Mito, tragedia e racconto per immagini nella ceramica greca a soggetto mitologico (V-IV sec. a.C.): appunti per una semiotica comparata
Alessandro Grilli
English abstract
1. Il problema ‘pots and plays’
2. Illustrazione o visualizzazione?
3. Dire l’immagine, vedere la parola
4. Mito, epica e tragedia: che cos’è l’azione tragica?
5. Quello che c’è è quello che si vede? Azione rappresentata e azione riferita sulla scena tragica
6. Complementarità di immagine e tragedia
7. Azione mitica e azione tragica nella rappresentazione vascolare
1. Il problema ‘pots and plays’
Scopo di questo lavoro è chiarire se e in che misura la drammatizzazione tragica del mito e la sua messa in scena in epoca classica possano aver avuto un impatto su alcune rappresentazioni vascolari a soggetto mitologico di area magnogreca, databili tra il tardo V e il IV secolo a.C. Intorno a questo corpus di immagini (delimitato in modo utile ma per molti aspetti problematico da Todisco 2003) ferve da qualche anno il dibattito, a motivo del fatto che i soggetti mitici in esso attestati coincidono con quelli di testi tragici a noi noti (in forma integra o frammentaria), e sembrano quindi incoraggiare la speranza di poter ricavare dalle immagini informazioni sulle modalità di rappresentazione della tragedia attica o delle sue riprese nelle colonie d’Occidente. Quanto cercherò qui di argomentare va inteso in primo luogo come una riflessione metodologica sulle possibilità teoriche, e sulle realizzazioni pratiche, di una comparazione intermodale che miri a giustapporre l’illustrazione vascolare al suo eventuale ipotesto drammatico o teatrale. Alla base del mio approccio al problema c’è infatti la convinzione che, negli studi ormai numerosi sul possibile confronto vaso/tragedia (eredi di una linea di riflessioni su parola e immagine che da Robert 1881 arriva fino a Shapiro 1996, Rutter e Sparkes 2000, Small 2003), non si è attribuita finora la giusta importanza allo specifico dei diversi codici semiotici che organizzano la narrazione mitologica rispettivamente nell’iconografia e nel dramma. Nelle pagine che seguono mi ripropongo invece di esplicitare proprio le diverse logiche che trasformano una storia mitica in racconto – che si tratti degli episodi concatenati in un dramma tragico o della sintesi pittorica su un vaso. Si vedrà come queste logiche siano in larghissima parte complementari o irrelate, al punto da escludere comunque, se non tutte, la maggior parte delle interferenze vaso/teatro solitamente accettate dagli studiosi.
Punto di riferimento obbligato per lo studio di simili interferenze è naturalmente la monografia Pots & Plays di Oliver Taplin (Taplin 2007), che individua, in modo cauto ma propositivo, una serie di elementi formali capaci di legittimare o corroborare l’ipotesi di una relazione tra un vaso figurato e uno specifico dramma (Taplin 2007, 37 sgg.). Un saggio collettivo cui io stesso ho contribuito (Banfi et alii 2012, ripreso in Bordignon 2013, 22-84) problematizza analiticamente i diversi segnali individuati da Taplin come possibili indizi di un’interferenza teatro/immagine. Nel complesso, mi sembra che la prospettiva adottata da Taplin e alcuni dei suoi presupposti vadano messi ulteriormente alla prova: infatti, nonostante la grande cautela dello studioso, che assume una posizione intermedia nella tenzone tra logocentrici e iconofili, le conclusioni di Pots & Plays appaiono ancora sbilanciate in senso logocentrico, o perlomeno viziate da alcune incoerenze. Da un lato, infatti, Taplin formula la sua tesi di fondo in termini vaghi e generici: “a mythological painting may be enriched and informed by the viewer’s knowledge of a particular tragedy, without it being a picture of that tragedy, let alone of its performance” (Taplin 2007, 35). Questa tesi viene ribadita più volte, ed è spesso richiamata per concludere l’analisi di singoli vasi. Il suo carattere ibrido e sfuggente tradisce chiaramente la volontà di conciliare le obiezioni che da più parti si sono registrate in merito alla possibilità e alla natura del confronto vaso/tragedia. A questo fine, infatti, i termini in cui questa tesi è formulata confondono sistematicamente nell’oggetto di indagine i problemi astratti e formali della codifica semiotica con quelli estetici sollevati dall’analisi della fruizione da parte di un destinatario. Così facendo, Taplin non sembra avere una visione ben chiara de suo oggetto di indagine. Nelle varie teorie dell’interpretazione letteraria, infatti, si possono grosso modo distinguere orientamenti che collocano il significato dell’oggetto artistico in tre luoghi distinti: una teoria, largamente prevalente nell’orizzonte dello storicismo, considera in modo privilegiato l’intentio auctoris; un’altra, che si può identificare con l’orientamento metodologico del new criticism, ritiene che il significato sia oggettivamente presente nel testo e che il compito dell’interprete sia solo riconoscerlo ed esplicitarlo. La terza, più recente, mette invece l’accento sull’aspetto pragmatico della ricezione, sostenendo che il significato del testo viene prodotto dal destinatario nell’atto stesso della sua fruizione ermeneutica (tra gli esponenti di questo orientamento va ricordato in primo luogo Stanley Fish 1980). La formulazione scelta da Taplin non distingue il piano della significazione oggettiva da quello della realizzazione pragmatica da parte di un destinatario. In altri termini, le immagini sui vasi vengono trattate come oggetti di significato x (illustrazione di racconto mitico), tranne quando la presenza di un destinatario esperto contribuisce a realizzare non tanto il significato y (più preciso e sfaccettato di x), ma l’esperienza estetica y, distinta (e disomogenea) rispetto al significato x. Vedremo nel prossimo paragrafo come il concetto di ‘lettore implicito’ aiuti invece ad armonizzare questa discrasia.
Limitandoci per ora ad analizzare le implicazioni logiche e fattuali della tesi di Taplin, cominciamo col metterne in evidenza i contenuti specifici: essa afferma in ultima analisi che l’influenza della tragedia sulla ceramografia consiste nell’aiuto che la conoscenza del mito tragico (opposto cioè alla tragedia intesa come testo o come spettacolo) offre alla decodifica delle immagini a soggetto mitologico. Questa tesi mi sembra senz’altro sostenibile, ma soltanto perché essa è una cosiddetta ‘tesi debole’ (si può vedere quanto scrivo sulle varie tipologie di tesi interpretative in Dell’Aversano-Grilli 2005) – cioè non predica qualcosa di aberrante, controintuitivo o anche solo radicalmente nuovo rispetto al senso comune diffuso nella comunità di riferimento. Se si considerano infatti i principali studi sulla narrazione mitica per immagini, si scopre che la tesi generale di Pots & Plays si sovrappone in gran parte a quello che definirei il principio di base della narrazione per immagini: “You cannot recognise the image of a myth unless you already know the story” (Woodford 2003, 38; vd. anche Goldhill e Osborne 1994). E così la lettura delle immagini a contenuto mitologico su vasi magnogreci è sicuramente “enriched” (Taplin 2007, 35) dalla conoscenza delle storie trattate nelle tragedie correlate. Ma, ripeto, delle storie: un ipotetico spettatore sordo o distratto che avesse solo visto la tragedia a teatro senza averne capito i contenuti non riuscirebbe in alcun modo a leggere correttamente le immagini a quella tragedia correlate. La tesi di fondo di Taplin è quindi accettabile se riferita al solo contenuto mitico della tragedia e non alla sua messa in scena. Viceversa, alcuni dei criteri suggeriti da Taplin (il costume ‘orientale’; le calzature a stivale; gli elementi architettonici direttamente ricondotti a una raffigurazione di ‘stage props’) si collocano chiaramente (anche se mai rozzamente) in una prospettiva logocentrica, secondo cui cioè il ceramografo trasferisce sul piano dell’espressione artistica la sua esperienza di spettatore della scena tragica, presupponendo al tempo stesso nel suo destinatario una comune conoscenza della materia mitologica rappresentata. Questa parte del lavoro di Taplin (che peraltro ribadisce in moltissimi luoghi la cautela necessaria per questo tipo di ipotesi) mi sembra meno accettabile, sia perché incoerente, a ben vedere, con i termini della sua stessa tesi di fondo, sia perché essa richiede un tipo di argomentazione che Taplin non fornisce. Nella sua analisi, infatti, lo studioso non dà conto adeguatamente dei numerosi – ben noti e ben riconoscibili – fattori intrinseci con cui si confronta ogni ceramografo al momento dell’ideazione e dell’esecuzione di una scena a soggetto mitologico (solo per fare gli esempi più cospicui: l’inerzia del repertorio di forme e di pose; l’esistenza di moduli narrativi consolidati già a monte dello sviluppo del teatro; la varietà e la ricchezza della cultura visiva dell’uomo greco rispetto all’esperienza teatrale; la polisemia delle forme e dei gesti; la necessità di risemantizzare i temi iconografici in riferimento al contesto di fruizione del vaso ecc.: su tutti questi punti mi permetto di rimandare a quanto già argomentato nel lavoro collettivo Banfi et alii 2013). Questo permetterebbe ad esempio di chiarire fino a che punto i ‘costumi’ tragici o le ‘scenografie’ rappresentate nella pittura vascolare si possano invece intendere come semplice adeguamento a un codice iconografico di rappresentazione, la cui semiotica viene chiarita dal rimando a un repertorio ad esso omogeneo di moduli espressivi, più che a un’esperienza di ordine diverso come la fruizione del testo/spettacolo teatrale.
2. Illustrazione o visualizzazione?
Sulla questione di fondo del rapporto fra teatro e ceramica, in generale, mi sembra inevitabile rifiutare l’idea di un’influenza diretta del teatro sull’iconografia vascolare. La tesi di Taplin appena presa in esame, o quella di Luca Giuliani, secondo cui i miti teatrali si riflettono nella fruizione delle immagini facendo leva in primo luogo sulla diffusione libraria dei drammi (Giuliani 2002; 2003), riposano su presupposti in parte corretti, anche se non tutti ugualmente condivisibili (e comunque la tesi di Giuliani mi sembra cogliere meglio lo stato della questione). A mio giudizio, infatti, non è necessario postulare, come sostiene Taplin, che la lettura dei vasi fosse facilitata dall’esperienza diretta delle tragedie messe in scena; né che lo fosse, come invece sostiene Giuliani, dalla lettura dei drammi. La mia posizione è affine, ma più generale, e consiste nell’affermare che per la corretta comprensione del testo iconico su vaso fosse necessario e sufficiente avere una competenza di base nella decodifica delle convenzioni iconografiche unita a una conoscenza di base della vicenda del mito (che per le tragedie su soggetti interamente o parzialmente non tradizionali, come si sa, coincide di necessità con la specifica versione mitica al centro del dramma). Questa conoscenza risulta perfettamente trasmissibile come semplice storia a carattere mitologico, ovvero come riassunto, in forma scritta o più facilmente in forma orale, della trama di un’eventuale tragedia letta o messa in scena – ma anche come risultato del processo di socializzazione, istruzione, educazione religiosa ecc. È del tutto legittimo pensare, del resto, che così sia avvenuto in un mondo la cui inclinazione alla trasmissione sistematica e al compendio scolastico ha distillato tra l’altro trame di tragedia anche in raccolte di brevi racconti come le Fabulae di Igino.
Questo non significa che gli spettatori o i lettori di una determinata tragedia non potessero apprezzare più intensamente una rappresentazione vascolare, ma che questo surplus di intensità, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, non può essere considerato un prerequisito essenziale alla fruizione del vaso in quanto esso riguarda eventuali destinatari empirici particolari, e dunque irrilevanti all’analisi semiotica dell’oggetto nonché alla sua codifica da parte del ceramografo. Di conseguenza, non è di questo che dobbiamo preoccuparci: muovendoci in un orizzonte di pura ricostruzione congetturale, il nostro obiettivo si limita – si deve limitare – a ipotesi sulle competenze necessarie e soprattutto sufficienti del fruitore ‘tipo’, di colui che la teoria della letteratura, a partire da Wolfgang Iser (1972), chiama il destinatario implicito del testo. È sempre possibile che uno specifico individuo – un amico del vasaio, un uomo di teatro o una persona di grande cultura – rappresentassero destinatari ottimali di un manufatto illustrato a soggetto mitologico, ma è bene ricordare che i singoli destinatari empirici, come pure i casi-limite superiori, vanno tenuti comunque distinti sul piano teorico dal destinatario implicito, il quale non è un individuo concreto con determinate proprietà ma la semplice risultante di una rete di segnali immanente al testo (tanto più nel caso di una produzione semiindustriale come quella della ceramica figurata). La prospettiva di Taplin, dunque, va qui respinta proprio perché essa coinvolge come parte essenziale dell’oggetto di studio un elemento (il destinatario fornito di speciali conoscenze) che per stessa ammissione dello studioso non è presente per necessità strutturale, ma solo occasionalmente.
