Ninfe ed ellissi
Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer
Giancarlo Magnano San Lio
English abstract
Ninfe ed elissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer di Giancarlo Magnano San Lio, edito da Liguori Editore nel 2014, individua e ripercorre alcuni complessi itinerari speculativi all’interno della storia della cultura tedesca, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento, relativi al dibattito sulle scienze dello spirito. Nella messa in dialogo delle ricerche filologiche, storico-filosofiche e iconografiche di Dilthey, Usener, Cassirer e Warburg emergono evidenti e rilevanti punti di contatto che vanno oltre approcci di studio soltanto in apparenza tematicamente distanti. Engramma pubblica l’Introduzione del volume e due paragrafi tratti dalla Parte terza dedicata allo studio di Warburg, rispettivamente il paragrafo 3.1 Perché Warburg e il paragrafo 3.4 Tra psicologia, biologia, antropologia e medicina.
Introduzione. Appunti per una storia della cultura tra Otto e Novecento
Il presente volume riunisce alcuni lavori concepiti nell’ambito di un progetto di ricerca unitario volto a ricostruire e a connettere alcuni aspetti, soltanto in apparenza tematicamente distanti, del significativo dibattito sulle scienze dello spirito e, in modo particolare, su taluni segmenti delle medesime sviluppatosi in Germania (soprattutto) tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. Ciò che è venuto fuori, nel corso di questa ricerca, è stata la consapevolezza dell’esistenza di un preciso itinerario argomentativo che, seppur articolato in molteplici direzioni, ha trovato evidenti punti di aggregazione attorno a taluni nuclei tematici comunemente avvertiti e certamente rilevanti. In particolare, muovendo dal rinnovamento della filologia classica (e non solo) così come teorizzato e poi effettivamente realizzato da Hermann Usener e dal problema della fondazione e dell’articolazione delle Geisteswissenschaften sollevato e a lungo argomentato da Wilhelm Dilthey, sono emersi significativi sviluppi e interessanti collegamenti che hanno segnato, con diverse modalità, l’itinerario speculativo di intellettuali come, per esempio, Ernst Cassirer ed Aby Warburg: è così venuta fuori, in tutta evidenza, l’effettiva condivisione di talune questioni teoriche in diversi ambiti di ricerca che spaziano, in linea generale, dalla filologia alla storiografia e dalla gnoseologia alla storia dell’arte, e proprio tali questioni mi è sembrato utile e importante porre qui in evidenza, con una particolare attenzione per le significative connessioni che, per questo tramite, hanno in qualche modo segnato l’attività dei ricercatori appena ricordati.
Nel frattempo, poi, due importanti occasioni congressuali mi hanno permesso di anticipare, seppur in forma inevitabilmente sintetica, talune considerazioni messe in evidenza nelle sezioni qui dedicate (soprattutto) al rapporto tra Usener e Cassirer ed a quello tra Dilthey ed Usener, mentre le pagine dedicate a Warburg sono assolutamente inedite: in particolare, il primo aspetto è stato oggetto di una relazione, dal titolo Mito e Kulturgeschichte tra Hermann Usener ed Ernst Cassirer, tenuta al convegno internazionale su Simbolo e Cultura: a ottant'anni dalla "Filosofia delle forme simboliche" (Napoli, 15-16 novembre 2010); il secondo, invece, ha costituito il tema di un contributo, intitolato Filologia, antropologia e storia: Dilthey e Usener, concepito in occasione del convegno internazionale su Antropologia e storia tenutosi a Merano (27 settembre-2 ottobre 2011) per celebrare i cento anni della morte del filosofo. Tali contributi congressuali vengono ora ripresi in forma assai più ampia ed approfondita. Data la loro particolare rilevanza, qualche volta ho preferito ribadire esplicitamente, nelle tre parti che compongono il volume, alcune indicazioni e citazioni bibliografiche ritenute essenziali, e ciò anche al fine di rendere possibile una lettura, per così dire, autonoma e circostanziata delle diverse sezioni.
