Faust e Maometto
Un'indagine sulle due figure a partire dalla prima edizione del Faust di Johann Spies (1587)
Gioachino Chiarini
English abstract
Faust condivide con don Giovanni il primato tra le figure mitiche prodotte dall’immaginario letterario, filosofico - e musicale - della cultura europea moderna: in ambito protestante il primo, in ambito cattolico il secondo. In entrambi, il tentativo di sconfiggere il tempo fallisce, l’ansia dell’infinito (connotata come inestinguibile voracità erotica: in don Giovanni subito, in Faust a partire dal patto col demonio) non trova appagamento, l’aspirazione a salire troppo in alto si trasforma in discesa precipitosa verso il basso. Un processo ben noto anche ai campioni dell’hybris antica, ma che ha trovato in età moderna accenti particolarmente originali ed efficaci.
Il modo di vivere del 'cavaliere di Siviglia' dà scandalo, e dà scandalo perché crea disordine: aspirando - con successo - a tutte le donne, e perciò anche alle donne di tutti, egli assume simultaneamente infinite maschere corrispondenti a ruoli sociali (di 'sposo', cioè di fidanzato, e di 'marito') previsti e tollerati solo come unici, e perciò tra loro incompatibili. Nell’Europa cattolica, questo illimitato disordine sessuale è, alla lettera, peccato mortale. Una delle prime apparizioni del grande seduttore è un auto sacramental dal titolo L’ateo fulminato: il sacerdote per eccellenza del culto di Eros è necessariamente un ateo, un pazzo, un 'senza dio', e la sua morte, altrettanto necessariamente, una morte di punizione, 'fulminato'.
Si noti la metafora: la cultura cristiana rivolge contro il continuatore del galante per antonomasia della mitologia antica, il sommo dio Giove, una punizione - il fulmine - che era prerogativa attiva del medesimo Giove. In questo paradosso non c’è solo la distanza che separa don Giovanni dal suo prototipo pagano (al contrario di un uomo, un dio può portare simultaneamente diverse maschere, sostenere simultaneamente diversi ruoli), ma anche, adombrata, la ragione della gravità della punizione stessa: don Giovanni ha l’empietà di agire come un dio, di aspirare alla condizione di un dio, e dunque, in chiave moderna, di sentirsi Dio, di essere Dio a se stesso, di voler prendere il suo posto. E la forza mitica di tutto questo è così forte, che la vita sessualmente sovversiva di don Giovanni, e la punizione che ne consegue, diventa il modello, o l’ovvio predicato, di ogni altra esperienza cristianamente sovversiva. Ciò è ben chiaro nella storia di Faust.
Com’è noto, si tratta, questa volta, di una storia più articolata, in cui la ribellione alle regole sociali, l’avidità di potere, l’ansia di possesso totale si esercitano, inizialmente, prima del patto esclusivamente, ma poi, seppur solo in parte, anche dopo il patto col demonio, nell’ambito del sapere, di un sapere non settoriale, si badi, ma enciclopedico, universale – un aspetto a cui don Giovanni, da specialista a vocazione unica, è del tutto indifferente: 'cavaliere' e uomo d’azione, interamente dedito alla conoscenza carnale, rifugge per principio dall’umbratile quiete di uno studio o di una biblioteca.
Fin dal suo esordio nella Storia del dottor Faust, ben noto mago e negromante, primo testo a stampa che l’editore Johann Spies (Francoforte sul Meno, 1587) desume – rafforzandone, da buon luterano e a prevenire possibili censure, i toni moraleggianti – da un manoscritto del cosiddetto Faustbuch, Faust è descritto come totalmente dedito agli studi, prima a quelli ufficiali, consentiti e anzi approvati dal potere politico e religioso (un curriculum ch’egli compie per intero, dagli inizi nella Facoltà delle Arti fino al grado massimo di 'Dottore in Teologia'), poi a quelli severamente proibiti. Nel cap. I si legge: "Faust aveva una mente adatta allo studio e veloce nell’apprendere (…). Tuttavia era anche sciocco, folle e tracotante, tanto è vero che da sempre era soprannominato 'lo Speculatore' [una probabile allusione ad Erasmo]; queste sue caratteristiche lo portarono a frequentare cattive compagnie, a nascondere le Sacre Scritture dietro la porta e sotto il banco, avviandolo a una vita tenebrosa senza Dio (…). Si sentì attratto da chi si occupava di scritti caldei, persiani, arabi e greci (…) e da tutto ciò che può essere definito scongiuro e magia (…). Ne fu entusiasta e si dedicò giorno e notte allo studio di tali libri e non volle più farsi chiamare teologo ma divenne un laico, si definì dottore in medicina, divenne astrologo e matematico…".