La mia indicazione di metodo è radicalmente diversa: se si vuole capire come funzionano le immagini vascolari a soggetto mitologico, e in che termini si può impostare il problema del loro rapporto con i miti tragici, non si devono seguire le variazioni di significato dell’immagine a seconda della stratigrafia sociale dei destinatari, ma solo il processo di significazione a monte, nei suoi rapporti con il destinatario implicito, necessariamente e a priori presupposto dalle immagini. Sono convinto, in particolare, che l’organizzazione narrativa propria rispettivamente della tragedia e della pittura vascolare sia descrivibile analiticamente in modo da metterne in evidenza alcuni aspetti specifici, appurati i quali risulterà molto più facile capire se e in che misura l’organizzazione narrativa di una certa immagine può aver tratto ispirazione diretta o comunque ravvicinata dalla modalità espressiva teatrale.
La tesi generale che sostiene questo mio lavoro è che se, come credo, si può parlare di un rapporto tra le due forme di codificazione semiotica, questo non si può in nessun caso immaginare come un rapporto di derivazione diretta dell’immagine dalla messa in scena, e forse nemmeno dal solo testo drammatico. Il legame che unisce tragedia e pittura vascolare non passa da una concreta esperienza visiva, ma dalla visualizzazione mentale di un racconto. Possiamo immaginare che alcune immagini su vaso siano il riflesso di esperienze dirette, vale a dire di specifici eventi ben individuati (questo potrebbe valere ad esempio per molti vasi a soggetto fliacico, che esibiscono la loro teatralità in modo realisticamente così dettagliato da far pensare alla riproduzione di specifiche messe in scena); tuttavia, anche in quei casi, i criteri di composizione e di organizzazione dell’immagine rispondono più a codici iconografici e a pratiche artistiche consolidate che a un’effettiva volontà di riproduzione ‘diretta’ della realtà. La maggioranza assoluta delle rappresentazioni mitologiche, però, può essere analizzata come il tentativo di riorganizzare, nel modo più consono ai limiti e alle funzioni del medium iconico, un contenuto narrativo non specificamente legato a una messa in scena ma a una narrazione mitologica.
Detto in altri termini: il legame che unisce tragedia e iconografia vascolare si colloca al livello molto rudimentale e primitivo della ‘storia’ mitica, ovvero, per usare il termine reso ormai corrente dalla narratologia genettiana, della fabula (Genette 1972). È questa fabula o ‘storia’ la matrice che possiamo supporre a monte di entrambi i nostri oggetti di studio: da un lato essa genera la tragedia, leggibile quindi come trama specifica che segmenta, seleziona e riorganizza, nel necessario rispetto del codice tragico, i dati presenti in forma completa e lineare nella fabula; dall’altra essa genera il racconto figurativo, che nuovamente seleziona e organizza il materiale mitico in modo congruo con i codici rappresentativi disponibili e specifici di quel mezzo.
Questa formulazione di massima, peraltro, va ulteriormente precisata: essa sembra postulare infatti un semplice stemma bipartito, con la storia mitica al vertice e, in due distinte diramazioni, l’immagine mitologica e la tragedia (unite al limite da una linea tratteggiata). In realtà, come non esiste in concreto una langue senza una parole, cioè un codice enunciativo al di là dei singoli enunciati, così una fabula mitica non esiste al di là delle sue concrete attestazioni. Per tutta la durata della cultura greca il mito si è tramandato fino a noi e ci è stato reso accessibile in concrete attestazioni letterarie, prima epiche e liriche, poi drammatiche e di altri generi letterari (oltre che ovviamente nelle immagini a contenuto mitologico). Questo ha fatto sì che la fabula stessa dei miti risentisse nel corso dei secoli, modificandosi di conseguenza, dei loro trattamenti letterari, tra cui spiccano senz’altro quelli tragici. Ma tutto questo mio discorso vuole mettere in evidenza in primo luogo un altro aspetto: che se i testi letterari sono gli unici o i principali ‘enunciati’ mitologici giunti fino a noi dall’antichità classica, ciò non significa che la comunicazione ordinaria, quella della lingua parlata e delle costruzioni simboliche nello scambio sociale, procedesse soltanto per via di testi letterari: anche se noi, giocoforza, conosciamo solo testimonianze scritte e in particolare discorsi letterari, per gli antichi i miti erano un oggetto culturalmente pervasivo, e nei contesti più vari (dalla scuola alla prassi religiosa, dalla vita quotidiana alle più diverse manifestazioni dell’immaginario). Che a monte di un racconto mitico inserito come tale nelle dinamiche di scambio sociale ci fosse la semplice tradizione popolare o uno specifico testo letterario (epico lirico tragico), poco importa: una volta entrata nell’enciclopedia mitica condivisa, anche una storia inventata da un poeta, e magari articolata in modi specifici e originali, tornava ad essere, come storia, puro patrimonio narrativo, recuperabile e modificabile in nuovi enunciati linguistici o iconografici.
Aver esplicitato queste premesse dovrebbe rendere più chiaro il mio obiettivo e il percorso che vorrei seguire: per mostrare come l’iconografia mitologica rifletta più la fabula che la ‘trama’ di specifiche attuazioni letterarie (sempre allo scopo, beninteso, di verificare in che termini abbia senso l’ipotesi di interferenze teatro/vaso), mi ripropongo di esplicitare per quanto possibile i principali fattori formali intrinseci sia alla ‘sceneggiatura’ tragica del mito, sia alla sua narrazione iconografica.
Vorrei a questo punto sottolineare alcune incompatibilità strutturali che oppongono narrazione tragica e narrazione per immagini, o per lo meno le diverse logiche semiotiche cui sono soggette le due modalità espressive. Prima ancora di confrontare i codici drammatico e iconografico, è bene mettere in chiaro che in ciascuno di essi sono presenti fattori specifici, che non di rado agiscono addirittura come forze concorrenti: tanto per fare un esempio, nella grammatica di produzione dell’immagine è ben evidente una tensione tra le esigenze di distribuzione spaziale delle figure e le esigenze di articolazione del contenuto narrativo. Una valutazione dell’equilibrio tra le varie determinanti è cruciale per il discorso comparativo, perché ciò che può sembrare determinato dall’affinità postulata con la semiotica tragica si può invece spiegare come effetto di una dialettica totalmente interna alla singola modalità espressiva.
Questa analisi dovrebbe aiutare insomma a ‘depurare’ la lettura delle illustrazioni mitologiche su vaso dallo spesso strato di convenzioni rappresentative indipendenti dal dramma e dalla prassi teatrale, e distillare così quegli elementi, circoscritti ma più affidabili, in cui echi di un’esperienza spettacolare si possano effettivamente individuare (per l’opposizione dramma/spettacolo vd. De Marinis 1982). Ciò che più mi sta a cuore, in ogni caso, non è tanto fin dove arriva la possibilità di ricostruire la tragedia perduta a partire dai vasi conservati, quanto piuttosto secondo quali criteri vada impostato il discorso comparativo. Mi considererò soddisfatto se questi appunti aiuteranno a comprendere a quali vincoli specifici delle due modalità espressive vadano in ogni caso soggetti i contenuti del mito.
3. Dire l’immagine, vedere la parola
Impostare il discorso sulla possibile interazione fra mito tragico (inteso senza distinguere per ora il livello del testo drammatico da quello della messa in scena) e iconografia vascolare è molto difficile a priori a causa dei rapporti stretti e inestricabili che intercorrono tra parola e immagine. Come ogni discorso ha in sé la potenzialità di evocare immagini, così le immagini possono essere e vengono di fatto lette per lo più con la mediazione della parola (si pensi, solo per fare un esempio, all’esigenza della titolazione, che, pur se riduce al minimo l’apparato di commento verbale, mostra come la fruizione dell’immagine presupponga strutturalmente una mediazione linguistica). Ma, in particolare, nel percorso dall’esperienza tragica (drammatica e teatrale) alla sua possibile ‘illustrazione’ vascolare è molto probabile che abbiano un ruolo di rilievo le versioni narrative semplificate della vicenda elaborate da ogni singolo fruitore: la complessità stessa dell’oggetto ‘tragedia’ fa sì che esso si possa inserire nello scambio sociale sotto forma di sintesi variamente segmentate. È la stessa tendenza testimoniata dagli Argumenta che nella tradizione manoscritta antica e bizantina sono talora premessi ai drammi, e dove non a caso l’articolazione tragica del mito viene di necessità ridotta alle sole azioni salienti (della fabula o della trama specifica).
L’incidenza di questa trasformazione verbale è particolarmente evidente nel caso dell’immagine a contenuto mitico: se è vero che la nostra comprensione della rappresentazione iconografica avviene nella misura in cui conosciamo la storia, è chiaro che la nostra capacità di decifrazione presuppone a monte una conoscenza verbale degli attori (in senso narratologico, beninteso) e delle azioni rappresentati.
Se io osservo ad esempio l’immagine su un’anfora attica a figure rosse, devo già sapere (dall’Inno omerico ad Afrodite, come da altre fonti a noi non note – ma va benissimo un qualsiasi manuale mitologico…) che la figura femminile alata è la dea dell’aurora, e il giovanetto che sembra sfuggirle è il principe Titono, amato e, secondo alcune fonti, rapito dalla dea.
La conoscenza degli attributi iconografici, che mi permette di identificare gli attori della scena, mi permette altresì di comprendere analiticamente i gesti e la situazione rappresentati. Questa stessa comprensione analitica costituisce la base della comprensione ulteriore, che passa dal piano dell’iconografia a quello della semiosi iconologica: la storia dell’amore di Eos per Titono diviene infatti un modulo formale e compositivo che permette la rappresentazione per immagini del desiderio amoroso. Anche l’astrazione iconologica, perciò, per quanto in maniera mediata, deriva in ultima analisi la sua materia dalla stilizzazione di un’azione narrativa, veicolata cioè inevitabilmente tramite la parola.
Sul versante dell’adattamento teatrale del mito, invece, il discorso è ancora più complesso: la tragedia era sì parola, ma anche spazio, scenografia, gesto, voce, musica, danza – una realtà multimediale di cui oggi ci resta soltanto lo scheletro verbale. La ricostruzione della messa in scena in epoca classica riposa quindi giocoforza, oltre che sull’evidenza archeologica e su sparute testimonianze indirette, essenzialmente sulla stessa componente verbale dell’azione (Arnott 1962; Arnott 1989; Di Benedetto-Medda 1997). La parola tragica, senz’altro, era di primaria importanza: lo possiamo inferire dal fatto che nel corpus di drammi conservati nessuna azione drammatica presuppone, per essere compresa, elementi che non siano esplicitamente menzionati nel testo. Tutto ciò che di rilevante avviene in scena, sembra di potersi inferire, viene in qualche misura inscritto nel linguaggio stesso, che quindi coopera con le azioni – enfatizzando orientando completando ciò che lo spettatore poteva inferire dalla visione stessa della scena.
Questo peraltro non vuol dire che noi possiamo escludere a priori la pratica della controscena, ovvero di un’azione simultanea a quella presupposta dal testo ma indipendente e non registrata da esso (ciò che fa un attore mentre un altro recita). Nel teatro contemporaneo la pratica della controscena è estremamente sviluppata, soprattutto nella sua accezione di scollamento straniante di gesto e parola, tale da evidenziare, con la messa in scena di un’azione lontana dalla lettera del testo recitato, la risemantizzazione su cui si basano le scelte creative del regista. Questo è molto comune nella messa in scena di drammi del repertorio classico, perché consente appunto di rispettare la lettera di testi recepiti come canonici e immutabili, lasciando però ampio spazio alle reti di significato indispensabili all’attualizzazione creativa (sulle strategie della semiosi teatrale si veda in generale Elam 1980).
