Il monumento "assurdo" della Risiera di San Sabba a Trieste (1966-75)
Massimo Mucci
English abstract
La sistemazione monumentale della Risiera di San Sabba a Trieste, unico Lager nazista con forno crematorio sul territorio italiano, è il risultato di una vicenda molto lunga e articolata, terminata solo con l’inaugurazione del 1975 (cfr. Mucci 1999; Id. 2005; Id. 2015). Ma il fatto che l’architetto Romano Boico (1910-85), progettista dell’intervento di sistemazione del sito, a lavori conclusi continui a scrivere che la scultura astratta posizionata al posto del camino sia una “Pietà per i caduti e per noi che non possiamo più fare Monumenti” (Boico [1975], 3) è perlomeno poco rassicurante. La sua riflessione non riguarda la materialità del monumento, che è evidentemente davanti agli occhi di tutti, bensì l’attualità del suo significato, o meglio sarebbe dire, la crisi di quel significato.
La sua paura di realizzare un monumento alla rovescia, che esalti la violenza piuttosto che allontanarla, lo deve aver accompagnato per un decennio durante tutte le fasi progettuali ed esecutive, se già nella prima relazione scritta per il concorso di progettazione del 1966 chiariva con la forza del suo motto che la Risiera è un monumento “Assurdo” (APB, [Boico] [1966]). Inizialmente le sue argomentazioni sono molteplici e polemiche e insistono soprattutto sul ritardo di un ventennio nella sistemazione del sito. Lascia intendere che il monumento avrebbe dotuto essere costruito subito dopo la guerra, perché allora c’era bisogno di una catarsi dal “senso di vergogna e di colpa” ([Boico] [1966], 2) per le violenze della guerra.
Ma in quel periodo, durante la presenza del Governo Militare Alleato, la città era impegnata nell’urgente questione dell’appartenenza nazionale e solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, con il ritorno della città all’Italia, venivano pubblicate le prime testimonianze dei sopravvissuti della Risiera (cfr. Scalpelli [1988] 1995; Matta 1996; Capire la Risiera 1996; Matta 2012). In questo percorso di ricostruzione di una più completa memoria collettiva l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione ebbe un ruolo fondamentale, sia per la sua attività di ricerca e raccolta del materiale documentario, sia per l’iniziativa che porterà al riconoscimento del valore monumentale del sito nel 1965 (cfr. Mucci 1999).
Prima di allora la Risiera era stata vissuta come un “luogo della memoria” soprattutto dai parenti delle vittime, dai sopravvissuti e dalle associazioni interessate, ma dal 1965 in poi s'imporrà come luogo di essere a livello nazionale. Nel primo ventennio del dopoguerra la Risiera fu infatti frequentata e utilizzata per le cerimonie commemorative, valorizzando il sito nelle sue qualità di luogo sacro e tomba delle vittime, nonostante sia stata anche utilizzata, dal 1949 al 1965, come campo per rifugiati stranieri (cfr. Fait 2012). Vi era anche un piccolo monumento commemorativo posto in corrispondenza dell’impronta dell’edificio del forno crematorio distrutto, insieme al camino, dai nazisti in fuga nella notte tra il 29 e il 30 aprile del 1945.
