"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

121 | novembre 2014

9788898260669

Una morte profumata

Il mito di Eliogabalo e l’ambiguità della rosa nel decadentismo europeo

Matteo Piccioni

English Abstract

Nel 1888 Lawrence Alma-Tadema presenta, all’annuale esposizione della Royal Academy, The Roses of Heliogabalus (Città del Messico, Collezione Pérez Simón), forse l’opera più celebre del pittore di origine olandese (Swanson 1990, 235; Barrows [2001] 2004,134-137; Querci 2007, 44-45; Gerard-Powell 2014), recentemente al centro di una mostra tenutasi a Roma, al Chiostro del Bramante, sulla collezione vittoriana del magnate messicano Pérez Simón (si veda la recensione di Alessandra Pedersoli, A Rose Path in Engramma 115).

L. Alma-Tadema, The Roses of Heliogabalus, 1888, Città del Messico, collezione Pérez Simón.

Soggetto del dipinto è il noto passaggio della Vita Heliogabali, attribuita non senza qualche incertezza a Elio Lampridio e compresa nella Historia Augusta, che narra il diletto del giovane imperatore d’origine siriana nel far cadere dal soffitto, durante alcuni dei suoi celebri banchetti, fiori sui commensali in maniera talmente copiosa da soffocarne alcuni (Hist. Aug. Eliogabalus, 21.5). 

Nell’allestimento di questa complessa macchina teatrale il pittore si attiene scrupolosamente alla fonte, per la ricostruzione dei costumi dei personaggi, per la resa delle scene (porfidi, marmi, letti con strutture in argento), forse anche per la scelta di collocare solo frutti come pietanze del banchetto, memore di quelle cene monotematiche gradite al sovrano (ivi, 32.4). Tuttavia nella parte centrale del dramma Alma-Tadema sembra concedersi una licenza rispetto alla fonte, immaginando consistenti nuvole di petali di rose che cadono dal soffitto, laddove Lampridio menziona “violis et floribus”.

Rosanne J. Barrow, in uno studio dedicato al significato della rosa nelle opere di Alma-Tadema (Barrows 1997-1998), suggerisce che il pittore compia tale scelta in base al nuovo significato acquisito dal fiore nel contesto dell’età tardo-antica – opposto all’idea anacreontica di espressione di bellezza e amore – come emblema della lussuria, dell’eccesso e, dunque, della decadenza romana tout court (ivi, 184). Seguendo questa prospettiva anche le rose che compaiono nelle altre opere dedicate alle figure imperiali severiane assumono la stessa funzione simbolica, come i petali sparsi dalle ancelle sul pavimento del tempio all’ingresso dell’imperatore in Caracalla (1902) o i lussureggianti festoni di Caracalla and Geta (1907); questi ultimi a loro volta ricordano quelli di The Meeting of Antony and Cleopatra (1883), nel quale – oltre ad alludere a un celebre passo della vita della regina tolemaica in cui si ricorda che, in occasione di un incontro con Antonio, fece accumulare in una stanza talmente tante rose, da riempirla – l’unione tra la rosa e la femme fatale (Cleopatra ne è una delle prime per Praz [1930] 2008, 180-181) richiama uno dei topoi della letteratura e dell’arte post-romantica.

L. Alma-Tadema, Caracalla and Geta, 1907, collezione privata; L. Alma-Tadema, The Meeting of Antony and Cleopatra, 1883, collezione privata.

Se alla base della scelta di Alma-Tadema di rappresentare nella scena delle rose, non esplicitamente citate dalla fonte di riferimento, si trova la particolare visione di quei fiori nella cultura decadente quali simboli di voluttà e bellezza estenuata, nondimeno il binomio Eliogabalo-rosa, volto a sottolineare la stravaganza e gli eccessi dell’imperatore, nonché la sua elegante perfidia, ha origini remote e nel secondo Ottocento sembra presentarsi come un dato acquisito dalla tradizione. Il dipinto di Alma-Tadema, offrendosi quale acme e summa di tale visione, rimarca allo stesso tempo, pur se con una drammaticità smorzata, uno dei temi più cari alla cultura simbolista europea, l’insidia nascosta nel fiore della bellezza e dell’amore per eccellenza, certamente anche punto di partenza del macabro motivo, ricorrente soprattutto in letteratura, della “morte profumata”.