Le occasioni fornite da tali importanti convegni hanno, per così dire, reso possibile scandire, anche dal punto di vista dell’organizzazione temporale, momenti di un progetto di ricerca concepito da lungo tempo e teso a ricostruire, con il preciso scopo di riconnetterne alcuni snodi teorici e storiografici ritenuti fondamentali, determinati segmenti della cultura tedesca, a grandi linee compresi tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, in apparenza distanti ma che in realtà permettono di individuare un nucleo argomentativo comune che mi è parso, per diverse ragioni che di seguito proverò ad illustrare, interessante e significativo. In particolare, ho inteso mettere insieme talune istanze della filologia classica (e non solo) sostenute da Usener in una direzione assolutamente innovativa con le esigenze proprie di Dilthey in ordine ad una fondazione autonoma delle scienze dello spirito e, in modo particolare, del sapere storico, e, ancora, con le motivazioni relative al progetto, portato avanti da prospettive diverse ma in qualche misura significativamente connesse, di una più circostanziata indagine intorno alla produzione delle forme simboliche e delle immagini della memoria così come l’hanno intesa ed elaborata Cassirer e Warburg.
Si tratta, per certi versi, di prospettive ‘disciplinari’ assai diverse, che, come appare evidente, spaziano dalla filologia alla storia, dalle scienze dello spirito alla storia dell’arte, dall’iconografia alla filosofia e così via, il che naturalmente non può che rendere comunque complicata ogni ipotesi di ricerca come, per l’appunto, quella che ha guidato questo lavoro: infatti, la formazione individuale e la specializzazione progressivamente acquisita, per molti versi necessarie ed inevitabili, fanno sì che per consuetudine ci si occupi per lo più, da prospettive diverse ed in modo variamente circostanziato, ora dell’uno ora dell’altro aspetto, il che sottintende, com’è ovvio, una più che plausibile difficoltà in ordine al possesso di competenze in certa misura diversificate e, conseguentemente, la relativa carenza di tentativi di riconnettere tali argomentazioni per il tramite di un filo conduttore che, invece, mi è parso assai interessante e segnato da innumerevoli implicazioni di sicuro rilievo.
In particolare, nell’oramai lungo ed articolato procedere delle mie ricerche e dei relativi lavori (innanzitutto) su Dilthey, anche alla luce del loro sempre più frequente ‘sconfinare’ in ambiti tematici particolarmente frequentati dagli autori sopra ricordati, si è via via fatta strada la convinzione, poi suffragata ed ampiamente confermata per il tramite di una lunga ed articolata indagine sui testi, che in quel periodo, soprattutto in Germania, abbia preso corpo, sovente nell’ottica di un’opposizione via via più avvertita nei confronti del modello gnoseologico sostenuto dal positivismo, un consistente movimento di riflessione critica intorno all’articolato mondo delle scienze dello spirito, alla loro fondazione ed alla loro possibile strutturazione interna. Da questo punto di vista, ci si rese ben presto conto, allora, della necessità di utilizzare un approccio interdisciplinare per poter effettivamente procedere allo studio di quello che Dilthey doveva designare, con un’espressione certo felice, l’‘uomo intero’, cioè del fatto che non si poteva più indugiare, pena il drastico ridimensionamento dei risultati eventualmente conseguiti, su un’analisi esclusivamente settoriale e, per così dire, eccessivamente parcellizzata delle vicende costitutive dell’uomo, vicende che, utilizzando di volta in volta le modalità espressive più appropriate, si sviluppano e si manifestano nel procedere del corso storico. In questa prospettiva, Dilthey doveva ampiamente argomentare non solo in ordine alla necessità di una fondazione ora autonoma e rigorosa delle Geisteswissenschaften, ma anche in riferimento all’ineludibile esigenza di tenerle insieme (e per certi versi di non separarle in modo radicale, se non per motivi contingenti legati alla ricerca, neppure dalle Naturwissenschaften), convinto com’era che la proiezione, assolutamente costitutiva e di fatto