Qui inizia la seconda parte della vita di Faust: l’evocazione del diavolo, il patto di dannazione, l’adozione di un train de vie 'epicureo' (Mefistofele fornisce al suo attuale padrone e futuro schiavo vini e cibi da re, vestiti e calzari da papa), fino al conseguente, prevedibile, imperioso insorgere della 'lussuria'. Faust vorrebbe porvi riparo "prendendo moglie{C}{C}{C}", ma Mefistofele gli spiega che i diavoli sono, piuttosto, "favorevoli all’adulterio e – appunto - alla lussuria". Dopo che una serie di spaventose apparizioni demoniache contribuisce ad ammorbidire l’inflessibilità dell’aspirante marito, Mefistofele gli promette, se rinuncerà ai suoi propositi, che "gli porterà nel suo letto ogni notte una donna, qualsivoglia egli desideri, per averla vista in questa (Wittenberg) o in altra città, ed essa soddisferà le sue brame come lui vorrà, sotto le spoglie e le forme che desidererà". Il commento finale è: "Tale idea piacque a tal punto al dottor Faust che il suo cuore esultò di gioia e si pentì dei suoi propositi iniziali (cioè di sposarsi). Fu subito preso da un tale desiderio che giorno e notte desiderava le più belle donne e la lussuria dell’oggi non spegneva quella del domani" (cap. X): Faust è diventato don Giovanni, come ci confermerà, ancora molti anni dopo, il resoconto del cap. LVII: Faust (che ha già evocato il fantasma di Elena, ma non si è ancora reso conto di essersene innamorato) avverte con angoscia il passare del tempo e si rituffa in un regime di vita 'epicureo' più intenso di quanto già non fosse: "Evocò e volle presso di sé sette schiave e concubine, con le quali egli si giacque (…). Poi il dottor Faust viaggiò col suo spirito [cioè con Mefistofele] per molte terre per poter vedere tutte le donne, fra cui ne scelse sette: due olandesi, una ungherese, una inglese, due sveve, una francese, che rappresentavano il meglio dei loro paesi di origine" - sembra di ascoltare il catalogo leporellesco di un don Giovanni dai gusti nordici (mancano sia spagnole che italiane), ma con aspirazioni (nel frattempo del resto già realizzate, come presto vedremo) da sultano…
Si tratta comunque, ed è un particolare non secondario, di un Faust-don Giovanni che trova ancora parecchio tempo per la scienza, interamente dedicato ad intervistare Mefistofele - che dopo il patto infernale ha preso il posto del famulo Wagner come servitore di Faust, ma è in possesso di saperi ben superiori a quelli del suo stesso, seppur dottissimo attuale padrone -, sul cielo, l’inferno, il paradiso terrestre, il moto dei pianeti, la genesi delle comete (tutti corpi, fenomeni e luoghi del cosmo che Faust vede ed esperisce da vicino a bordo di magiche carrozze tirate da diabolici draghi), per non parlare della geografia, di cui pure Faust può fare esperienza diretta volando magicamente in ogni parte del mondo conosciuto, con vista su vie, palazzi, chiese, castelli, a cavalcioni di Mefistofele tramutato per l’occasione in "destriero alato dall’aspetto di dromedario" (cap. XXVI): una variante, quest’ultima, dal colorito esotico-arabeggiante, del celebre destriero con volto di donna, chiamato Buraq ('anatra'), che accompagna Maometto dalla Mecca al tempio di Gerusalemme nei vari viaggi notturni che preludono all’Ascesa al cielo (miraj) del Profeta (un argomento su cui avrò modo di tornare).