È possibile che nel teatro antico la pratica della controscena fosse più contenuta, ma non abbiamo ragione di escludere che una specifica orchestrazione delle entrate/uscite dei personaggi, o una particolare gestione del coro, permettessero anche in quel settore una certa libertà espressiva. Si tratta di un elemento molto rilevante per il nostro discorso, perché la controscena aggiunge in sostanza una dimensione polifonica a un’organizzazione narrativa che, dalla nostra posizione di posterità remota, appare invece come rigorosamente e inflessibilmente lineare e non può che essere trattata (studiata, analizzata, descritta) come tale. Ma, si intuisce altrettanto facilmente, una realtà di cui sussistono prove solo e silentio rischia di produrre continue petizioni di principio. Qualche indizio abbastanza solido di controscena, peraltro, si può individuare anche in alcuni dei drammi conservati; ad esempio nell’Edipo Re di Sofocle, dove l’episodio col messaggero di Corinto si articola in una lunga sticomitia fra il re e lo straniero, cui assiste – presumibilmente sempre più sconvolta – anche la regina. Dalle parole pronunciate sappiamo solo che, fino al v. 987, Giocasta respinge con ottimismo i timori di Edipo. Dopo quella battuta il personaggio resta in scena, e capisce, unico tra i presenti, il senso recondito delle rivelazioni portate dal messaggero di Corinto. Quando la regina riprende la parola (vv. 1056 sgg.), il suo atteggiamento è profondamente mutato, ed è verosimile che questa trasformazione, che il testo non registra in alcun modo, fosse segnalata al pubblico da segnali drammatici non verbali. Naturalmente esistono un’accezione forte e una debole del termine ‘controscena’: se la prima indica tutte quelle azioni rilevanti per lo sviluppo del dramma eseguite in silenzio dai personaggi presenti sulla scena ma non impegnati in un dialogo (come l’agnizione di Giocasta, che di lì a poco correrà a suicidarsi), una forma elementare di controscena è costituita comunque dal complesso di gesti e di azioni compiuti dai vari personaggi durante le battute dei loro interlocutori. A meno di non postulare, in modo poco probabile, una recitazione totalmente statica, è assai probabile che tra una battuta e un’altra di un dialogo i personaggi in silenzio emettessero comunque segnali col corpo o con la posizione sulla scena.
L’esempio della controscena serve peraltro solo a sottolineare un triste paradosso: della dimensione visiva della tragedia antica noi non abbiamo alcuna evidenza diretta: tutto ciò che possiamo immaginare ci viene dalle parole – beninteso, solo se siamo disposti a credere che semplici indicazioni spaziali o prossemiche possano in qualche modo supplire la perdita della componente spettacolare. È ormai oggetto di consenso pressoché unanime che i tentativi di ricostruire la scena tragica classica basandosi sull’iconografia vascolare a tema mitologico, come si è fatto a lungo e in forme anche molto articolate (da Séchan 1926 a Trendall e Webster 1971: per una discussione della storia degli studi vd. quanto scrive Ludovico Rebaudo in Banfi et alii 2013, 55 sgg.), siano solo una petizione di principio: se noi accettiamo per ipotesi che i vasi riflettano la messa in scena, diventa facile per noi visualizzarla secondo quelle indicazioni; ma l’impostazione corretta del problema è quella opposta: come e in che misura, conoscendo la tragedia greca solo dai pochi testi conservati, possiamo riconoscere nell’iconografia vascolare le tracce della loro messa in scena per noi del tutto ignota?
Quanto appunto sia ignoto e inafferrabile l’oggetto principale della nostra indagine è rivelato dal tipo di petizioni di principio, di incongruenze o di anacronismi che, anche involontariamente, si producono quando si parla di messa in scena tragica del mito. Consideriamo un esempio concreto: in un suo saggio importante sulla rappresentazione iconografica di narrazioni mitologiche, Klaus Junker riflette sulle forme della narrazione per immagini analizzando una celebre coppa attica che rappresenta Edipo e la Sfinge (fig. 2).
Allo scopo di sostenere l’idea – del resto affatto condivisibile – che l’immagine non vuole essere passiva visualizzazione di un concreto momento dell’azione, bensì una sua stilizzazione che tiene conto di altri fattori più generali, Junker deve prima mettere in guardia da una serie di false piste che si aprono agli occhi del lettore inesperto. Una di queste è la tentazione di prendere l’immagine per una cristallizzazione immediata dell’azione mitica:
Das Momenthafte oder Simultane der Darstellung verleitet dazu, darin [in questa immagine] eine Art wörtliche Illustration einer mythischen Handlung zu sehen, vergleichbar dem Szenenbild einer Theateraufführung [45, corsivo mio].
Il discorso di Junker prosegue poi asserendo che l’immagine non è affatto questa semplice cristallizzazione, perché è arricchita da altri elementi che lo studioso si premura subito di analizzare e descrivere. A noi però interessa non tanto il discorso generale di Junker, quanto il segmento in corsivo nella citazione: esso è infatti un riflesso, sicuramente non del tutto volontario, di un modo fallace di intendere l’esperienza teatrale da cui nemmeno uno specialista consapevole come Junker risulta esente. Come si capisce, infatti, la messa in scena teatrale viene suggerita come termine di confronto contrastivo, e il discorso dà per scontato che essa sia ciò che invece l’immagine su vaso non è, ovvero una resa immediata e senza filtri dell’azione mitica. L’immagine su vaso è stilizzazione stratificata di un racconto, sembra dire Junker, mentre ciò che si vede sulla scena in un momento dato è esattamente la riproduzione mimetica, la realizzazione letterale «einer mythischen Handlung». Orbene, Junker deve star parlando in senso metaforico, o comunque avere in mente il teatro moderno (lo “Szenenbild” suggerisce stranamente l’idea di ‘foto di scena’); è certo che, se si riferisce alla scena classica, questo suo presupposto è fallace, non solo perché abbiamo ragione di ritenere che l’aspetto visuale delle messe in scena antiche, oggi perdute, obbedisse a criteri di stilizzazione non minori di quelli dell’iconografia contemporanea; ma soprattutto perché una conoscenza anche superficiale delle tragedie classiche conservate ci mostra che il loro rapporto con l’‘azione mitica’ è ben lontano da un’attuazione lineare. La tragedia, paradossalmente, non è azione mitica (“mythische [...] Handlung”), o lo è solo in misura marginale. Tra il racconto mitico e la sua versione tragica sussistono enormi differenze, certo non minori di quelle che si possono individuare tra quel racconto e le sue rappresentazioni iconografiche. L’azione che ha luogo in una “Theateraufführung” dove l’immagine scenica coincide con l’azione mitica sembra aver meno a che vedere con il teatro, dunque, che con la pittura stessa: l’affermazione di Junker è valida infatti per un solo tipo di teatro, storicamente ed esteticamente ben riconoscibile: quello improntato appunto al pittoricismo, dove le azioni mitiche si cristallizzano in composizioni che le raffigurano senza mediazioni nell’evidenza del loro accadere, arricchendole soprattutto di una rete allusiva a moduli e forme pittoriche dell’enciclopedia condivisa dall’autore e dal suo pubblico. Ma il pittoricismo, come sappiamo, è solo una scelta estetica assai rara nella concreta prassi teatrale. L’azione sulla scena, al contrario, è di solito ben lontana dalla sintesi, che invece è privilegiata appunto dalle composizioni iconografiche.
Il curioso equivoco di Junker ci permette così di mettere a fuoco un ulteriore aspetto, per alcuni versi paradossale, nei rapporti tra iconografia narrativa e narrazione verbale, tra immagine e parola: se la narrazione (il linguaggio) si sviluppa linearmente in diacronia, l’immagine, aggregato di forme senza movimento, è invece percepibile tendenzialmente in modo sincronico (naturalmente la sincronia assoluta è solo un’astrazione: anche un’immagine viene decodificata nel tempo, e l’occhio del fruitore disegna un suo percorso, più o meno consapevolmente orientato dall’artista, che finisce per determinare una dimensione diacronica secondaria nell’esperienza estetica). Questo significa che l’organizzazione dei contenuti del mito tramite la parola privilegia percorsi analitici, che mettono in evidenza gli snodi causali e soprattutto la concatenazione temporale degli accadimenti. Al contrario, l’immagine è incline piuttosto all’organizzazione sintetica, dove emergono con la massima chiarezza i fattori sincronici (azioni, relazioni spaziali ecc.) ma più difficilmente quelli temporali o logico-causali. Nonostante questa importante differenza di fondo, immagine e parola sembrano voler correggere, temperare sul piano espressivo le proprie caratteristiche strutturalmente predominanti. La semiosi dell’immagine, ad esempio, cerca di compensare i limiti espressivi del mezzo forzando la dimensione sincronica propria della figura statica con elementi antirealistici, che allontanano cioè l’immagine narrativa dalla fisionomia di semplice ‘fotogramma’ di un istante di realtà.
Un esempio classico della semiosi propria della narrazione per immagini è in un celebre vaso da Eleusi (ma questa stessa impostazione dell’immagine è attestata altre volte anche successivamente), che rappresenta l’accecamento del Ciclope ad opera di Odisseo e dei suoi compagni.
Lì la successione analitica di due momenti della storia mitica, narrati in successione nei testi letterari, a cominciare dall’archetipo odissiaco, viene compressa in una composizione apparentemente unitaria e sincronica: mentre nel mito il Ciclope viene prima fatto ubriacare e poi accecato nel sonno, qui l’istante dell’accecamento coglie il mostro mitologico mentre ancora tiene in mano una coppa: i due momenti, ben distinti nella storia mitica, sono compressi dalla ‘trama’ del racconto per immagini all’interno dello stesso ‘istante’ colto dalla rappresentazione.
Viceversa, la drammatizzazione del mito non si limita solo a riportare le azioni della storia mitica nella loro linearità temporale, cosa in fondo comune anche ad altre forme di discorso mitico (ad esempio in epica o negli excursus mitologici della lirica corale), ma ama indugiare nell’esplorazione logico-riflessiva dei nessi, che vengono così a costituire dei momenti di stasi all’interno della diacronia narrativa. Troppo facilmente si dimentica che la tragedia nasce dal canto e dalla danza, e che in epoca classica il canto e la danza ne costituiscono ancora la componente essenziale. Ma i cori, come si sa, raramente contribuiscono in modo organico al progresso dell’azione: nella maggioranza dei casi essi rappresentano un momento di stasi del racconto mitico, tanto che nel V secolo cresce progressivamente, e poi alla fine prevale nel secolo successivo, la tendenza a inserire in un’azione tragica canti corali irrelati al resto della vicenda.
Questi due esempi dovrebbero chiarire la paradossale complementarità della semiosi teatrale e figurativa: la tragedia è discorso nel tempo, e si configura dunque in teoria come sostanziata da azione in presa diretta; ciò nonostante essa tende piuttosto alla stasi riflessiva, e marginalizza l’evento dinamico in luoghi quantitativamente o qualitativamente decentrati (come vedremo meglio tra poco). Viceversa l’immagine si sostanzia per sua natura di forme statiche, cui è strutturalmente estraneo il movimento e lo sviluppo diacronico; cionondimeno l’iconografia ricerca in ogni modo il superamento di questa stasi imposta dal mezzo tramite la compressione sintetica della narrazione, e in generale tramite il dinamismo garantito dalla selezione dei momenti apicali dell’azione.
4. Mito, epica e tragedia: che cos’è l’azione tragica?
L’alterità invalicabile che sembra opporre parola e immagine come azione nel tempo vs. stasi senza tempo non regge dunque alla prova dei fatti nel caso specifico del teatro tragico: la tragedia, benché parola e azione, tende a configurarsi come un modo del tutto peculiare di organizzare i contenuti narrativi, e per essa il dinamismo dell’azione, così importante per l’iconografia, appare un aspetto decisamente secondario. Vale la pena a questo punto di esplorare più in dettaglio in cosa consista questa peculiarità, per capire se e in che misura è possibile definire l’azione specifica del dramma tragico e della sua messa in scena rispetto all’azione di cui appaiono sostanziati i racconti mitici.
Sul piano propriamente narrativo, la tragedia si contrappone all’epica per la sua maggiore focalizzazione: al centro del dramma è un momento specifico di un mito che nella sua interezza può contenere anche più episodi significativi.
In literature, epics are expansive, recounting a series of events with lively descriptions of settings and actions, and including many digressions and amplifications; tragedies, by contrast, are normally restricted to a single pivotal event, enacted by few characters within a limited time span (Woodford 2003, 43).
La distinzione era ben chiara già a Aristotele, che nella Poetica precisa appunto (1449 b10-17):
ἡ μὲν οὖν ἐποποιία τῇ τραγῳδίᾳ μέχρι μὲν τοῦ μετὰ μέτρου λόγῳ μίμησις εἶναι σπουδαίων ἠκολούθησεν· τῷ δὲ τὸ μέτρον ἁπλοῦν ἔχειν καὶ ἀπαγγελίαν εἶναι, ταύτῃ διαϕέρουσιν· ἔτι δὲ τῷ μήκει· ἡ μὲν ὅτι μάλιστα πειρᾶται ὑπὸ μίαν περίοδον ἡλίου εἶναι ἢ μικρὸν ἐξαλλάττειν, ἡ δὲ ἐποποιία ἀόριστος τῷ χρόνῳ καὶ τούτῳ διαϕέρει, καίτοι τὸ πρῶτον ὁμοίως ἐν ταῖς τραγῳδίαις τοῦτο ἐποίουν καὶ ἐν τοῖς ἔπεσιν.