Con la proclamazione della Risiera Monumento Nazionale nel 1965, nasce l’esigenza di una sistematizzazione della memoria e di una sua formalizzazione più duratura e comunicativa. La tomba e il luogo sacro saranno le fondamenta sulle quali costruire il nuovo museo-monumento. Infatti già nel 1966 viene indetto un concorso nazionale per la realizzazione del “Museo della Resistenza nella Risiera di S. Sabba” al quale partecipano dieci gruppi di architetti, tra cui appunto Romano Boico. È significativo che la richiesta del bando sia quella di realizzare un museo mentre la possibilità di edificare un monumento non è menzionata, cosi come non è posto il problema della specificità del Lager (cfr. Comune di Trieste 1966, 1). A questo si aggiunge una selezione drastica e ingiustificata delle parti del sito da conservare, che sarà il secondo argomento contro cui Boico si scaglierà polemicamente. (Per approfondire la bibliografia di Romano Boico si veda Mucci 2005; per il contesto dell'architettura triestina nel secondo dopoguerra si vedano Mucci 2004, Mucci 2006)
Bisogna ricordare che il Lager nazista era stato adattato all’interno del vasto stabilimento della Risiera, risalente al 1898 con successivi vari ampliamenti e modifiche (cfr. Volk 2001; Fait 2005), e che il decreto di vincolo ne riguarda solo una piccola parte, precisamente le diciassette microcelle al piano terra utilizzate per rinchiudere i prigionieri destinati a morire entro pochi giorni, l’adiacente “cella della morte” in cui venivano ammassate le vittime da eliminare immediatamente e la porzione di corte esterna fino all’impronta a terra dell’edificio adattato a forno crematorio. Il bando di concorso impone di progettare solo su una superficie rettangolare che include la zona vincolata e si estende in lunghezza fino all’ingresso sull’incrocio tra le vie Rio Primario e il Ratto della Pileria (cfr. APB, Comune di Trieste [1966]). Restano quindi inclusi solo la portineria e una porzione del grande mulino e della sede dell’amministrazione, utilizzata dai nazisti come alloggio dei sottufficiali delle SS, mentre tutto il resto deve essere demolito.
Romano Boico si oppone a queste indicazioni del bando e propone un progetto che include tutto il complesso della Risiera, escludendo solo i grandi magazzini a sud. Il suo contributo, ancora prima di essere valutato sotto l’aspetto architettonico, è fondamentale per la ridiscussione intorno alle parti di interesse storico da conservare, ben oltre le indicazioni del decreto di vincolo. All’architetto sembra assurdo non conservare il garage dove avvenivano le gasazioni, l’edificio accanto alle microcelle con le camerate dei detenuti ai piani superiori, la sede dell’amministrazione dove si decideva della sorte dei prigionieri, ma anche l’intera corte interna compresa l’impronta del camino distrutto che egli stesso ritrova in sito. “Il perimetro [indicato dal bando] taglia indifferentemente opifici e terreno libero, ed è unicamente il terreno dell’impossibilità; e si può affermare che determina la condizione immobilizzante di ogni idea, che non sia quella di lasciare tutto come sta” (APB, Boico 1966, 4). Boico prevede quindi un robusto recinto in calcestruzzo che semplicemente segue il perimetro del confine ed esclude solo i grandi magazzini a sud, considerando così come monumento tutto ciò che resta all’interno. Il muro ha anche una funzione evocativa poiché conferisce un senso di invalicabilità e chiusura al sito: dovrà essere alto 5 metri, con delle putrelle in acciaio annegate a filo e sporgenti a interassi e altezze variabili.
Nella corte interna, Boico prevede di lasciare le impronte a terra dell’edificio del forno e del camino collegate da un solco ed evidenziate da un leggero dislivello e da un rivestimento in metallo, in modo “che scotti i piedi d’estate, e d’inverno li raggeli” (APB, Boico 1968, 6). L’impronta rievoca il percorso interrato del fumo che terminava nel camino, qui richiamato nella sua verticalità da una scultura chiamata Pietà P.N. 30, costituita da tre profilati metallici sfalsati in altezza in modo da richiamare la figura della spirale. Nell’ex-garage Boico pensa a una cappella votiva con all’interno tre altari per i riti cattolico, ebraico e serbo-ortodosso. Il museo vero e proprio è costituito dalla presenza delle microcelle e delle scritte e i graffiti rimasti ai piani superiori, interpretati essi stessi come oggetti museali ai quali si sarebbe aggiunta una mostra permanente. Nel piano terra del grande mulino, invece, egli prevede una sala convegni, lasciando inutilizzati tutti i piani superiori. La sacralità del monumento sembra, in questo primo progetto, pervadere più gli spazi esterni che quelli interni, con percorsi di collegamento liberi e poco definiti.
