Supplici nel nostro presente: comprendere la contemporaneità
Un colloquio con Gabriele Vacis su Supplici a Portopalo
a cura di Alessandra Pedersoli
English abstract
Supplici a Portopalo, racconto teatrale dalle Supplici di Eschilo
di Monica Centanni, regia di Gabiele Vacis, con Vincenzo Pirrotta
Portopalo, 19 settembre 2009 – Siracusa, 20 settembre 2009
Supplici a Portopalo. De la tragédie d’Eschyle à la parole des réfugiés. Création théatrale
mise en scène de Gabriele Vacis, dramaturgie de Monica Centanni
avec Vincenzo Pirrotta et Gabriele Vacis
un projet de Change Performing Arts, Milano
Festival de l’Imaginaire
Paris, Maison des Métallos, 94 rue Jean-Pierre Timbaud
vendredi 9 avril 2010, à 20h30 – samedi 10 avril, à 20h30
Da questi loro volti stranieri che ci facevano paura
grande vantaggio si profila per gli abitanti di questa città.
Gioite per il destino di ricchezza che ci attende
se sapremo far tesoro della forza benefica
che i migranti portano alla nostra città!
Gioisci popolo di Atene!
Supplici a Portopalo
Supplici a Portopalo: le parole del teatro antico per raccontare un dramma del nostro presente
Alessandra Pedersoli – L’attualità di Supplici di Eschilo è davvero impressionante e – forse – l’unico racconto oggi eloquente per narrare il dramma dell’immigrazione clandestina, per riflettere sullo status di cittadino e di rifugiato politico. Perché hai deciso di raccontare proprio ai portopalesi la loro storia con queste parole antiche? Come ti sei avventurato in questo progetto?
Gabriele Vacis – È stata una proposta di Monica Centanni che mi ha fatto rilevare questa pertinenza di Supplici, per cui è veramente straordinario che 2500 anni fa si raccontasse di una storia che potrebbe essere narrata oggi al telegiornale. Delle cose che accadono, è strano come solitamente nei media attuali non si parli storicizzandole: in cento puntate dedicate alla tragedia di Cogne, Bruno Vespa non ha mai chiamato un’attrice a recitare un pezzo da Medea di Euripide. Penso che il non raccontare la storia di Medea a proposito della tragedia di Cogne, faccia passare l’idea che questi drammi accadono solo oggi e sono una novità: purtroppo invece le madri hanno sempre ucciso i figli, è sempre accaduto. E a volte noi non possiamo capire quello che succede oggi se non andando a cercare chi ce lo ha già raccontato quando questo è successo.
Eschilo in Supplici racconta una storia di una straordinaria contemporaneità, più che attualità. Noi usiamo indifferentemente ‘attuale’ e ‘contemporaneo’, ma ‘contemporaneo’ è qualche cosa che sta sempre con il tempo in tutti i tempi, ‘attuale’ è qualche cosa che sta solo in un tempo (sul tema v. anche in Engramma il contributo di Monica Centanni, Nota ad Aristotele, Poetica 1451a36-1451b32). Certamente gli immigrati di oggi hanno certe caratteristiche, i politici di oggi hanno certe caratteristiche, e quando racconti questo, racconti l’attualità. Ma quando racconti l’azione, i comportamenti delle persone, le decisioni che hanno preso, ecco allora che è molto utile andare a cercare i precedenti. Perché i precedenti ci sono: non affrontiamo per la prima volta il problema.
Nel film che ho diretto su Settimo Torinese Uno scampolo di paradiso si racconta di un’immigrazione che aveva dimensioni molto più vaste di quella di oggi: l’emergenza era molto più grave agli inizi degli anni Sessanta, proprio numericamente. Ma allora era un fenomeno nazionale, mentre oggi è un fenomeno globale. Nel caso di Portopalo è accaduta una tragedia, e il ruolo del teatro può essere di meditazione collettiva perché lì c’è una comunità offesa. La notte di Natale del 1996 è avvenuta una grave tragedia: 283 migranti sono morti a largo di Portopalo, i pescatori hanno pescato i cadaveri e li hanno ributtati in mare. Nel momento in cui si decide di raccontare questa storia a chi – direttamente o indirettamente – l’ha vissuta, non va risparmiato nulla. Edulcorare gli avvenimenti o cercare giustificazioni – che pure ci sono – a questo atto scellerato è sbagliato. Fino a ora è stata raccontata questa storia dal punto di vista di chi stava fuori, e che ha condannato i portopalesi.