L’epica dunque segue la tragedia nell’essere un’imitazione di caratteri seri scritta in versi; differisce invece perché ha un solo metro e perché è una narrazione, e inoltre per la durata: l’una cerca di restare nell’ambito di una sola giornata, o di superarlo di poco, l’epica è diversa perché indeterminata nel tempo, benché all’inizio anche le tragedie si regolassero sotto questo riguardo come i poemi epici (trad. G. Paduano).
Questa opposizione epica/tragedia sembra un dato acquisito nello studio dell’iconografia a contenuto narrativo; secondo Shapiro 1996, a essa corrisponde, nel codice della rappresentazione iconografica del mito, una polarità nel modo di articolare la narrazione: a volte infatti l’artista sceglie di rappresentare una vicenda anche lunga e complessa, come appunto i miti del racconto epico; altre volte si riscontra invece una tendenza alla focalizzazione monocentrica, affine alla selezione narrativa propria della tragedia.
Questa contrapposizione è senz’altro legittima e produttiva, ma a mio modo di vedere non del tutto rigorosa; anche la tragedia può affrontare miti complessi e articolati – in quel caso non in un singolo dramma, ma in una tetralogia, quel sistema di drammi che, almeno nella prima fase di sviluppo del teatro tragico, offre al drammaturgo possibilità di concreta emulazione del grande racconto epico. Le peculiarità principali della narrazione mitologica filtrata dal codice tragico sono legate essenzialmente ai limiti tecnici e alle conseguenti convenzioni formali del genere.
Se si considerano semplicemente i miti narrati come fabula, come ‘storia’ (Genette 1972), allora epica e tragedia non presentano differenze di rilievo: in entrambi i generi sono compresi racconti di vicende mitiche che, se ridotte alla pura sintesi degli eventi, potrebbero facilmente coincidere (e non si dimentichi in particolare la scelta omerica di focalizzare la narrazione dell’Iliade intorno al solo tema principale dell’ira di Achille, scelta in cui già Aristotele vede un riflesso dell’eccellenza poetica di Omero). Se invece si guarda al modo in cui queste ‘storie’ vengono articolate in racconto, si constata come la tragedia soggiaccia a convenzioni sensibilmente più restrittive rispetto ai generi propriamente narrativi – restrizioni di ordine quantitativo e qualitativo.
Sul piano quantitativo, i limiti sono fissati dal numero di attori e di coreuti via via impegnati nell’azione. Anche se un mito comprende grandi quantità di personaggi, solo due o tre figure individuate possono essere compresenti sulla scena tragica; anche la completa solitudine di un personaggio è possibile solo nelle scene prologiche e nelle rare occasioni in cui il Coro esce dalla scena (ad esempio nell’Aiace di Sofocle). Del resto la moltitudine può essere espressa solo dall’individualità multipla ma indistinta del Coro. La totalità dei personaggi di una vicenda, insomma, non è mai presente sulla scena tragica, ma si può ricostruire solo a posteriori – mentre molti vasi a soggetto mitologico, potremmo ricordare per incidens, amano esibire vere e proprie rassegne di tutti i personaggi coinvolti. A questo repertorio di possibilità nel complesso piuttosto limitato si contrappone la relativa libertà della narrazione mitica nel genere epico, che può comprendere a un estremo scene di completa solitudine (Achille sulla riva del mare in Iliade I), all’altro grandi scene di massa (la mnesterofonia odissiaca, ad esempio). Un discorso analogo vale per la rappresentazione dello spazio, che in tragedia è solo raramente polivalente (ad esempio nelle Eumenidi, in cui la scena si sposta da Delfi a Atene nel corso dell’azione), ma resta per lo più ancorato a un luogo specifico, per quanto analiticamente specializzato nelle sue parti.
Considerando invece fattori qualitativi, come i tipi di azioni possibili e le loro modalità rappresentative, salta subito agli occhi, a mio modo di vedere, una certa complementarità fra epica e tragedia: mentre la prima ha un orizzonte rappresentativo che include descrizioni, dialoghi e azioni, come pure spunti riflessivi (gnomici o psicologistici, in entrambi i casi sia in focalizzazione zero che in focalizzazione interna), la tragedia sembra privilegiare aspetti strutturalmente coerenti con le sue stesse limitazioni tecniche; essa rappresenta infatti, tramite il monologo o l’interazione discorsiva colta nel suo farsi, l’imminenza di un’azione o l’insieme dei fattori che portano alla sua realizzazione, come pure le conseguenze emotive e relazionali di un’azione. Rispetto alla nuda successione di eventi che costituisce la fabula mitica, il baricentro tragico sembra spostarsi verso altri orizzonti: ben più dell’azione o della concatenazione di azioni cruciali cui si può ridurre in ultima analisi la storia mitica, la tragedia privilegia momenti pre- o postliminari, dove la massima importanza non spetta alle azioni salienti ma a forme disparate di attività intellettuale: dall’acquisizione/scambio di informazioni all’analisi degli stati di fatto, dallo scontro persuasivo alla chiosa a posteriori di un evento. I personaggi tragici vengono rappresentati mentre dibattono (o si dibattono) perché posti di fronte a scelte che dipendono da norme, fatti o eventi che si conoscono inizialmente o che vengono acquisiti/rettificati nel corso del dramma – e che non di rado coincidono, questi sì, con i contenuti evenemenziali del racconto mitico. Come giustamente mette in evidenza Giovanni Cerri (2013, 92 sgg.), l’azione tragica cui si riferisce Aristotele nella Poetica, e che per noi è, si può dire, l’azione tragica per antonomasia, a ben vedere non è altro che parola.
Questo insolito paradosso potrebbe sembrare poco significativo, o comunque dovuto a fattori strutturali estrinseci, come ad esempio la limitatezza tecnica della drammaturgia delle origini. Certo, abituati come siamo al ritmo dei film hollywoodiani, dove le azioni si susseguono a velocità così incalzante da occultare non di rado la debolezza delle transizioni causali, la vacuità dei personaggi o delle loro motivazioni, la tragedia greca ci appare come un aggregato drammatico molto rudimentale. In realtà questa prevalenza della parola sull’azione non va considerata una mera risultante di limiti meccanici, perché è anzi una scelta estetica precisa, che caratterizza specificamente la tragedia greca come forma d’arte. La danza, e la danza mimetica in particolare, non sono mai state estranee alla prassi artistica dei Greci, che avrebbero senz’altro potuto sviluppare una drammaturgia focalizzata sulla concatenazione serrata di azioni salienti riprodotte mimeticamente dal gesto; e tuttavia il loro teatro non sceglie la strada dell’azione evocata, ma della riflessione analitica che esplora i dintorni dell’azione – i motivi, la decisione, la scelta, le incertezze, la preparazione, e infine i commenti retrospettivi. Non c’è modo di argomentarlo qui, ma è forse proprio in questi tratti che affiora la genealogia del dramma dalla riflessione lirica, piuttosto che dal racconto epico.
Quando si pensa a confrontare le immagini mitologiche sui vasi con il loro presumibile ipotesto spettacolare, si deve perciò avere sempre ben chiaro che sulla scena tragica non è dato mai o quasi mai vedere rappresentata l’ossatura evenemenziale del racconto mitico, ma un aggregato, spesso originale e in ogni caso ben altrimenti complesso, delle sue ricadute discorsive. È appunto l’espressione di discorsi (attesa, ricerca, scambio di informazioni veraci e fallaci; perorazioni e dibattiti; analisi e commenti di situazioni) a costituire il nucleo vero e proprio dell’azione tragica, mentre sono gli eventi apicali, in stilizzazioni variamente organizzate, a costituire l’oggetto privilegiato della narrazione per immagini.
Insomma, nel comparare le ‘azioni’ comuni a un’immagine mitologica e a un testo tragico, si deve quanto meno ricordare che il δρᾶν teatrale non è lo stesso δρᾶν delle narrazioni iconografiche. Basta a provarlo un semplice confronto: se si considera ad esempio una versione sintetica di servizio di una trama tragica, si osserva che in essa sono contenute tendenzialmente tutte le azioni su cui si sofferma l’attenzione dei pittori vascolari; azioni che però nella tragedia occupano uno spazio limitatissimo, pur rappresentando il culmine evenemenziale del dramma. Prendiamo ad esempio l’ipotesi antica alla Medea di Euripide:
Μήδεια διὰ τὴν πρὸς ’Ιάσονα ἔχθραν τῷ ἐκεῖνον γεγαμηκέναι τὴν Κρέοντος θυγατέρα ἀπέκτεινε μὲν ταύτην καὶ Κρέοντα καὶ τοὺς ἰδίους υἱούς, ἐχωρίσθη δὲ ’Ιάσονος Αἰγεῖ συνοικήσουσα. παρ' οὐδετέρῳ κεῖται ἡ μυθοποιΐα.
A causa della sua inimicizia per Giasone, per il fatto che lui aveva sposato la figlia di Creonte, Medea uccise costei, Creonte e i suoi propri figli e si separò da Giasone, per andare a vivere con Egeo. Il mito non è trattato da nessuno degli altri due.
Nell’estrema sintesi cui Aristofane di Bisanzio riduce la vicenda, si vede quali sono le componenti informative ritenute indispensabili: 1. la causa dell’ostilità di Medea (τῷ ἐκεῖνον γεγαμηκέναι τὴν Κρέοντος θυγατέρα); 2. la prima azione saliente (ἀπέκτεινε μὲν ταύτην καὶ Κρέοντα); 3. la seconda azione saliente, apice drammatico dell’intera tragedia (ἀπέκτεινε […] τοὺς ἰδίους υἱούς); 4. la conclusione, in cui si realizza la rottura definitiva con Giasone (ἐχωρίσθη δὲ ’Ιάσονος); 5. un accenno al seguito della vicenda (Αἰγεῖ συνοικήσουσα).
Consideriamo ora se, quando e dove queste azioni compaiono nella tragedia, e, per converso, nel repertorio dell’illustrazione vascolare su questo tema, in modo da enucleare eventuali tendenze nella dislocazione delle informazioni nelle due diverse modalità di narrazione. La causa dell’ostilità (punto 1) è assente nell’iconografia, come pure nel dramma in senso proprio: ne fa menzione la nutrice nel prologo (vv. 17-19) come di un fatto compiuto. Viceversa le due azioni salienti (punti 2 e 3) sono esplicitamente attestate nella coroplastica classica, mentre nel dramma sono marginalizzate in un modo che vedremo caratteristico per il trattamento delle azioni apicali: la prima avviene fuori scena ed è oggetto di semplice discorso riferito (rhesis del messaggero vv. 1136 sgg.); la seconda avviene sì in presa diretta, ma fuori scena (Medea esce al v. 1250), in concomitanza con un canto del Coro sospeso tra commento riflessivo e desiderio di partecipare all’azione impedendo l’infanticidio. La simultaneità emerge dopo il v. 1270, quando le grida fuori scena dei bambini sono stimolo agli ulteriori commenti del Coro; e l’esito dell’assassinio è visibile solo dopo il v. 1313, che segnala l’apertura della porta scenica e lo svelamento dei cadaveri. L’ultimo punto, la destinazione finale di Medea, ha luogo dopo la conclusione del dramma, ma è anticipata da un dialogo con il re di Atene Egeo che occupa tutto il terzo episodio (vv. 663 sgg.), durante il quale Medea ottiene la promessa giurata di asilo in Attica, in cambio dell’aiuto che presterà al re per generare dei figli. L’azione descritta nella sintesi, come si vede, cioè il συνοικεῖν vero e proprio, non è compresa nel dramma, se non per la spettacolare partenza del carro alla volta di Atene; tuttavia il testo indugia lungamente sui preparativi relazionali e logistici di quella stessa partenza. Il solo punto dei cinque in cui la sintesi evenemenziale coincide con la trama effettiva del dramma è dunque il 4, in cui si compie la separazione di Medea da Giasone. L’azione della trama tragica, in questo caso, coincide con l’esodo della tragedia, e si realizza nei lunghi dialoghi di ostile chiarimento tra la donna sul carro alato e l’uomo improvvisamente vedovo e privo dei figli (vv. 1293 sgg.). Per una volta, l’iconografia vascolare, cui questo momento della vicenda è particolarmente caro, sembra convergere con il trattamento teatrale del mito: la scena di confronto tra Medea sul carro e Giasone ha in effetti un riscontro concreto nel trattamento tragico dell’azione, mentre le altre, pur presenti nell’iconografia, hanno a che vedere solo indirettamente con ciò che la tragedia porta concretamente sulla scena. La tragedia, insomma, comprende dialogo statico-riflessivo, narrazione ed evento, ma quest’ultimo, che pure sembra il principale oggetto di attenzione della rappresentazione iconografica, non è che una parte quantitativamente minoritaria nella struttura complessiva del dramma.