Le rose di Eliogabalo

Dedito ai bagordi e al vizio, dilapidatore di ingenti somme di danaro per arredare palazzi o organizzare banchetti, indomito e depravato, bisessuale e transgender (Artaud [1934] 1969; Gualerzi 2005), irrispettoso della tradizione e della latinità, Eliogabalo è la figurazione emblematica dell’imperatore romano della decadenza. Assieme a Caligola e Nerone, e forse più di loro, è il sovrano sul quale i biografi si sono più divertiti nel riportare aneddoti stupefacenti e inquietanti, delineandone un ritratto che ne esagera e ne estremizza i tratti (Dione Cassio, Eriodano, Lampridio) e che ne fa, a ben vedere, l’archetipo dell’eroe decadente.

Se Théophile Gautier (Gautier [1840] 2002, 140) e Gustave Flaubert (Flaubert [1910] 1995, 129) sono tra i primi a riscoprire la figura dell’imperatore, destinato, da quel momento in poi, a una larga fortuna soprattutto letteraria (Artaud [1934] 1969; Arbasino 1969; David-de Palacio 2005, 183-204; Citti-Pasetti 2007; Icks 2011, 155-157), è Joris-Karl Huysmans con À rebours (1884) che ne riscatta definitivamente la figura, attraverso una duplice modalità: da una parte il giovane imperatore è citato espressamente tra le figure della decadenza preferite da Des Esseintes (Huysmans [1884] 2003,49), dall’altra il protagonista stesso sembra costruito ricalcando l’Eliogabalo di Lampridio, giudizi morali a parte. Nella sua Vita Heliogabali, l’autore rimarca come “per lui vita non era tale se non sperimentava nuovi piaceri” (Hist. Aug. Eliogabalus, 19.6, tr.it Lampridio [1994] 2011,78) – di per sé un concetto base del decadentismo – elencando con uno stile accumulatorio tutti gli elementi artificiosi e dissoluti della vita privata dell’imperatore (ivi, 77-96). Des Esseintes è per molti versi un novello Eliogabalo, nel modus vivendi, nell’anelito al vizio e alla vita artificiale, al lusso e ai materiali preziosi, nell’ambiguità sessuale (Huysmans si sofferma molto su questo aspetto, anche nella prefazione, Huysmans [1884] 2003,25, 117-118) e nella tensione alla noia: À rebours si presenta come resoconto dettagliato degli aspetti stravaganti e d’eccezione della vita del protagonista, riecheggiando – in filigrana – lo stile elencatorio della Vita Eliogabali.

La lettura che Alma-Tadema fa delle vicende del giovane imperatore, tuttavia, a una attenta disamina del dipinto, diverge dal punto di vista, per certi versi emulativo, dei protagonisti della decadenza, nascondendo, invero, un sottinteso esclusivamente estetizzante.

La visione di Alma-Tadema sembra improntata, infatti, su un’idea di Art for Art’s Sake piuttosto epidermica, che si esplica attraverso la scelta di un soggetto adatto a dare sfoggio della propria bravura pittorica, quel ben noto virtuosismo nel dipingere marmi – in questo caso policromi – e i dettagli più minuziosi, come le migliaia di petali di rose dalle diverse sfumature di colore (dal bianco latte, al rosa antico, al geranio).

L. Alma-Tadema, The Roses of Heliogabalus, dettaglio, 1888, Città del Messico, collezione Pérez Simón.

Fotogramma dal film, Héliogabale o L’Orgie Romaine di Louis Feuillade, 1911.

Tutto è allestito allo scopo di creare stupore nello spettatore e catturarlo nella scena: la composizione è giocata sulla divisione in diagonale della tela, dove la parte sinistra è occupata quasi per intero dalle rose e dai commensali travolti dai petali: l’enorme nuvola rosa shocking crea un effetto anche visivamente soffocante, quasi un corrispettivo ottico del profumo dolciastro e asfissiante di quei petali – mentre la destra ospita, partendo dall’alto, le figure dell’imperatore e della sua corte (in primis le celebri donne della sua vita, la nonna, la madre, la moglie); in basso, il pubblico è esplicitamente coinvolto nella messinscena grazie agli sguardi che i commensali sommersi dai fiori e la donna a destra indirizzano all’esterno della tela. Rispetto alla drammaticità di Lampridio – che riporta: “I suoi parassiti, assisi in sale per banchetti dai tetti girevoli, venivano cosparsi da cascate di viole e di fiori, tanto che alcuni, venendone sommersi e non riuscendo a raggiungere la superficie, morirono soffocati” (Hist. Aug. Eliogabalus, 21.5 tr.it Lampridio [1994] 2011, 81) – Alma-Tadema punta a far emergere l’aspetto frivolo ed elegante della scena, tanto che i commensali, piuttosto che soffocare, sembrano quasi risollevarsi dopo una burla dell’imperatore, paradossalmente assimilabile al gioco delle fanciulle di In a rose garden (1889). Sulla stessa linea si muoverà, nel 1911, il cortometraggio Héliogabaleo L’Orgie Romaine di Louis Feuillade (D’Hautcourt 2006), dove la pioggia di rose rosa (la pellicola è colorata a mano), lungi dall’essere mortale, cade sugli ospiti al banchetto, allietati dalle danze di sensuali ballerine; del resto, la possibilità che The Roses of Heliogabalus sia stato tra le fonti del film è molto probabile, considerata inoltre la continuità che si instaura tra i grandi dipinti ottocenteschi di soggetto storico e il cinema, sia degli esordi, sia dell’età d’oro dei kolossal hollywoodiani.

