Su Giovanni da Fano e l'Hesperis di Basinio*
Fabrizio Lollini
English abstract
Sia in rapporto alla cultura figurativa riminese, sia – più nello specifico – in rapporto alle vicende di Sigismondo e del Tempio Malatestiano, gioca un ruolo importante il corredo illustrativo che correda tre copie dell'Hesperis, poema latino opera di Basinio da Parma, uno degli umanisti – forse il più noto – tra quelli presenti alla corte locale, autore anche di un altro dei grandi best seller legati all'attività letteraria ed erudita della corte romagnola, l'Astronomicon – il terzo è invece il De re militari di Roberto Valturio. A queste opere, certo in modo conscio e organizzato, viene delegato un ruolo di rappresentanza: l'arte bellica, nella forma 'scientifica' o in quella epica, e la competenza astronomico-astrologica sono i due campi in cui il figlio di Pandolfo vuole far emergere il ruolo di punta del suo entourage, e ai quali delega la diffusione della propria immagine positiva, in forma materiale ben diversa – ma culturalmente analoga – rispetto ai grandi monumenti di Castel Sismondo o dello stesso Tempio.
Dagli antigrafi locali delle opere di Basino e di Valturio furono realizzate numerose copie, alcune certo impiegate come doni diplomatici, da cui poi discese una fortuna di trascrizione del testo e della decorazione che finì per esulare dai confini malatestiani: e appunto la fortuna delle tre opere conferma la loro valenza fondamentale, fino alla trascrizione scultorea delle tavole del testo valturiano nel fregio di Palazzo Ducale a Urbino, commissionato proprio da uno degli avversari di Sigismondo, Federico da Montefeltro.
L'Hesperis di Basinio narra, in forma trasfigurata sui modelli dell'Antico greco e latino, le vicende belliche condotte dal signore di Rimini per conto dei fiorentini tra il 1448 e il 1453, soprattutto contro Alfonso d'Aragona (le "guerre italiche" ricordate pure nelle epigrafi del Tempio), e il suo successivo ritorno da vincitore in patria. Il testo viene consegnato a Sigismondo nel 1457, alla morte del suo autore, per volontà di quest'ultimo, che ancora però, come sappiamo dalle fonti, non l'aveva completato con l'ultima mano di revisione e limatura.
Le tre copie decorate del poema a noi note hanno avuto vicende diverse: le prime due, una presso i Francescani di Bologna e l'altra in una collezione privata francese, erano conosciute già alla fine del XVIII secolo. Esse sono anzi rarissimo e precoce esempio di fortuna critica e visiva della decorazione libraria (in un periodo in cui forse mai così tanto la miniatura era arte minore, ma nel quale contemporaneamente stava nascendo un interesse che porterà alla pratica del cutting), certo in virtù del loro valore storico e documentale, e fors'anche per la curiosità onomastica – in un caso – della firma dell'artista che le realizzò. Una terza copia riemerse invece agli studi in pieno XX secolo.
Come chiarito dagli studi, l'identificazione onomastica corretta del miniatore Giovanni da Fano che appone la sua sottoscrizione al poema basiniano, è Giovanni di Bartolo della Bettina; in questo senso, l'oscillazione – talvolta scorretta – degli studi, in cui ricorre più frequentemente la forma Giovanni Bettini, ha riscontro con la non omogeneità degli stessi documenti d'archivio (un po' per questo motivo, un po' per convenzione, quindi, in questa sede non si applicherà alla questione un rigore assoluto). La firma su ricordata compare nel ms. 630 alla Bibliothèque dell'Arsenal a Parigi, già Heiss ("OPUS IOANNIS PICTORIS PHANESTRIS"); un'altra si trova nel ms. Vaticano Latino 6043 ("OPUS IOANNIS PICTORIS FANESTRIS").