ineludibile, dell’uomo nel mondo storico non potesse essere colta appieno se non nell’ottica di una visione (certo difficile e problematica) in qualche modo complessiva ed unitaria. In questo senso, egli aveva inteso tracciare, fin dall’inizio, un quadro unitario, sebbene avendo poi cura di distinguerne all’interno le diverse tipologie, di tali scienze dello spirito, fornendo già nella celebre Einleitung in die Geisteswissenschaften il disegno di una loro possibile e più precisa architettura. L’idea di fondo era quella di dovere oramai procedere non solo oltre ogni riduzionismo di matrice marcatamente scientista (qui da intendersi, ovviamente, con riferimento alle scienze naturali ed al loro metodo esplicativo-causale), ma anche lasciando da parte ogni eccessiva settorializzazione della ricerca e muovendosi, piuttosto, nell’ottica rinnovata ed ora fortemente avvertita di una più convinta interdisciplinarietà. Da questo punto di vista, però, si dovevano presto fare i conti con una serie di problemi legati soprattutto alla progressiva, ed ormai per lo più largamente accettata e condivisa, specializzazione dei ricercatori: si doveva tentare, in altri termini, di invertire la rotta e di procedere ad un’indagine complessiva dell’uomo che ‘rappresenta, sente e vuole’, secondo la celebre definizione diltheyana, oltrepassando le tradizionali divisioni e settorializzazioni che troppo spesso avevano finito inevitabilmente per condizionare gli esiti ultimi della ricerca. A queste considerazioni di ordine generale venivano poi ad aggiungersi nuove esigenze e rinnovate opportunità metodologiche, come per esempio quelle, nel frattempo divenute assolutamente fondamentali, direttamente riferibili alla necessità di non tenere disgiunti, per così dire, il momento filologico ed analitico della ricerca da quello successivo, e non meno rilevante, dell’interpretazione e della connessione dei dati e dei risultati in tal modo ottenuti.
Con queste esigenze diltheyane, che in qualche modo avrebbero poi trovato il punto di massima espressione e risoluzione (sebbene in una chiave ‘soltanto’ critica e problematica) nella celebre Weltanschauungslehre elaborata dal filosofo di Biebrich nell’ultimo periodo di vita, dovevano venire a collimare, nel frattempo, ulteriori importanti motivazioni teoriche e storiografiche avvertite e poste in evidenza da altri affermati ricercatori, i quali, muovendo da prospettive disciplinari per tradizione ritenute eterogenee, spingevano anch’essi in direzione di una ricerca scientifico-umanistica da condursi assai più a largo raggio, il che comportò la conseguente esigenza di dover procedere anche ad una significativa e rinnovata riflessione di carattere metodologico: tra questi studiosi motivati in una tale direzione è decisamente emersa, nel corso della ricerca, la figura di Usener, l’importante filologo classico, contemporaneo di Dilthey, capace di scardinare, non senza suscitare accese polemiche e, in alcuni casi, qualche perplessità, i rigidi confini tradizionalmente assegnati alla sua disciplina di riferimento, per procedere, parallelamente, ad un’ampia ridefinizione della medesima. Usener appare come un personaggio assai significativo e capace di incidere in modo rilevante nel dibattito culturale del tempo, anche perché (ma ciò costituisce il dato, per così dire, puramente ‘esteriore’ della vicenda) per diversi decenni tenne la cattedra di filologia classica all’Università di Bonn e proprio tale lunga attività di docenza e di ricerca doveva permettergli di incidere profondamente su diverse generazioni di allievi (alcuni dei quali poi divenuti studiosi di primo piano in diversi settori) e, soprattutto, di procedere ‘dall’interno’ ad un significativo rinnovamento della disciplina professata. In modo particolare, egli rifiutò l’ormai tradizionalmente acquisita connotazione della filologia classica (ma il suo discorso finì inevitabilmente per coinvolgere la pratica filologica in genere) come analisi dei testi di fatto limitata alla ricognizione dei documenti greci e latini, per sostenere, invece, un significativo ampliamento della stessa sia dal punto di vista strettamente metodologico che per