Le concezioni estetiche di Baldassarre Castiglione e la Cappella nel Santuario di Santa Maria delle Grazie
Ugo Bazzotti, Amedeo Belluzzi
English abstract
Nel Libro del Cortegiano il più diretto riferimento all'architettura è inserito nel discorso di Pietro Bembo sulla bellezza. Questo concetto, in accordo con le teorie neoplatoniche, è proiettato in una dimensione metafisica; "da Dio nasce la bellezza ed è come circulo, di cui la bontà è il centro; e però come non po essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà"[1].
Ma nel pensiero di Castiglione la definizione neoplatonica della bellezza si sovrappone ad un'interpretazione sostanzialmente fenomenica, che emerge anche nelle parole di Bembo. La verifica dell'intimo legame tra utilità e grazia nelle creature divine e nelle arti umane si basa su considerazioni funzionaliste. "Sostengon le colonne e gli architravi le alte logge e palazzi, né però son meno piacevoli agli occhi di chi le mira". L'identificazione dei due termini è tale da superare l'esaurirsi delle funzioni originarie e non richiede necessariamente il soddisfacimento di esigenze pratiche.
"Quando prima cominciarono gli omini a edificare, posero nei tempii e nelle case quel colmo di mezzo, non perché avessero gli edifici più di grazia, ma acciò che dall'una parte e l'altra commodamente potessero discorrer l'acque; nientedimeno all'utile subito fu congiunta la venustà, talché se sotto a quel cielo ove non cade grandine o pioggia si fabricasse un tempio, non parrebbe che senza il colmo aver potesse dignità o bellezza alcuna"[2]
Un riscontro puntuale si trova in quel brano della Memoria a Leone X in cui le critiche all'architettura "tedescha" e in particolare all'arco acuto prendono spunto da valutazioni di ordine statico, e la connessione tra la "grazia" dell'arco a tutto sesto e la "perffectione del circulo" è manifestata dalla gradevole sensazione visiva [3]]. L'immagine neoplatonica della "machina del mondo", presentata come "nobile e gran pittura", "per man della natura e di Dio composta"[4], è utilizzata per affermare la dignità delle arti imitative, e l'interpretazione del concetto d'imitazione è sostanzialmente aristotelica. Secondo Platone, Plotino e i Neoplatonici, il passaggio dall'unità alla molteplicità è una trasformazione di segno negativo e l'imitazione deve concentrarsi su di un unico modello sino ad identificarsi con esso. Coerente con quest'impostazione è l'invito di Bembo ad elevare la mente dalle bellezze particolari "alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si spande"[5]. Ma all'inizio della medesima esposizione compaiono attributi della bellezza, come "bona proporzione" o "gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall'ombre", che richiamano piuttosto la definizione albertiana di concinnitas.
Dal complesso dell'opera emerge con sufficiente chiarezza la propensione di Castiglione per l'imitazione selettiva di vari modelli."E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, così il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parer à che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole"[6]. Il paragone dell'ape, risalente alla tradizione classica, trova una significativa applicazione nel problema cruciale della lingua. Il Cortegiano non deve scegliere come unico termine di riferimento il Toscano, ma raccogliere " parole splendide ed eleganti d'ogni parte dell'Italia" e persino i vocaboli "franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati"[7]. L'imitazione di vari modelli, già sostenuta da Alberti, è teorizzata nella poetica di Raffaello, ed è riconosciuta dalla critica – a cominciare da Vasari – come il principio compositivo delle sue opere. Nel dialogo di Castiglione il confronto tra pittura e scultura si risolve nell'affermazione del carattere "artificioso" del procedimento artistico.La scultura realizza opere che riproducono la tridimensionalità degli oggetti reali, ma la pittura, pur essendo limitata ad una superficie bidimensionale, può imitare, con un più elevato grado di astrazione, un numero maggiore di aspetti, "e massimamente i lumi e l'ombre", lo scultore
"non po mostrare il color de'capegli flavi, non lo splendor dell'arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que' lampi e saette, non lo incendio d'una città, non il nascere dell'aurora di color di rose, con quei raggi d'oro e di porpora; non po insomma mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, città nè case; il che tutto fa il pittore"[8].
In qualche circostanza – come nella descrizione della scenografia per la rappresentazione della Calandria a Urbino – Castiglione sembra insistere sul mimetismo iconico di alcune soluzioni ma in realtà egli si propone di "adornar la verità", di perfezionare la bellezza naturale. L'importanza attribuita all'interpretazione dei dati fenomenici emerge dalla considerazione che le opere di Leonardo, Mantegna, Raffaello, Michelangelo, Giorgione, pur essendo dissimili, risultano "perfettissime" rispetto allo 'stile' di ciascuno. La bellezza non è un dato univoco, e può concretizzarsi in forme diverse.
Il termine 'idea' non compare nelle riflessioni sull'arte e sul linguaggio, ma questo concetto è sotteso al disegno dell'intera opera. Castiglione si propone d'illustrare l'idea del perfetto cortegiano, e tale procedimento è confrontabile con la descrizione della genesi dell'esperienza artistica proposta da Raffaello. L'idea non è un'entità metafisica e nasce dalla selezione dei fenomeni naturali, nel tentativo di raggiungere un livello superiore di bellezza, ma non appare esplicitamente la coscienza del contributo individuale alla costruzione di questa immagine. Come osserva Panofsky, l'idea"si presenta in qualche modo alla mente, ma l'artista non sa né vuol sapere quale sia poi la sua validità e la sua verità. A chi gli avesse chiesto d'onde gli venisse, egli non avrebbe contestato che la somma delle esperienze sensibili si fosse in qualche modo trasformata in intima immagine spirituale... ma anche qui la sua risposta ultima sarebbe stata: lo non so"[9]. "L'idea non è ancora un'immagine interna, ma un criterio quasi istintivo di scelta"[10]].
Come il mondo naturale, anche gli esempi antichi non costituiscono un termine di riferimento oggettivo. A proposito del linguaggio si sostiene apertamente la necessità di "formar nove parole", imitando non tanto i risultati degli autori del passato, quanto la loro capacità inventiva [11]. La trasposizione di un concetto da una disciplina all'altra è un espediente critico che trova nel Cortegiano valide giustificazioni nella varietà degli esempi che accompagnano ogni tesi e le risonanze tra letteratura ed arte sono prefigurate dallo stesso autore che presenta il proprio libro "come un ritratto di pittura della corte d'Urbino"[12]. Non appare quindi casuale la corrispondenza tra l'affermazione, riferita ancora al linguaggio, che"gran miseria saria metter fine e non passar più avanti di quello che si abbia fatto"[13] e il proposito, inserito nella Memoria a Leone X, di "aguagliare" e "superare" gli antichi. Il mondo artistico che ruota attorno alla figura di Raffaello compie una sistematica verifica delle fonti antiche – dalle riflessioni teoriche ai ruderi dei monumenti arrivando alla conclusione che gli spunti forniti dall'antichità sono preziosi, ma insufficienti a indirizzare con sicurezza il fare artistico.
