. Le credenze religiose, a cura di Anna Maria Donadoni Roveri, Milano 1988, nn. 294, e 298-299), quello di Nesperennub al British Museum (riprodotto in H. van der Linden, Alberti, Quid tum?..., cit., 94, fig. 3.).
37. Si veda il sarcofago di anonimo del British Museum (riprodotto ibid., p. 93, fig. 2). Si veda anche l’amuleto “Œil divin ailé”, riprodotto in George Andrew Reisner, Amulets: n. os. 5218-6000 et 12001-12527, Cairo, Imprimerie de l’Institut Francais d’Archeologie Orientale, 1907, pl. V, n. 5.797 e raffigurato nuovamente in Ph. Dr. François [Frantisek] Lexa [Professeur à l’Université Charles de Prague], La magie dans l’Égypte antique. De l’ancien empire jusqu’à l’époque copte, Tome III: Atlas, Paris, Librairie orientaliste Paul Geuthner, 1925, pl. LXIII, fig. 110.
38. Sui rapporti tra l’emblema albertiano e i geroglifici egiziani si veda, oltre all’ormai classico Karl Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance, besonders der Ehrenpforte Kaisers Maximilian I. Ein Versuch, mit einem Nachwort von Arpad Weixlgärtner, “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten kaiserhauses”, XXXII, n. 1, 1915, 1-234: 36 sgg. (trad. it. Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento. Una ipotesi, edizione italiana a cura di Maurizio Ghelardi e Suzanne Müller, Torino 2004), anche Daniela Picchi, Suggestioni culturali e sopravvivenze iconografiche dell’antico Egitto nella medaglistica italiana del XV e XVI secolo, in Proceedings of the 3RD International Numismatic Congress in Croatia, Pula, October 11th-14th, 2001, Pula, Dobrinic&Dobrinic, MMII, 247-258: 248-249. In generale, sull’influsso dei geroglifici nel XV secolo, si veda Patrizia Castelli, I geroglifici e il mito dell’Egitto nel Rinascimento, Firenze, Editrice Edam, 1979. In altri casi, un’ala è posta parallelamente all’occhio, mentre l’altra perpendicolare, è collocata al di sotto di esso; ma si veda il caso dell’occhio alato dipinto sull’architrave esterno della porta della tomba di Ramesse x (xx Dinastia) nella Valle dei Re, in cui l’ala perpendicolare, pur piegandosi verso il basso, spunta al di sopra dell’occhio.
39. Ipotesi già formulata da K. Giehlow, Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento.., cit., 67.
40. Degli obelischi l’Alberti parla in diversi passi del suo trattato sull’architettura: IV 6, 319; VI 4, 463; VI 6, 473 (sul loro sollevamento e trasporto) VII 16, 653; X 10, 945; ma vi si sofferma un po’ di più per il loro utilizzo come mete del circo: “Metæ autem erant primariæ tris. Earum mediana erat omnium dignissima, eratque quadrangula et procera, sensim graciliscens; eaque re, quod ita graciliscat, obeliscum nuncupabant”, De re ædificatoria, ed. cit., VIII 8, 753.
41. Il che differenzia, ab ovo, dèi e umani: “il “sudore” di dio è un termine che indica il profumo che emana da lui […] caratteristico della presenza di un dio”, Erik Hornung, Der Eine und die Vielen. Ägyptische Gottesvorstellungen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1971, 19904, trad. it. di Donatella Scaiola, Gli dei dell’antico Egitto, Presentazione di Christian Sturtewagen, Roma 1992, p. 133.
42. The Egyptian Coffin Texts, vol. VII: Texts of Spells 787-1115, by Adriaan de Buck, Chicago, The University of Chicago Press, 1961, pp. 464-465, citato ibid.
43. Ibid.
44. Immagine riprodotta in Loredana Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di Sirene antiche, Bologna 2005, n. 24b.
45. Si veda Federica Sacchetti, Charu(n) nella pittura funeraria etrusca, “Ocnus”, Quaderni della Scuola di Specializzazione in Archeologia, VIII, 2000, 127-164: 142 (Catalogo n. 17).
46. Cfr. M. Lurker, Lexicon der Götter und Dämonen, trad. it. cit., p. 129.
47. Sempre nello stesso Museo volterrano (inv. 62) è conservata un’altra urna cineraria in alabastro che raffigura un demone marino armato di spada con due ali munite, ognuna, di un occhio. Probabile allusione a Scilla, svolge lo stesso ruolo di pericoloso custode dei luoghi di passaggio – stretti e 'colonne d’Ercole', ma anche delle regioni dell’ombra – impersonato da Charun. Analoghe ali “occhiute”, ma con significati veterotestamentari, ritornano negli affreschi romanici della chiesa di Santo Stefano a Soleto (LE). Va forse ricordato che la famosa immagine degli occhi riferita ai cherubini di Ezechiele, 10 12 – “E tutto il loro corpo, i loro dorsi, le loro mani, le loro ali e le ruote erano pieni di occhi da ogni parte, per tutti e quattro” –, iniziatrice di una iconografia pittorica sprattutto bizantina, ha probabilmente il significato di “scintillio”, “riflessi brillanti”. Cfr. La Bibbia Concordata. Antico Testamento, tradotta dai testi originali con introduzioni e note a cura della Società Biblica di Ravenna, volume secondo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, 20074, pp. 1159, nota 18 e 1175, nota 12. L’immagine ritorna in Dante, Purgatorio, XXIX, 94-96: “Ognuno era pennuto di sei ali; / le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo, / se fosser vivi, sarebber cotali”.
