Oltre i miracoli. I baci mai dati di Roberta Torre (Italia, 2011)
con una nota di Stefania Rimini su: Roberta Torre, I baci mai dati, La Tartaruga, Milano 2011
Maria Rizzarelli
English abstract
Benigno – Io ci credo nei miracoli. E anche tu dovresti crederci.
Infermiera – Perché io?
Benigno – Perché ne hai un gran bisogno. Magari te ne capita uno,
e siccome non ci credi, non te ne accorgi neanche.
Pedro Almodóvar, Parla con lei
Mi dicono prima di andare a vedere il film che il fatto che sia interamente girato a Catania, o meglio a Librino, sia irrilevante. Mi dicono che quella che si vede potrebbe essere la periferia di qualunque città, Catania come Milano. Forse è anche così. Ma per chiunque abbia conosciuto quel quartiere è facile ri-conoscerlo sullo schermo: al di là della scenografia architettonica, che costituisce lo sfondo sempre presente della piccola tragedia familiare di Manuela, Librino è nei volti, nei colori, negli accenti, nei sogni di tutte le figure che popolano la storia raccontata da Roberta Torre (vedi in questo stesso numero l’intervista alla regista). Ed è questo che ci colpisce in primo luogo, che ci appassiona e che ci fa ripensare al film per giorni.
Il plot attorno a cui si avvolgono le sequenze viene innescato dall’invenzione del miracolo di Manuela, un’adolescente che ha bisogno di farsi spazio di fronte alle bellezze diverse della madre e della sorella. Si tratta di una vicenda che potrebbe svolgersi da qualsiasi parte, ovvero quella di una giovane donna alle prese con la creazione del proprio futuro. Eppure il dialogo con la Madonna che Manuela finge di avere non serve soltanto ad attirare su di sé gli occhi distratti della madre e del padre, altrimenti persi dietro alle proprie vite insoddisfatte, ma le consente anche di entrare in competizione con i riti magici della sua datrice di lavoro, una fattucchiera/parrucchiera (interpretata magistralmente da Piera degli Esposti) che amministra i sogni delle donne del quartiere fra tarocchi e acconciature. Il ruolo della Bernadette di Librino, inventato per caso e per desiderio una mattina qualunque, trasforma la tredicenne in inconsapevole mediatrice delle richieste, dei desideri e delle speranze di coloro che non hanno più santi a cui votarsi. Attraverso il suo sguardo, questo coro scalcinato troverà ascolto non presso la Madonna ma piuttosto presso il pubblico degli spettatori.
Il senso miracoloso del film risiede allora nella capacità di annullare le distanze, sullo schermo e in sala. Quel che conta non è tanto il recupero della vista da parte della ragazza cieca (Ersilia), quanto il fatto che esso si trasfigura nel racconto dell’amicizia tra due ragazzine che vivono agli angoli opposti della città. E ancora il miracolo dei baci finalmente dati da Rita a Manuela conta perché giunge solo dopo la ribellione (“non voglio essere come te”), l’urlo di ogni lotta generazionale che brucia lo spazio che separa le loro vite e i loro volti. E gli abbracci diversi che stringono i corpi di Manuela e di Ersilia (e della madre e della figlia dopo) suggellano il magico abbraccio che lo spettatore sente attorno al proprio collo dopo aver visto sullo schermo la scena del montaggio incrociato dei colloqui con i fedeli di Manuela e aver riconosciuto in ciascuno il proprio pezzo d’Italia. È insomma il miracolo del cinema della Torre che riesce a tenere insieme nelle sue inquadrature il più autentico racconto della realtà e l’altrettanto autentica presenza del sogno, a cucire lo sguardo pasoliniano sulla periferia e la felliniana proiezione onirica a fuggire da essa. I colori nitidi e tersi degli esterni, violenti e artefatti degli interni (di cui Almodóvar ci ha insegnato a cogliere la verità e la bellezza), sgranati e distorti dei sogni di Manuela, ci offrono l’illusione di poter toccare il tutto nella parte, l’intero nostro paese nel margine immenso e slabbrato di una città del sud. Quel che sorprende a ripensarci è proprio la capacità della Torre di creare un linguaggio delle immagini in grado di giungere al cuore del mondo che racconta, pur mostrandone costantemente la superficie.