Per ottenere la 'grazia' occorre che il complesso procedimento compositivo sia dissimulato, "perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia"[14]. Rientra nell' "affettazione" l'eccessiva diligenza di pittori, come Protogene, incapaci di staccare le mani dal quadro al momento opportuno. "Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di penello tirato facilmente, di modo che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenza dell'artefice"[15].
Come osserva Carlo Ossola, per Castiglione l'affettazione non è tanto "eccessivo ordine e studio", quanto uno 'sforzare' "un tirar per i capegli", mentre nelle teorie artistiche della metà del '500 l'affettazione diventa acritica applicazione delle norme compositive e la "sprezzatura" è lo scarto rispetto al codice consolidato[16]. Negli atteggiamenti del Cortegiano la sprezzatura da' l'impressione della spontaneità mentre è frutto di "arte" e "studio", ha uno scopo persuasivo, come nei discorsi degli oratori, che riescono a convincere con un'apparente facilità, proprio quelli che temono di essere ingannati. In questi casi l'artificio deve rimanere nascosto, e quando la difficoltà di un problema è evidente, la disinvoltura nel trovare una soluzione deve apparire un dono naturale, destando "l'opinione che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio"[17]]. Solo le maschere e i travestimenti manifestano l'inganno, ed in questi casi il piacere del gioco consiste proprio nel contrasto tra l'apparenza e la realtà.
L'artificio – per lo meno quello mimetico – è invece evidente nelle opere d 'arte, che possono raggiungere soltanto una relativa verosimiglianza. Si continuano a ripetere aneddoti come quello degli uccelli che beccano l'uva dipinta, ma la consapevolezza dell'artificiosità dell'arte sta alla base delle valutazioni critiche, come conferma l'andamento del dialogo sulla supremazia tra le varie discipline. Anche nella lettera di Castiglione sull'allestimento della Calandria l'apprezzamento della scenografia deriva dalla capacità di riprodurre con la pittura ed il rilievo l'immagine di un luogo urbano, e la verosimiglianza dipende da una sorta di complicità tra lo spettatore e l'artista[18]. Corrisponde ai requisiti della "sprezzatura cortegiana" l'apparente facilità con cui Giulio Romano riesce a risolvere in alcune opere i complessi problemi derivanti dai condizionamenti di strutture preesistenti[19]; mentre non trova riscontro nelle riflessioni teoriche di Castiglione la maggiore importanza che assume progressivamente nell'attività artistica di Raffaello e Giulio Romano la ricostruzione dell'iter progettuale da parte dello spettatore e il consolidarsi di un livello percettivo che va oltre l'impressione iniziale. Ma solo qualche decennio più tardi la trattatistica registra lo spostamento della fonte del piacere estetico dalla contemplazione del risultato finale all'apprezzamento delle virtuosistiche tecniche compositive.
Secondo Castiglione il riferimento più sicuro per l'invenzione e per il giudizio critico non è costituito dalla natura, dall'antichità o dall'idea, ma dalla "consuetudine". Il termine è chiarito nella trattazione del linguaggio:
"la bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienza s'hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per giudicio naturale e non per arte o regula alcuna"[20].
Anche l'autorità dei maestri ha una validità relativa perché il giudizio ultimo sfugge alle capacità critiche dell'individuo e deve essere affidato all'intuizione impersonale della "commun opinione". "L'uso più che la ragione ha forza d'introdur cose nove tra no i e cancellar l'antiche"[21], ed è significativo che la "moltitudine" non utilizzi le capacità intellettive ma le sensazioni, per cui percepisce "un certo odore del bene e del male" e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama e l'altro rifiuta ed odia"[22].
Le concezioni estetiche di Castiglione presuppongono l'esistenza di leggi aventi validità generale, strettamente legate alla prassi.
"Non sapete voi che le figure del parlare, le quali danno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni delle regule grammaticali, ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell'orecchia par che portino suavità e dolcezza?"[23].
L'arte e il linguaggio si trasformano continuamente, come si trasforma la natura con il passare delle stagioni, e non si stabilisce quindi un'antitesi tra la rigidità della norma e la varietà delle "licenze". La flessibilità della concezione è confermata dalle osservazioni sul rapporto tra il segno e ciò che denota. L'ammonimento a non dividere "'l suco delle belle sentenzie" dalle parole, perché sarebbe come "divider l'anima dal corpo: la qual cosa né nell'uno né nell'altro senza distruzione far si po"[24], non contraddice l'apprezzamento per quelle invenzioni linguistiche che utilizzano "alcune parole in altra significazione che la lor propria e, trasportandole a proposito, quasi le (inseriscono) come rampollo d'albero in più felice tronco, per farle più vaghe e belle"[25].
Il gioco concettuale delle metafore avviene all'interno del campo di possibilità delimitato dal legame tra le "parole" e le "cose", avendo piena consapevolezza del fatto che il superamento di questa soglia "non senza distruzione far si po". Questa consapevolezza sta alla base dell'esperienza artistica di Giulio Romano, che sviluppa le sperimentazioni linguistiche di Raffaello mettendo in evidenza contraddizioni e limiti del Classicismo, ma senza negarne i principi fondamentali.
Nel Libro del Cortegiano uno degli attributi essenziali delle attività artistiche è la facoltà di trasmettere nel tempo la memoria di personaggi e avvenimenti. La discussione sulla superiorità della pittura o della scultura assegna notevole importanza alla durata delle opere, "essendo fatte per memoria"[26]. Quanto all'architettura, la costruzione di "magni edifici" apporta onore immediato al committente e conserva il ricordo del suo nome dopo la morte. Anche la più importante iniziativa edilizia di Castiglione – la cappella nel Santuario di Santa Maria delle Grazie, con il sepolcro per sé e per la moglie – ha una finalità essenzialmente testimoniale. L'aspirazione alla gloria terrena si misura, nel pensiero di Castiglione, con la dottrina cristiana, e questa duplice intenzionalità si riflette nello spazio sepolcrale, destinato da un lato a commemorare la fama del defunto, dall'altro ad anticipare la sua salvezza spirituale.