5. Quello che c’è è quello che si vede? Azione rappresentata e azione riferita sulla scena tragica
Se vogliamo impostare con precisione il problema del rapporto che sussiste tra l’iconografia vascolare e la scena tragica è bene dunque tenere sempre ben presente che il tessuto della tragedia non è uniforme, ma risulta composto da elementi che intrattengono con la storia mitica rapporti di maggiore o minore prossimità. Il primo elemento è l’azione-evento, ovvero il momento in cui la messa in scena realizza, più o meno senza filtri prospettici, una delle azioni che compongono l’ossatura evenemenziale del mito. La seconda componente è invece l’azione riferita, che già Aristotele contrappone all’azione direttamente rappresentata – ma che sarebbe immetodico ritenere del tutto estranea al teatro tragico; in essa convergono da un lato la modalità della narrazione indiretta tradizionale (la prospettiva narrativa dell’epos, per intenderci), dall’altro le componenti propriamente ecfrastiche, attestate fin dalle origini della pratica letteraria (Iliade XVIII) e praticate ad alti livelli di sofisticazione in tutta la tradizione letteraria antica. La terza componente è invece quella in cui abbiamo riconosciuto la dimensione più specifica dell’azione tragica, ovvero il dialogo statico, in cui vengono approfondite, lontano da eventi salienti o apicali, le componenti relazionali, intellettuali e psicologiche che a quelli pure si collegano.
Mentre l’azione riferita è anch’essa, come l’azione-evento, un’azione dinamica e saliente, ma avulsa dalla dimensione visuale della messa in scena, la stasi dialogica è priva di salienza visiva. Nel dialogo riflessivo il pubblico può vedere semplicemente un’interazione tra personaggi, o tra personaggi e coro, variamente connotata dalla gestualità, ma tendenzialmente composta e uniforme. Ciò non di meno essa è il tratto che predomina nell’esperienza visiva del teatro tragico (sempre a prescindere, beninteso, dalle danze del coro, che non a caso si svolgono anche in uno spazio ad esse riservato): per la maggior parte della durata del dramma, insomma, il pubblico non vede altro in scena che personaggi impegnati in uno statico e intellettualissimo ‘scambio di parole’.
Alla stasi dialogica in cui si realizza la quasi totalità del teatro tragico, momenti dall’impatto visuale inevitabilmente poco spettacolare, si alternano invece gli snodi di addensamento evenemenziale che costituiscono i sussulti propriamente dinamici del dramma. Anche in questi casi, tuttavia, la stragrande maggioranza degli eventi ha luogo sotto forma di azione riferita, cioè di un’azione senza impatto visuale diretto (vale a dire indipendente dalla visualizzazione fantastica soggettiva). Questo è un fatto sulla cui portata si riflette forse troppo poco: l’enorme abbondanza, in tragedia, di nunzi, araldi, sentinelle, testimoni, servi, nutrici, pedagoghi e satelliti vari la cui funzione consiste solo nell’introdurre o trasferire informazioni essenziali per lo sviluppo della trama, significa che la tragedia non si configura come un discorso interamente rappresentativo, ma che essa si risolve in gran parte in narrazione. La tragedia è sì azione rappresentata, ma essa è – altrettanto, se non di più – racconto evocativo. Evocativo, cioè, di immagini che lo spettatore non può vedere, ma che vengono affidate alla sola descrizione verbale, né più né meno che nel racconto epico (il quale a sua volta, non dimentichiamolo, include stralci ‘rappresentativi’ nelle scene di dialogo).
Cerchiamo a questo punto di considerare più analiticamente qualche caso concreto di organizzazione della materia narrativa in tragedia, in modo da mettere in evidenza i diversi modi in cui si realizza quello sbilanciamento dall’azione-evento del mito verso l’approfondimento informativo e analitico in cui va riconosciuto a mio giudizio lo specifico dell’azione tragica.
Mi sembra sensato prendere in esame drammi dall’innegabile dinamismo evenemenziale – ad esempio in Eschilo l’Agamennone a preferenza di altri come Supplici, Sette contro Tebe, Prometeo incatenato, in cui la stasi analitica e la componente di approfondimento intellettuale prevalgono in modo evidente. L’Agamennone è invece una tragedia in cui succede moltissimo, e in cui gli eventi principali (1. il ritorno e 2. la morte violenta del protagonista) non sono relegati a luoghi lontani, ma avvengono al centro del dramma, cioè in presa diretta sulla scena o comunque appena schermati. Cionondimeno, l’Agamennone è in primo luogo una tragedia del discorso informativo, piuttosto che dell’azione mitica in senso stretto: nel prologo (1 sgg.) la sentinella riferisce la notizia, arrivata ad Argo attraverso l’ingegnoso sistema della catena di segnali luminosi, della caduta di Troia e del ritorno imminente di Agamennone; nel primo episodio (vv. 264 sgg.), Clitemestra estende questa informazione al Coro, e la discussione che si instaura indugia a lungo sull’aspetto ‘metadiscorsivo’ della notizia stessa, tematizzando lo stupore dei vecchi argivi per una trasmissione così rapida. Nell’episodio successivo (vv. 503 sgg.) la dicotomia anticipazione vs. evento è ulteriormente mediata da un’altra tappa di un processo informativo: l’araldo di Agamennone entra in scena confermando che le notizie dei fuochi sono vere, e anticipando (nuovamente, ma con una diversa forma di certezza) che di lì a poco Agamennone sarà a casa. Anche stavolta, come nella tappa precedente, il processo informativo viene sdoppiato: l’araldo parla prima al Coro (vv. 503-582; si noti l’enfasi sulla conclusione del discorso: πάντ' ἔχεις λόγον, v. 582) e quest’ultimo lo invita poi a ripetere la sostanza del discorso a Clitemestra (vv. 585-586), mentre lei evita la ridondanza affermando che saprà tutto direttamente dal marito (vv. 598-599: καὶ νῦν τὰ μάσσω μὲν τί δεῖ σέ μοι λέγειν;/ ἄνακτος αὐτοῦ πάντα πεύσομαι λόγον). In ogni caso la duplicazione dell’annuncio è sottolineata nel testo, se nel discorso della regina è menzionato anche ὁ πρῶτος νύχιος ἄγγελος πυρός (v. 588), cioè l’annuncio del segnale luminoso; e comunque l’araldo insiste nel voler raccontare la sparizione della nave di Menelao durante il viaggio di ritorno (un accenno prolettico al dramma satiresco Proteo, con cui si concludeva la tetralogia?). Ancora informazione e racconto, dunque, fino al v. 680. Quando, nel terzo episodio, Agamennone entra finalmente in scena, vediamo finalmente compiersi in diretta la prima parte dell’azione mitica, il ‘ritorno del Re’. L’azione-evento (cioè gli snodi del mito oggetto di drammatizzazione vera e propria) viene peraltro ulteriormente articolata sulla scena: prima ci sono saluti variamente declinati, poi un momento di contrasto tra il re e la regina dopo che quest’ultima ha invitato il marito a calpestare la porpora; infine, subito prima dell’entrata nella reggia, la richiesta da parte di Agamennone di accogliere Cassandra, che lo ha accompagnato in scena senza parlare. Nel quarto episodio, uno dei più memorabili dell’intero teatro greco, si può osservare al meglio come la tragedia tenda a sovrapporre e far coincidere racconto e rappresentazione, realizzando l’azione tragica, cioè l’azione rappresentata, come momento di stasi discorsiva, e dislocando invece l’azione mitica, cioè la componente evenemenziale del mito, sul piano della narrazione. L’azione rappresentata in questo episodio consiste infatti in una lunga esternazione di Cassandra, parte monologica, parte dialogica, al termine della quale la prigioniera troiana entra nel palazzo. I fatti rappresentati in senso proprio comprendono insomma l’invasamento della profetessa e il suo inconcludente tentativo di avvertire il Coro del pericolo che incombe su Agamennone. Di nuovo, come si vede, un’azione in cui prevale la dimensione informativa. Viceversa, le parti della storia mitica contenute in questo episodio, ricchissime e articolate, non sono altro che racconto, cioè vengono trasmesse in modalità narrativa, e non rappresentativa. Anche se in forme diversissime, e soprattutto a un incomparabile grado di intensità emotiva, la logica narrativa del quarto episodio non fa altro che ripercorrere la stessa struttura del prologo e dei primi due episodi: anche qui, come negli altri casi, qualcosa che viene rappresentato sulla scena ci informa di ciò che sta per succedere o succederà comunque in un futuro più o meno lontano. Stavolta non si tratta di un segnale di fuoco che anticipa il ritorno del re, come nel prologo, né delle parole della regina o di un araldo, come nel primo e nel secondo episodio; stavolta la prolessi narrativa assume le forme (originali e memorabili) di una profezia, che descrive, in modo obliquo ma del tutto trasparente per lo spettatore, il seguito della vicenda mitica, sconfinando oltre la fine della tragedia: la moglie sta per uccidere il marito, avverte la prigioniera; lei stessa verrà uccisa insieme a lui, ma poi il figlio ucciderà la madre assassina, e così sarà continuata la catena di delitti che comincia con il banchetto di Atreo (da notare che nel racconto prolettico di Cassandra compaiono più volte, in una splendida commistione di passato presente futuro, inserti analettici che ricordano appunto l’inizio dei delitti, nonché il sacrificio di Ifigenia). In termini quantitativi, dunque, il racconto in scena (dei fatti avvenuti o prossimi al compimento) è molto più ricco della semplice azione rappresentata (il tentativo fallito di informare), ma l’intensità drammatica dipende del tutto, com’è ovvio, dalle eccezionali condizioni enunciative di quel racconto stesso.
Appena uscita di scena Cassandra, si ode la voce di Agamennone che viene assassinato: ancora una volta, la seconda parte dell’azione mitica, piccolo segmento del mito atridico ma culmine di questa tragedia, viene a coincidere con l’azione tragica e si compie in presa diretta sulla scena (anche se schermata dalle porte del palazzo). Nell’ultimo episodio (vv. 1371 sgg.) il contenuto della storia mitica è invece, di nuovo, già solo racconto: Clitemestra torna fuori dal palazzo per sintetizzare al Coro l’accaduto ed esporre le proprie ragioni e i propri intenti. L’entrata di Egisto in scena nell’esodo non modifica la dimensione analitica e progettuale di questa parte del dramma, in cui niente avviene se non un ulteriore scambio di racconti e discorsi.
Volendo schematizzare in questa prospettiva la trama dell’Agamennone, possiamo osservare che la parte della tragedia in cui l’azione rappresentata coincide con i contenuti tradizionali del mito si limita al terzo episodio e a pochi versi alla fine del quarto. Il resto è altro – anticipazione, racconto, argomentazione, commento, espressione di emozioni e di progetti: di fatto, come abbiamo visto, il resto è essenzialmente parola. Ciò che invece passa nelle immagini a contenuto mitologico è principalmente la componente evenemenziale della storia, cioè esattamente quell’azione-evento che in tragedia viene sospinta ai margini, o che pure occupa il centro della scena, ma solo per un breve momento.
Se ad esempio consideriamo la storia iconografica del personaggio di Cassandra, per limitarci a una parte ridotta ma molto significativa del dramma, osserviamo che nella stragrande maggioranza le attestazioni tardo arcaiche e classiche riflettono il mito della caduta di Troia (Iliupersis, dal titolo di un poema epico di incerta datazione, da attribuire forse ad Arctino di Mileto). Cassandra è rappresentata, spesso nuda, per alludere allo stupro che ha luogo durante l’episodio, nel momento in cui corre o si aggrappa al simulacro di Atena per sottrarsi, invano, alla presa sacrilega di Aiace Oileo. Così ad esempio nella celebre Ilioupersis di Cleofrade.
Questo aspetto della vicenda mitica di Cassandra si conserva anche in epoca tardo-classica, come attesta un frammento di anfora attribuibile al pittore di Dario. Qui il motivo iconografico è ancora affatto congruo con le versioni più antiche dell’immagine.
Accanto a questa iconografia prevalente, attestazioni sporadiche sembrano invece riflettere i contenuti dell’Orestea. In particolare una coppa attica da Spina, attribuita al pittore di Marlay, mostra Cassandra nel momento in cui viene attaccata da Clitemestra con un’ascia bipenne.
Per il nostro discorso sono rilevanti alcuni aspetti: in primo luogo, la composizione dell’immagine sembra congruente nell’insieme con l’iconografia dell’Ilioupersis: la profetessa si rifugia presso un altare, con la gamba sinistra piegata in un gesto topicamente attestato in simili contesti, mentre su di lei incombe l’assassina armata di ascia, in posa stante affine a quella di Aiace Oileo prima dello stupro. Questo significa che per il pittore di questa immagine, che pure racconta un momento diverso del mito di Cassandra, la scena ‘epica’ tradizionale, della profetessa che cerca scampo verso un oggetto sacro, resta comunque un punto di riferimento rilevante. Confrontata con i suoi pericolosi nemici, Cassandra tende ad assumere, nell’immaginario iconografico, sempre la stessa posa.
