"Impossible et pourtant là!"
Osservazioni su Miracoli e traumi della comunicazione di Mario Perniola
Daniele Pisani
Miracoli e traumi della comunicazione, l’ultima fatica editoriale di Mario Perniola, recentemente uscita nella collana «Vele» per Einaudi, non è un saggio di argomento storiografico in senso stretto. Si tratta, piuttosto, di un tentativo di tracciare un quadro del mondo «nell’epoca della comunicazione», per così dire. Problemi di natura storiografica si pongono però – e in parte vengono pure direttamente affrontati dall’autore – alla luce del peculiare «regime di storicità» (la nozione è tratta da François Hartog) che il filosofo riconosce al presente.
A interessare in questa sede non è la periodizzazione proposta da Perniola per articolare storicamente il dispiegarsi della comunicazione negli ultimi quaranta anni di storia: una vera e propria «età della comunicazione», inaugurata dal maggio francese; una «età della deregolamentazione», che avrebbe avuto inizio con la rivoluzione iraniana; una «età della provocazione», a partire dal crollo del muro di Berlino; e infine una «età della valutazione», a cui si accederebbe in seguito all’11 settembre. Non si intende nemmeno discutere dell’adeguatezza di scelte – quelle relative alla periodizzazione – che sono comunque arbitrarie e che si possono valutare adeguatamente solo in rapporto alla loro capacità di spiegare i fenomeni che prendono in esame. Il nodo intorno a cui si vuole qui riflettere è, piuttosto, di natura ermeneutica, e concerne un tema centrale come quello della conoscibilità all’interno dell’attuale «regime di storicità».
Di particolare rilievo a tale proposito risulta il capitolo introduttivo del libro, intitolato Impossibile, eppure reale. Perniola adotta qui, e risignifica, un’espressione di Georges Bataille – «impossible et pourtant la» («impossibile, e nondimento qui») – e la assume come chiave di lettura – se non chiave di volta – degli ultimi quaranta anni di storia e di storiografia. Allo sguardo retrospettivo di Perniola, gli accadimenti di questo periodo si mostrano infatti come l’alternanza – ma forse sarebbe più corretto dire: come l’accumulazione – di una serie di «miracoli» e di «traumi», di accadimenti, cioè, che sarebbero dotati di caratteristiche assolutamente peculiari.
La caratteristica specifica del trauma – afferma Perniola – è analoga a quella del miracolo; essi hanno in comune il fatto di sottrarsi a ogni spiegazione razionale. Tanto nel miracolo quanto nel trauma, ci troviamo non soltanto davanti a un fatto di difficile comprensione, ma dinanzi a un messaggio che sollecita una traduzione. Essi contengono un messaggio che non può essere detto in parole, che resta perciò essenzialmente enigmatico: nei miracoli e nei traumi c’è chiaramente l’intenzione di trasmettere a noi personalmente qualcosa, ma non sappiamo che cosa. Sono come una lettera che ci è indirizzata, ma di cui è impossibile aprire la busta.
Ne consegue l’impossibilità di rielaborare e di dare un senso ad accadimenti di tal sorta, ossia di inserirli in un discorso, in una narrazione.
Dall’Ottocento in poi non c’è storia senza l’individuazione della connessione interna degli avvenimenti e la scelta consapevole di un modello narrativo. Ma questa possibilità è venuta meno col regime di storicità inaugurato dalla comunicazione, costruito sull’alternanza (e addirittura l’equivalenza) tra miracoli e traumi.