Eppure, in altre occasioni, quando affronta temi legati alla Roma imperiale, Alma-Tadema concede ampio spazio agli aspetti più torbidi e drammatici (per ben tre volte, per esempio, ha trattato l’uccisione di Caligola: Proclaming Claudius Emperor, 1867; A Roman Emperor AD 41, 1871; Ave Caesar - Io Saturnalia!, 1880), quasi ostentando un giudizio severo sui costumi latini. L’opera affronta, comunque, in maniera abbastanza esplicita uno dei caratteri più noti della personalità di Eliogabalo, l’ambiguità sessuale. Questo avviene in due fasi: a livello simbolico, attraverso la presenza, sullo sfondo, del gruppo scultoreo di Dioniso con satiro, nel quale si potrebbe riconoscere Ampelo, l’amante del dio (varie versioni in marmo del soggetto sono conservate a Roma, Palazzo Altemps, all’Altes Museum di Berlino e ai Musei Vaticani, queste ultime più vicine a quella riprodotta da Alma-Tadema, in bronzo), presenza che potrebbe altresì alludere alle parole di Erodiano: “era nel fiore della giovinezza e superava tutti i suoi coetanei per la bellezza della sua figura. [...] l’avresti paragonato al giovane Dioniso, come appare nei suoi ritratti migliori” (Erodiano, Storia romana, V.3, 5, tr. it. in Lampridio [1994] 2011,109); a livello più esplicito, attraverso lo sguardo scambiato tra l’imperatore e l’uomo bizzarramente abbigliato e acconciato all’estrema destra – a cui rivolge un’occhiata maliziosamente indagatrice anche la seconda donna da destra, al tavolo imperiale – certamente uno dei due “amanti-mariti-mogli” di Eliogabalo, Zotico.

L. Alma-Tadema, The Roses of Heliogabalus, dettagli, 1888, Città del Messico, collezione Pérez Simón.

Per quanto concerne la presenza delle rose – come accennato poc’anzi – da una parte esse esprimono simbolicamente la luxuria imperiale (l’eccesso, il lusso, la dissolutezza) e, dall’altra, testimoniano non tanto una deroga alla fonte storica principale, quanto la ricezione di una tradizione, consolidata nell’immaginario collettivo, riguardo la figura dell’imperatore. Quanto il legame Eliogabalo-rosa fosse radicato nel XIX secolo è testimoniato da uno dei principali saggi dedicati alla rosa e al suo simbolismo, The Rose, its Cultivation, Use, and Symbolical Meaning in Antiquity di Octave Delepierre (Delepierre 1856, 20), verosimilmente noto anche allo stesso Alma-Tadema.

Non è chiaro come l’immagine lampridiana delle “viole e altri fiori” si sia trasformata nel tempo nella pioggia di rose. C’è una buona possibilità di credere che questa trasformazione sia legata al ruolo preminente giocato dal fiore in molti dei costumi romani, in particolare in quelli conviviali e funerari; nella stessa vita di Lampridio l’uso delle rose da parte di Eliogabalo è descritta in diverse situazioni. L’immagine della scena che stiamo analizzando sembra, dunque, essersi formata attraverso la fusione di momenti diversi della biografia dell’imperatore – il passo che recita: “faceva cospargere di petali di rosa triclini, letti e portici [...]” (Hist. Aug. Eliogabalus, 19.7, tr.it. Lampridio [1994] 2011, 79) e la scena degli invitati soffocati – e della tradizione romana.

