L’eredità dell’arco romano nell’Evo di mezzo
Matteo Della Giustina, Valentina Fusco, Marco Paronuzzi, Camilla Pevere, Valentina Trevisanato, Laura Zanchetta | Università Iuav di Venezia
Sia Salvatore Settis che Massimo Pallottino associano il periodo medioevale a un atteggiamento di continuità con l’epoca romana. Gli archi trionfali possono essere un’esemplificazione del riutilizzo che avviene sia come reinterpretazione e attualizzazione, sia come riuso delle pietre e delle fabbriche come base per i nuovi edifici.
L’eredità dell’arco romano nell’Evo di mezzo
L’arco di trionfo trova la sua giustificazione ideologica all’interno del potere politico imperiale, rappresentandone anche la massima espressione. Esiste infatti un rapporto strettissimo tra il manufatto architettonico dell’arco e la processione, culminante proprio con il passaggio del corteo attraverso i fornici dell’arco, del trionfo. Durante il Medioevo assistiamo tuttavia alla scissione di tale rapporto: con la caduta dell’Impero viene infatti a cadere la ragione stessa del trionfo. L’arco, oggetto architettonico nato con lo scopo di permettere la celebrazione del trionfo, è orfano del rito. Trionfo e arco di trionfo si scindono. Proprio tale scissione porterà da un lato a riprendere il trionfo in ambito cristiano e dall’altro a riutilizzare, inglobare o addirittura ignorare l’arco, secondo un uso dell’antico in “continuità” (nell’accezione con cui la intende Settis) con l’antico.
Ciò che permette al concetto di trionfo di rimanere in vita è la traslazione di significato da vittoria militare dell’imperatore a vittoria del Cristo sul paganesimo. Questo avviene in larga parte grazie al tramite dell’Arco di Costantino e alla travisazione della sua epigrafe dedicatoria, riferita alla vittoria dell’imperatore presso Ponte Milvio, laddove “instinctu divinitatis” viene per secoli inteso come “per ispirazione divina”. Il tutto in funzione della leggenda che gravita attorno a Costantino, quale primo imperatore cristiano. La rappresentazione del Cristo in trionfo entra così nella vasta gamma di segni della religione cristiana e diventa il motivo principe del programma rappresentativo dell’arcus maior che, nella basilica paleocristiana, divide la navata dal presbiterio. Quasi a sottolineare la ripresa ideale dell’arco trionfale romano, Papa Pasquale I (817-824) nel Liber Pontificalis compie la sostituzione lessicale di arcus maior con arcus triumphalis.
Figura 1 del Poster:
dida Santa Prassede, Roma (780-822)
Anche in ambito politico viene ripreso il simbolo dell’arco di trionfo, legato al significato traslato della Pax christiana, vittoria della croce sul paganesimo. A cavallo tra VII e VIII secolo Carlo Magno pone sul proprio sigillo una porta romana sormontata da una croce e la scritta perentoria “Renovatio Romani Imperii”, come legittimazione divina – per mezzo del Cristo Triumphans – del proprio potere.
Figura 2:
dida Sigillo di Carlo Magno (VI-VII secolo)
Nello stesso ambito della Rinascenza carolingia si colloca il reliquiario che Eginardo dona alla chiesa di San Servazio a Maastricht. Esso ha la forma di un arco trionfale, con chiari riferimenti all’arco di Costantino, ma l’ornamentum viene declinato secondo un significato religioso: angeli e santi prendono il posto di soldati e prigionieri, mentre al di sopra dell’attico la quadriga è sostituita dalla croce. Qui l’arco, in quanto simbolo, abbandonato il suo significato originale, rimanda al trionfo di Cristo.
Figura 3:
dida Reliquiario di Eginardo (raffigurazione cartacea del XVII secolo)
Lo stesso accade in ambito architettonico, nei portali di chiese e conventi, come nella Torhalle di Lorsch o nel Monastero di Santa Maria di Ripoll in Catalogna. In questo caso ciò che interessa sono nuovamente le intenzionalità allegoriche di natura religiosa, riferite alla vittoria della Croce sul paganesimo, che hanno come tramite l’arco ma prescindono dall’interesse per la fabbrica classica in quanto tale.
Figura 4:
dida Torhalle, Lorsch (774-790)
Figura 5:
dida Santa Maria di Ripoll (888)
Verso la fine del Medioevo la celebrazione del trionfo, affievolitasi la componente etico-religiosa di cui era stato caricato nei secoli precedenti, diventa un fenomeno sempre più popolare, nella forma di sfarzose sfilate e di allestimenti con il pretesto di soggetti edificanti. Già dal Trecento, infatti, carnevali, feste e teatri ospitano cortei trionfali allegorici tributati a personaggi eminenti. Ciò andrà a costituire la base culturale per il valore che i trionfi assumeranno nelle epoche successive: esempio paradigmatico saranno i Trionfi del Petrarca.
Quello che accade all’arco, quale manufatto architettonico, in epoca medioevale è una chiara esemplificazione dell’uso dell’antico in “continuità” con l’epoca classica che Settis riconosce in tale periodo. Tre casi nella città di Roma esemplificano chiaramente la situazione. L’Arco di Tito, eretto sulla Via Sacra in onore dell’imperatore divinizzato per il trionfo contro i Giudei del 71 d.C., viene integrato all’interno di una cinta muraria: sono la mole dell’arco e la possibilità di fungere da porta che ne suggeriscono il riuso.
Figura 6:
dida Arco di Tito (71 d.C.)
L’Arco di Giano, eretto dai mercanti del Velabro probabilmente in onore di Costantino, dato il suo particolare tipo a tetrapilo, viene trasformato in una vera e propria torre difensiva da parte della famiglia Frangipane tramite l’innalzamento di un nuovo corpo al di sopra dell’attico.
Figura 7:
dida Arco di Giano (313-337 d.C.)
L’Arco di Malborghetto, anch’esso tetrapilo, costruito probabilmente come parallelo suburbano dell’Arco di Costantino, diventa nell’XI secolo una chiesa fortificata dedicata alla Vergine; successivamente, nel XIII secolo, viene inserito nella cinta muraria di un castrum, denominato dalle fonti coeve “Burgus S. Nicolai de arcu Virginis”.
Figura 8:
dida Arco di Malborghetto (313-337 d.C.)
I tre archi sopra citati sono tuttavia gli unici, nel panorama di Roma, ad aver subito un riutilizzo meramente pratico. La medesima sorte non è invece toccata agli altri cinquantatre archi della capitale. Il tipo dell’arco è perfettamente calibrato rispetto al proprio fine: permettere la celebrazione del rito del trionfo. Risulta quindi arduo adattare il manufatto architettonico a nuove funzioni, fatta eccezione per gli sporadici casi portati come esempio.
Bibliografia di riferimento
Chiara Frugoni, L'antichità: dai Mirabilia alla propaganda politica, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di Salvatore Settis, vol. 1, L'uso dei classici, Torino 1984, pp. 5-72
Massimo Pallottino, Che cos’è l’archeologia, Firenze 1963
Antonio Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di Salvatore Settis, vol. II, I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, pp. 279-350
Salvatore Settis, Continuità distanza conoscenza. Tre usi dell’antico, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di Salvatore Settis, vol. III, Dalla tradizione all’archeologia, Torino 1985, pp. 375-486
Federico Zeri, L'arco di Costantino. Divagazioni sull'antico, Milano 2004