Allo stesso modo deve restare rilevante l’iconografia di Clitennestra armata di ascia, che ci attestano rappresentzioni della morte di Agamennone anteriori all’Orestea, ma che non è presupposta dal testo della tragedia (cfr. Kossatz Deissmann 1978; Vogel-Ehrensperger 2012). Questo ci conduce alla seconda considerazione: benché la datazione di questa coppa permetta di collocarla in decenni di poco posteriori alla rappresentazione dell’Orestea, e quindi in un contesto di produzione che è ragionevole supporre capace di rifletterne l’impatto sulla cultura ateniese, è evidente che l’artista 1. vuole rappresentare l’azione apicale del mito di Cassandra, cioè la sua morte per mano di Clitemestra; 2. privilegia, rispetto alla lunga e memorabile frenesia profetica del personaggio di fronte al Coro, un’azione-evento che ha luogo fuori scena; 3. visualizza questo evento servendosi comunque di moduli compositivi sedimentati nella tradizione iconografica precedente ma incompatibili con il testo di Eschilo (che con ogni verosimiglianza presuppone una spada e non un’ascia) e con la sua presumibile messa in scena.
In sintesi: un solo esempio concreto basta a evidenziare i limiti del presunto ‘rapporto tra vaso e scena tragica’: che nel vaso di Spina si possa vedere un riflesso delle innovazioni introdotte dalla memorabile versione eschilea del mito degli Atridi (in cui Clitemestra uccide Cassandra con un’ascia) è senz’altro possibile, e la considerazione complessiva delle rappresentazioni iconografiche di Cassandra spingerebbe a crederlo; tuttavia questo riflesso è quanto meno indiretto, ovvero non solo non sembra passare dalla scena, ma nemmeno dalla lettura del testo. La sola cosa che sta a cuore all’artista è la resa inequivocabile dell’evento apicale, in una forma il più possibile coerente con il repertorio iconografico di riferimento.
6. Complementarità di immagine e tragedia
Un altro esempio da Sofocle dovrebbe ulteriormente evidenziare la divergenza delle strade strutturalmente preferenziali di tragedia e iconografica vascolare. Se consideriamo ad esempio l’azione delle Trachinie, anche questa una tragedia densa di accadimenti, ci rendiamo conto che in termini di trama il ruolo prevalente spetta ancora una volta alle dinamiche dell’informazione: all’inizio, mentre Deianira lamenta la sua condizione di incertezza e di abbandono, la nutrice suggerisce di mandare il figlio Illo a cercare notizie del padre (vv. 49-60). Seguono nell’ordine: 1. l’arrivo di un messaggero (vv. 180 sgg.) che annuncia l’arrivo di un araldo mandato dall’eroe (Λίχας ὁ κῆρυξ, v. 189); 2. l’arrivo di Lica (vv. 229 sgg.), che conferma la notizia del prossimo ritorno di Eracle, e intanto accompagna Iole in scena (Deanira la apostrofa ai vv. 307 sgg.); 3. la rettifica del primo messaggero (vv. 335 sgg.), che integra e corregge le informazioni fallaci e tendenziose fornite da Lica.
Una prima convergenza verso il nucleo dell’azione mitica saliente consiste nella decisione di Deianira di servirsi del sangue di Nesso come filtro d’amore, decisione che viene esplicitata in un discorso al Coro (vv. 553 sgg.). La prima parte di questa azione mitica viene rappresentata in scena: la consegna della tunica avvelenata ha infatti luogo ai vv. 602 sgg., quando Deianira affida a Lica il recipiente (ἄγγος, v. 622) con l’indumento e le istruzioni relative. Segue una scena (vv. 663 sgg.) in cui Deianira dà voce alle proprie incertezze, raccontando al Coro (vv. 674 sgg.) lo strano evento (avvenuto fuori scena, beninteso!) che ha scatenato le sue paure: il bioccolo di lana con cui ha cosparso l’unguento si è autodistrutto. La narrazione ha la forma di un breve annuncio (vv. 674-678) seguita da un resoconto analitico e disteso (vv. 680 sgg.). Deianira stessa sottolinea la duplicazione: ὡς δ' εἰδῇς ἅπαν/ ᾗ τοῦτ' ἐπράχθη, μείζον' ἐκτενῶ λόγον (vv. 678-679). Finito il racconto, torna in scena Illo (vv. 734 sgg.) con la notizia (e il lungo racconto) che il padre è in preda all’effetto del veleno. L’episodio successivo è occupato per intero dal racconto della τροφός, che riferisce al Coro il suicidio di Deianira. Infine sopraggiunge Eracle stravolto dal dolore e dall’ira (vv. 983 sgg.), e l’ultima scena è occupata dal dialogo col figlio in cui l’eroe giunge alla comprensione degli eventi, e dà disposizioni per la sua morte sul monte Eta (morte che avverrà ovviamente fuori scena). Anche in quello che sembra essere il momento apicale dell’azione, ovvero l’ultimo episodio del dramma, in cui Eracle si dibatte tra la vita e la morte per effetto del veleno di Nesso, l’azione-evento sembra intenzionalmente messa fuori campo: l’eroe non indossa in scena la tunica letale (in luogo dell’azione rappresentata abbiamo qui un’azione riferita), e analogamente non è in scena che si completerà la sua agonia, ma solo dopo la conclusione del dramma; ancora una volta l’azione-evento è spostata sul piano dell’azione riferita, anche se stavolta in senso prolettico e non, come avviene nella maggioranza dei casi, analettico.
La diversa organizzazione semiotica dell’azione nella narrazione per immagini emerge in questo caso con particolare evidenza grazie al confronto del mito drammatizzato nelle Trachinie con una sua possibile illustrazione vascolare. Nella tradizione iconografica, le vicende di Deianira privilegiano nella stragrande maggioranza dei casi un episodio dell’antefatto, che nel dramma viene solo evocato dal racconto retrospettivo di Deianira, ovvero l’uccisione da parte di Eracle del centauro Nesso, che aveva insidiato Deianira dopo averle offerto aiuto per attraversare un corso d’acqua. Di questa parte del mito (assente dalla messa in scenea delle Trachinie ma solo evocata come azione riferita) esistono numerose attestazioni iconografiche, in gran parte anteriori alla tragedia sofoclea. Dell’azione apicale del mito trattato propriamente nelle Trachinie, invece, esiste solo un’immagine molto semplice ma di interpretazione non univoca, in un vaso campano.
Se l’interpretazione prevalente è corretta, vediamo qui rappresentato il momento in cui Eracle abbandona la clava (rappresentata mentre cade a terra al centro della composizione) e consegna la pelle di leone per indossare il chitone che gli porge la sua sposa Deianira. Nel dramma l’azione corrispondente si compie tramite un intermediario, che prende il recipiente da Deianira e lo consegna a Eracle, assistendolo mentre l’eroe veste l’indumento in esso contenuto; nell’immagine invece essa è ridotta al puro gesto della consegna diretta, e giustappone Eracle e Deianira, che invece nel dramma di Sofocle non si incontrano mai. L’oggetto, che nel testo tragico è nascosto alla vista perché la luce del sole attiva le proprietà del veleno, è qui esibito nella sua crudezza essenziale. Nel dramma, in ogni caso, il rilievo dell’oggetto in sé, almeno per quanto è dato inferire dalla rete verbale che lo definisce, non è molto accentuato: in primo piano ci sono i crucci di Deianira, le sue incertezze e le sue apprensioni, analiticamente articolate dai discorsi (dialogici e monologici). Di tutto ciò (setting spaziale, distribuzione dell’azione tra figure principali e secondarie, dimensione emozionale) nell’immagine non rimane nulla se non quello che il fruitore è in grado di inferire a partire dagli scarni segnali di identificazione degli attori mitici (riconoscibili dagli attributi) e dell’azione (riconoscibile dai gesti). Niente della versione tragica del mito sembra insomma rilevante per la comprensione di un’immagine di cui solo una competenza iconologica e mitologica di base sembra garantire la leggibilità.
Mi sembra di estremo interesse, a questo punto, precisare che quella che ho appena ricordato non è l’interpretazione univoca di questa immagine; una posizione minoritaria (che io stesso peraltro ritengo preferibile) identifica nella scena l’inizio del travestimento cui Eracle viene costretto dalla regina lidia Onfale, che lo aveva comprato come schiavo (Eracle era stato costretto a un anno di servitù come punizione per l’omicidio di Ifito, figlio di Eurito, ucciso mentre era suo ospite a Tirinto), e che al suo arrivo lo costringe ad assumere abiti da donna. La sintassi della scena, con gli attributi di Eracle deposti al momento di ricevere il nuovo indumento, lasciano appunto intendere che si tratta più uno scambio che non dell’accettazione di un dono. Ma il punto per il nostro discorso non sta tanto nella correttezza della lettura, quanto nel fatto che per molto tempo, e per molti studiosi tuttora, la scena possa essere ragionevolmente considerata un’illustrazione dello stesso mito che innerva le Trachinie: evidentemente questa corrispondenza è possibile perché da qualche parte, nelle sintesi cui il metalinguaggio descrittivo costringe l’azione della tragedia, è possibile ridurne i contenuti alla proposizione ‘Deianira fa indossare ad Eracle la tunica intrisa col sangue di Nesso’. Di tutta la complessa sceneggiatura del dramma, della sua articolazione spaziale e relazionale, resta la pura azione-evento che ne determina la καταστροφή, ovvero il passaggio della tunica avvelenata dalla moglie al marito. Questo è abbastanza perché il vaso possa essere messo in relazione con un testo tragico.
In realtà abbiamo visto finora che, a voler essere precisi, la tragedia preferisce schivare la rappresentazione delle azioni salienti, quelle azioni-evento che costituiscono la materia vera e propria dei racconti mitici, e indugia piuttosto in zone liminari: il dialogo drammatico è anticipazione e preparazione dell’evento, ma non è evento in sé. Oltre agli esempi già fatti, si possono ancora ricordare le azioni di spicco delle Baccanti di Euripide: l’evasione di Dioniso e delle menadi, come pure la scena dello sparagmos sul Citerone, sono rappresentate solo come resoconto indiretto, mentre il travestimento di Penteo ha luogo in scena (o meglio viene completato in scena dopo un cambio di costume) in un memorabile dialogo con lo Straniero lidio. L’azione che la tragedia sceglie di rappresentare propriamente non ha niente a che vedere con i fatti salienti del racconto, perché consiste nella trasformazione psicologica e nel turbamento mentale del personaggio. La tragedia privilegia le condizioni interiori e le relazioni tra personaggi nel loro divenire, al limite le agnizioni e le improvvise prese di coscienza (come nel caso di Agave nel finale), non gli eventi attraverso cui quel divenire ha luogo.
La scelta tragica di focalizzare la rappresentazione su momenti preparatori o analitici piuttosto che sulle azioni apicali si deve forse a limiti tecnici (anche se teatri tecnicamente non meno semplici di quello greco come il teatro elisabettiano non esitano di fronte alla rappresentazione diretta dell’evento), forse a fattori culturali – ma anche, direi soprattutto, alla natura analitica e logico-riflessiva del genere tragico rispetto alla rappresentazione iconografica. Le matrici dell’azione (ovvero le cause che determinano propriamente le azioni del dramma) sono sempre già date, e mai mostrate nel loro accadere. Non a caso la maggior quantità di contenuti narrativi è concentrata di regola nel prologo, in cui non solo si presentano i personaggi e l’antefatto, ma spesso si anticipano anche i contenuti propriamente evenemenziali del dramma in corso (come ad esempio negli accenni prolettici di Afrodite nell’Ippolito coronato).
Anche quando l’azione ha luogo in scena (ad esempio nell’episodio dell’ostaggio nel Telefo di Euripide, 438 a.C.) il punto dell’episodio non è la dinamica dell’accadimento, ma il confronto dialogico che da esso scaturisce – nel caso di Telefo la cattura del piccolo Oreste in ostaggio serve infatti solo a ottenere il diritto di perorare la propria causa di fronte ai nemici. L’episodio tragico non ci è conservato se non in veloci allusioni e frammenti, ma l’estesa parodia che ne articola Aristofane negli Acarnesi (prima di tornarci sopra ancora nelle Tesmoforiazuse quasi trent’anni dopo, nel 411) è realizzata come una veloce cattura dell’ostaggio seguita da una lunga e statica rhesis analitica del protagonista: a giudicare dal peso rispettivo delle parti, l’azione ‘dinamica’ in tragedia sembra decisamente meno importante delle parole che la accompagnano, anche se sul versante iconografico l’immagine focalizza inevitabilmente il momento del ricatto, con l’arma che minaccia il bambino sull’altare dove Telefo ha cercato rifugio.