Librino è infatti “oltre le apparenze” (come canta Erika Mou sui titoli di coda), al di là dei grattaceli che si ergono come le quinte di un teatro contro il cielo azzurro nei larghi viali pieni di palme e spazzatura, è in quel microcosmo familiare segregato nell’appartamento dove sembra schiudersi l’adolescenza di Manuela e dove si consuma il conflitto quotidiano dei suoi genitori, travagliati da piccole storie di ordinaria sopravvivenza e di altrettanto ordinarie delusioni. Librino sembra incollata al viso pulito della giovane protagonista, come anche a quello segnato di Rita, che lascia intravedere nella sua carne le tracce di una bellezza che non soccombe al peso della vita, che porta nei suoi vestiti, nel colore dei suoi capelli, nella scelta dell’arredamento della sua casa gli indizi del suo ruolo materno. Si ha il sospetto, allora, che i palazzoni di Librino si reggano su fondamenta impastate col cemento e con la fatica delle madri, madri-bambine dalla bellezza ancora in fiore che devono competere con quella appena sbocciata delle proprie figlie, che devono provvedere a mantenere integra quella bellezza, pur portando su di sé il peso di tutti i loro fragili edifici familiari, abitati da padri il più delle volte invisibili e assenti. Pare proprio, poi, che questo sia anche un film sulla bellezza, sulla sua ambigua declinazione, sulle sue tortuose traiettorie. In fondo è un surrogato di bellezza, seppure molto kitsch, quella che si inventa nel salone della ‘fattucchiera’ Piera degli Esposti, bizzarra alternativa allo strapotere di “lui” (dietro alla cui insegna non si stenta a riconoscere un preciso bersaglio politico). Altra possibile incarnazione di bellezza – ma forse si tratta piuttosto di una sua grottesca e sbiadita imitazione – è quella che don Livio pensa di trovare negli angeli volanti della sua chiesa, così come nella statua della Madonna che riesce a farsi donare per la piazza dei suoi fedeli. E infine quale forma di bellezza insegue don Livio mentre suda e prega sul suo tapis roulant? Certo è, comunque, che la scena madre del film si consuma davanti “alla porta della bellezza”, ennesima promessa non mantenuta e dimenticata: proprio sullo sfondo di quella parete blu i baci mai dati da Rita trovano finalmente la strada per raggiungere il volto della sua bambina.
Oltre la bellezza, però, a Librino r-esiste l’inferno: è quello che sale su e arriva a toccare i destini incrociati dei “fedeli” di Manuela, che si intravede nei loro piccoli e grandi desideri, nei loro sogni di lavoro, di successo, di guarigione, di fortuna; che si ascolta negli accenti vari che invocano tutti aiuto per la loro salvezza terrena. Librino si ricompone e si addensa in quel mosaico di voci che parlano ognuna un italiano diverso, dove le tracce dell’“altro italiano” sono più o meno sopravvissute: nelle madri più anziane (come quella interpretata da Lucia Sardo) dove il dialetto conserva ancora qualche legame col passato; in quel linguaggio ibrido di Rita, che racconta con le sue inflessioni e la sua sintassi lo sradicamento da cui sembrano nati i grattaceli e i grandi viali.
Il film della Torre convince e commuove proprio perché sa raccogliere la musica delle migliaia di vite umane che scorrono allegre e disperate, piene di ferocia e di pietà negli alveari dei palazzi ai confini di Catania, mentre aspettano tutte un segnale da una città (da un paese) che stenta ancora a fare miracoli.
È recentemente apparsa, per le edizioni La Tartaruga, la versione romanzesca de I baci mai dati, che segna l’esordio letterario di Roberta Torre. In linea con quanto spesso accade nel panorama del cinema italiano (si pensi al fortunato ‘caso’ di Paolo Sorrentino e del suo Hanno tutti ragione), la regista milanese a distanza di pochi mesi dalle riprese dell’omonimo film prova a riannodare i fili della storia, affidandoli a una narrazione breve, ma carica di risonanze affettive.
Il punto di vista adottato è quello di Manuela, la giovane protagonista che ‘sente’ la Madonna, e così lo stile asseconda le intermittenze di uno sguardo adolescente, puntato soprattutto su un universo familiare alla deriva, nonché su un quartiere – Librino – dentro cui si agita “tutta l’infelicità del mondo”. Nonostante queste premesse, è facile intravedere tra le pieghe del racconto una sottile vena di speranza, una segreta aspirazione al sacro, che non coincide affatto con la divisa da “povera crista” (camicia bianca e gonna blu) che Manuela è costretta ad indossare, né tanto meno con quell’“ambulatorio per miracoli” in cui Minuccia trasforma la sua casa. La ricerca di Dio ha a che fare con il corpo, con l’attesa di un tempo nuovo, con la scoperta dell’altro, con quegli attimi di “azzurro intenso” che tutti almeno una volta abbiamo vissuto, o anche solo immaginato.
Roberta Torre mostra di saper giocare con le parole, spezza la catena del film e rimonta la storia secondo un nuovo ordine, da cui emerge un finale diverso. Senza entrare nel merito delle sostituzioni, proviamo a suggerire una possibile chiave di lettura, prendendola in prestito da quel capolavoro di sapienza e superstizione che è L’albero degli zoccoli: “I miracoli è la forza che l’uomo non ha”.
English abstract
The recent film directed by Roberta Torre, I baci mai dati, is set in Librino (neighbourhood on the outskirt of Catania) and tells the story of a teenager who pretends to talk to the Holy Virgin to attract the attention of her parents. The fake miracle transforms the main character into a sort of “Miss Bernadette” and turns her house into a place of pilgrimage. The paper highlights the importance of the setting of the plot in Librino, and the original visual language of Roberta Torre, that admirably comines realism and vision.
keywords | Roberta Torre; I baci mai dati; Librino, Catania-Sicily.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Rizzarelli, Oltre i miracoli. I baci mai dati di Roberta Torre (Italia, 2011) (con una nota di Stefania Rimini su: Roberta Torre, I baci mai dati, La Tartaruga, Milano 2011), La Rivista di Engramma” n. 91, luglio 2011, pp. 36-40. | PDF