La tradizione – pur non supportata da una sua citazione diretta – identifica Giovanni in uno dei principali protagonisti della produzione decorata del De re militari, sulla base di un passo di una lettera del giugno 1464 del Governatore di Romagna a Francesco Sforza, in cui si menziona un pittore "da Fano [che] è uscito et sta a Rimino", su cui non possono sorgere soverchi dubbi. Oltre a questo, rimangono non poche fonti d'archivio; la prima è un atto testimoniale rogato a Fano il 13 giugno 1456, in cui lo si definisce già “magistro”, seguito da una vendita di due anni dopo, in cui Giovanni risulta vicino di casa dell'architetto Matteo Nuti, ancora nella città marchigiana: semplice coincidenza o meno, pare davvero che i protagonisti dei due cantieri malatestiani più noti a Cesena e Rimini e questo decoratore (ma anche altri personaggi ancora da definire con una qualche chiarezza) siano presenti per tutti i territori amministrati dalla casata. Ciò corrisponde a ovvie situazioni di opportunità e logistica, anche al di là di quanto ci dicono i documenti (non c'è bisogno di nulla per postulare un viaggio di Giovanni da Fano a Cesena o a Rimini, così come non ci si deve necessariamente attendere che alla mancanza di attestazioni concrete in un sito e alla continuità di testimonianze in un altro debba corrispondere per forza un'immobilità duratura e assoluta). Ma questo la dice lunga sui presunti “attriti”, “contrasti”, “divergenze”, che in ambito artistico venivano riferiti ai due figli di Pandolfo – Sigismondo a Rimini e Malatesta Novello a Cesena – che invece impiegavano, più o meno nel medesimo giro d’anni, gli stessi artisti.
La concretezza documentaria ci dice in ogni caso che dopo il febbraio 1462 e per tutto il 1464 non vi sono referti fanesi, e che in almeno tre casi Giovanni è testimoniato a Rimini (in due come “habitator” della città); come appena detto, questo corrobora l'idea che il decoratore, bandito da Fano, si sia trasferito a un certo punto dalla sua città natale alla corte di Sigismondo, per il quale peraltro poteva aver appunto lavorato, operando nell'ambito della produzione di manufatti mobili per definizione, anche da prima e anche da fuori. Dal 1465 riprendono le attestazioni fanesi, che, senza grosse scosse, ci portano sino al 1491, anno in cui si registra l'ultimo pagamento a suo nome; nel 1494, comunque, Giovanni era già deceduto.
I problemi più scottanti riguardo al catalogo dell'artista sono due: uno, che qui non si tratta, è quello del riscontro concreto sulle copie note del De re militari, per evidenziare nel loro grande numero quelle che possano essere ricondotte alla sua autografia, sulla base del referto già citato; l'altro è invece di pura filologia stilistica, e riguarda il terzo codice miniato dell’Hesperis di Basinio, quello non firmato, già presso i Francescani bolognesi e ora alla Bodleian Library di Oxford (ms. Canon. Class. 81). Leggermente più ampio nel corredo illustrativo, svolto come negli altri due casi in vignette a sé stanti separate dal testo che accompagnano – commentandolo visivamente – il racconto poetico delle gesta di Sigismondo, il volume appare senza dubbio di qualità un po' più sostenuta, con una migliore stesura pittorica e una maggiore acribia nella descrizione dei particolari di alcune scene; se fino a qualche tempo fa la tradizione degli studi tendeva a scorgervi un'altra mano, ora quasi tutti hanno proposto di ricompattarlo sotto un'unica autografia con gli altri.
Mi pare di poter confermare questa idea, pensando che le minime varianti quantitative e qualitative possano rientrare entro i confini della variabilità dovuta alle modalità produttive di un prodotto quasi 'di serie', magari perché per quel pezzo era previsto un destinatario più illustre, o semplicemente perché negli altri casi a noi giunti il processo di confezionamento era stato forzatamente più veloce, per soddisfare a noi ignote richieste. Oltre alla maggiore economicità dell'assunto (che forse altri troveranno invece semplicistico), vorrei aggiungere un'ulteriore piccola osservazione: se la copia di Oxford fosse di altra mano, e corrispondesse a una sorta di 'prototipo' che Giovanni si sarebbe limitato a riprodurre nelle altre due (e in questo caso, appunto, risalterebbe fuori immancabilmente il problematico nome di Matteo de’ Pasti), non si vede per quale motivo non avrebbe seguito, da bravo copista, tutte le indicazioni originarie. In questo caso le pur piccole varianti rientrano meglio nel novero delle modifiche autoriali che non nelle derivazioni di una personalità autonoma.