Le indicazioni di Boico sono fortunatamente accolte e il concorso si conclude senza esito, ma con la selezione dei tre progetti migliori e meritevoli di essere sviluppati in una seconda fase a invito, precisamente quelli di Romano Boico, Costantino Dardi (1936-1991) e Gianugo Polesello (1930-2007). L’area di progetto viene estesa esattamente alla porzione di Risiera indicata da Boico e viene prescritta la segnalazione dell’impronta del forno (APB, Comune di Trieste [1968]; si veda inoltre Mucci 1999). La seconda fase si conclude il 4 febbraio 1969 con la vittoria di Romano Boico, a cui segue il cantiere nei primi anni Settanta e l’inaugurazione nel 1975.
Dardi e Polesello avevano elaborato un primo progetto sostanzialmente diverso da quello di Boico, principalmente sull’identificazione del monumento e sulla funzione del museo (cfr. Mucci 1999). Per Polesello è importante separare drasticamente gli edifici rimasti della Risiera, dalle microcelle alla porzione di mulino, con un muro in calcestruzzo alto ben 15 metri che ne occulta i prospetti. Il suo è un uso metaforico dello spazio architettonico molto esplicito, per richiamare la contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra città e Lager, e per selezionare chiaramente l’oggetto museale da conservare e sottoporre a giudizio. All’esterno, egli prevede invece un nuovo oggetto monumentale costituito da una selva di colonne in marmo rosso, accessibile lungo il percorso d’ingresso.
La proposta di Dardi è ancora più lontana dall’idea di Boico, e per certi aspetti si colloca su posizioni opposte. L’architetto propone un percorso architettonico che invita il visitatore a decantare le sue emozioni, attraverso la cappella votiva posta nel grande mulino e una risalita catartica fino al secondo piano, dove si trova il museo. Da qui, luogo della conoscenza razionale, si ridiscende e si esce, non con un’emozione, bensì con un consolidato “giudizio operante” (Dardi 1981, 52). Anche il linguaggio architettonico per esprimere la tragedia deve essere nuovo e di forte impatto drammatico; Dardi prevede quindi un’ampia lacerazione del prospetto del molino, attraverso la quale emerge il fabbricato della cappella votiva con le sue bocche di luce prismatiche.
Per questi due autori non ci sono dubbi sul fatto che l’architettura debba rappresentare un percorso di conoscenza, più che il fatto storico in sé, e che debba guidare il visitatore verso un giudizio storico razionale e operativo. Nei loro progetti finali per il concorso a invito, essi però arrivano ad aprire l’edificio a una simultaneità di esperienze, sia emotive che razionali.
Nel progetto finale di Boico, invece, pur essendo stata superata l’iniziale intenzione polemica, non si trova traccia di una rassicurante razionalizzazione delle emozioni. Boico non parla di interesse storico per questi spazi, a eccezione delle microcelle, delle scritte e dei graffiti, poiché la vera motivazione della loro accanita conservazione rimanda alla sacralità dei luoghi dove sono avvenute le violenze, le esecuzioni e le decisioni. Infatti, alla sua iniziale e generica posizione conservativa, non corrisponde un’azione di restauro della situazione originaria del Lager con tutte le sue tracce; piuttosto, vi è l’intenzione di monumentalizzare l’atmosfera squallida e terribile che promana dalle preesistenze. “Questo squallore totale, diffuso, può assurgere a simbolo e diventare esso stesso monumento” (APB, Boico 1966, 4), scrive Boico nella relazione, manifestando chiaramente la volontà di costruire uno spazio evocativo, più che filologico, attraverso un linguaggio architettonico carico di metafore. Per avere un’idea completa ed equilibrata di queste sue scelte, tuttavia, bisogna ricordare che era nelle sue intenzioni, anche nel progetto finale, l'integrale conservazione delle scritte e dei graffiti rimasti ai piani superiori (cfr. APB, Boico 1968, 9).
Nel suo secondo progetto, Boico mantiene invariate le principali idee, ma apporta alcune sostanziali modifiche formali. Il recinto diventa alto 11 metri e costringe il visitatore a un percorso più gerarchizzato. Inoltre, cambia completamente la scala dell’intervento, rendendo più forte il senso di monumentalità. Ne è un esempio il lungo corridoio largo solo 3 metri che accompagna il visitatore dall’ingresso verso il sottoportico di accesso alla corte del forno. I setti murari a risega in calcestruzzo a vista, tra loro sfalsati e staccati, movimentano il perimetro ed esaltano le direzioni dei percorsi.