Per illustrare ciò che comporta il regime di storicità della comunicazione, Perniola, sulla scorta di Hartog, ricorre al cosiddetto «presentismo», intendendo con ciò quello stato in cui il passato sembra non avere più nulla da insegnare e il futuro pare ritrarsi in una dimensione enigmatica, ineffabile, quando non – peggio – dileguare in una pura e semplice ripetizione dell’oggi. La conseguenza è che “lo storico, non meno del romanziere, ha perso la sua autorevolezza già negli anni Sessanta del Novecento, a partire dal momento in cui i mezzi di comunicazione hanno introdotto un altro regime di storicità, basato sul presente”; in concomitanza, si verifica l’“irruzione degli psuedointellettuali nel dibattito politico”, e non solo politico, a ben vedere, insieme alla “trasformazione degli intellettuali in star del circo mediatico”. Sembra infatti – commenta Perniola – non esserci “più bisogno di intellettuali, vale a dire di portatori di una cultura che parli in nome dell’universale”. Parzialità di ogni discorso, assenza di prospettive per il futuro, perdita di autorità da parte di chi detiene la conoscenza: tutto ciò viene a formare una costellazione intorno ai miracoli e ai traumi che si avvicendano sulla scena.
A essere coinvolta, a subire le conseguenze di questo stato di fatto sarà, necessariamente, proprio la scrittura della storia. Particolarmente nefaste si rivelano, a suo giudizio, due recenti tendenze storiografiche. La prima è la storia virtuale, che pone in luce come:
[...] anche ciò che poteva essere e non è avvenuto ha un suo statuto storico, reale [...]. La storia virtuale è tuttavia un indizio molto significativo del dissolvimento non solo della razionalità della storia, ma anche della sua credibilità: il fatto si dissolve nella notizia, l’evento diventa un simulacro al di là del vero e del falso, l’azione si liquefà in comunicazione. Non solo si toglie la possibilità a chicchessia di interpretare e di raccontare il passato in modo autorevole, distinguendo ciò che è importante da ciò che è futile, ma si assottiglia la lontananza tra ciò che è veramente accaduto e ciò che sarebbe potuto accadere.
La seconda tendenza particolarmente significativa – e perlomeno altrettanto nefasta – è costituita dal negazionismo.
Le cose cambiano radicalmente quando viene messa in dubbio non l’interpretazione, ma l’esistenza stessa del fatto, come nel cosiddetto negazionismo storico, il quale è una forma patologica di esercizio del sospetto, quando non è apertamente una forma di impostura funzionale alla lotta politica. Tuttavia è difficile negare che il negazionismo sia esso stesso una manifestazione aberrante dell’età della comunicazione, la quale tende a screditare la conoscenza riducendola a mera opinione: avvalorando il principio che un’opinione vale quanto un’altra, la comunicazione annulla completamente la competenza e l’autorevolezza di chi è depositario di un sapere.
Insomma:
Se il lavoro degli storici sugli anni successivi al Sessantotto si rivela ancora così deludente e inadeguato, così incapace di andare al di là della cronaca, così timoroso di fornire la chiave per la comprensione di fatti inauditi, così preoccupato di separarsi dalla filosofia, così sottomesso a logori schemi ideologici, così privo di autocoscienza critica, è perché con gli anni Sessanta del Novecento si è entrati in un nuovo regime di storicità [...]. La comunicazione crea un prodotto che occupa uno spazio intermedio tra il vero e il falso.
La comunicazione si situa, infatti, “al di là del vero e del falso, perché produce effetti reali, senza appartenere alla categoria delle azioni storiche vere e proprie, delle res gestae”. Il fatto è che “la comunicazione è qualcosa di finto che per essere creduto ha bisogno di un eccesso di realtà”, e che è proprio per questo che essa “inaugura così un nuovo regime di storicità”. Assurdo pensare che la storiografia stessa possa non risentirne; e, questo, perché la comunicazione “è insieme vera, perché pone dinanzi a un fatto; falsa, perché adotta tecniche di esagerazione, manipolazione e mistificazione; finta, perché l’aspetto fantastico e immaginativo vi gioca un ruolo essenziale”.