Le vignette compaiono sempre alla fine e all'inizio dei singoli libri, entro fregi a girari (Vaticano) o più classiche cornici marmoree a trompe l'oeil (Oxford e Parigi), e non sono vere miniature stese a corpo, ma piuttosto disegni acquerellati toccati da rialzi cromatici, nelle forme che sappiamo tipiche al contempo della decorazione libraria 'scientifica' ma anche 'antichizzante': il tono basso è ritenuto infatti consono sia a un'immagine che deve proporsi come tavola illustrativa, sia a un intervento che non sia prevaricante – nella dicotomia tutta classica tra testo e immagine – a discapito dello scriptum, del narratum. Sono 19 nella copia oxoniense, 17 in quella parigina, e 16 nella Vaticana: si va dalla raffigurazione dell'accampamento di Sigismondo allo scontro tra quest'ultimo e Alfonso, dall'ingresso a Populonia al trionfo del signore riminese a Firenze, dalle scene che illustrano le sezioni allegoriche e sognanti quali l'Approdo all'Isola Fortunata, o la Reggia di Zefiro, a varie Cavalcate e Combattimenti.
Lo stile pittorico che emerge dalle scene del poema basiniano non appare particolarmente trascinante; la puntualità descrittiva con cui il miniatore definisce le sue immagini, e i loro particolari, non si esprime tramite una lucidità ottica di alto livello, che uniforma la visione, ma piuttosto si disperde in rivoli abbastanza puntigliosi ma fini a sé stessi. La pennellata è a tratti un po' grossier, e comunque mostra spesso un andamento sin troppo veloce e disinvolto, come di chi è compendiario non per scelta ma per necessità (non sappiamo se in ciò possa avere avuto peso la necessità di produrre in poco tempo un numero alto di copie illustrate della stessa Hesperis, che in un certo periodo potrebbe avere avuto un ruolo quasi istituzionale, o almeno 'di rappresentanza', per la corte riminese, dono ideale in tante occasioni diplomatiche). Stupisce un poco, dunque, la generosità con cui l'erudizione coeva parlava di Giovanni. Pur se tante volte ripresi e commentati, vale forse la pena anche qui di riportare alcuni versi che Roberto Orsi, uno dei poeti di corte di Sigismondo, gli dedica parlando "De Iano fanestri pictore":
Bythinii digitis opus hoc memorabile Iani
Ingenio veteres vincit et arte novos
Candida compositis delubra coloribus ornat
Patricios tantum Caesareosque lares
Effingit veris quecunque simillima rebus
Et rerum arcanos explicat ipse modos
Iratum fugies inter pineta leonem
Hirsutus timeas per iuga picta sues
Iurabis trepidare feras, et currere cervos
Stare domos, variis prata virere comis
Latrantesque canes, et surda audire virorum
Verba, vel umbrosi surgere fontis aquas
Quin te in parvis modo dixeris esse tabellis
Usque adeo doctas possidet illa manus
Inclyta piceno quesita est gloria Fano
Unde genus noster nobile Ianus habet.
Un vero concentrato di motivi repertoriali, una summa, quasi, dei luoghi comuni del discorso umanistico di prima generazione sulle arti visive: il confronto tra gli antichi e i moderni, entrambi sconfitti dalle qualità di Giovanni; la dualità ingenium-ars, per come già si era definita in ambito classico e ripresa nel Rinascimento; le immagini (qualunque immagine) realizzate simillima rebus, secondo il concetto dell'arte mimetica; il campionario dei raffronti sinestetici; la solita docta manus, per finire. Come hanno chiarito tanti studi, non si tratta di dati oggettivi, che partono dalla realtà, ma semplicemente di un modo di tono alto per celebrare le qualità dell’artista, al di là dalle sue scelte stilistiche specifiche. Ma comunque esplicitandone un valore assoluto, che a mio parere proprio non si può scorgere nelle vignette dell'Hesperis, e non si può condividere, anche se l'attenzione che la critica ha sempre dedicato alla miniatura riminese, fino a oggi, credo in parte dipenda anche da questo.
La considerazione apre, per inciso, due questioni, che qui si accennano solo; la prima è che il concetto di qualità formale che noi abbiamo elaborato non necessariamente si ritrova nei contesti in cui ce la aspetteremmo applicata, dando indicazioni mi pare significative su quello che si vuole chiamare 'il gusto delle corti'; e nello specifico, quando si lamenta il livello non trascinante delle copie illustrate a noi giunte dell'Hesperis, ma anche del De re militari o dell'Astronomicon, la classica terna di prodotti culturali della corte riminese, e si postula una più alta 'copia di dedica', un manufatto di livello altissimo perduto che possa essere stato fruito come prototipo e copiato nelle versioni note oggi, ci si ricordi che queste tabellae venivano celebrate già di per sé come opere sublimi (e credo proprio in buona fede), assieme al loro autore, unico artista della decorazione libraria citato dalla documentazione e dagli elogia locali, senza accennare in alcun modo all'eventualità che derivassero da prototipi, attribuibili a Matteo de’ Pasti o meno. La seconda constatazione è che allora, sulla base di quanto detto, ci sarà da essere un minimo prudenti rispetto ad analoghe celebrazioni classicheggianti di sublimi qualità o di status di autografia.
