"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

91 | luglio 2011

9788898260362

La paura siCura. Appunti e note di regia*

Gabriele Vacis

English abstract

Librino è il quartiere che incontri se dalla città vai verso l’aeroporto.
A Catania tutti hanno paura di Librino.
Perché?
Librino è un quartiere sorto alla fine degli anni Settanta su progetto di Kenzo Tange. Un grande architetto giapponese che va a costruire un quartiere nuovo di zecca a Catania?
Perché?

Io capisco benissimo perché negli anni Cinquanta e Sessanta sono nate come funghi le periferie torinesi, milanesi, genovesi: perché arrivavano gli immigrati dal sud che andavano a lavorare alla Fiat, all'Italsider o alla Breda. A Torino ne arrivavano anche trecento al giorno. E da qualche parte tutta questa gente bisognava pur metterla a dormire. Quindi, in fretta e furia, si sono costruiti quartieri intorno alle vecchie città del nord. Che così sono diventate metropoli. Settimo Torinese è uno di questi quartieri che, col tempo, sono diventati città.

Ma perché alla fine degli anni Settanta si è costruito un quartiere di 70.000 abitanti alla periferia di Catania?
Voglio dire: Catania è una delle città da cui la gente partiva per andare a Torino, a Genova o a Milano. E non è che alla fine degli anni Settanta la tendenza si fosse invertita. Quello che è successo è che settantamila persone che abitavano nel centro storico o in vecchi quartieri o in paesi vicini, si sono spostate di qualche chilometro verso l’aeroporto. Così ampie zone del centro si sono liberate dei residenti storici. E sono cadute in mano alle speculazioni più feroci. Ma anche più pigre: se giri adesso per il centro di Catania (bello da piangere nel suo barocco lavico) trovi intere zone abbandonate e degradate. Ci stava la gente che adesso abita a Librino. Dove tutti hanno paura ad andare.

Che il progetto sia stato affidato poi ad un archi-star giapponese ha il sapore della beffa. Come se il grande nome internazionale avesse potuto garantire la correttezza dell’operazione. Comunque… Kenzo Tange disegna questo progetto… La gestazione è lunga… Dura sette o otto anni. Alla fine il progetto parte. Ma quando si comincia a costruire, l’archi-star capisce che quello che sta nascendo non assomiglia per niente al suo progetto. Abiura. Dice: “Questo non è quello che ho disegnato io”… E se ne va sbattendo la porta.

Insomma, quello che si vede a Librino adesso, trent’anni dopo la nascita, è una serie di torrioni con molto spazio intorno, secondo il principio moderno di 'Cité Radieuse': abitazioni in verticale circondate dalla natura. Kenzo Tange era un epigono di Le Corbusier. Il problema è che questa natura, qui a Librino, non è fatta di giardini ma di giungla. Leggende metropolitane narrano di serpenti che infestano le foreste tra un casermone e l’altro, basilischi che uccidono col solo sguardo, altre dicono di lupi… Forse nasce da qui la paura che tutti hanno di Librino. Dalla realizzazione di un principio sacro dell’architettura moderna. Comunque: tutti hanno paura di Librino e a Librino tutti hanno paura del palazzo di cemento.

Il palazzo di cemento è uno dei casermoni della ‘Cité Radieuse’. Non l’hanno mai finito perché è stato occupato mentre lo costruivano. Ma chi è che va ad occupare un palazzo non finito nel quartiere del disagio? E qui ripartono le leggende metropolitane. Come la jungla tra un palazzo e l’altro è infestata da fiere esagerate, così il palazzo di cemento è il brodo di coltura delle fiere sociali più temute: droga, criminalità e chi più ne ha più ne metta. Una cosa è certa comunque: le condizioni di vita nel palazzo di cemento non sono propriamente quelle della ‘Cité Radieuse’ di Kenzo Tange.