Di pioggia di rose sui banchetti romani parlano, infatti, anche fonti letterarie latine precedenti, prima fra tutte i Fasti di Ovidio, quando il poeta latino rammenta che durante le cene “ci si cinge completamente le tempie con corone intrecciate mentre la splendida tavola è tutta coperta di rose” e “facciamo cadere le rose sulla mensa imbandita” (Ov. Fasti V, 332, 335-338.). Svetonio, inoltre, nella sua vita di Nerone, sicuro modello per quella di Eliogabalo, sottolinea la presenza di soffitti mobili nella Domus Aurea dai quali cadono sui commensali fiori o profumi (Suet. Nero, 31.2). Da questo passo ha tratto spunto Henryk Sienkiewicz nel suo celebre Quo Vadis? del 1896 – ampiamente partecipe della medesima temperie culturale di The Roses of Heliogabalus di Alma-Tadema – dove durante un convito alla presenza di Nerone “di quando in quando piovevano giù dal palco sugli invitati rose e foglie di rose” (Sienkiewicz [1896] 1996, 74).

La rosa era nell’antica Roma (Mello 2003) il fiore della convivialità, le cui corone adornavano le statue di Bacco ed erano portate al collo dalle baccanti o dai partecipanti ai riti dionisiaci (si ricordi la presenza della statua di Dioniso nel dipinto), ma, allo stesso tempo, anche il fiore dei defunti. Durante i Rosaria o Rosalia, festività che si teneva tra maggio e giugno, i sepolcri venivano cosparsi di rose e adornati con ghirlande come offerta ai Mani, simbolo della caducità e della vita spezzata dalla morte (ivi, 36-37). Nell’antichità, dunque, la rosa era già vista come fiore dall’aspetto duplice, bello e delicato, dal profumo seducente e dai petali vellutati e carnosi, ma rapido nell’appassire ed è, forse, anche per questa ambivalenza, oltre a quanto detto, che può in parte essere ricondotta l’origine dello scarto rispetto a quanto narrato da Lampridio. 

È solo nel Seicento, ad ogni modo, che la scena di Eliogabalo ricompare, nel momento in cui la vita del giovane sovrano sembra tornare in auge, in particolare nella trattatistica morale cattolica, come modello negativo nell’eccesso dei costumi. Tra i più noti scrittori religiosi dell’età barocca, Daniello Bortoli ricorre a questa scena in tre occasioni, ne Dell’uomo di lettere (1645), nella Ricreazione del Savio (1659) e nel Dei Simboli trasportati al morale (1677), in quest’ultimo, in particolare, come esempio di eccesso di cortesia. La stessa ricerca di una morale del giusto mezzo, della morigeratezza, e del risvolto dannoso degli eccessi, torna più di un secolo dopo ne La cortesia scortese di Ippolito Pindemonte, uno dei sermoni editi nel 1819 (Puggioni 2010, 100). Odoardo e Matteo, protagonisti della poesia, discorrono dell’inadeguatezza degli eccessi e della loro insistenza, poiché anche le cose belle, se in eccesso, possono però arrecare danno. A Elena di Troia che dice di aver intrattenuto molto piacevolmente Ernesto con amplessi e baci, rispondono, quasi additandola come predatrice:

“No: l’opprimesti. Qual più amabil cosa
De’ fiori, onor di maggio, e di donzelle
Delizia e di garzoni? E pure ascolta.
Un di que’ mostri, che l’imperio in Roma
Ebber, detto Eliogabalo, dall’alto
Delle soffitte d’or si lunga e spessa
Fea talvolta cader pioggia di rose
Che i convitati soffocava. Come
Là, ‘ve la gelid’Orsa i campi indura,
Tauro infelice sotto molta e molta
Di ciel fioccata e rifioccata neve,
Lo stupefatto commensale – ahi nuovo
Di crudeltà raffinamento e studio! –
Sotto quella vermiglia e sì odorosa,
Sì molle, e prima sì cortese in vista,
Tempesta densa ed incessante, al fine
Senza fiato restava e senza vita”.
[vv. 124-140]
(Pindemonte [1819] 2010, 408)

Nelle parole di Pindemonte e grazie all’esempio di Eliogabalo, anche se in un contesto del tutto neoclassico dove il tema dominante è la necessità dell’equilibrio, emerge, probabilmente per la prima volta, il legame tra la femme fatale e la rosa, alludendo, con tratti ormai preromantici, alla passione che consuma, che distrugge e che può uccidere - di per sé già tema decadente.