Anche molta qualificatissima critica moderna, peraltro, ha accostato Giovanni da Fano a nomi illustri, e soprattutto a Paolo Uccello e Jean Fouquet. Al pittore toscano si è collegata la tendenza a raffigurare ampi spazi paesaggistici a volo d'uccello per ospitare narrazioni belliche, così come l'eccelso artista di Tours (anche miniatore, come ben noto) viene chiamato in causa per similarità nella resa dell'atmosfera e dello spazio della natura in cui viene collocata l'historia. Al di là di qualche coincidente suggestione, mi pare che i fatti siano diversi, e che si spieghino altrimenti.
Da una parte, come ha lucidamente messo in evidenza Simonetta Nicolini, certe abitudini compositive del fanese paiono derivare dalla pratica tecnica, in rapporto cioè all'illustrazione di codici scientifici (anche nel senso di 'scienza della guerra') e alle conseguenti necessità didascaliche, che non si spiegano con ragioni maturate all'interno del dibattito artistico in relazione alla coerenza formale delle ambientazioni, quanto con concrete necessità esplicative. Ma credo si debba pure evidenziare che la stessa strutturazione dello spazio fouquettiano tende a seguire, come già notato da parte della critica, pratiche e convenzioni ancora in parte pertinenti al tardogotico dei grandi miniatori d'oltralpe di primo XV secolo: diverso è il grado di definizione ottica, diverso è il repertorio, ma l'inanellamento in circolare dei piani della visione, o l'impiego di elementi di collegamento in diagonale (strade, fiumi, o altro) per rendere coesi piani che si pongono a differente distanza dall'osservatore, non sono mezzi espressivi 'moderni', 'rinascimentali', ma la versione elaborata, arricchita e migliorata di escamotages già da tempo noti nella pratica delle botteghe.
In modo analogo vedo certe soluzioni di Giovanni da Fano, in cui la tradizione, a queste date ancora tardomedioevale, della cartografia – e quindi, a Rimini, propria anche di Matteo de’ Pasti – ebbe pure un ruolo importante. La successione delle battaglie dell'Hesperis è montata in forme in parte analoghe al Tito Livio, ms. Latin 14360 della Bibliothèque Nationale di Parigi, opera appunto di Matteo (pur con una distanza cronologica di almeno quindici anni) perché entrambi i miniatori si giovano dello stesso buon senso pratico di chi forniva illustrazioni di ars militaris, o di geografia, e non perché il secondo dipenda in toto dal primo (da cui mi pare differire per stesura e per stile, al di là delle affinità di organizzazione), né perché intrinseci alla pratica disegnativa o tanto meno alle teorie scritte delle speculazioni prospettiche 'alte' della cultura rinascimentale, in un melange di repertorio che include anche la conoscenza di certi fatti della pittura storica (come le senesi “tavole di Biccherna”) o di narrazione cortese (i Trionfi petrarcheschi, di gran moda, o l'arte dei cassoni nuziali).
In questa situazione, per concludere, si colloca la scena della costruzione del Tempio, punto più alto dell'epos sigismondeo. Lo storico della miniatura vi ravvisa un ulteriore esempio di incrocio tra una, ovvia, presa di contatto diretta con la realtà e l'esigenza di formulazione di un repertorio rifruibile negli altri esempi miniati che all'epoca senz'altro vennero prodotti (oltre ai tre a noi noti). Lo storico dell'architettura, a buon diritto, può tentare di leggerla come possibile fonte sui lavori del cantiere, sull'impiego di certi materiali o di certe soluzioni tecniche.