Si tratta allora di trovare le parole per non dimenticare come sono andate le cose esattamente e i comportamenti imperdonabili che ci sono stati – ma bisogna anche capire. Quell’azione non può essere condivisa, ma può essere compresa. Comprendere, in qualche modo, ti aiuta a sopravvivere, e quello che può fare il teatro, come quella sera sulla spiaggia di Portopalo, è dare qualche punto di sutura, con pietà, anche se si tratta di una cicatrice che rimarrà, e che si vedrà anche. La sera stessa della rappresentazione di Supplici a Portopalo c’è stato l’evento profondamente simbolico di un nuovo sbarco di clandestini sulle coste portopalesi, che ci ha fatto comprendere ancor meglio ‘che cosa’ stavamo facendo lì quella sera: commemoravamo qualche cosa, ma questo qualcosa continua ad accadere. Quindi con il teatro non ci limitiamo a parlare di ciò che è accaduto, ma che continua ad accadere. Abbiamo bisogno di raccontare ciò che avvenuto nel 1996, ma anche di ciò che è accaduto duemilacinquecento anni fa: fortunatamente là c’era Eschilo, che ha trovato le parole, e noi possiamo ancora usarle oggi.
Il testo di Supplici a Portopalo
A. P. – Nello spettacolo il testo eschileo di Supplici in alcuni punti è stato interpolato con racconti contemporanei, e spesso la differenza non si riconosce; non solo, anche il modo in cui le parole sono state pronunciate, il cunto di Vincenzo Pirrotta, ha segnato uno dei momenti più coinvolgenti dello spettacolo. Perché questo modo antico di raccontare?
G. V. – Perché le parole di Eschilo sono parole antiche. A noi sono arrivate le parole: ma come gli antichi le dicevano, noi non lo sappiamo. Se avessi una macchina del tempo mi piacerebbe molto andare a vedere la prima di Supplici: come la allestivano, come cantavano i cori, come si muovevano. Noi conosciamo questa tecnica siciliana del cunto, che non si sa bene da dove arriva, probabilmente non è neanche così antica in sé, però è evidente che affonda in qualcos’altro di ‘antico’. È una qualità di emissione della voce in cui si parte dalle parole, però poi si arriva ad altro. Nella comprensione del testo partiamo dal senso, e il senso delle parole di Eschilo racconta degli eventi in molte parti assimilabili a quello che accade adesso: però poi noi abbiamo bisogno di elaborare il senso del testo, di essere consolati, capire, comprendere. A me è piaciuto molto farlo lì quella sera: la replica il giorno seguente a Siracusa non è stata la stessa cosa.
La prima a Portopalo aveva una dimensione rituale che oggi facciamo fatica a ritrovare: in qualche modo è il pubblico che ha fatto lo spettacolo. In prima fila c’erano gli ospiti del centro di prima accoglienza per i minori, e Vincenzo Pirrotta ha avuto l’idea di affidare il bastone di scena a Khassim, un ragazzino che assomiglia ad Anpalagan Ganeshu, una delle vittime del naufragio della notte di Natale del 1996, e proprio prima dell’inizio del cunto l’ha chiamato per farsi dare il bastone: è stato uno dei momenti più belli della serata perché si è rivelato di straordinaria tensione emotiva.
Thèatron: la visione
A. P. – Un altro momento teso e commovente è stato il racconto di un viaggio per mare avvenuto la scorsa estate con la conta dei morti: degli oltre cento partiti, solo poco meno di una decina riescono a sbarcare sulle coste italiane. L’immedesimazione era tale che sembrava di vedere il mare inghiottire uno ad uno i disperati, sembrava di vedere il barcone, di stare con loro.
G. V. – Il coro di Supplici di Eschilo in cui si narra il viaggio è all’inizio della tragedia, ma noi l’abbiamo messo in fondo, come conclusione. E abbiamo sostituito parte del testo eschileo con quello dei supplici di oggi. Il racconto è lo stesso; la sofferenza, la qualità del dolore sono le stesse. Ciò che interessava in quel momento era andare oltre la contingenza e quindi Eschilo è tornato utile perché ha reso ‘contemporaneo’ un evento che, finchè restava ‘attuale’, rischiava di rimanere incomprensibile.
Dallo spettacolo teatrale al docufilm
A. P. – Accanto al racconto dell’allestimento di Supplici a Portopalo, il progetto si amplia con l'idea di raccontare con il mezzo del video gli sbarchi che sono avvenuti e che continuano ad avvenire lungo le coste. Sono state fatte numerose interviste: quale testimonianza ti è parsa particolarmente significativa?
G. V. – Tutti i racconti dei ragazzi ospiti del centro di prima accoglienza – che tra l’altro ora è chiuso, e quindi ora si trovano distribuiti in giro per l’Italia – tutte le storie di questi ragazzi sono straordinarie perché noi non immaginiamo che il loro viaggio sia così pericoloso: il partire da dove partono e l’arrivare in Italia a volte richiede sei mesi, un anno, e in questo tempo capita di tutto. Chiunque veda o assista a un racconto di questi ragazzi, non può fare a meno di essere solidale, di comprendere. Molte di queste persone hanno diritto d’asilo perché provengono da paesi in guerra e sono effettivamente rifugiati politici, ma non gli viene dato il permesso di soggiorno a causa della lunghezza dei tempi burocratici.