La volontà di realizzare la cappella viene manifestata da Castiglione nel proprio testamento, redatto nel 1523, prima di partecipare ad una campagna militare al seguito di Federico Gonzaga[27]. Come risulta chiaramente nella violenta polemica contro Alfonso di Valdés, Castiglione non condivide le critiche di Lutero alla magnificenza della chiesa, giudica opportuno il culto delle reliquie dei santi "non per rispetto di esse medesime, ma per quello che rappresentano", e pensa che la divina Maestà "si contenta ancora di quelli che adornano le sue chiese, le croci, le reliquie ed immagini de' suoi santi, e che offeriscono denari per riparare i tempi e gli altari in segno di obedienza e di divozione"[28].
La scelta del Santuario delle Grazie a Curtatone, anziché della chiesa mantovana di S. Agnese – dov'erano sepolti gli altri familiari, compresa la moglie, morta nel 1520 in giovanissima età – non è motivata esplicitamente, ma può essere interpretata come un voto alla Madonna, se si ricorda che Castiglione si appresta ad accompagnare il Marchese di Mantova in una spedizione contro i Francesi e che Federico Gonzaga proprio in questo santuario aveva portato trofei militari dopo la vittoriosa battaglia di Pavia [29]
La realizzazione del monumento avviene probabilmente nel periodo compreso tra la morte di Castiglione, nel febbraio 1529, e la traslazione della sua salma dalla Spagna all'Italia nel giugno 1530. Le fonti più antiche sono concordi nell'attribuire l'iniziativa della costruzione della cappella all'esecutrice testamentaria Luigia Gonzaga, nel periodo immediatamente successivo alla morte del figlio, e ciò è confermato anche dall'epigrafe[30].
Il testamento affida la decorazione della cappella e la progettazione del sepolcro a "Julius Romanus pictor"[31] e quest'attribuzione, pur non essendo confermata da altri documenti, è unanimemente accolta dai biografi di Castiglione e dalle guide artistiche locali. Appare quindi sorprendente che l'opera, dopo la breve analisi fatta nel secolo scorso da Carlo D'Arco, sia stata ignorata dai maggiori studiosi contemporanei di Giulio Romano[32]. Nel testamento si distingue la "decorazione" della cappella, che deve essere assegnata dai frati del santuario, e la "costruzione" del sepolcro, ma l'analisi del processo costruttivo della chiesa di Santa Maria delle Grazie – con la realizzazione scaglionata nel tempo di cappelle diverse una dall'altra, ottenute aprendo il muro perimetrale dell'unica navata – rende verosimile l'ipotesi che l'intero ambiente sia realizzato ex-novo, come indica d'altra parte la concordanza tra decorazioni e struttura architettonica[33].
Il tipo edilizio della cappella funebre a pianta quadrata ha come esempi emergenti durante la prima parte del '500 la cappella Chigi in S. Maria del Popolo a Roma, la Sagrestia Nuova di S. Lorenzo a Firenze e, in ambiente mantovano, la cappella di Mantegna in S. Andrea. Risalendo nel tempo si possono individuare come prototipi, nel Classicismo fiorentino quattrocentesco, la cappella del Cardinale del Portogallo e la Sagrestia Vecchia di S. Lorenzo. Si tratta di uno dei campi in cui può concretizzarsi con maggiore frequenza l'immagine umanistica dell'edificio sacro a pianta centralizzata, in accordo con l'interpretazione albertiana della cappella funebre come tempio in miniatura. Nella cappella Castiglioni lo spazio centrale si espande oltre il contorno quadrato e scava nelle pareti profondi arconi, secondo uno schema, già introdotto a San Miniato, che John Shearman definisce "an endless sequence of triumphal arches"[34]. L'opera di Giulio Romano si distingue per la sovrapposizione al vano cubico di una copertura a crociera con archi scemi. Le nervature, impostate su alte colonne, individuano due assi diagonali che intersecano gli assi d'espansione dell'ambiente centrale, introducendo nell'impostazione statica di un impianto centralizzato una tensione dinamica. La complessa soluzione d'angolo, con le quattro colonne tangenti alle superfici laterali, interrompe la sequenza degli arconi e capovolge la scelta compiuta da Raffaello nella cappella Chigi, dove gli angoli smussati e le nicchie favoriscono il graduale passaggio da un lato all'altro.
La sepultura a parete, utilizzata di frequente in epoca gotica e tradotta nel linguaggio classico da Bernardo Rossellino, viene reinventata da Giulio Romano. Permane la struttura portante dell'arco a tutto sesto, ma il sarcofago, anziché svolgere le funzioni di lit de parade, su cui posa l'immagine del defunto, acquista un eccezionale ed autonomo rilievo[35]. Il profilo curvilineo, estremamente elaborato, è messo in evidenza dal contrasto di colore con lo sfondo e particolarmente efficace appare la soluzione di cingere l'intero sarcofago con due larghe fasce che sembrano stringere le modanature orizzontali.
Due robusti pilastri, su i quali sono incise le epigrafi, fiancheggiano il sarcofago e sostengono l'architrave, su cui poggia una piramide a gradoni, coronata dalla statua del Redentore. La piramide entra a far parte dell'iconografia del Classicismo cinquecentesco grazie alla mediazione degli esempi romani: la piramide di Caio Cestio, detta anche Meta Remi, e la Meta Romuli, distrutta all'inizio del secolo, come si ricorda con accenti polemici nella Memoria a Leone X. La più nota applicazione di questo tema è nella cappella di S. Maria del Popolo, ma Shearman fa rilevare che nel monumento ad Agostino Chigi si realizza un'ibrida combinazione di piramide ed obelisco. Il tipo specifico della piramide a gradoni appare in genere ricollegato all'immagine del Mausoleo di Alicarnasso, come nel caso del disegno di Antonio da Sangallo il Giovane conservato agli Uffizi, e tra le rare applicazioni si possono citare un progetto di Peruzzi per gli apparati in occasione dell'ingresso di Carlo V a Roma ed il monumento funebre Contarini nella chiesa del Santo a Padova, attribuito a Sanmicheli e realizzato attorno alla metà del secolo[36].
Nell'ambiente mantovano è emerso un precedente importante, sino ad oggi trascurato, costituito dall'apparato funebre per Francesco II, risalente al 1519[37]. Si tratta di un vero e proprio catafalco, di grandi dimensioni, costituito da una 'pergola' con tre colonne su ogni lato a sorreggere il timpano, e da una struttura piramidale a sette gradoni con il sarcofago e l'immagine del Marchese. Le figure sedute su ogni ripiano mostrano le insegne degli stati per i quali Francesco Gonzaga ha combattuto e celebrano quindi la sua gloria terrena, mentre l'immagine del Signore di Mantova, alla sommità di questa sorta di 'montagna sacra', appare proiettata in una dimensione ultraterrena.