Passione fatale

Dalla passione greca, severa, aggraziata e sospirosa, passò all’amore romano, a quell’antico amore caldo e bruciato del Lazio, che sa di capra e di pelle animale e che, da Cesare in poi, s’estende ramificandosi a tutte le follie, offrendosi a tutte le lubricità, di volta in volta egiziano sotto Antonio, asiatico a Napoli con Nerone, indiano con Eliogabalo, siciliano, tartaro e bizantino sotto Teodora, ma sempre confondendo il sangue alle sue rose, ma sempre mostrando il rosso della carne sotto le arcate del circo dove urlano i leoni, nuotano gli ippopotami e vanno a morte i cristiani (Flaubert [1910] 1995, 129).

Nel 1845 Flaubert scrive dell’amore lussurioso che si mischia alla morte: Jules, uno dei protagonisti della prima Éducation sentimentale, nel momento in cui ha maturato la disillusione per la sua esistenza contemplativa, trascorsa nella solitudine e nell’introspezione, comincia a desiderare una vita di azione, lasciandosi andare a fantasticherie turpi che trovano nell’antichità romana i propri modelli, in una tensione tutta romantica, ma di sapore già decadente.

D.G. Rossetti, Lady Lilith, 1866–68, Delaware Art Museum.

Se tra queste righe si trova uno dei primi legami tra sangue e voluttà, tra la donna fatale (Teodora), la morte e la rosa, quest’ultima – quale emblema della bellezza sensuale ma pericolosa –, si afferma fortemente nell’Inghilterra preraffaellita dove il valore simbolico dei fiori era preponderante. Solo per citare un esempio, non c’è opera di Dante Gabriel Rossetti nella quale essi non compaiano, soprattutto nell’opera matura dell’artista ispirata alla pittura veneziana del Rinascimento, con donne a mezzo busto caratterizzate da una sensualità pronunciata. Queste immagini entrano nel repertorio del pittore intorno agli anni Sessanta contestualmente alla ribalta del più importante poeta inglese del momento, Algernon Charles Swinburne, che esalta il tema della passione carnale, a tratti masochistica e blasfema. Le stesse poesie di Rossetti, spesso contraltari testuali dei suoi dipinti, talvolta vere e proprie ékphrasis in versi, indugiano molto sul ruolo della femme fatale. Lady Lilith (1866–68, Delaware Art Museum), l’archetipo della donna dominatrice, è un esempio preminente di questa tendenza: sia nel dipinto che nell’omonimo sonetto, la rosa – assieme alla digitale purpurea, altro fiore che incarna contemporaneamente passione e morte – ne interpreta il ruolo di attributo iconografico.

A ogni modo, è con Venus Verticordia di Rossetti (Bournemouth, Russell-Cotes Art Gallery and Museum. Bottai 2011) e con Dolores di Swinburne, ambedue del 1866, che la seduttrice e la rosa sembrano indissolubilmente legarsi. In Rossetti la rosa spampanata evoca l’amore carnale, così come il caprifoglio, fiore dall’odore forte, penetrante e dolce per attirare le api, simbolo della seduzione; in Swinburne, con maggiore sadismo, la bocca mortale della donna è come un fiore velenoso, le rose il fiore del vizio che le coronano il capo (Praz [1930] 2009, 206-208). È interessante inoltre notare che a legare queste due opere sono anche alcuni riferimenti pseudo-blasfemi alla figura della Vergine. In Swinburne, questo aspetto è esplicito nel sottotitolo, “Notre-Dame des Sept Douleurs”; in Rossetti appare più velato, ma ugualmente evidente poiché la composizione del dipinto si presenta come una rielaborazione dell’iconografia della Vergine del Rosario, secondo la declinazione datane dal rinascimento lombardo, con il mezzobusto della Vergine davanti a una pergola fiorita, evidente ad esempio in opere di Bergognone o di Bernardino Luini.

D.G. Rossetti, Venus Verticordia, 1866, Bournemouth, Russell-Cotes Art Gallery and Museum; B. Luini, Madonna del roseto, 1508-10, Milano, Pinacoteca di Brera.

Oscar Wilde, dal canto suo, sceglie pure la rosa quale simbolo ambivalente di amore e morte, ma seguendo una traccia differente da quella legata alla tradizione della femme fatale o al mito di Eliogabalo, recuperando, nondimeno, anch’egli un motivo tratto dalla cristianità, quello del martirio. In The Nightingale and the Rose (1888), infatti, l’usignolo sacrifica la sua vita per aiutare il giovane studente innamorato, poiché crede che l’amore sia più importante della vita stessa, conficcandosi la spina di una rosa bianca nel cuore per farla diventare rossa, il pegno d’amore desiderato dalla fanciulla. L’allusione a Cristo e al suo sacrificio è evidente (Killeen 2007, 42), così come il riferimento a una iconografia che lega la rosa e la sua spina al martirio. Il nobile gesto dell’usignolo si rivela tuttavia vano: la fanciulla preferisce i gioielli di un altro pretendente e lo studente getta, con sprezzo dell’amore, la rosa in strada che finisce schiacciata da un carro, quasi uno scempio del cadavere dell’uccellino nel quale si legge la feroce critica wildiana alla società vittoriana.