Ulteriori e sostanziali modifiche sono apporta da Boico durante la realizzazione, come lo spostamento della funzione museale al piano terra del mulino, il trasferimento della sala conferenze al primo piano e l’isolamento delle microcelle, esposte esse stesse come un oggetto museale. L’edificio adiacente alle microcelle, dove avrebbe dovuto proseguire il percorso museale, viene svuotato di tutti i tavolati, lasciando a vista le orditure lignee che disegnano in questo modo una successione di croci e conferiscono allo spazio vuoto un carattere di sacralità. Il perimetro del recinto diventa, in seguito alla demolizione dell’edificio sul lato nord-est, più aderente alla corte del forno e acquista maggiore consistenza il volume vuoto rievocato. Si percepisce meglio anche la scultura Pietà P.N. 30 al posto del camino, che rappresenta per Boico una “pietà per tutti: morti, vivi, e per gli stessi nazisti, vittime e insieme macchine terrificanti del vorticoso impazzimento nazista…” (APB, Boico 1968, 7). Boico sceglie il linguaggio dell’essenzialità strutturale, della perfezione del calcolo che genera la spirale e la forma stessa dei profilati metallici, per ottenere così un simbolo astratto privo di connotazioni religiose tradizionali e portatore di un messaggio di sospensione del giudizio. Vorrebbe trasmettere il senso di una pietà “che non sia disperata, bensì distaccata, attonita, quasi indifferente” (APB, Boico 1968, 7), senza giudizio.
La realizzazione finale, quindi, è molto più essenziale di quanto previsto nel progetto iniziale, al punto che Boico sembra smentire la sua prima posizione conservativa, tuttavia fissando molto chiaramente l’idea di creare un'evocativa “atmosfera surreale, allucinante” (APB, Boico 1968, 5). La scelta stilistica di un linguaggio architettonico astratto e privo di riferimenti contestuali e religiosi va in questa direzione e previene Boico dal pericolo di esaltare la violenza piuttosto che scongiurarla.
A sostegno di queste idee progettuali vi erano anche dei predenti casi di sistemazioni monumentali in memoria delle vittime dei Lager nazisti, tra cui sono noti a Boico i lavori del gruppo BBPR per il Monumento ai Morti nei campi di sterminio nazisti (1945) nel Cimitero Monumentale di Milano, successivamente il Museo Monumento al Deportato a Carpi (1962-1973), infine il Memorial di Mauthausen-Gusen I (1967) in Austria (cfr. Bonfanti, Porta 1973; Gibertoni, Melodi 1993; Il segno della memoria 1995; Montanari 2003). Quest’ultimo caso è certamente il più vicino stilisticamente per la riduzione al minimo della retorica formale.
Bruno Zevi si accorge subito della portata dell’opera, quando scrive sull’"Espresso" che “Boico rifiuta sia l’epica consapevole e moralistica, sia la rappresentazione aggressiva della tragedia e dello sgomento […]. Il riassetto era indispensabile non per conferire alla Risiera un vettore estetico, ma, all’inverso, per impedire che acquistasse la capacità di emettere messaggi pop – irruenti ed oratori” (Zevi 1975, 102; cfr. Pedio 1975).
La questione del paradossale monumento antiretorico è il terzo e più profondo significato che Boico attribuisce al suo motto, confermato fino alla fine: “Assurdo”. I linguaggi tradizionali sembrano non essere in grado di rappresentare l’olocausto e i monumenti su questo tema sembrano d’ora in poi costretti a essere anticelebrativi. Solo prendendo in considerazione anche queste riflessioni si può apprezzare la proposta di Boico di uno spazio rievocativo senza forme esplicite. Il linguaggio architettonico diventa astratto, silenzioso e minimale, cosi come dichiarato già nella relazione del primo progetto: “Nessuna scritta, solo il silenzio, e nessuna opera d’arte” (APB, Boico 1966, 4).