Il monumento a Castiglione si differenzia da questo modello per un più esplicito richiamo al Mausoleo di Alicarnasso, dato che la piramide a gradoni è innalzata su di un alto basamento, ma rispetto al mitico prototipo, descritto e rappresentato con numerose varianti dagli artisti cinquecenteschi, viene a mancare il colonnato inferiore, sostituito da i pilastri con le iscrizioni.
Nel discorso sulla supremazia tra le arti, è inserita l'osservazione che, nonostante "diversa sia la pittura dalla statuaria, pur l'una e l'altra da un medesimo fonte, che è il bon disegno, nasce"[38]. La parziale anticipazione della famosa definizione di Vasari a proposito delle "arti del disegno", è una chiave di lettura adeguata al metodo compositivo di Giulio Romano. Della cappella Castiglioni è nota una sola testimonianza grafica – il disegno per la pala d'altare conservato a Weimar[39] – ma è sufficiente per confermare la scelta di Giulio Romano di esercitare un diretto controllo sul disegno di ogni elemento affidandone l'esecuzione ai collaboratori. Mentre nella cappella del Cardinale del Portogallo si punta sull'autonomia delle singole manifestazioni artistiche, affidate ad operatori diversi, in quella Castiglioni viene messo in evidenza il comune denominatore delle varie discipline ed il valore dell'opera si sposta dalla fase di esecuzione a quella progettuale, monopolizzata da Giulio Romano. La supremazia mimetica dell'artificio pittorico, dimostrata teoricamente nel Cortegiano, trova una piena verifica negli affreschi del Santuario delle Grazie. La pittura apre lo spazio ristretto della cappella sull'ambiente esterno e si sostituisce alle altre arti imitando il rilievo degli stucchi e dell'architettura. Ma la distinzione netta tra l'una e l'altra disciplina è messa in dubbio nella statua del Redentore per l'appiattirsi del manto contro la superficie della parete, sino ad identificarsi con l'immagine pittorica. Anche la struttura architettonica del monumento è sottoposta ad artifici compositivi per dare l’impressione visiva della profondità, nonostante il ristrettissimo spazio a disposizione, e in particolare per rendere il digradare della piramide. Come la pittura, l'architettura si trasforma in un'apparenza illusoria e utilizza gli strumenti della prospettiva per "far parer... quello che non è"[40].
Il confronto tra natura e artefice, essenziale per chiarire il meccanismo del processo imitativo, può essere compiuto nella volta, dove i girali vegetali e le foglie che spuntano dall'imposta delle nervature s'insinuano tra i contorni di una complessa figura geometrica, generata dall'intersezione di cinque ottagoni. Questo schema geometrico, tipico di Giulio Romano, compare nella sala dei Venti di palazzo Te e successivamente nella volta della basilica di S. Benedetto in Polirone. Anche l'accostamento di elementi vegetali e di figure regolari è presente in alcune sale del Te, ad esempio in quella di Psiche. Nella volta della Cappella Castiglioni la contrapposizione appare ancora più evidente, ma natura e geometria sono proiettate sulla superficie astratta della pittura, mediate dall'artificio rappresentativo dell'artista. Anche se la trattatistica non pone ancora esplicitamente la distinzione tra natura naturata e natura naturans, nel metodo compositivo di Giulio Romano si può già riconoscere il passaggio dall'imitazione selettiva dei dati fenomenici all’imitazione dell'attività creativa della natura. L'unione di fattori apparentemente o realmente in opposizione è apprezzata da Castiglione che auspica "una certa mediocrità difficile e quasi composta di cose contrarie, e giugner a certi termini apunto, ma non passargli"[41].
Quest'affermazione è in sintonia con l'esperienza culturale di Giulio Romano, che verifica tutte le potenzialità compositive del linguaggio classico, senza oltrepassare un 'termine' non ancora rigidamente codificato. Una conferma viene dalla più clamorosa 'licenza' inserita nella cappella Castiglioni.
L'ordine architettonico è ridotto a un simulacro: le colonne fingono un compito strutturale di fatto svolto dalla muratura, i rapporti proporzionali, anziché modellarsi sulle prescrizioni di Vitruvio, si adeguano allo spazio disponibile, la trabeazione non prosegue sulle pareti di fondo. Ma tutti questi fattori non sono immediatamente evidenti e lo scarto rispetto alla norma è rimandato al confronto tra due diversi livelli di percezione. D'altra parte il carattere 'ornamentale' dell'ordine architettonico è affermato esplicitamente da Alberti, e Giulio Romano trae le conseguenze implicite in quest'affermazione limitandosi ad utilizzare la sequenza base-colonna-capitello-frammento di trabeazione, al di fuori da ogni logica strutturale. Ma non introduce varianti 'interne', né trasforma l'architettura in un'accumulazione di elementi disarticolati, come avviene in alcune opere della seconda metà del '500.
Il programma iconografico della cappella Castiglioni può essere analizzato scegliendo come parametro interpretativo i Trionfi di Petrarca. Non s'intende stabilire una corrispondenza diretta tra i due fenomeni, ma far risaltare il problema del rapporto tra valori terreni e salvezza cristiana, impostato nell'opera di Petrarca e ancora vivo nei primi decenni del Cinquecento[42]. L'amore è celebrato nei versi che Castiglione dedica alla moglie[43]. La volontà di riunire le ossa in un unico sarcofago rimanda all' immagine del Mausoleo di Alicarnasso come testimonianza dell'amore tra Mausolo ed Artemisia, secondo un'interpretazione accolta da Pirro Ligorio ed illustrata da Marten van Heemskerck[44]. Il Trionfo della castità sull'amore, descritto in termini neoplatonici da Pietro Bembo in un brano del Cortegiano, trova un riscontro biografico nella scelta della vita ecclesiastica da parte di Castiglione dopo la morte della moglie, e l'epigrafe dettata da Bembo ricorda la nomina a vescovo di Avila per volontà di Carlo V.
Il trionfo della morte non è descritto con quel repertorio macabro – diffuso in alcune regioni europee come la Francia – che esprime l'orrore per la dissoluzione del corpo[45].Non compaiono nemmeno temi isolati, come le parti dello scheletro inserite nell'apparato funebre di Francesco II, e solo il monumentale sarcofago, originale reinvenzione di un modello classico, ricorda ciò che nel testamento Castiglione definisce come il distacco dell'anima dal corpo.