Una morte profumata

La leggenda che si adombra dietro a The Roses of Heliogabalus fa perno sulla perversità di una morte causata da un elemento che, per antonomasia, è emblema di bellezza e d’amore, al fine di rimarcare gli eccessi della luxuria: “il che ben’era un soavissimo ammazzarli, ma pur’era un verissimo ammazzarli”, chiosava Daniello Bartoli a proposito dell’episodio (Bartoli [1677] 1840, 119).

Il paradosso di una morte bella o, meglio, causata dal bello, è accolto a braccia aperte dalla cultura decadente attraverso il motivo della “morte profumata”, che rielabora, per certi versi, le vicende di Eliogabalo.

Il suicidio di Albine in Le Faut de l’abbé Mouret di Emile Zola (1874), narrato nel quattordicesimo capitolo del III libro (Zola [1875] 1960, 1514-1515), è probabilmente il primo noto esempio di questo soggetto nel secondo Ottocento.

La ragazza, lasciata dal suo amante, il giovane abate Mouret in preda dai rimorsi per aver peccato, decide di togliersi la vita riempiendo la sua stanza di fiori di ogni tipo – e di rose in particolare – tratti dai giardini del parco dove si è consumato l’amore dei due giovani, lasciandosi soffocare dalle penetranti esalazioni emanate da essi.

J. Collier, The Death of Albine, 1898, Glasgow Museums; A. Morbelli, Asfissia, 1884: pannello sinistro (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea), pannello destro (collezione privata).

L’episodio sarà ripreso nel 1898 da John Collier in The Death of Albine (Glasgow Museums), lasciando trasparire di nuovo la fascinazione di questo tema in ambito inglese; il legame – non per forza di consequenzialità – tra il suicidio e i fiori che riempiono una stanza ricorre anche in Italia in Asfissia di Angelo Morbelli (1884, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea - collezione privata), un interno in penombra dove una coppia di giovani amanti ha deciso di porre fine alle proprie vite, forse a causa dell’impossibilità di quell’amore. Il tema si ripresenta, anche se ridimensionato, nel primo decennio del Novecento in Forse che sì, forse che no di Gabriele D’Annunzio (1910), nella scena del suicidio di Vana: prima di uccidersi, la ragazza “consacra” il pugnale col quale compirà l’atto alle rose che poi spargerà ai suoi piedi, su quello che sarà il suo letto funebre (D’Annunzio [1910] 1988, 805).

È sempre D’Annunzio a riproporre, ormai alla fine della temperie decadente e per l’ultima volta, il tema del soffocamento da parte delle rose, nella Pisanelle ou la Mort Parfumée (o anche Pisanelleou le Jeu de la Rose et de la Mort), composta in francese al principio del 1913 e allestita nel giugno dello stesso anno al Théâtre du Châtelet di Parigi, con regia di Vsevolod Mejerchol’d, scene e costumi di Léon Bakst, coreografie di Michel Fokine e protagonista Ida Rubinštejn (che ne è stata anche produttrice). Ambientata nella Cipro degli anni Sessanta del Duecento, benché si concluda come una tragedia con la morte della protagonista, è una commedia che non manca di tutti i costrutti tipici di essa, dal rovesciamento, alla parodia, alle trovate comiche: Pisanella, una prostituta toscana giunta come schiava in terra cipriota, è scambiata in un primo momento per santa e conquista il cuore del giovane sovrano Ughetto e, per questo, sarà vittima della vendetta della regina madre. Il sottotitolo dell’opera richiama il finale, ossia il supplizio inferto alla protagonista, soffocata da fasci di rose incarnate, una morte che assume persino tratti mistici riconnettendosi in questo alla maggiore delle opere francesi dannunziane Le Martyre de Saint Sébastien del 1911 (Mazzoni 1996, 141-150).