Insomma, anche in questo caso il momento apicale della tragedia, come in Agamennone, Trachinie, Medea e Baccanti, come in genere in tragedia, è comunque logos, mentre il momento apicale dell’immagine è comunque oggetto e gesto. Detto in altri termini, la tragedia e la tradizione iconografica privilegiano aspetti strutturalmente diversi e complementari della narrazione mitica. Nella tragedia sono secondari gli eventi in sé, le azioni salienti, concrete, legate a gesti e oggetti materiali, mentre sono preponderanti tutti gli aspetti discorsivi – di approfondimento analitico e in generale situato sul piano della cognizione. Nella rappresentazione vascolare, invece, è essenziale l’oggetto concreto. Questo significa, insomma, che anche nell’ipotesi che il contatto tra la scena tragica e l’immagine su vaso ci sia e sia diretto, esso non ha luogo se non dopo una transcodificazione implicita che scotomizza le componenti specifiche del testo drammatico riducendo il plesso di azioni propriamente tragiche (stasi dialogica e in generale momento di trasformazione cognitiva) in azioni-evento coglibili coi segni del codice iconico.
7. Azione mitica e azione tragica nella rappresentazione vascolare
Chiarito dunque che l’‘azione tragica’ non è sinonimo di ‘azione mitica’, come invece spesso si tende superficialmente a ritenere, possiamo riprendere il discorso sulla natura del rapporto immagine/teatro inferibile dal corpus di vasi magnogreci studiati da Taplin 2007. In effetti, una volta appurata l’enorme, incommensurabile distanza che oppone l’azione tragica, cioè l’azione che il pubblico teatrale aveva modo di vedere effettivamente sulla scena, e l’azione mitica, cioè l’insieme di azioni che compongono l’ossatura del racconto mitologico, sembra che la possibilità stessa del confronto venga meno: ogni volta che su un vaso troviamo un’immagine che con sintetico dinamismo riproduce il momento apicale di una vicenda mitica, si può essere pressoché sicuri che nessuna immagine analoga è stata mai vista sulla scena tragica nella Grecia classica. L’esperienza della messa in scena di tragedie dove di sicuro quell’azione-evento non era oggetto di rappresentazione, non può dunque essere, come sostiene Taplin, un fattore tale da facilitare la lettura dei vasi da parte dei loro fruitori – non certo più che una qualsiasi conoscenza di seconda mano ricavata da un resoconto verbale.
È innegabile che nel V secolo cresce la tendenza, in special modo con l’ultimo Euripide e la sua sperimentazione nella forma delle tragedie spettacolari o delle tragedie ad intrigo, ad aumentare la componente di azioni-evento rispetto al dialogo statico o all’azione riferita. L’Andromeda, ad esempio, rappresentata nel 412 e oggi purtroppo perduta, si apriva con la scena molto spettacolare in cui la protagonista legata a una roccia aspettava di essere divorata dal mostro marino, prima che l’eroe Perseo giungesse a salvarla cavalcando il cavallo alato Pegaso (un uso appropriato e presumibilmente memorabile della μηχανή). Tuttavia una considerazione delle numerose immagini del corpus riconducibili al teatro euripideo mostra che le azioni apicali privilegiate dalle immagini sono sì riconducibili ai drammi di Euripide, ma non alle loro messe in scena, visto che per lo più si tratta di azioni riferite e non di azioni-evento.
Dei molti esempi che potremmo evocare, ci basterà considerarne solo alcuni molto significativi, anche perché con forte probabilità essi sono davvero il riflesso (non si sa quanto remoto) dei testi euripidei. Il primo è un cratere a campana della metà del IV secolo, in cui la scena raffigura chiaramente la morte della sposa di Giasone nella Medea di Euripide – o meglio nella rhesis del nunzio nell’ultimo episodio del dramma.
Il pedagogo che con atteggiamento protettivo accompagna i figli di Giasone e Medea fuori dalla scena dove si sta compiendo il terribile incantesimo (in basso a destra nell’immagine) è spia della ormai ben nota compressione narrativa, che anche qui, come altrove, fonde momenti successivi dell’azione in una composizione sincronica. Nel testo, infatti, all’accettazione del dono fa seguito dapprima la revoca del bando per i due bambini, come viene festosamente riportato a Medea dallo stesso pedagogo (vv. 1002 sgg.). È solo alla fine dell’intermezzo anapestico del Coro che arriva un messaggero dalla casa di Creonte a riferire quello che è successo alla principessa e a suo padre dopo che il pedagogo e i bambini sono tornati a casa. Ma in ogni caso sappiamo con certezza che tutti i contenuti dell’azione rappresentati in questa immagine non sono mai stati visti in scena, ma solo visualizzati dalla fantasia del pubblico al momento della loro evocazione narrativa.
Allo stesso modo possono essere interpretate le immagini con la morte di Ippolito, una in un cratere a campana del primo IV secolo, l’altra in un sontuoso cratere a volute del Pittore di Dario.
Anche in questo caso l’azione-evento ha luogo fuori scena, e nel dramma essa si inserisce solo come azione riferita; tuttavia il suo carattere spettacolare, oltre che la sua congruenza con l’immagine così diffusa e apprezzata del cocchio, giustifica la sua preferibilità, in contesto iconografico, rispetto ai lunghi e tormentosi dialoghi dell’Ippolito.
Che comunque queste azioni salienti abbiano a che vedere con il teatro di Euripide è sicuro – anche se certo non con la sua messa in scena. Al di là di miti relativamente diffusi e comuni, a volte i vasi testimoniano infatti versioni più rare, probabile frutto di innovazioni euripidee. È questo il caso di un cratere a volute attribuito al Pittore dell’Ilioupersis, in cui l’immagine illustra l’episodio dell’agguato mortale in cui perisce Neottolemo a Delfi per mano di Oreste, una versione del mito attestata solo in una ῥῆσις ἀγγελική dell’Andromaca di Euripide.
Tutti questi casi mostrano come il soggetto iconografico venga di preferenza localizzato sul piano delle azioni salienti, che invece la dinamica tragica preferisce distanziare quasi sempre sul piano delle azioni riferite (e dunque non visualizzate).
Anche quando l’immagine seleziona momenti apicali direttamente riconducibili all’azione scenica e non a un’azione riferita, essa tende comunque a concentrare e combinare sinteticamente cellule di azione-evento distribuite in luoghi diversi del dramma. Questo è il caso di un cratere a colonne lucano, che raffigura una scena riconducibile alla prima parte degli Eraclidi.
La composizione integra diversi momenti narrativi, cercando però di cogliere sinteticamente la loro intersezione: si tratta di una ‘sintesi’ di quelle che nel dramma sono distinte situazioni dialogiche. L’immagine le combina in modo da fornire una presentazione completa di tutti i personaggi: da notare che la componente catalogica implicita nella presentazione esaustiva rinuncia all’esibizione modulare che caratterizza molte immagini di artisti successivi, ad esempio del Pittore di Dario, poiché tutte le figure sono inserite nella composizione con transizioni relativamente lineari: oltre ai piccoli figli di Eracle, la composizione comprende Alcmena all’estrema sinistra (qui visibile, mentre all’inizio del dramma la donna si trova all’interno del tempio), poi Iolao seduto con atteggiamento di sconforto, l’araldo di Euristeo, e infine i due figli di Teseo Demofonte e Acamante, che giungono a cavallo in soccorso della famiglia di Eracle. In ogni caso anche qui gli eventi rappresentati, pur senza appartenere al piano dell’azione riferita, risultano da un addensamento marcato dei personaggi e della componente evenemenziale, quando invece la scena iniziale del dramma si risolve in un dialogo tra Iolao e l’araldo (vv. 55 sgg.), cui si aggiunge di lì a poco (vv. 118 sgg.) Demofonte, che arriva in compagnia di suo fratello (personaggio muto).
In questo caso, dunque, sembra di poter cogliere una diversa forma del rapporto testo/scena, un diverso grado di vicinanza: l’interazione di Iolao con l’araldo può ben corrispondere alla situazione scenica iniziale degli Eraclidi, mentre l’arrivo di Demofonte e Acamante, benché sia improbabile che avesse luogo a cavallo, ‘fotografa’ in qualche misura un’azione del mito non molto lontana dall’azione-evento che si può presupporre abbia luogo in scena dopo il primo momento di contrasto tra l’eroe del dramma e l’antagonista. L’elaborazione propria della sceneggiatura iconografica consiste come sempre in una compressione: qui Alcmena è immediatamente visibile, mentre nel testo essa ha trovato rifugio all’interno del tempio e farà il suo ingresso in scena, chiamata da Iolao (ἔξελθε, v. 643), solo al v. 646. Colpisce peraltro che tra i figli di Eracle non sia rappresentata anche una ragazza, visto il ruolo cruciale svolto da Macaria nella seconda parte della tragedia.
La differenza tra questa immagine ‘dagli’ Eraclidi e le altre ‘da’ Medea, Ippolito o Andromaca dovrebbe farci intuire a questo punto che se nessun contatto diretto immagine/scena è ipotizzabile, ovviamente, per quelle immagini di azioni salienti che nel dramma avvengono solo come azioni riferite, un contatto è almeno pensabile tra quelle immagini di azioni salienti o di dialoghi statici che hanno una corrispondenza diretta, nel dramma, con azioni-evento rappresentate o con momenti di stasi dialogica. In quel caso infatti potremmo mettere a confronto (anche se un confronto del tutto congetturale in cui uno dei due oggetti non è altro che una nostra ricostruzione inferenziale) due visualizzazioni di un’azione che già in termini di struttura narrativa si presentano come perfettamente omogenee.
Come esempio del primo caso si può citare la celeberrima anfora pestana attribuita al Pittore di Würzburg.
Qui l’azione rappresentata dall’artista coincide con il momento apicale delle Coefore, in cui Eschilo sceglie audacemente di rappresentare l’azione in scena. È chiaro che non si può comunque spingere l’ottimismo fino a sostenere che l’immagine sia un riflesso ‘fotografico’ della situazione scenica (Taplin 2007, 57 enumera in dettaglio i limiti della ‘teatralità’ di questo vaso), ma è importante sapere che qui, a differenza che nella maggioranza dei vasi a soggetto mitologico ‘teatrale’, l’organizzazione narrativa dell’azione può essere pensata come perfettamente omologa a all’azione-evento che aveva luogo in scena.
Naturalmente ogni modalità semiotica esprime gli stessi contenuti con il codice suo proprio: in questo caso l’immagine non rinuncia alle peculiarità che abbiamo visto più volte finora – la figura dell’Erinni, ad esempio, funziona sia come determinante semiotico dell’azione (conferma cioè che l’azione in corso è un matricidio e non un semplice omicidio), sia, soprattutto, come segnale della compressione narrativa (anche qui l’immagine cerca di forzare i limiti della raffigurazione sincronica cercando di significare lo sviluppo diacronico degli eventi narrati, ovvero, al tempo stesso, sia l’azione che le sue conseguenze).
Ancora più interessante la corrispondenza che lega l’immagine e la situazione scenica che ad essa si può presumibilmente ricondurre quando l’azione rappresentata non è un evento saliente o apicale, bensì un momento di stasi dialogica, perfettamente sovrapponibile, dunque, alla situazione scenica media di una tragedia classica. Di questo caso abbiamo pochi esempi, per la preferenza nettissima degli artisti a cogliere con l’immagine soprattutto le azioni salienti o apicali di un mito. Quando però li vediamo selezionare una situazione non particolarmente marcata in senso ‘drammatico’ (si noti quanto tendenziosa e fuorviante risulti la connotazione di questo aggettivo nel suo uso corrente: drammatico viene infatti usato di norma non nel significato di ‘riferito alla modalità espressiva del dramma’ ma ‘riferito a un momento di azione saliente rappresentata come azione-evento’! A conferma dell’influenza subliminale che il linguaggio, tutt’altro che neutro, esercita sulla precomprensione degli oggetti…), siamo indotti a credere che la stessa stasi tragica si rifletta in qualche modo nell’inusuale situazione di un mito reso attraverso la semplice raffigurazione del dialogo.
L’esempio principale di questo caso è in un cratere a volute attribuito, come l’analogo vaso monumentale con la morte di Neottolemo a Delfi visto sopra, al Pittore dell’Ilioupersis.