48. Uno splendido esemplare di occhio apotropaico – l’Alberti l’avrà visto? – è quello raffigurato nel bassorilievo col porto di Roma, proveniente da Ostia, conservato ora a Roma, ma attualmente non visitabile, nella collezione Torlonia. Riprodotto in Ino Chisesi, Dizionario iconografico immaginario di simboli icone miti eroi araldica segni forme allegorie emblemi colori, presentazione di Luigi Russo, Milano 2000, 334.
49. "Sibi enim litteras, quibus tantopere delectaretur, interdum gemmas floridasque atque odoratissimas videri, adeo ut a libris vix posset fame aut somno distrahi; interdum autem litteras ipsas suis sub oculis inglomerari persimiles scorpionibus, ut nihil posset rerum omnium minus quam libros intueri", Leonis Baptistæ de Albertis Vita, in Riccardo Fubini, Anna Menci Gallorini, L’autobiografia di Leon Battista Alberti. Studio e edizione, “Rinascimento”, s. II, XII, 1972 [ma: 1974], cit., 68.
50. “Artus enim debilitatus macritudineque absumptæ vires ac prope totius corporis vigor roburque infractum atque exhaustum, eo deventum est gravissima valitudine, ut lectitanti sibi oculorum illico acies obortis vertiginibus torminibusque defecisse videretur, fragoresque et longa sibila ad inter aures multo resonarent”, ibid., p. 69. I due brani sono letti insieme da Luca Boschetto, che cita a sua volta il Gorni, in Leon Battista Alberti e Firenze. Biografia, Storia, Letteratura, Firenze, 2000, 72, nota 5: “I disturbi visivi di cui è vittima il giovane studente […] possono essere accostati alle allucinazioni descritte in un passo successivo della Vita in cui le lettere dei libri si trasformano ora in “fiori” ora in “scorpioni”, entrambi attributi tradizionali della dialettica; è molto suggestivo comunque riconoscere in questi ultimi anche “la favolosa trasfigurazione degli irti caratteri gotici in cui si presentavano i testi di una cultura” non umanistica (Guglielmo Gorni, Leon Battista Alberti e le lettere dell’alfabeto, “Interpres”, 9, 1989, pp. 257-266: 259)”.
51. “Etenim prædicendis rebus futuris prudentiam doctrinæ et ingenium artibus divinationum coniungebat. Extant eius epistolæ ad Paulum phisicum, in quibus futuros casus patriæ annos integros ante præscripserat; tum et pontificum fortunas, quæ ad annum usque duodecimum essent affuturæ prædixerat, multarumque reliquarum urbium et principum motus ab illo fuisse enunciatos amici et familiares sui memoriæ prodiderunt”, Leonis Baptistæ de Albertis Vita, ed. cit., 76.
52. Giulio Cesare Capaccio, Delle imprese, Napoli 1592, t. I, p. 73 v. Prendo la citazione da G. Innocenti, L’immagine significante, cit., 154. Il motto non sempre semplifica la lettura: cfr. ibid., 155-156.
53. Cfr. Alessandro Parronchi, Leon Battista Alberti as a Painter, “The Burlington Magazine”, CIV, n. 712, July 1962, 280-287; = Leon Battista Alberti pittore, in Id., Studi su la dolce prospettiva, Milano 1964, 437-467, in part. 452-453; Jan Pieper, Un ritratto di Leon Battista Alberti architetto: osservazioni su due capitelli emblematici nel duomo di Pienza, in Leon Battista Alberti, Catalogo della mostra, Mantova, Palazzo Te, 1994, a cura di Joseph Rykwert e Anne Engel, Ivrea-Milano 1994, cit., 54-63.
54. L’unico che sia riuscito ad avvicinarsi all’icasticità dell’immagine dell’Alberti è Lorenzo Lotto. Il suo cartone – e la successiva traduzione lignea – rappresentante il Magnum Chaos, disegnato nel 1524 per le tarsie di legno del Coro della Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo, pur differendo dall’impresa albertiana – vi appare un grande sole fiammeggiante con al centro un inquietante occhio da cui si dipartono due braccia e due piedi, ma rovesciati all’insù – riesce a stare alla pari, per potenza di immagine, con l’occhio alato albertiano.
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English abstract
The book L'occhio alato. Migrazioni di un simbolo (The winded eye. Migration of a symbol), by Alberto Giorgio Cassani, published by Nino Aragno in 2014, contains a series of studies, some of which have already been published, which start with the essay dedicated to the interpretation of the “winged eye”, the emblem of Leon Battista Alberti, which was presented by Alberto Giorgio Cassani at the important Conference on Alberti in Paris (1995). Since then, the author has continued to work on this symbol, trying to retrace the critical acclaim, both within high culture (Dosso Dossi, D'Annunzio and Tomaso Buzzi) and that of popular culture (psychedelic art and comics, particularly Japanese), with a perspective on the research that Aby Warburg devoted to some images of the past, such as the Nymph, which he pursued in her migration from Antiquity up to the twentieth century. The text is introduced with an essay dedicated to images of the solar eye by Massimo Cacciari, a longtime scholar of Alberti’s philosophical thought.
To cite this article: A. G. Cassani, “Quid tum?”. Presentazione del volume L’occhio alato. Migrazioni di un simbolo, “La Rivista di Engramma” n. 116, maggio 2014, pp. 66-86 | PDF of the article