Per andare più a fondo nella comprensione del problema posto da Miracoli e traumi della comunicazione, occorre riflettere ancora sui miracoli e sui traumi che, come si è detto, oppongono resistenza a essere rielaborati nella misura in cui costituiscono la forma – opposta e simmetrica – che gli accadimenti assumono nell’epoca della comunicazione. Si è aperta, a giudizio di Perniola, una fase della storia mondiale in cui ad avvenire, a farsi reale, è ciò che era non solo imprevedibile ma addirittura impensabile sino al momento in cui invece non è avvenuto, e che, come se non bastasse, resta in ultima istanza impensabile anche una volta avvenuto – si prenda ad esempio l’11 settembre. La storia recente, in altri termini, è costituita, segnata, indirizzata da eventi che, pur nella loro enormità, non si prestano a essere adeguatamente compresi; e, questo, non per la loro particolare complessità (non si tratterebbe, se così fosse, di nulla di nuovo), e nemmeno perché diffusi, amplificati e deformati come non mai dai mezzi di comunicazione (nemmeno in tal caso si tratterebbe di qualcosa di nuovo) ma perché già essi stessi nati, concepiti, avvenuti come comunicazione.
Siamo di fronte, lascia intendere Perniola (senza però andare sino in fondo in tale direzione), a fatti che presentano uno statuto ontologico affatto peculiare: al di là dei mutamenti intervenuti nella modalità di comunicazione degli avvenimenti, e al di là della trasformazione che gli eventi subiscono in virtù di questa modalità di comunicazione, sono gli avvenimenti stessi a essere, in sé e per sé, qualcosa di inedito, qualcosa che almeno in parte è posto all’insegna del motto – il vero e proprio refrain del libro – di «impossibile, eppure reale». Qualcosa, soprattutto, che ha in sé – non prima della comunicazione, ma in virtù dell’inglobamento della comunicazione nei fatti stessi, nella loro natura – la propria peculiarità: la chiave dell’escalation di accadimenti caratteristica dell’epoca della comunicazione, ossia dei traumi e dei miracoli da cui essa è affetta, o per meglio dire sommersa, non è dovuta ai media attraverso cui essi ci giungono, deformati, ma dalla loro trasformazione in eventi già di per se mediatici.
Cerchiamo di chiarire ulteriormente questo punto (che sembra costituire la sfida implicita nel libro di Perniola, pur restando tra le righe). Non basta osservare come, oggi, “la verità effettuale della cosa è sommersa e scompare sotto una quantità enorme di parole e di immagini trasmesse in tutto il mondo”; è già più significativo constatare che, dal mondo, sarebbe uscita di scena l’azione, in quanto modalità operativa volta al perseguimento di un fine in base a un progetto, fondato sulla conoscenza del passato e da realizzarsi in futuro. Il punto è però un altro. E cioè che se il mondo di oggi, iperstimolato e pertanto esausto ed inerme (“in uno stato di impotenza e di frustrazione”), è preso in un turbinio di accadimenti multipli, sfuggenti e contradditori, di cui resta – consenzientemente – prigioniero, è perché di tali accadimenti risulta impossibile stabilire la veridicità stessa, dal momento che essa è a priori erosa dall’indistiguibilità tra vero, falso e finto che caratterizza gli accadimenti dell’età della comunicazione. Il fatto è che i fatti sono essi stessi già ab origine comunicazione, piuttosto che azioni; non è la rappresentazione a fare di ogni evento, di ogni accadimento un simulacro, perché, per così dire, è già come simulacro che l’evento stesso accade. Da questo punto di vista, l’11 settembre è un evento rivelatore.