Se volete farvi un’idea andate su YouTube e digitate “Librino palazzo di cemento” trovate video commentati da neomelodici che parlano di guaglioni senza dumane che vivono ’sta vita che nun ce stà vie d’uscita… Poi c’è un servizio di CanaleCinque con la favola bella di Francesco, ragazzo sensibile che ha avuto la sfiga di nascere a Librino, e che quindi scrive poesie… Insomma c’è di tutto. Se però andate all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=RqQIMD9nBd4 potete farvi un viaggio dentro al palazzo di cemento. Giusto per capire di cosa stiamo parlando.

La paura siCura nelle nostre intenzioni era: andare in giro per il belpaese a chiedere alla gente di cosa ha paura e cosa la fa sentire al sicuro. Un po’ sull’esempio di Pasolini, che all’inizio dei favolosi anni Sessanta se ne andò in giro per l’Italia a chiedere agli italiani cosa pensavano del sesso. I tempi cambiano, quarant’anni fa la cosa importante era il sesso. Adesso è la paura. Insomma volevamo incontrare gente comune, come si dice “comune” del pane che costa meno, ma che spesso è il più fresco, il più semplice e il più buono. E così, scoperto che la gente “comune” a Catania ha paura di Librino ci è venuta la curiosità di sapere di cosa hanno paura quelli di cui tutti hanno paura.

Abbiamo impiantato il nostro set alla scuola “Campanella Sturzo”, proprio nel cuore di Librino (perché scopriremo che questo posto surreale, nonostante tutto, il cuore ce l’ha. E che cuore). Digitate www.campanellasturzo.it e ci trovate una scuola modello. Un sito fatto meglio di tanti siti di istituti di Torino, Genova o Milano. E lo stesso discorso vale per la scuola dal vivo. Corridoi tirati a cera, silenzio e concentrazione durante le lezioni, brusio educato negli intervalli, un’aula computer con quaranta schermi funzionanti e un medagliere di trofei vinti a concorsi di film scolastici… Veramente c’è anche una sventagliata di buchi d’arma da fuoco nella vetrata centrale. Ma quando conosci Lino, il preside, capisci. Lino è un sardo trapiantato a Librino che passa la vita nella scuola. Un burbero benefico che soffoca con il solo sguardo ogni minimo schiamazzo. Gli spari sulla vetrata sono un incidente di capodanno… “Qui sono un po’ turbolenti - dice Lino - e il Comune non si decide a cambiare i vetri, li chiamo una volta al giorno ma niente da fare…”.

È grazie a Lino, ma anche a Rosetta, che non è la bidella perché, dice lei, la bidella è quella che sta seduta e non fa niente: io faccio tutto. È grazie a Raoul Bova, cioè al professor Daniele, però le allieve lo chiamano Raoul Bova e lo adorano, o grazie alle signore che ricamano al tombolo e preparano torte in un’aula messa a disposizione dal preside… Insomma è grazie al cuore di Librino se abbiamo potuto parlare con quelli di cui tutti hanno paura. Ed è soprattutto grazie a Giuliana se abbiamo parlato anche con quelli di cui hanno paura anche quelli di cui tutti hanno paura: quelli del palazzo di cemento.

Giuliana è della Caritas. Ha inventato una specie di centro sociale proprio ai piedi del palazzo di cemento. È un garage con un piano rialzato pieno di libri e giochi. Ci vanno i bambini del palazzo di cemento per cercare di sopravvivere nella giungla. Talità Kum, si chiama così il garage sotto il palazzo di cemento. Se andate sul sito www.talitakumcatania.it vi investe Jovanotti che canta io lo so che non sono solo anche quando sono solo… e capite al volo di che tipi stiamo parlando. Insomma: Giuliana e i suoi la domenica mattina prendono lo Straludobus e vanno ad “animare” Librino.