Nella pièce, dunque, il motivo della rosa come fiore duplice d’amore e morte è portato alle estreme conseguenze. La simbologia della rosa è qui molto schietta ed è il motivo conduttore di tutta la vicenda: dalla rosa che re Ughetto dona alla mendicante nel prologo insieme al pane, alla prima apparizione di Pisanella, presentata come “la rosa del bottino”, all’appellativo di “rosa toscana” con la quale la regina la accoglie subdolamente nel III atto, alla ghirlanda indossata dalla stessa regina in quel momento, fatta con le stesse rose che poco dopo uccideranno la giovane protagonista che, sfiorando il volto di Pisanella mentre riceve il bacio di Giuda dalla futura carnefice, pungendola, quasi preannuncia il supplizio imminente (D’Annunzio [1913] 2013, 1007-1008):

Oh, Dame
quellemiséricorde!
Une rose de votre
frais chapeau m’a touchée en mêmetemps
quevotrebouche, presque:
[...]
Une autre
m’a piquée; et, voyez,
il y en a une autre
qui s’effeuille

Se la Pisanelle si presenta come l’ultima importante elaborazione del topos della rosa come simbolo duplice d’amore e morte, nell’intera opera di D’Annunzio il fiore, sempre presente, assume un valore sostanziale e sempre ombrato di ambiguità. I primi tre romanzi da lui composti, Il Piacere (1889), L’innocente (1891), Il trionfo della morte (1894) sono, ad esempio, raccolti nella Trilogia della rosa.
Nel Piacere, essa è simbolo per eccellenza delle avventure amorose di Andrea Sperelli. La rosa è il fiore preferito da Elena Muti, la prima amante, donna carnale e passionale, femme fatale, in parte responsabile della capitolazione finale del protagonista; il rapporto con lei è evocato e ripercorso, nel primo capitolo, attraverso la presenza delle “rose folte e larghe [...] immerse in certe coppe di cristallo” (D’Annunzio [1889] 1988, 5), le stesse che la donna amava sfogliare e gettare a terra alla fine di ogni appuntamento.
Il richiamo erotico del fiore si fa esplicito nel flashback dell’adieu au grand air, quando i due amanti, alla vista delle rose di una zingara, ricordano alcuni dei momenti felici (ivi, 9-10):

– E quella sera de’ fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori... Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
[...] Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: “Già ella non mi ama più!” Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n’era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà...
[...]

– Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora... Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie... Ti ricordi?

In questo caso il gesto del gettare le rose sul corpo dell’amante è una chiara immagine di voluttà, quasi una reinterpretazione del mito della Danae e della pioggia d’oro, in riferimento al dipinto di Correggio della Galleria Borghese al quale Sperelli comparava la sua donna. A quel gesto, tuttavia, si lega a stretto giro il gioco delle rose triturate da Elena, un gesto velato, si potrebbe dire, da una sorta di sadismo inconscio, anticipatore della rottura della relazione, imposta dalla donna; una premonizione della fine dell’amore che torna, come atto isterico, nel definitivo addio della sera di San Silvestro (ivi, 32-34).

La rosa disfatta come segno dell’amore interrotto ha dei precedenti visivi in alcune opere preraffaellite, forse note a D’Annunzio. Nell’Hamlet and Ophelia di Rossetti (1858, Londra, British Museum), ad esempio, che illustra il III atto, scena I, della tragedia shakespeariana, quando Amleto annuncia a Ofelia la fine del loro amore, scatenando la ben nota pazzia, il principe, appoggiato allo schienale di uno stallo in legno con le braccia aperte, a mo’ di crocifisso, frantuma delle rose. La rosa che si sfoglia e che cade, allusione all’amore perduto, è altresì elemento centrale di The Lament di Edward Burne-Jones (1866, Walthamstow, William Morris Gallery).

D.G. Rossetti, Hamlet and Ophelia, 1858, Londra, British Museum; E. Burne-Jones, The Lament, 1866, Walthamstow, William Morris Gallery.

Le rose lasciate cadere a pioggia sull’amante, simbolo di passione e amore carnale, torna molto simile in altre opere dannunziane, a partire – sempre sotto forma di ricordo dei due amanti – dal Trionfo della morte (D’Annunzio [1894] 1988, 662):

E tutti quei tuoi fiori, nella stanza...
– Ero uscito di casa io stesso, per tempo; avevo comprata l’intera piazza di Spagna...
– Mi gettasti addosso una quantità di rose sfogliate, mi mettesti tante foglie nel collo, dentro le maniche... Ti ricordi?
– Mi ricordo.
– Poi a casa, quando mi spogliai, le ritrovai tutte...