Vero, falso, finto. L’allusione al sottotitolo dell’ultimo libro di Carlo Ginzburg è patente. Buona parte del primo capitolo di Miracoli e traumi della comunicazione è dedicato a una rapida analisi di alcuni dei principali filoni lungo cui si è sviluppata la storiografia dell’ultima metà di secolo. L’interesse del saggio di Perniola, in quanto riflessione sulla storiografia (o, sarebbe meglio dire, sulla possibilità di fare storia, oggi), sta nel suggerire – per quanto, a partire da un certo punto, esso devii lo sguardo per volgerlo altrove – come gli incontestabili problemi in cui oggi affonda la storiografia, divisa in fazioni reciprocamente ostili e impossibilitate – l’una e l’altra – ad acquisire un’egemonia fondata su di un reciproco riconoscimento, siano problemi che, in realtà, nella storiografia altro non trovano che un rispecchiamento: che essi sono eteronomi rispetto al campo, più o meno chiuso, della scrittura della storia. Giacché il punctum dolens non sta nella scrittura della storia, bensì nella storia stessa.
Ci sembra pertanto lecito asserire che secondo Perniola l’incapacità da parte della storiografia di render conto del mondo attuale è da considerarsi essa stessa un «fenomeno storicamente determinato». La prospettiva è interessante e merita attenzione, ma non è esente né da contraddizioni né da pericoli. Innanzi tutto, posto in questi termini il problema appare senza via d’uscita: come eludere i condizionamenti del proprio tempo, come compiere ciò che si è tenuti a compiere, se a mancare sono le sue stesse condizioni di possibilità? Quello che inoltre manca al libro di Perniola, a tale riguardo, è – paradossalmente, o coerentemente? – una prospettiva storica che, invece di limitarsi alla constatazione dell’«assolutamente nuovo», di cui l’«età della comunicazione» sarebbe portatrice, consenta di innestare i fenomeni presi in esame in una genealogia (anche se solo per mostrarne la differenza). Il Novecento, del resto, possiede uno spartiacque determinante nel regime di storicità e nella possibilità da parte della storia di farsi racconto, che consiste nella Prima Guerra Mondiale (proprio su questo tema indagano tra l’altro alcune opere piuttosto recenti di Antonio Gibelli, prima fra tutte L’officina della guerra). Questa segna un estremo ridimensionamento, se non la scomparsa, del fattore umano dalla scena della storia e al tempo stesso costringe l’essere umano a confrontarsi con accadimenti a tal punto traumatici da non potere essere assimilati, e a tal punto sfuggenti – nelle loro logiche recondite, perché nei fatti sono invece immani – da ridurre l'uomo a mero esecutore degli incomprensibili ordini ricevuti. Più di una volta, non a caso, si è comparata la Grande Guerra a una catena di montaggio di dimensioni sino allora impensate e impensabili. E, sempre non a caso, fu proprio in relazione alla Grande Guerra che Walter Benjamin osservò, in un saggio dedicato a Nicolai Leskov, che “l’arte di narrare si avvia al tramonto”.
Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo.
Non è forse superfluo notare che è proprio con la Prima Guerra Mondiale che la propaganda viene per la prima volta impiegata dai governi di tutti i paesi belligeranti per le sue capacità di modificare e di plasmare l’opinione pubblica. Non è un caso nemmeno che, nella sua prospettiva apocalittica, proprio nel corso della grande guerra Karl Kraus pubblichi, a stralci, Gli ultimi giorni dell’umanità, in cui il legame tra quanto di spaventoso sta avvenendo e il giornalismo è posto al centro dell’attenzione. Irruzione della comunicazione e impossibilità del racconto procedono quindi, già allora, di pari passo. E tuttavia, se si considera più da presso la posizione di Benjamin, ci si avvede di come presagendo il 'tramonto dell'arte del narrare' egli sia ben lungi dall’additare un passato ideale da contrapporre al presente. Tanto la sua passione per la letteratura contemporanea – da Kafka a Proust – quanto il profondo interesse nei confronti dei nuovi media – radio, fotografia, cinema – suggeriscono come il tramonto da lui preconizzato sia da intendere come una trasformazione piuttosto che come una fine. Tramonta l’arte del narrare, e qualcosa di nuovo sorge. Anche l’evento più traumatico e catastrofico, quello di cui è impossibile fare esperienza in termini tradizionali (Benjamin torna su questo tema anche in Esperienza e povertà), costituisce una fine e al tempo stesso un inizio.