L’immagine, univocamente riconoscibile a motivo delle iscrizioni che identificano i personaggi, rappresenta un momento dell’Ifigenia fra i Tauri euripidea. Di quale momento si tratti non è dato sapere con certezza, poiché le situazioni di stasi dialogica occupano, come abbiamo ricordato più volte, la maggioranza delle situazioni sceniche in tragedia. La proposta di Taplin (2007, 151), di leggere in questa scena il momento in cui Ifigenia consola Oreste che ha accettato di morire per permettere a Pilade di partire, mi sembra sia particolarmente convincente, perché riesce a motivare il diverso atteggiamento dei due personaggi maschili (turbato e agitato Pilade, composto ma molto triste l’amico seduto sull’altare). L’elemento più significativo a mio giudizio è però il fatto stesso che l’immagine non proponga un’azione saliente: lo stesso Taplin (ibidem) osserva con stupore che “this scene has been selected for its dialogue rather than its action”, ma sembra non valorizzare appieno le implicazioni di questa anomalia per il problema ‘pots & plays’.
Questo è infatti uno dei pochi momenti in cui possiamo immaginare che la rappresentazione iconografica sia narrativamente del tutto omogenea alla corrispondente rappresentazione sulla scena – e dunque che il rapporto scena/immagine assuma qui la forma più diretta ipotizzabile. È certo vero che a monte di simili dialoghi si possono riconoscere innumerevoli rappresentazioni di defunti e dei loro cari in atteggiamento mesto, che infatti sicuramente hanno un ruolo nel determinare la scelta iconografica delle pose. Ma nell’insieme il fuoco dell’immagine è proprio nella parola che Ifigenia rivolge al fratello non ancora riconosciuto, parola segnalata anche dal gesto della ‘mano parlante’, gesto inequivocabile e destinato a larga fortuna durante millenni di arte occidentale.
Quanto stretto possa risultare il rapporto scena/immagine in questo caso specifico è verificabile del resto grazie a un elemento esterno all’immagine, ovvero il fatto che l’artista che dipinse questo vaso sia lo stesso del vaso con Neottolemo a Delfi citato sopra. Questo elemento non ci interessa tanto per le analogie compositive (anche se vedremo subito quali informazioni si possano ricavare dall’analogia strutturale delle due immagini), quanto per il fatto che la versione della morte di Neottolemo presupposta è di derivazione pressoché sicuramente euripidea. Questo significa che anche nel realizzare l’immagine dall’Ifigenia tra i Tauri questo artista – è verosimile ipotizzare – avrà lavorato, come mostra il confronto con una sua altra opera formalmente affine, riferendosi direttamente o molto da vicino all’opera del drammaturgo.
La prossimità teatrale di questi vasi può inoltre essere inferita non solo da questo fattore esterno, peraltro piuttosto significativo, ma anche da elementi iconografici riconducibili non tanto ai segnali di teatralità proposti da Taplin (2007, 37 sgg.) quanto alla distribuzione dello spazio. Entrambi questi vasi, infatti, presentano uno stesso tipo di composizione, piuttosto raro nel corpus considerato. L’elemento di maggiore interesse in tal senso, a mio giudizio, non è tanto la suddivisione in due fasce, o la presenza di divinità in posa indifferente all’azione nella fascia superiore, quanto la contrapposizione prospettica di un primo piano e di un secondo piano, marcato da un profilo collinare, oltre il quale si intravede la parte superiore di un edificio sacro, un tempietto ionico raffigurato in modo rozzamente prospettico e con i battenti della porta semiaperti. La presenza di un tempietto o di un’edicola in immagini a contenuto mitologico è comunissima, e non merita di essere discussa qui di nuovo. Ciò che invece merita attenzione è la singolare dialettica interno/esterno che questa situazione prospettica viene a delineare, soprattutto nel vaso di Neottolemo. Tra i segnali di identificazione spaziale sono infatti inclusi il sacro tripode di Delfi e l’ὀμφαλός, la pietra sacra che si riteneva fosse il centro del mondo – entrambi collocati all’interno del santuario. La loro collocazione impropria all’esterno è ovviamente legata alla loro funzione di segnali di individuazione spaziale. Tuttavia questo riproduce una situazione peculiare del teatro tragico, dove appunto il tempio è di norma riconoscibile come ingresso sullo sfondo, mentre le azioni occupano lo spazio esterno antistante anche quando si suppone che esse si svolgano all’interno (ad es. nelle Eumenidi di Eschilo). La divisione così ‘antirealistica’ dello spazio che si ritrova nel vaso di Neottolemo riflette dunque (anche se certo in modo indiretto, trattandosi per di più di un’azione che nel dramma era solo riferita) la distribuzione antirealistica dello spazio esattamente propria della scena tragica.
Mi sembra dunque di poter affermare che il rapporto scena/immagine si configura in modo tanto più stretto quanto più le immagini derogano dalla tendenza loro propria a organizzarsi come sintesi di azioni salienti. In casi come l’uccisione di Clitemestra sopra ricordata (nell’anfora attribuita al Pittore di Würzburg) c’è sì l’omologia della rappresentazione iconografica e dell’azione-evento messa in scena; tuttavia in quel caso la composizione focalizzata sul momento apicale non può essere considerata prova di un rapporto di particolare vicinanza: la logica dell’immagine punta sempre e comunque verso le azioni mitiche di massima salienza, siano esse azioni-evento o semplici azioni riferite. Quando invece l’azione raffigurata è priva di tratti salienti, ridotta al semplice incontro-dialogo tra personaggi, allora è verosimile che la composizione dell’immagine riveli di star seguendo una logica diversa dalla logica sua propria, una logica che non sarebbe forse azzardato ritenere derivata in qualche misura dalla scena stessa.
Un ultimo esempio dovrebbe consentirmi di chiarire l’idea di fondo di questo lavoro: un frammento di cratere a calice ci conserva una scena con nitide, particolarissime, connotazioni teatrali:
L’interpretazione di Trendall, cui finora non sono state opposte valide alternative, vede nell’immagine il possibile riflesso di una messa in scena dell’Edipo re; la figura a sinistra, un vecchio riconoscibile dall’abbigliamento come un viaggiatore, sembra star trasmettendo un messaggio a un uomo al centro della composizione. Quest’ultimo lo ascolta con perplessità (mano sulla barba); accanto a lui, ai due lati, due bambine, verosimilmente sue figlie. Poco oltre, a destra, una donna stante raccoglie a sé il velo dell’abito in un gesto di sorpresa o disappunto. La scena è leggibile, più precisamente, come il dialogo tra Edipo, re di Tebe già da qualche anno, e il messaggero di Corinto, che dopo avergli recato la notizia della morte di Polibo intende dimostrargli l’infondatezza del celebre oracolo delfico: la sua paura di uccidere il padre e sposare la madre non ha ragione di sussistere, poiché in realtà lui non è figlio dei sovrani corinzii, ma un trovatello con i piedi forati che lui stesso aveva consegnato ai suoi nuovi genitori, dopo che il neonato gli era stato affidato da un pastore del Citerone. Mentre, alle spalle di Edipo, la regina capisce e inorridisce in controscena (ne abbiamo parlato brevemente anche sopra), Edipo non ha modo di capire la verità, e si preoccupa solo di vedersi ridimensionato a bastardo di origine plebea.
L’aspetto che maggiormente ci interessa dell’immagine è la sua strettissima aderenza a una sintassi da ‘azione tragica’, come l’abbiamo definita in questo studio: l’immagine, come anche nel vaso di Ifigenia, cristallizza una situazione di dialogo senza azioni eclatanti o pittoresche, e in questo essa sembra aderire del tutto alla situazione scenica che si può ipotizzare dietro il corrispondente episodio drammatico. Si consideri la differenza rispetto al vaso di Neottolemo e ai molti altri con azioni riferite: lì la cornice dialogica del racconto sparisce dall’immagine, che dà spazio solo ai contenuti della narrazione; qui viceversa oggetto della rappresentazione è la stessa situazione scenica del racconto, e i contenuti della narrazione sono recuperabili solo dalla conoscenza del testo, che illumina di senso i gesti, le posizioni e le espressioni dei personaggi. Il solo elemento che impedisce di leggere la scena come un ‘fotogramma’ dell’Edipo re sono le due bambine, assenti nell’episodio tragico, ma imprescindibili qui, dove, in assenza di iscrizioni che individuino i personaggi, hanno la funzione di segnale identificativo (quanti altri re sono caratterizzati dalla paternità di due figlie?). Rispetto alla stasi dialogica del vaso con Ifigenia, peraltro, il dialogo tra Edipo e il messaggero corinzio costituisce una svolta molto più significativa nella trama del dramma. A ben vedere, anzi, in questa scena la rivelazione del messaggero ha proprio la funzione di innescare la καταστροφή. Per essere precisi, dunque, si dovrebbe dire che in questo dialogo a un ‘significante drammaturgico’ statico (lo scambio dialogico senza azioni eclatanti) si associa un ‘significato drammatico’ della massima salienza, in cui davvero si realizza l’evento apicale del dramma.
In effetti nell’Edipo re la genialità del drammaturgo si manifesta nella scelta di riconfigurare come momenti di vera e propria ‘azione mitica’ aspetti tendenzialmente propri dell’‘azione tragica’, ovvero le dinamiche e i procedimenti del conoscere. L’Edipo re è una tragedia della conoscenza, dove fare e cercare di conoscere si identificano. Il desiderio – il dovere – di acclarare la verità determinano la catastrofe. Tutti gli snodi propriamente evenemenziali del mito edipico (l’uccisione di Laio, la risoluzione dell’enigma della Sfinge, il matrimonio con Giocasta, la morte di quest’ultima e la degradazione di Edipo) sono marginalizzati nell’antefatto e nell’epilogo del dramma, mentre l’azione concretamente drammatizzata e messa in scena consiste in un’indagine che conduce a un approfondimento progressivo della conoscenza. Al culmine del dramma, quando l’eroe conosce finalmente le verità nascoste sul proprio passato, l’azione mitica assume per una volta i connotati più coerenti con l’orizzonte epistemico della tragedia: qui la comprensione riveste, in senso strutturale, esattamente lo stesso ruolo che altrove hanno le vendette, le uccisioni o i ricongiungimenti familiari. Non è necessario sottolineare l’eccezionale pregnanza di una simile peculiarità. E non sorprende a questo punto che Aristotele considerasse proprio questo dramma il capolavoro del teatro tragico classico: al di là della rilevanza che in esso ha la dimensione cognitiva, questo è forse il solo caso in cui il processo della conoscenza viene equiparato drammaturgicamente alla dinamica stessa del racconto mitico.
La teatralità del frammento vascolare di Siracusa è in realtà confermata, oltre a quanto osservato finora, soprattutto da un segnale molto chiaro: a differenza del vaso di Ifigenia, o dei pochi altri vasi in cui l’immagine mitologica coglie situazioni di stasi dialogica, qui la teatralità non sembra sottintesa, ma esibita, quasi come avviene di norma nei vasi fliacici: i personaggi sono collocati su un pavimento che non rappresenta realisticamente un palcoscenico, ma lo ricorda chiaramente (Taplin 2007, 90), e campiti sullo sfondo da un portico bidimensionale a pilastrini, come se inquadrati analiticamente da un fondale. Questo mi sembra senz’altro una conferma della linea di lettura che ho suggerito finora: nel suo spostamento di baricentro verso la stasi dialogica propria dell’azione tragica, l’immagine sembra voler confermare che la rinuncia alla raffigurazione pittoresca di un’azione mitica non è altro che un tentativo di riflettere più da vicino la composizione implicita nella messa in scena.
Ringrazio Carmen Dell’Aversano per le proficue discussioni sulle ipotesi di questo lavoro e i revisori anonimi della rivista per gli utili suggerimenti sui paragrafi introduttivi.
Abstract
Aim of this work is to clarify to what extent the dramatization of myth into tragedy and its staging during the classical age may have had an impact on mythological vase painting in Magna Graecia, from the late 5th and 4th century BC. In the now numerous studies on the possible comparison vessel/tragedy (see, in particular, Oliver Taplin’s work Pots&Plays), specific semiotic codes that organize mythological narrative respectively in iconography and in drama have not yet been adequately considered. The present contribution clears the different logics that transform a mythical plot into a story - whether it be the episodes concatenated in a tragedy or the pictorial synthesis on a vessel. These logics are mostly complementary or unrelated: in fact, if tragedy is based mainly on a diachronic development of language, with a marginalization of dynamic events (see the events reported on stage by rheseis), the representation of mythical subject on pots tends to a synchronic and synthetic development of action, in an attempt to overcome the static form of the image.
keywords | Myhtology; Greek culture; Pots; Plays; Theatre; Iconography.
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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Grilli, Mito, tragedia e racconto per immagini nella ceramica greca a soggetto mitologico (V-IV sec. a.C.): appunti per una semiotica comparata, “La Rivista di Engramma” n. 120, ottobre 2014, pp. 7-52 | PDF di questo articolo