Lo Straludobus è un camper sgargiantissimo pieno di giochi, dal ping pong alla dama gigante che tu sei una pedina. La domenica mattina lo Straludobus arriva in una delle radure della giungla e comincia a fare casino. Io, per esempio, l’ho visto a piazza dell’elefante, una spianata di cemento di cento o duecentomila metri quadri con casermoni di dieci o venti piani lungo il perimetro. Lo Straludobus sembrava una molecola colorata parcheggiata nel nulla. Poi hanno montato l’amplificazione e hanno cominciato a sparare quella musica tra Viva la Gente e i Metallica, e Giuliana ha cominciato a urlare nel microfono “Ehi siamo qui, scendete a giocare con noi”… Insomma, hanno cominciato a fare un gran casino, sempre nel nulla. È il momento iniziale dell’animazione… Quando ancora l’ambiente si deve scaldare… Ecco: quello è un momento che a me ha sempre fatto più paura… E se se non scende nessuno?… E se Giuliana rimane tutta la mattina ad urlare, cercando inutilmente di fare allegria in questa giungla di cemento, con i suoi amici della Caritas che fanno finta di giocare, loro da soli, con i giochi che hanno montato?… Ecco, questo momento dura un infinito. Ma Giuliana non si scoraggia. Continua ad urlare nel microfono: dài, tu alla finestra del sesto piano! Sei ancora in pigiama? Vestiti e vieni a giocare con noi… Io adesso ho anche un po’ paura, perché se qualcuno ti viene sotto la finestra e ti urla di scendere, una domenica mattina… Insomma, magari la domenica mattina avresti bisogno di una musica un po’ meno invasiva… Non so. Sono capitato nel nucleo essenziale della cosa più triste del mondo: l’animazione finta, l’allegria contraffatta dei villaggi turistici… E Giuliana in versione ‘ehi scendete! Venite a giocare con noi!’. Al Club Mediterranée la scritturerebbero di corsa… Solo che qui non siamo alle Maldive. Siamo a Librino. E se a me mi ammazza di squallore l’animatore alle Maldive, con l’acqua di zaffiro e la sabbia che sembra neve, beh, qui a Librino… Sono lì che mi rigiro in questi pensieri limacciosi, facendo anche un po’ finta che io con quelli non c’entro più di tanto… E poi, per fortuna, io impugno la telecamera, quindi sono lì per documentare… Ecco, sono lì che cerco di giustificare… Non so cosa cerco di giustificare. So che a un certo punto comincia ad arrivare una ragazzina che avrà sedici anni, per mano ha un bambino che cammina appena. Sarà il fratellino. No, è il figlio, mi corregge Giuliana. E dietro di loro arriva un ragazzino della stessa età di lei che spinge svogliatamente una carrozzina: è il marito, mi anticipa Giuliana… Lei comincia a giocare alle costruzioni col bambino più grande, lui parcheggia la carrozzina di fianco a un rialzo di cemento, ci si siede, tira su il più piccolo, da un bacio alla testolina ciondolante e gli indica madre e fratello, come se questo gesto avesse un senso, poi rimane a guardarli, assonnato. Oh, Librino, oh, umanità… Intanto arrivano altri bambini, ragazze, signori anziani. Si formano capannelli intorno ai giochi. Romba persino un bambino di sei sette anni in moto. Giuro. Una moto piccola, della sua misura, ma veloce come una Harley 883. Una signora porta un vassoio e offre biscotti… e meno male che non siamo alle Maldive. Là gli animatori mi avrebbero ammazzato d’imbarazzo, qui mi regalano un momento di allegria struggente. A me e a questa trentina di abitatori della giungla. È evidente che Giuliana studia da santa. Per tutto questo alle Maldive le darebbero carrettate di soldi, invece qui… Insomma, non che questo possa importare a qualcuno, specialmente a lei, ma per me: Giuliana santa subito!

* Sul docufilm La paura siCura di Gabriele Vacis vedi in questo stesso numero l'intervista al regista e il saggio di Stefania Rimini Schegge di racconto nella giungla delle città.

English abstract

Director's notes. Gabriele Vacis on 'La paura siCura', a work that in the director’s intentions was to go around the BelPaese to ask people what they are afraid of and what makes them feel safe. Following the example of Pasolini, who at the beginning of the fabulous Sixties went around Italy to ask Italians what they thought about sex. Times change, forty years ago the important thing was sex, now is fear.

keywords | Notes; Gabriele Vacis; Cinema; Italian contemporary cinema; Catania; Librino; Sicily.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Vacis, La paura siCura. Appunti e note di regia , “La Rivista di Engramma” n. 91, luglio 2011, pp. 47-50. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.91.0010