Nel bel mezzo di queste scorrerie turistiche è inclusa nel programma, oltre alla vista aerea delle rovine dei templi pagani di Roma, anche una capatina nella residenza del Papa, dove Faust «vide una gran schiera di servi e cortigiani e una tal quantità di piatti e cibi destinati al Papa da fargli esclamare rivolto al suo spirito (Mefistofele): "Per Bacco, perché il diavolo non mi ha fatto anche Papa?"» (ibid.). Ogni desiderio di Faust è un ordine per Mefistofele, che funge da 'spirito della lampada' e che infatti se ne ricorda allorquando, dopo lungo e fruttuoso girovagare (o meglio girovolare), i due atterrano a Costantinopoli, la 'Seconda Roma'.
È qui, nell’harem del Sultano, che Faust coglie i massimi allori in ambito amoroso (cap. XXVI). "Una sera, mentre l’Imperatore turco sedeva a tavola e banchettava, il dottor Faust inscenò un sortilegio" con "fiumi di fuoco", "lampi e tuoni", e gli apparve «sotto le sembianze del Papa di cui portava gli abiti, le insegne e i gioielli, rivolgendosi a lui con queste parole: "Salute a te, Imperatore, che ti sei degnato di far comparire alla tua presenza il tuo Maometto!"».
"Al mattino del giorno successivo", continua la Storia, "il dottor Faust si recò al castello imperiale, dove l’Imperatore tiene le mogli e le concubine; nessuno ha il permesso di passeggiare all’interno del castello, nessun altro se non gli eunuchi che sorvegliano le donne. Egli, in virtù della sua magia, immerse il castello in una nebbia talmente fitta che non si poté vedere più nulla. Poi il dottor Faust prese le stesse sembianze e gli abiti prima assunti grazie al suo spirito e si spacciò per Maometto; visse quindi sei giorni in questo castello circondato dalla nebbia per tutto il tempo che egli ebbe qui la sua dimora (…). Il dottor Faust mangiò, bevve, fu di buon umore e soddisfece i piaceri dei sensi, dopo di che partì volando verso le alte sfere celesti coperto dalle insegne e dai gioielli papali e molti poterono vederlo".
"Quando il dottor Faust fu di nuovo in cammino e la nebbia si diradò, il turco si recò al castello, fece chiamare e interrogò le sue donne chiedendo loro chi fosse stato in quel luogo, dato che il castello era stato per lungo tempo circondato dalla nebbia. Esse lo informarono che era stato il dio Maometto, che durante la notte aveva voluto accanto a sé ognuna di loro; le aveva possedute e aveva predetto che dal suo seme sarebbe nato un grande popolo di eroici guerrieri. Il turco gioì, come di un gran dono, del fatto che egli avesse dormito con le sue donne (…). Ma i sacerdoti dissero all’Imperatore che non doveva credere nell’apparizione di Maometto, bensì in un fantasma, ma le donne dissero che sia che fosse stato un fantasma o no egli si era intrattenuto con loro amichevolmente e di notte aveva dato magistralmente prova della sua virilità una o anche sei volte, anzi di più. Tali fatti impensierirono talmente l’Imperatore turco da lasciarlo sconvolto". Una reazione, mi pare, del tutto condivisibile.
L’esotico Maometto funge dunque, in questo episodio dai tratti goliardici, da doppio, da modello esemplare delle imprese erotiche di Faust, sullo sfondo certamente della ben nota poligamia in uso presso i popoli islamici, come prerogativa di personaggi superiori come sultani e visir, ma ammessa anche per l’uomo qualunque, purché fedele, dalle sacre regole del Corano. Ma anche la presenza del Papa, certamente rafforzata dagli spiriti antiromani che caratterizzano la scrittura luterana di Spies, e già presenti nel manoscritto del Faustbuch, proviene da uno dei filoni più consistenti della leggenda occidentale di Maometto.