Dopo di che, esiste tutta una serie di problemi che non si possono nascondere: tutti coloro che arrivano devono essere accolti? Come si fa ad accogliere tutti quelli che arrivano, a garantire sicurezza, lavoro, casa? Questi sono problemi reali, però occorre affrontarli a partire dalla comprensione del problema, non dall’elusione. Cominciamo a dire che quelli che arrivano per mare sono un’esigua percentuale (l’8% o forse meno): non possiamo concentrare solo lì l’attenzione.
Mi ha molto interessato andare lì sul posto, osservare il comportamento delle persone che si trovano in prima linea: hanno una esigenza quotidiana di intervento e si trovano spesso a dover far fronte a problemi concreti e reali, che sono corpi da salvare, da vestire, da lavare, da nutrire, bambini nati da poco. Sono rimasto molto colpito perché oltre ai migranti con i racconti dei loro viaggi, i testimoni sono stati anche i volontari della Protezione Civile che ogni giorno sono coinvolti nell’accoglienza di queste persone. Il loro atteggiamento è straordinario: ciò che fanno è qualcosa di cui tutti dovremmo essere grati. Il lavoro è duro, faticoso: la sera della prima di Supplici a Portopalo sono sbarcate quasi duecento persone, e questi stessi volontari che stavano assistendo allo spettacolo, si sono mobilitati e hanno lavorato tutta la notte all’accoglienza. Noi non siamo stati avvertiti subito dello sbarco, l’abbiamo saputo solo la mattina dopo, e quando siamo tornati a Portopalo era ormai mezzogiorno: queste persone erano ancora al lavoro dalla sera precedente.
Tutto questo andrebbe raccontato con il teatro, ma in questo senso è utile anche il documentario, il film, perché ha più punti di prospettiva, più possibilità di essere visto, e rende protagonisti i testimoni. Ad esempio il sindaco di Portopalo, un personaggio incredibile, che deve barcamenarsi tra mille difficoltà, equivoci, leggi, contro-leggi. La sua testimonianza e quella di molti altri è eloquente: hanno voglia di raccontare quello che fanno, perché capiscono che narrare tutto questo fa parte della soluzione del problema.
Supplici altrove
A. P. – Lo spettacolo andrà in scena anche a Parigi (al Festival de l’imaginaire) ad aprile. Che tipo di soluzioni pensate di adottare per rendere comprensibile questo testo, che a Portopalo ha suscitato emozioni molto intense, a un pubblico come quello francese, che non è estraneo al problema, ma è comunque molto diverso dal pubblico siciliano?
G. V. – Recentemente ho visto un film, Welcome, che racconta di un ragazzo iracheno che vuole andare a Londra: riesce a raggiungere Calais, ma poi non riesce ad attraversare lo stretto. Stiamo assistendo a una migrazione globale, e quindi a un problema condiviso dall’intero Occidente. Pian piano occorrerà affrontarlo nella sua essenza, che però dobbiamo ancora comprendere. Non è giusta la soluzione del blocco né dell’apertura totale, proprio perché questi atteggiamenti non partono dalla comprensione del problema, bensì dall’elusione. In Francia hanno problemi simili, e simili maldestri tentativi di soluzione, come in Italia. Nel 1987 feci uno spettacolo che si chiamava Riso amaro, che parlava dell’energia nucleare: c’era appena stato il referendum in Italia che aboliva le centrali nucleari, e noi l’abbiamo rappresentato in Australia. In Australia non hanno capito la vera essenza dello spettacolo, per il semplice fatto che lì non hanno il problema dell’energia. A Parigi non succederà, perché di base il problema ce l’hanno loro come ce l’abbiamo noi. Il testo verrà tradotto con una tecnica che ho sperimentato durante un lavoro che ho fatto recentemente con un gruppo di ragazzi palestinesi al Palestinian National Theater: si tratta di una sorta di traduzione simultanea, con la presenza di un attore-traduttore in scena. Ci sarà sempre Vincenzo Pirrotta, perché il cunto non ha bisogno di traduzione; non si basa sul senso, ma sulle qualità vibratorie e sul suono: tocca l’anima e quindi non c’è bisogno di traduzione. Lo spettacolo sarà però preceduto da un piccolo documentario che racconterà la notte di Natale del 1996, perché per i portopalesi e per i siracusani era scontato il riferimento a quanto avvenuto, mentre per i parigini no – e non lo è nemmeno per gli altri italiani a cui proporremo in seguito lo spettacolo.
English abstract
Supplici a Portopalo (The Suppliant Women at Portopalo, Sicily) is a theatrical story which, based on Aeschylus’ tragedy, deals with the ever present issue of refugees. In the words of director Gabriele Vacis, the ancient play raises a number of current issues, reflecting on the stage the problem of the State and the attitude of the community towards the asylum seekers. Performances that took place in Sicily have been only the initial phase of a greater project, including a theater show in Paris and a documentary film.
keywords | The Suppliant at Portopalo; Aeschylus’ tragedy; Gabriele Vacis; Theater show; Documentary film.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Pedersoli (a cura di), Supplici nel nostro presente: comprendere la contemporaneità. Un colloquio con Gabriele Vacis, “La Rivista di Engramma” n. 78, marzo 2010, pp. 31-35 | PDF