La mia idea, è che la vignetta presenti in toto una situazione di descrittività abbastanza alta, un impatto visivo puntuale che può essere modificato con qualche variante – ma ci si deve ricordare della cronologia circa 1462-1464 delle copie note del poema basiniano, sulla base dell'unico periodo in cui le fonti ricordano il soggiorno riminese di Giovanni legato alla corte (certo comunque non subito dopo il 1457 della morte di Basinio e del passaggio a Sigismondo del suo poema): Giovanni lavorò dunque probabilmente a posteriori, sovrapponendo al Tempio che vedeva un'ipotesi di sguardo retrospettivo sui lavori (e, comunque, senza una volontà filologica, come dimostra per esempio l'assenza di qualsiasi traccia dell'edificio preesistente). A meno di postulare che si sia appoggiato al presunto precedente 'prototipo', o a pregressi appunti altrui, a disegni architettonici, a pareri orali, o addirittura a modelli, provenienti dall'entourage del cantiere – problema che si potrebbe porre anche per l'altro edificio dipinto da Giovanni nell'Hesperis e che è stato collegato al Tempio, quello della vignetta con l’ingresso a Firenze (del tutto fantastica, a mio parere): dimostrando nel caso uno scrupolo filologico che, se non imposto, suonerebbe però come del tutto anomalo nell'operatività media di un decoratore librario del XV secolo.
La motivazione della scena con la costruzione del Tempio non è documentare la fase di un cantiere in progress, ma più banalmente illustrare un testo (Hesperis XIII, 343-360) che parla di Sigismondo "votum dum solvit honorem / ipse Deo reddens", che dice come il signore "mirabile templum / marmore de pario construxit", che descrive il portale già realizzato, e afferma che "magnumque imitatus Olimpum / ille labor manuum signisque ingentibus altum / ardet opus"; l'opus insomma “ardet” (e “ardet” in queste forme) ante 1457, probabilmente nel 1455-1456, quando, è noto, pure Valturio e Porcellio Pandoni, come Basinio, parlano già in qualche modo di un Tempio (le celebrazioni umanistiche di un fatto hanno in genere un'unità di intenti anche temporale): il che, al di là dell'ufficialità degli usi linguistici e dell'accezione che gli vogliamo dare, non potrebbe esprimere già una presenza concreta ‘all'antica’ nel panorama della città, visibile non solo entrando nel cantiere ma dall'esterno? Un monumentum regii nominis tui si deve vedere da lontano, e si lascia confrontare con l'epigrafe che vediamo. Se non proprio com'è oggi, almeno con l'esclusione della zona alta autoportante, mi parrebbe logico (se non ostano problemi tecnici su cui non oso certo esprimermi), che la facciata fosse già modulata non molto più di un anno dopo le note lettere del 1454. Giovanni da Fano descrive (o appunto immagina) questa situazione, non quella del probabile 1462-1464 (o del 1458-1460 che altri propongono) dell'esecuzione dei riquadri, in un mix tra riproduzione dell'esistente (non fotografica, ma basata su quanto poteva attirare l'attenzione di un pittore e miniatore, e connotare in modo riconoscibile il Tempio in quanto tale, con un'idea selettiva della funzionalità visiva generale e del dettaglio), e finzione di quanto egli poteva ricostruire fosse avvenuto nel recente passato.
*Riprendo qui, con tagli, integrazioni e modifiche, il mio contributo "L'attività miniatoria di Matteo de' Pasti e Giovanni da Fano: qualche considerazione sullo status quaestionis", in corso di stampa negli atti dei convegni sulle celebrazioni albertiane del 2004, a cui rimando anche per il complesso percorso bibliografico degli argomenti trattati.
English Abstract
Both in relation to the figurative culture of Rimini, and - more specifically - in relation to the vicissitudes of Sigismondo and the Malatesta Temple, the illustrative kit accompanying three copies of the Hesperis, a Latin poem by Basinio da Parma, plays an important role. One of the humanists - perhaps the best known - among those present at the local court, he was also the author of another of the great best sellers linked to the literary and erudite activity of the Romagna court, the Astronomicon - the third being Roberto Valturio's De re militari. A representative role is delegated to these works, certainly in a conscious and organised manner: the art of war, in its 'scientific' or epic form, and astronomical-astrological expertise are the two fields in which Pandolfo's son wished to make the leading role of his entourage emerge, and to which he delegated the diffusion of his own positive image, in a very different material form - but culturally analogous - compared to the great monuments of Castel Sismondo or the Temple itself.
Keywords | Malatesta; Temple; Humanism.
Per citare questo articolo / To cite this article: Fabrizio Lollini, Su Giovanni da Fano e l'Hesperis di Basinio*, “La Rivista di Engramma” n. 61, gennaio 2008, pp. 59-64 | PDF of the article