Anche il trionfo della fama non trova un'esplicita rappresentazione, e a questo proposito Alberto Tenenti osserva che "i miti umanistici si rivelarono assai infecondi in campo iconografico"[46]. La gloria terrena di Castiglione è sintetizzata nell'epigrafe di Bembo, che cita nell'ordine l'attività del letterato, del capitano militare, del diplomatico, e del religioso[47]. La fama si prolunga oltre la morte ed è convalidata dal tempo che, secondo Castiglione, "d'ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia"[48]. Il concetto, risalente all'antichità classica, del tempo rivelatore della verità, applicato alla gloria terrena porta alla conclusione, già espressa da Petrarca, che anche la fama può venire solo dopo la morte. Ma il tempo, oltre ad essere rivelatore, è anche distruttore, per cui "al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale"[49]. Questo concetto viene sviluppato da Castiglione in una composizione poetica in cui, dopo aver descritto le “"acre ruine" di Roma, conclude: "così, se ben un tempo al tempo guerra/ fanno l'opre famose, a passo lento/ e l'opre e i nomi il tempo invido atterra"[50].
Nella Memoria a Leone X la progressiva distruzione delle antichità romane è analizzata storicamente e vengono indicati nei barbari e nella negligenza di alcuni Pontefici gli strumenti e gli alleati del tempo, "invidioso della gloria delli mortali". Ma la constatazione della caducità delle opere umane è anche lo stimolo alla conoscenza e al restauro di quei monumenti "che per vero argumento si possono infallibilmente ridurre nel termine proprio, come stavano, facendo quelli membri che sono in tutto ruinati, ne si veggono punto, conrespondenti a quelli che restano in piedi; e che si veggono"[51].
Il tema dominante nel programma iconografico della cappella Castiglioni è il trionfo dell'eternità sul tempo, rappresentato dalla sovrapposizione della piramide al sarcofago. I sette ripiani, tradizionalmente connessi ad una simbologia cosmica, stabiliscono un legame tra terra e cielo[52]. L'ascesa all'empireo della mitologia pagana è re interpretata in chiave cristiana facendo uso di concetti platonici o neoplatonici. Mentre il monumento padovano di Benavides "rappresenta in nuce un'apoteosi profana-secolare"[53]], che attribuisce una connotazione eterna alla gloria terrena, il monumento a Castiglione prevede l'immortalità solo in una dimensione ultraterrena. Facendo riferimento a Platone, Valeriano interpreta la piramide come simbolo dell'anima e del fuoco[54]]. La connessione dei due temi si ritrova in quel brano del Cortegiano in cui si parla del "foco santissimo (che) nelle anime distrugge e consuma ciò che v'è di mortale e vivifica e fa bella quella parte celeste, che in esse prima era dal senso mortificata e sepulta"[55]. Le parole di Bembo riflettono le teorie neoplatoniche, secondo le quali il corpo "vile e corruttibile" offusca la bellezza dell'anima, per cui solo la morte può consentire all'anima di acquisire la perfezione. Ma questa è solo una delle posizioni espresse nel Cortegiano e il problema, come molti altri, rimane aperto.
Alla sommità della piramide e sullo sfondo di un paesaggio desolato – dove alberi spogli e spezzati raffigurano un attributo tipico del tempo distruttore[56]– la statua di Cristo risorto rappresenta il mezzo per aprire all'uomo la via dell'immortalità. La coerenza tematica del monumento e delle decorazioni murarie si estende alla pala d'altare dedicata alla Madonna, tradizionale mediatrice tra la dimensione terrena e quella celeste, per cui si realizza una piena unitarietà tra gli elementi costitutivi della cappella[57]. L'ascesa prosegue sino alla volta, dove le immagini della Resurrezione e di episodi successivi[[58];s'inseriscono tra i profili di apostoli e santi, delineati con gusto antiquario,come se fossero tratti da monete antiche. Questa sorta di apoteosi, che ha inizio dal sarcofago, si conclude nello spazio ultraterreno del soffitto dove compare, in un'apertura illusionistica al centro della volta, la colomba dello Spirito Santo.
Il programma iconografico della cappella, centrato sul conseguimento dell'immortalità mediante la salvezza dell'anima, sintetizza in termini riduttivi la complessa posizione di Castiglione sull'argomento. Egli non aderisce alla visione 'laica' di Alberti[59]– che prescinde da concetti cristiani e definisce la morte come una liberazione dagli inganni della vita – ma l'importanza fondamentale attribuita al trionfo dell'immortalità sul tempo non lascia spazio adeguato ai "turbamenti", agli "affanni", all'"acerbo dolore" manifestato da Castiglione per la morte di familiari ed amici, alla "dolcezza delle lettere" e alla "grandezza della gloria così lungamente da esse conservata"[60], al senso di amarezza unito alla constatazione che le cose umane sono mortali.
Note
*Riedizione del contributo già pubblicato in: Convegno di Studio su Baldassarre Castiglione nel quinto centenario della nascita (Mantova 7-8 ottobre 1978), Accademia Virgiliana di Mantova, Mantova 1980, pp. 117-136.
[1] B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, a cura di E. Bonora, Milano, 1972, libro 4, capitolo LVII, p. 335. La coincidenza di pulchrum e bonum fa della "bellezza estrinseca" un "vero segno della bontà intrinseca". Tale relazione, immediatamente esemplificata nei corpi umani, nel mondo animale e vegetale, informa anche l'analisi storica, al punto che la "connessione tra sviluppo etico-sociale di un popolo e livello della sua produzione culturale", costituisce, come osservano Pinelli e Rossi, il nucleo ideologico della lettera a Leone X" (A. Pionelli, O. Rossi, Genga architetto, Roma, 1971, p. 174).
[2] B. Castiglione, op. cit., 1972, 4, LVIII, p. 337.
[3] Memoria a Leone X, in S. Ray, Raffaello architetto, Bari, 1974, p. 336.
[4] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XLIX, p. 94.
[5] Ibid., 4, LXVII, p. 345. Il dibattito tra Pietro Bembo e Gianfrancesco Pico sull'imitazione di uno o più modelli è analizzato da E. Battisti, Il concetto d'imitazione nel Cinquecento italiano, in "Rinascimento e Barocco", Torino, 1960.
[6] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XXVI, p. 61.
[7] Ibid., 1, XXXIV, p. 73.
[8]Ibid., 1, LI, p. 96.
[9] E. Panofsky, Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Leipzig 1924, trad. it., Idea. Contributo alla storia dell'Estetica, Firenze, 1973, pp. 44-45.