Come dimostrò Alessandro D’Ancona nella sua Leggenda di Maometto in Occidente (1889), Roma gioca più di un ruolo negativo in alcune versioni di tale leggenda già ben prima di Lutero e dei Protestantesimi. In particolare, facendo di 'Sergio', il Sargis dei racconti islamici, il monaco nestoriano, che avrebbe previsto e preannunciato la grandezza dell’ancor giovane e umile Maometto e il successo della sua missione, - facendone, dicevo, il corruttore di Maometto, colui che avrebbe allevato Maometto nell’eresia, che lo avrebbe spinto all’impresa del grande scisma. E inoltre, facendo di codesto Sergio non più un semplice eremita, bensì un alto dignitario della curia romana che, aspirando al papato ed essendogli stato il papato negato, si era dato alla fuga rifugiandosi in Arabia dove, unitosi a un giudeo e a Maometto, con costoro avrebbe escogitato per vendetta la nuova legge (quella appunto codificata nel Corano). Addirittura, il primo volgarizzamento italiano del Tresor di Brunetto Latini (fine del Duecento) fa di 'Sergio' nientemeno che un Colonna di nome Pelagio, 'monaco e cardinale', mentre il secondo volgarizzamento (primi del Trecento) ribadisce le aspirazioni di tal Pelagio al papato ("Pelagio adomandò a’ cardinali il papato. / E perché lo domandò, nolli fue dato"): Pelagio non era stato solo il nome dell’eretico fieramente combattuto da S. Agostino, ma anche di più papi, uno anche santo, tra i predecessori di Gregorio Magno, come ci ricorda Jacopo da Varagine nella Legenda aurea.
Va però detto che se tutto questo ci spiega l’origine di alcuni aspetti del Maometto faustiano, altri restano in ombra, come opacizzati dal tema-guida della magia e dal tono ludico con cui è trattato. In particolare, c’è da chiedersi se in Maometto non vi sia qualche altra connessione con la figura di Faust: questi infatti, nonostante tutto, non è un don Giovanni a tempo pieno: alla sua decisione di vendere l’anima al diavolo concorre certamente anche la speranza di riuscire a saperne di più sulle grandi verità del cosmo, dell’uomo nel cosmo, sul funzionamento dei cieli, sull’ubicazione e fattura dell’inferno e del paradiso terrestre, eccetera.
I debiti della Storia del Dottor Faust di Spies e del Faustbuch che gli è servito da modello, (o col quale in ogni caso può aver avuto un modello comune, forse redatto originariamente in latino) nei confronti di un bel numero di fonti sono stati assai bene messi a fuoco dalla critica. Non solo a proposito delle testimonianze storiche relative a tal Johannes Faustus (alias Georg-Johann Sabellicus), mago, astrologo, 'principe dei negromanti' e 'perfettissimo alchimista', ma anche perfettissimo truffatore e per ciò, necessariamente, instancabile fuggitivo, quando non imprigionato o viceversa bandito dalle pubbliche autorità: al proposito esistono atti ufficiali, esistono autorevoli dichiarazioni e giudizi (dal Gast a Lercheimer, da Lutero a Melantone, dal Trithemius a Mutianus Rufus, dal Camerarius a Philipp Begardi).
Anche le fonti erudite dirette sono state identificate. Si va dal Der Zauber Teuffel del Milichius per la premessa al Lettore cristiano, l’evocazione del Demonio, il duplice patto, il tema della magia, i fatti alla corte del Conte di Anhalt, l’apparizione di Elena di Grecia, alla versione tedesca del cosiddetto Processus Belial di Jacobus de Theramo (1508) e al Dictionarium Latinogermanicum et viceversa del Dasypodius (1537) per il potere esercitato dal Demonio sull’uomo da Adamo ed Eva in poi; vi è poi l’enciclopedia del cosiddetto Lucidarius tedesco (1481, 1572) per i vari capitoli su Lucifero angelo ribelle, la creazione dell’Inferno, la sua forma, natura, ubicazione e i suoi molti nomi (ma qui si veda anche il fortunato libriccino sulla caduta di Lucifero intitolato Das Büchlein von Lucifers mit seiner gesellschaft Fall), come pure per la concezione tolemaica dei vari cieli con la terra al centro; c’è infine la Weltkronik di Hartmann Schedel (1493) per gran parte delle descrizioni geografico-turistiche delle innumerevoli città visitate da Faust. Se a questo aggiungiamo le continue citazioni e allusioni bibliche nella versione di Lutero, abbiamo il quadro pressoché completo degli strumenti utilizzati nell’officina del Faustbuch e delle variazioni introdotte da Spies.