La progressiva perdita di tracce materiali della Risiera a partire dalle distruzioni dei nazisti, seguite dalle modifiche dovute al campo profughi e ad alcuni incendi, fino ad arrivare alle demolizioni motivate dal degrado delle strutture in fase di esecuzione, rafforzano l’idea progettuale di usare un linguaggio architettonico astratto ed essenziale. Boico adotta una poetica del vuoto come metafora dell’assenza, che rinvia inevitabilmente alla perdita delle vittime: dall’assenza dei tavolati di calpestio si ottiene la cosiddetta sala delle croci, dall’assenza dell’edificio del forno si ottiene la sua impronta metallica, dalla mancanza del camino nasce il simbolo della Pietà, dall’asportazione dei serramenti emerge l’immagine di occhiaie vuote. È evidente che Boico non realizza un percorso catartico dalle emozioni alla razionalità del museo, com’era nelle intenzioni di Dardi, poiché persegue solo l’idea di un monumento evocativo. Tuttavia il vuoto espressivo della Risiera trasmette un'inquietante sensazione di presenza del passato che non deve aver consolato nemmeno il suo ideatore, se ancora dopo la realizzazione egli ribadisce l’impossibilità di costruire monumenti. La Risiera rimane, pur nella sua eloquenza, un monumento “assurdo”, costretto all’antiretorica, sospeso tra monito e pietà.
Referenze bibliografiche
Fonti
- APB: Archivio privato Piero Boico, Trieste.
- Manoscritti, carte, disegni, hanno il titolo tra «caporali».
Carte
- APB, Comune di Trieste [1966].
APB, Comune di Trieste, Bando di Concorso Nazionale per il Museo della Resistenza. Planimetria generale dell’area interessata [1966], copia eliografica su carta, 308x531 mm, scala 1:200. Disegno fornito dal Comune di Trieste ai concorrenti - APB, Comune di Trieste 1968
APB, Comune di Trieste, [Concorso a invito per il progetto del Museo della Resistenza, planimetria], 1968, fotocopia su carta, 323x213 mm, scala 1:1000. Disegno fornito dal Comune di Trieste ai concorrenti invitati
Manoscritti
- APB, [Boico] [1966]
APB, [R. Boico], Concorso Nazionale per il progetto del Museo della Resistenza nella Risiera di S. Sabba a Trieste. Relazione. Motto: “Assurdo”, [1966]. - APB, Boico 1966
APB, Romano Boico, Museo della Resistenza – Risiera di San Sabba – Trieste. Relazione, 1966. - APB, Boico 1968
APB, R. Boico, Concorso Nazionale per il progetto del “Museo della Resistenza” nella Risiera di S. Sabba a Trieste: concorso ad invito. Relazione [stesura definitiva], 31 luglio 1968. Il testo è stato pubblicato in M. Pozzetto (a cura di), Romano Boico architetto, 1910-1985 (catalogo della mostra), Trieste 1987, 98. - APB, [Boico] [1975] APB, [Romano Boico], Concorso Nazionale bandito il 18 gennaio dal Comune di Trieste per il progetto del Museo della Resistenza nella Risiera di San Sabba a Trieste. Relazione [1975]. Il documento è una relazione riassuntiva che raccoglie le principali idee e varianti contenute nella realizzazione finale del monumento.
Testi a stampa
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English abstract
The monumental arrangement of the Risiera di San Sabba in Trieste, the only Nazi Lager with crematorium in the Italian territory, is the result of a very long and complicated story, which ended only in 1975. The particular situation of Trieste after World War II, the use of the buildings as a refugee camp, and finally the national competition to design a "Museum of the Resistance", are all factors to be taken into account to understand the current monument, in part very different from the Lager and original buildings . The project carried out by the architect Romano Boico enhances the Risiera as a "memorial site" and gives points for reflection which are still present about the meaning of the monuments dedicated to the victims of Nazi Lager.
keywords | Architecture; Memory; Monument; Risiera di San Sabba; Trieste; World war II; Museum of Resistance; Nazi Lager.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Massimo Mucci, Il monumento "assurdo" della Risiera di San Sabba a Trieste (1966-75), in “La Rivista di Engramma” n. 123, gennaio 2015, pp. 37-48 | PDF