[10] E. Battisti, op. cit., 1960, p. 182.
[11] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XXXIV, p. 74.
[12] Ibid., Dedica a Don Michel de Silva, I, p. 25.
[13] Ibid., l, XXXVII, p. 79.
[14] lbid., l, XXVI, p. 62.
[15] lbid., l, XXVIII, p. 65.
[16] C. Ossola, L'Autunno del Rinascimento, Firenze, 1971, p. 125.
[17] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XXVIII, p. 65.
[18] "La terra che vedete qui è Roma. La quale già esser soleva sì ampia, sì spaziosa, sì grande che, trionfando, molte città e paesi e fiumi largamente in se stessa riceveva; ed ora è sì piccola diventata che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. Così va il mondo". Nell'ammiccante ironia della frase con cui il Bibbiena introduce l'azione scenica della Calandria, invitando gli spettatori a scambiare la finzione con la realtà, è compendiato il sottile rapporto che si stabilisce nello spettacolo umanistico tra l'autore e il suo pubblico... (A. Pinelli, O. Rossi, op. cit., 1971, p. 113).
[19] Analoghe considerazioni sono svolte da Williamson a proposito dell'apparente facilità dell'operare di Raffaello e della sua abilità nel superare i condizionamenti delle preesistenze, come nelle Stanze Vaticane; è significativo il fatto che Michelangelo non consideri l'arte di Raffaello un dono di natura, ma il frutto di un lungo studio (E. Williamson, The Concept of Grace in the Work of Raphael and Castiglione, in "Italica". 1947, n. 4, pp. 318, 320). Il più recente studio sui rapporti di Castiglione con il mondo artistico è di P. Carpeggiani, Baldassarre Castiglione, l'arte e gli artisti, in "Baldassarre Castiglione", Marcaria (Mantova), 1978.
[20] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XXXV, p. 75.
[21] lbid., 1, I, pp. 31-32.
[22] lbid., Dedica a Don Michel de Silva, III, p. 29. Bembo sostiene invece, nelle Prose della Volgar Lingua, che la fama non è determinata dal giudizio della moltitudine, ma da "pochissimi uomini di ciascun secolo", più colti degli altri (E. Battisti, op. cit., 1960).
[23] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XXXV, p. 75.
[24] Ibid., 1, XXX, p. 72.
[25] lbid., 1, XXXIV, p. 74.
[26] Ma la valutazione decisiva riguarda la funzione ornamentale dell’arte e finisce per capovolgere la graduatoria stabilita in base al parametro precedente (B. Castiglione, op. cit., 1972, l, L, p. 94).
[27] Il documento, del 16 settembre 1523, è stato pubblicato da V. Cian, Nel mondo di Baldassarre Castiglioni, in "Archivio Storico Lombardo", 1942, fasc. 1-4, pp. 84-87.
[28] B. Castiglione, Risposta al Valdés, in II Libro del Cortegiano con una scelta delle opere minori, a cura di B. Maier, Torino, 1964, p. 663.
[29] Si può inoltre rilevare che il santuario delle Grazie era stato realizzato, alla fine del '300, in segno di riconoscenza per l'esaurirsi di una pestilenza, e che Castiglione corre gravi rischi di contagio durante questi anni in cui è costretto a risiedere prevalentemente a Roma. In una lettera del 1520, immediatamente successiva alla morte della moglie, Castiglione aveva anticipato la decisione di essere sepolto assieme ad Ippolita Torelli, ma nella cappella di famiglia, nella chiesa di Sant'Agnese: "invero che quella poverina dicesse qualche volta che non la vorri(a andar a) S.ta Agnese: pur quando dio vorra che sia el fine della vita mia penso che li ossi miei stiano con li soi: e per honor de vivi e satisfazion de morti: un di penso de far rassettar quella capella de S.ta Agnese" (V. Cian, op. cit., 1942, p. 11).
[30] Le fonti antiche non si diffondono nella descrizione della cappella o delle circostanze in cui essa viene edificata; se si esclude il passo specifico di Matteo Castiglione, De origine rebus gestis ac privilegiis Gentis Castilioneae, Mediolani, 1595, gli altri autori lasciano intendere che la costruzione sia un fatto successivo alla morte di Castiglione e che la sepoltura a Toledo sia una soluzione provvisoria, in attesa del completamento della cappella di Santa Maria delle Grazie. Marliani, ad esempio, scrive: "Quivi (a Toledo) giacque per XVI mesi, dopo i quali Aluigia sua madre volle che fosse trasportato a Mantova, havendo fatta fabbricare un a bellissima capella nella Chiesa de Frati minori, detta la Madonna delle gratie... (B. Marliani, Vita del Conte Baldassarre Castiglione, in II Cortegiano del Conte Baldassarre Castiglione, Venezia, 1584, pagine non numerate). Beffa Negrini a sua volta narra: "Giacque per sedici mesi il corpo del Conte, in Toledo, dopo i quali la madre Aluigia volle, che fosse trasportato a Mantova, havendo fatta fabricare una bellissima Capella nella Chiesa de' Frati Minori delle Gratie in riva al Mincio...". Lo stesso autore precisa che "si vede una bellissima sepoltura di marmo rosso, con nobile architettura, dissegnata da Giulio Romano": è questa la prima testimonianza esplicita sulla paternità dell’opera (A. Beffa Negrini, Elogi historici di alcuni personaggi della famiglia Castigliona, Mantova, 1606, p. 456).
[31] "In primis enim animam suam omnipot.i deo eiusque beat.me matri Marie semper virgini totique celesti curie humiliter comrnendavit, cadaver vero suum cum ab eo eius anima fuerit separata portari voluit ad Ecclesiam d. S.te Marie Gratiarum in campanea Curtatoni districtus Mantue, et in ea sepeliri in una capella per fratres d.te Ecclesie et illius conventus assignanda. Quam capellam ornari mandavit secundum et prout ordinabit Julius romanus pictor, in qua capella ipse d. Testator mandavit et ordinavit et voluit construi et fieri unum sepulchrum secundum et prout ordinabit etiam dictus Julius romanus, in quo sepulchro reponi voluit iussit et ordinavit cadaver suum predictum ac etiam q. M.ce et generose D. Hippolite taurelle olim eius uxoris dilectissime dummodo tum ornamentum predictorum et sepulchri expensa non excedat summam duc.rum sexcentorum quos expendi voluit in predietis capella et sepulchro ac ornamentis. Item voluit jussit et ordinavit dictus d. Testator quod Epitaphium seu inseriptio dicti sepulchri fiat per Rev. dum D. Jacobum Sadolettum Episcopum Car pentrassen. seu per Rev. dum et Mag. cum D. Petrum bembum equitem hierosolimitanum, si ipsi vel alter eorum voluerint" (V. Cian, op. cit., 1942, p. 85). Il testamento nomina esecutrice testamentaria la madre, Luigia Gonzaga, e prevede un lascito di sessanta ducati per restauri e decorazioni nella chiesa di Sant'Agnese.