Ora, l’aspirazione ad un controllo totale del sapere sullo sfondo della scienza astronomico-astrologica che a sua volta deve porsi come ancella delle verità teologiche e che ritroviamo, ad esempio, nella struttura a domanda e risposta tra allievo e maestro nel citato Lucidarius, vanta una impressionante serie di precedenti sia antichi, che tardo-antichi, che medievali fino alle soglie dell’età rinascimentale e anche oltre. Spesso appaiono sotto la forma di domande (a volte di carattere enigmatico) poste da re e imperatori a filosofi, maghi, sapienti, o, come prova di genuina regalità, ad altri principi o re. Spesso, queste figure regali sono orientali (ad es. Cosroe nelle Dubitationes et solutiones di Damascio), o vanno a cercare le verità ultime in Oriente, come sede prima e ultima di ogni sapere (l’Alessandro Magno della leggenda).
Questo meccanismo, rivissuto poi anche in personaggi storici innamorati dell’esotico e dell’occulto come Federico II (ricordo il Libro delle risposte alle questioni siciliane rivolte ai sapienti musulmani dall’Imperatore, ms Hunt. 534 della Bodleian Library di Oxford), attira la nostra attenzione sul grande e complesso tema degli influssi arabi, persiani, islamici, sul tardo medioevo latino. Lo stesso Federico II, del resto, è citato dal primo prologo del Livre de Sydrac come uno tra i tanti possessori e beneficiari dell’opera, che si immagina consista negli ammaestramenti che il sapiente Sydrac, discendente di Noè e profeta del Cristianesimo, avrebbe dato al re della Battriana, Boctus, su innumerevoli argomenti. Il Libro passa poi a un caldeo, quindi a Naama, principe dei cavalieri di Siria che ne riceve una miracolosa guarigione, infine all’arcivescovo di Sabaste, il cui chierico Dimitre lo porta in Spagna prima di subirvi il martirio: qui, viene smistato al re di Toledo (in latino) e all’emiro di Tunisi (in arabo). Successivamente è Federico II che riesce a farselo dare, ne dispone una nuova traduzione e ne promuove i successivi spostamenti attraverso altre corti mediterranee.
Proprio il nome di Toledo deve qui farci avvertiti che, in particolare sotto re Alfonso il Saggio, vi si costituì un importantissimo centro di smistamento di manuali, trattati e commenti (di astronomia, di astrologia, di filosofia, di mistica) e di racconti arabi. Da Toledo proviene, tra l’altro, la versione latina, eseguita dal notaio di corte Bonaventura da Siena, del Libro della scala di Maometto, uno dei tanti che narrano il miraj del Profeta, cioè la sua visita notturna nei regni dell’altro mondo sotto la guida dell’arcangelo Gabriele: l’ascesa attraverso i sette Cieli fino alla visione e al dialogo con Allàh nell’ottavo, la visione dei sette cerchi del Paradiso, e quella dei sette cerchi dell’Inferno col demonio Iblis incatenato laggiù in fondo – un testo che arrivò anche alla corte scaligera di Verona, assai probabilmente in tempo utile perché Dante potesse leggerlo e utilizzarlo nell’elaborazione della struttura cosmica di Inferno, Purgatorio e Paradiso.
Maometto, alla fine del miraj, che ha un suo, sia pur ingenuo, versante enciclopedico, ha imparato tutto ciò che occorre sapere per realizzare la missione assegnatagli e può dedicarsi alla stesura del Corano. Questo schema virtuoso sembra ribaltato e riproposto in negativo nella storia di Faust: per saperne di più vende l’anima al diavolo, da lui è guidato alla conoscenza del Cielo e dell’Inferno, e delle leggi che governano tuoni, fulmini, tempeste: e se è ben vero che un diavolo non parla volentieri di Dio e di Gesù, come gli ribadisce più volte Mefistofele, in compenso avrà la lingua sciolta se si tratta di parlare di Lucifero, del suo aspetto, del suo potere come Re di questo mondo, della forma e natura dell’Inferno, e così via.