Il Novecento, inoltre, non ha al suo interno un solo spartiacque; se qualcosa, anzi, lo caratterizza è proprio il succedersi di numerosi spartiacque, ciascuno dei quali, ogni volta, si presenta come inimmaginabile, definitivo e finale; ogni volta, tuttavia, è come se tutto si riavviasse e andasse avanti, malgrado tutto. Dopo la catastrofe, sempre più violata, la vita riprende, fino a una nuova catastrofe, e così via, in un eterno ritorno di impossibili che si succedono in rapida sequenza. Dopo l’impensabile della Prima Guerra Mondiale vengono gli orrori dei regimi totalitari, che si concludono – trauma e miracolo insieme – con le bombe atomiche americane sul Giappone. E anche nel caso degli orrori dei regimi totalitari ad atrofizzarsi, ad ammutolire è la voce di chi si appresta a renderne conto. A questo riguardo, nulla lascia senza parole, per quanto è esplicito, come le parole con cui le SS ammonivano i prigionieri dei campi di concentramento, parole che Primo Levi cita da Simon Wiesenthal nella Prefazione a I sommersi e i soldati:
In qualunque modo questa storia finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove insieme con voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti... [...]. La storia dei lager, saremo noi a dettarla.
E qui vale la pena di sottolineare l’argomentazione dell’agghiacciante dichiarazione: “non ci saranno certezze” non tanto perché “noi distruggeremo le prove insieme con voi”, sostiene il membro delle SS, quanto perché “la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti” – perché, in altri termini, ciò che avviene è talmente impensabile («impensabile, eppure reale!») da risultare incredibile, e rifiutato – per dirla ancora con Primo Levi – per la sua stessa “enormità”, e quindi per la sua “non credibilità”.
Su questo sfondo – che è il nostro – la «novità assoluta» dell’«epoca della comunicazione» appare, per lo meno, da relativizzare. Qual è lo scarto che essa introduce? Si tratta di una domanda imprescindibile che Miracoli e traumi della comunicazione lascia inevasa. A confermare la necessità di porla e di interrogarsi al suo riguardo sembra essere il libro stesso di Perniola, che finisce, di fatto, per dichiarare impossibile l’operazione che compie. Nelle sue Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Wittgenstein osservava come:
La spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere i dati – della loro sinossi. È ugualmente possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in una immagine generale che non abbia la forma di un’ipotesi sullo sviluppo cronologico.
In effetti, una determinata raccolta di dati:
[...] io posso rappresentarla mediante un’ipotesi di sviluppo o anche, analogamente allo schema di una pianta, mediante il semplice raggruppamento del materiale, in una rappresentazione ‘perspicua’.
Perniola, malgrado tutto, ricorre alla spiegazione storica, ordina i fatti in ordine cronologico, cerca – e in parte trova pure – il bandolo della matassa. Per fortuna, almeno in parte trascende i limiti che riconosce come imposti al proprio e all’altrui sforzo. Tuttavia, questi stessi limiti restano ancora tutti da tracciare. E resta da chiedersi quali siano, oltre ai limiti, le eventuali risorse insite nell’attuale «regime di storicità». Come osservava infatti ormai trent’anni fa Carlo Ginzburg, nel finale del suo Spie, proprio lo stesso “paradigma” che, per un verso, attanaglia il mondo può al contempo rivelarsi “uno strumento per dissolvere le nebbie”.
Per citare questo articolo / To cite this article: Daniele Pisani, “Impossible et pourtant là!”. Osservazioni su Miracoli e traumi della comunicazione di Mario Perniola, “La Rivista di Engramma” n.74, settembre 2009, pp. 56-64 | PDF dell’articolo