[32] L'unico studio sulla cappella è di M. Laskin Jr., Giulio Romano and Baldassarre Castiglione, in "The Burlington Magazine", 1967, pp. 300-303. Rispetto a questo contributo non sembra apportare novità né sul piano documentario, né su quello interpretativo, l'indagine di K. Weil-Garris, The Courtier in the Underworld: the Tomb of Baldassarr e Castiglione, in "Abstracts of Papers de livered" in Art History Session s. 65th Annual Meeting. College Art Association of America. February 2-5, 1978, Los. Angeles. La segnalazione di questo studio, di cui non abbiamo ancor a potuto consultare il testo completo, è di Charles Davis.
[33] Sulle vicende storiche della chiesa, R. Margonari, A. Zanca, Il Santuario delle Grazie presso Mantova, Mantova, 1973.
[34] J. Shearraan, The Chigi Chapel in S. Maria del Popolo, in "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", XXI V, 1961, p. 136.
[35] Il tipo edilizio del monumento funebre non trova nell'opera di Giulio Romano una definizione univoca. La tomba di Lodovico Boccadiferro, nella chiesa bolognese di S. Francesco, si presenta come un vero e proprio arco di trionfo, con il sarcofago collocato in corrispondenza dell'attico; il progetto per la sepoltura di Francesco Gonzaga riprende invece il modello tradizionale del defunto sdraiato sopra l'urna; mentre nel disegno per la tomba di un vescovo si ritrovano i temi medievali della tenda con gli angeli e dei pleureurs ai lati del sarcofago (F. Hartt, Giulio Romano, New Haven, 1958). Una sintetica analisi delle trasformazioni del tipo edilizio 'monumento funebre' è svolta da A. Chastel, La glorfication humaniste dans les monuments funéraires de la Renaissance, in Umanesimo e Scienza politica. Atti del Congresso Internazionale di Studi Umanistici, Milano, 1951.
[36] Il progetto di Peruzzi, compreso nel Taccuino della Biblioteca Comunale di Siena, prevede un a piramide a sette gradoni sull'attico di una porta trionfale. Il monumento Contarini, anch'esso posteriore all’opera di Giulio Romano, ha uno schema confrontabile con quello della tomba Castiglione, con due pilastri laterali a sostenere un architrave su cui poggia la ziggurat. A Sanmicheli è attribuito anche il monumento funebre Thiene nel Duomo di Vicenza, ma in questo caso la piramide, priva di gradoni, assume una forma vicina a quella di un obelisco. Obelischi compaiono anche in alcuni studi di Sansovino per monumenti funebri, conservati agli Uffizi. Una singolare combinazione di obelisco e piramide a gradoni, tronca, compare in un disegno della seconda metà del '500, attribuito ad Antoine Caron, "Jeux funèbres autour de la Pyramide". Si tratta di un cartone per la serie di arazzi dell'"Histoire d'Artemise", dedicata a Caterina de' Medici (Le XVIe Siècle Européen. Dessins du Louvre, Paris, Mousée du Louvre, 1965, pp. 103-104). Questo disegno ci è stato segnalato da Marcello Fagiolo.
[37] L'apparato funebre, realizzato nella chiesa di S. Francesco, è descritto in un'antologia di narrazioni storiche relative ad eventi che vanno dal 1516 al 1520; la carta e la scrittura, appartenenti alla prima metà del Cinquecento, danno valore di testimonianza autentica alla descrizione verbale e grafica. "La chiesa era tutta oscurata essendo chiuse con panni le finestre: ne altra luce vi era che di torce... In mezo de la chiesa era un gran Cattafalco coperto di panni negri con sei colonne con suoi basamenti et capitelli: et sostenevano un coperto cornisato: sotto il quale era una arca ben fatta con la imagine d'un homo armato sopra: nel modo che se puo in parte veder per il dissegno, che è, in questo libro a carte 125. Il ditto Cattafalco era alto (braccia) 36 longo braza 28 sopra cadauna colonna in cima del cattafalco erano fixi li stendardi che lo s(ign)or defuncto havea havuti da la s(anti)ta di Papa Iulio, dal Ser.mo Maxìmiliano Imperatore, dal Ser.mo Re Loyso XII di Franza, da s(igno)r Venetiani: et dal Ducato di Milano: sotto gli quali stendardi sul li gradi del Cattafalco, che erano sei, sedevano sei homini per cadauno stendardo incapuzati et vestiti di panno negro con bandiere in mano con le arme et insegne di potentati, di chi erano gli stendardi: da un ordine al altro di ditti homini tenenti le bandiere d'intorno in torno erano altri ordini di homini medesimamente inbruniti del medesimo numero, che tenevano torce in mano: et da un ordine di homini al altro erano scudi attaccati alli gradi con diverse arme di ditti potentati" (Archivio di Stato di Mantova, fondo Gonzaga, busta 85, vol. l0, carte 137v, 138, 138v). Gli storici mantovani antichi tramandano invece la memoria di un catafalco piramidale di dodici scalini, e propongono dati numerici variamente inesatti (M. Equicola, Dell'istoria di Mantova libri cinque, Mantova, 1608, p. 294; I. Donesmondi, Dell'istoria ecclesiastica di Mantova, Mantova, 1613-1614, parte seconda, pp. 130-131; F. Amadei, Cronaca universale della città di Mantova, edizione a cura di G. Amadei, E. Marani, G. Praticò, L. Mazzoldi, Mantova, 1954-1957, II, p. 457; L.C. Volta, Compendio Cronologico-critico della storia di Mantova, Mantova 1877, II, p. 311). L'apparato funebre di Francesco II sintetizza temi iconografici tradizionalmente connessi con la regalità. La piramide a gradoni, caratteristica delle sepolture imperiali nell'area medioorientale, viene utilizzata anche a Roma, come dimostra una moneta coniata da Marco Aurelio in memoria di Antonino Pio. Sul verso è effigiata una piramide funeraria a quattro gradoni, ornata da ghirlande, drappi e statue, sormontata da una quadriga guidata dall'imperatore. Per quanto riguarda il motivo della pergola, si può ricordare come riferimento il monumento funebre di Federico II a Palermo, ove l'urna è sovrastata da un "baldacchino" con frontoni e trabeazioni classicheggianti, sorretto da sei colonne. Per la segnalazione della moneta romana si ringrazia Marina Baguzzi.