Può darsi che l’ascesa di Faust-Maometto al termine dell’avventura nell’harem (che però, si badi, non compare nelle fonti riconosciute relative alla sosta a Costantinopoli), con la profezia d’aver seminato un grande popolo di eroici guerrieri e la fuga che si compie "volando verso le alte sfere celesti" (XXVI), non abbia nulla a che fare col miraj di Maometto e la profezia della sua discendenza spirituale, ma sia semplicemente figlia del fantastico episodio di cui parla la Chronica von Thüringen di Zacharias Hogel (1550), secondo cui tra i primi segni dell’avvenuto patto diabolico vi fu un viaggio a Praga di Faust in groppa ad un cavallo alato. E forse anche il fatto che, nella Storia del dottor Faust, questo cavallo alato altri non sia che Mefistofele 'in aspetto di dromedario' può non aver nulla a che fare col Buraq ('cavalcatura' tutta speciale, chiamata 'anitra') di Maometto, in un contesto culturale già di suo tutto dominato da diavoli e streghe sempre pronti ad assumere gli aspetti più orridi e mostruosi. Come anche può darsi che la presenza, accanto al fuoco, dell’elemento-freddo in alcune zone dell’Inferno visitato da Faust non dipenda, come invece era dipeso certamente per la 'ghiaccia' dantesca, da rappresentazioni infere tipiche dell’Aldilà islamico, bensì da descrizioni occidentali in cui questo elemento era ormai un dato acquisito. Può darsi.
Tuttavia può anche invece darsi che dietro vi sia, almeno a grandi linee, magari solo in parte ma comunque vi sia, un richiamo strutturale, vale a dire una trasposizione, sia pure in negativo e con opposta finalità e diversissima ambientazione, proprio alla storia, giunta in Europa via Toledo nella seconda metà del XIII secolo, che narra il mito di fondazione dell’Islam, l’impresa celeste del suo Profeta. Per quali vie ciò possa essere accaduto resta, a quanto so, da accertare, ma già sappiamo che l’ambito in cui dovremo cercare è quello dell’attenzione per il sapere orientale, mediato dai dotti arabi, arabo-spagnoli ed ebrei che operarono al fianco dei nostri dotti nelle corti e città di cultura di mezza Europa (secondo un’ideale di rispetto e tolleranza reciproca tra culture e religioni emblematicamente rappresentata dalla novella I 3 del Decameron, quella dei 'tre anelli', ripresa poi tra l’altro dal Nathan il Saggio di Lessing). Per Dante il luogo del contatto fu quasi certamente la corte scaligera, a Verona, per il formarsi del mito di Faust quale corte, quale città sarà stata? Wittenberg, Lipsia, Norimberga? Altrove? Per ora, credo, lo sa solo il diavolo.
Bibliografia di riferimento
- Luca Sacchi, Le domande del principe. Piccole enciclopedie dialogiche romanze, LED (Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto), Milano 2009.
- Giovanni Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Adelphi, [1991] Milano 2007.
- Ibn Sab’in, Le questioni siciliane. Federico II e l’universo filosofico, introd., tr. it. e note a cura di P. Spallino, Palermo, Officina di Studi Medioevali 2002.
- Il libro della scala di Maometto, a cura di C. Saccone, tr. it. di R. Rossi Testa, SE, Milano 1997.
- Jacopo da Varagine, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995.
- Alessandro D'Ancona, Leggenda di Maometto in Occidente [1889], tr. it. a cura di A. Borruso, Ed. Salerno, Napoli 1994.
- Gioachino Chiarini, Amori eruditi, in Antioco malato. Forbidden Loves from Antiquity to Rossini, atti del convegno (Siena, 18-20 maggio 1989), Olschki, Firenze 1990, pp. 319-334.
- Storia del dottor Faust, ben noto mago e negromante [1587], a cura di M. E. D’Agostini, Garzanti, Milano 1980.
- Faustbuch. Analisi comparata delle fonti inglesi e tedesche del Faust dal Faustbuch a Marlowe, a cura di M.E. D’Agostini e G. Silvani, Pironti, Napoli 1978.
Abstract
This essay is part of a 'work in progress' on the influence of oriental cultures and religions on western ancient literature (The Seven Gates). In the story of Doctor Faustus, there is evidence of the presence of some features which can be found in the miraj, or 'heavenly journey', of Mahomet, which Spies, or whoever it was, manipulated with the purpose to give a negative portrait of this character, Doctor Faustus, whose destiny was Hell and not Paradise. Therefore Mephisto replaces the Angel Gabriel; the Harem of the Sultan of Constantinople stands in the place of the Islamic Paradise populated by the houris; and both the journey across the skies and the descent to Hell are rewritten in a negative perspective.
keywords | Faustus; Spies; Mahomet.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Chiarini, Faust e Maometto. Un’indagine sulle due figure a partire dalla prima edizione del Faust di Johann Spies (1587), “La Rivista di Engramma” n. 86, dicembre 2010, pp. 114-124 | PDF of the article