Ma, nel romanzo, il tema della donna coperta dalle rose ha un sentore, almeno nell’immaginazione di Giorgio Aurispa, di morte (ivi, 805):

Si ricordò che già qualche altra volta egli l’aveva imaginata bella nella pace della morte. - Ah, quella volta delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche: in un giugno, nel principio degli amori. Ella s’era assopita sul divano, immobile, quasi senza respiro. Egli l’aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l’aveva coperta di rose, piano piano, cercando di non destarla; le aveva composto su i capelli alcune rose. Ma così infiorata, inghirlandata, ella gli era parsa un corpo esanime, un cadavere.

L’uso da parte di D’Annunzio della rosa come simbolo di un amore passionale che conduce alla morte si rende più esplicito nella Francesca da Rimini (1901, Di Paola 1997, 98-99). Una rosa è il dono che Francesca fa a Paolo al momento del loro primo incontro (I atto), staccata dal rosaio piantato in un sarcofago, vero e proprio oracolo delle vicende tragiche dei due amanti.

Che la rosa sia l’emblema stesso della tragedia è ben evidente nelle illustrazioni realizzate da Adolfo De Carolis per il prezioso volume edito nel 1902 (D’Annunzio 1902), tra le quali emerge una delle più celebri effigi del mondo decarolisiano, l’Incipit Crimen Amoris, con la fanciulla seduta nel roseto, rielaborazione di modelli inglesi, da The Heart of the Rose di Burne-Jones (1889, collezione privata), al Daydream, (1880, Londra, Victoria & Albert Museum) di Rossetti. Nell’illustrazione che accompagna le strofe delle terzine dantesche tratte dal V canto dell’Inferno, fonte della tragedia, compaiono, invece, tutti gli elementi drammaturgici che caratterizzano gli aspetti salienti della vicenda: l’arca bizantina in cui è piantato il cespuglio di rose, l’angelo con lo stocco che uccide i due amanti (e che torna nell’Explicit Tragœdia), Amore alato con la coppa che suggella l’amore dei protagonisti (II atto) e la rosa recisa a terra, segno di quell’amore spezzato dallo stocco.

A. De Carolis, Incipit Crimen Amoris, illustrazioni per Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio, Treves, 1902.

D.G. Rossetti, Daydream,1880, Londra, Victoria & Albert Museum.

In ogni caso l’idea della morte profumata, escamotage utile a dare un sapore di raffinatezza e finanche sensualità, al momento della morte, o meglio del supplizio, si rivela una costruzione perfettamente in linea con il dettato estetizzante dannunziano – e decadentista in genere – che trova estrema espressione in entrambe le tragedie francesi del letterato abruzzese. Già ne Le Martyre de Saint Sébastien, infatti, vi è un’anticipazione di quanto verrà sviluppato nella Pisanelle quando, alla fine della “terza mansione”, Diocleziano fa ricoprire il santo di collane, ghirlande e fiori, quasi a soffocarlo, come pena preliminare al martirio.

Con il finale della Pisanelle si chiude, assieme al sipario, l’ultimo atto del viaggio del tema della morte profumata, punto di arrivo di quella visione della rosa quale simbolo di passione e morte che ha caratterizzato parte dell’immaginario decadente dalla metà del XIX secolo e che ha molto probabilmente uno dei suoi archetipi, come visto, nella luxuria di Eliogabalo.

Bibliografia:
English Abstract

The Roses of Heliogabalus (1888) by Lawrence Alma-Tadema represents a legendary episode of Heliogabalus’ life, in which a rain of flowers literally buries people during a banquet. Despite sources speak of “violets and other flowers”, the painter chooses roses, probably for their reference to imperial luxuria, but also because tradition had always linked Heliogabalus and roses – as evidenced by some religious texts of the Seventeenth century – perhaps for their dual symbol of beauty and death. The paper presents and discusses a series of decadent European images, poems and novels, where the topos of rose as ambivalent symbol of beauty (and passionate love too) and death has a central place, from the rediscovery of Heliogabalus in French Romanticism, through Pre-Raphaelites and Symbolistsin England, up to D’Annunzio’s works at the Great War eve.

 

keywords | De Carolis; Rossetti; Collier; Morbelli; Death; Perfume; Decadentism; Pre-Raphaelites; Symbolism; Heliogabalus.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Piccioni, Una morte profumata. Il mito di Eliogabalo e l’ambiguità della rosa nel decadentismo europeo, “La Rivista di Engramma” n. 121, novembre 2014, pp. 8-28 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.121.0000