[38] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XLIX, p. 94.
[39] Il disegno è pubblicato da M. Laskin, op. cit., 1967.
[40] B. Castiglione, op. cit., 1972, Dedica a Don Michel de Silva, I, p. 25.
[41] Ibid., 3, V, p. 212.
[42] Questo problema è analizzato da A. Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Torino 1957, in particolare nei capitoli Il mito della gloria, Il senso della durata, Verso la sopravvivenza sociale, e da A. Chastel, op. cit., 1951.
[43] NON EGO NUNC VIVO CONIUNX/ DULCISSIMA VITAM/ CORPORE NAMQUE TUO FATA/ MEAM ABSTULERUNT/ SED VIVAM TUMULO CUM TECUM/ CONDAR IN ISTO/ IUNGENTUR QUE TUIS OSSIBUS/ OSSA MEA
[44] M.L. Madonna, "Septem mundi miracula" come templi della virtù. Pirro Ligorio e l'interpretazione cinquecentesca delle meraviglie del mondo, in "Psicon", 7, 1976.
[45] A. Tenenti, op. cit., 1957, in particolare il capitolo L'iconografia.
[46] Ibid., p. 478.
[47] BALDASSARI CASTIGLIONI/ MANTUANO OMNIBUS NATURAE/ DOTIBUS PLURIMIS BONIS/ ARTIBUS ORNATO. GRAECIS/ LITTERIS ERUDITO. IN LATINIS/ ET HETRUSCIS ETIAM POETAE./ OPPIDO NEBULARIA IN PISAUREN./ OB VIRT. MILIT. DONATO. DUAB(US)/ OBITIS LEGATION(IBUS) BRITANNICA/ ET ROMANA HISPANIEN(SEM)/ CVM AGERET AC RES CLEMEN(TIS) VII/ PONT. MAX. PROCURARET IBIQ/ LIBROS DE INSTITUEN. REGUM/ E(F)AMIL. PERSCRIPSISSET/ POSTREMO EUM CAROLUS V/ IMP. EPISC. ABULAE CREARI/ MANDASSET TOLETI/ VITA FUNCTO MAGNI APUD OMNES/ GENTES NOMINIS QUI VIX. ANN. L/ MS. II. D. I. ALOISIA GONZAGA/ CONTRA VOTUM SUPERSTES/ FIL. B. M. P. ANN. D. MDXXIX.
[48] B. Castiglione, op. cit., 1972, Dedica a Don Michel de Silva, III, p. 29.
[49] Ibid. 1, XXXVI, p. 76.
[50]B. Castiglione, Il libro del Cortegiano con una scelta delle opere minori, a cura di B. Maier, Torino, 1964, Sonetti, VI, p. 590.
[51] Memoria a Leone X, in S. Ray, op. cit., 1974, p. 364.
[52] E. Battisti, L'Antirinascimento, Milano, 1960, p. 71.
[53] C. Davis, "Colossus facer e aus us est" L'apoteosi d'Ercole e il colosso padovano dell'Ammannati, in "Psicon", 6, 1976, p. 38. Nella tomba di Mantova Benavides l'immortalità siede su una piramide.
[54] G.P. Valeriano, Hieroglvphlica, Francoforte, 1614, pp. 754-755.
[55] B. Castiglione, op. cit., 1972, 4, LXIX, p. 347.
[56] E. Panofsky, Studies in Iconology, New York, 1939, trad. it., Studi di Iconologia, Torino, 1975; in particolare il capitolo Il Padre Tempo.
[57] Nella pala d'altare la Madonna col Bambino è accompagnata da S. Bonaventura, protettore della famiglia Castiglioni, e da S Francesco, che allude all'ordine religioso a cui è affidata la chiesa e il convento.
[58] Oltre alla resurrezione, sono illustrati l'annuncio della resurrezione da parte dell'angelo, la cena di Emmaus, la scena del noli me tangere.
[59] "Per l'Alberti la vita dell'uomo è priva di senso: insania e stultitia, che la morte risolve e placa in un mondo di ombre disincantate ed evanescenti", nell'Architettura sono da notare "talune omissioni tanto gravi quanto costanti: 1 ogni riferimento all'immortalità dell'anima; 2 ogni uso, o addirittura menzione di concetti cristiani..." (E. Garin, Leon Battista Alberti e il mondo dei morti, in "Giornale critico della filosofia italiana", aprile-giugno 1973, pp. 179, 183).
[60] B. Castiglione, op. cit., 1972, 1, XLIII, p. 86.
English abstract
According the Baldassare Castiglione's Libro del Cortegiano one of the most important aims and skills of Art is the ability to preserve memories of people and facts. A good example of this memorial behaviour is offered by the burial chapel of Baldassare Castiglione, in the Santuario di Santa Maria delle Grazie, in the surroundings of Mantua. In the chapel designed and built by Giulio Romano (between 1529 and 1530), four different arts (poetry, architecture, sculpture and painting) are involved in a common project, celebrating the earthly life of the commissioner and his trust in afterlife, according the believes of the Catholic Roman Church. The funerary inscription – composed by Pietro Bembo – engraved on the pillars of the grave, preserves the memory of Castiglione's life, love, courtier behaviours and career. The architectonic structure of the tomb, with its shape of a stepped pyramid, strongly recalls the Mausoleum of Halicarnassus (one of the Seven Wonders of Antiquity), symbolizing the triumph of fame. The sculpture of the Risen Christ surmounting the grave emphasizes the christian belief in resurrection. And, finally, also the frescoes painted in the vault – featuring after-resurrection episodes from the Gospel – highlight Castiglione's trust in the afterlife promised by Christ. Strangely, no portrait of Baldassarre is included in the decorative project of the tomb: the representative purpose is left to the coats of arms painted in the ceiling. Anyway, also in absence of an actual figurative portrait, the whole design of the burial chapel faithfully depicts the Castiglione's aesthetic conceptions.
keywords | Baldassarre Castiglione; Cortegiano; Giulio Romano; tomb; chapel.
Per citare questo articolo / To cite this article: U. Bazzotti, A. Belluzzi, Le concezioni estetiche di Baldassarre Castiglione e la Cappella nel Santuario di Santa Maria delle Grazie, “La Rivista di Engramma” n. 86, dicembre 2010, pp. 5-23 | PDF of the article