ciò che riguardava il riferimento, per così dire, oggettuale. Per quel che concerne l’aspetto legato al metodo, Usener non rinnegò mai la necessità, nell’ambito della disciplina filologica, di un rigoroso esercizio linguistico-testuale, ma intese aggiungervi un ulteriore momento che, per dir così, doveva sembrargli non meno rilevante e che doveva promuovere quella che per lui doveva costituire la svolta decisiva di tale ambito di studi, vale a dire il momento della comprensione storica e dell’interpretazione contestualizzante dei materiali via via raccolti ed analizzati. E proprio su questo punto doveva saldarsi, in modo ora decisivo, l’aspetto più strettamente legato all’ampliamento dell’ambito di indagine, dal momento che Usener riteneva assolutamente necessario infrangere i limiti consueti che volevano le ricognizioni testuali della filologia classica sostanzialmente confinate alle culture greca e latina, per procedere, invece, ad una assai più ampia comparazione tra popoli e civiltà lontane ed apparentemente eterogenee, al fine di rilevarne gli eventuali tratti comuni. Tale modo di procedere era saldamente radicato su un presupposto teorico che Usener doveva sostenere e difendere per tutto il proprio itinerario di ricerca, vale a dire l’idea di una significativa parentela, più o meno stretta e manifesta, tra le varie forme di cultura sviluppatesi lungo il corso storico e la conseguente necessità, quindi, di dover procedere ad una loro più libera comparazione senza rimanere vincolati ad aprioristiche settorializzazioni e ad esclusioni ideologiche spesso chiaramente preconcette.
Ciò che emerge con chiarezza, guardando agli studi di Usener, è la sua radicata convinzione che la filologia, e non solo quella classica, debba ora consolidarsi come disciplina storica fondamentale, debba cioè associare al consueto esercizio testuale la fondamentale comprensione storica dei dati ogni volta esaminati; da questo punto di vista, egli ha fornito un contributo di primo piano non solo alla pratica filologica in senso stretto, ma anche alla riflessione kulturgeschichtlich nel senso più ampio, traghettando definitivamente ed in modo del tutto consapevole, seppur non senza suscitare aspre polemiche e perplessità (peraltro talvolta assai seriamente motivate), la filologia nel più ampio, interconnesso ed articolato ambito delle scienze dello spirito, del sapere complessivo intorno all’uomo. Si capisce, quindi, perché la sua opera doveva trovare saldi punti di contatto, tra l’altro, con la speculazione diltheyana, benché poi i più specifici ambiti di riferimento e le più concrete applicazioni metodologiche fossero certo differenti ed obbedissero ad istanze e ad esigenze in qualche misura diverse.
La saldatura, non solo teorica, tra filologia e storia doveva quindi connettersi direttamente con una prospettiva di indagine, ora fortemente avvertita, largamente interdisciplinare, capace, cioè, di coniugare e di utilizzare metodi e strumenti di riferimento propri di saperi diversi, in un’ottica di straordinaria (per quanto certamente problematica e complicata) apertura mentale e di sicura lungimiranza gnoseologica. Per tale via, che nell’ottica della presente ricerca ha costituito certamente uno dei punti di interesse fondamentali, egli doveva comparare le più antiche forme di paganesimo con l’apparato ideologico e ritualistico del cristianesimo, accostando oggetti ed ambiti prima tenuti rigorosamente separati (spesso anche negli ordinamenti accademici), procedura che peraltro dovette suscitare non pochi malumori ed aspre critiche, riuscendo così a rintracciare nelle forme del cristianesimo precisi elementi di derivazione pagana ed insistendo, quindi, sulla storicità e sulla sostanziale parentela delle diverse forme culturali, anche di quelle che, per comprensibili motivi, si erano volute spesso tenere rigidamente distinte e separate. Il dato significativo, come avrò modo di mostrare, è costituito dal fatto che, nel procedere ad una tale, radicale riforma della ricerca filologica ed umanistica in genere, Usener abbia inteso muoversi esclusivamente sul terreno scientifico, dunque evitando accuratamente ogni disputa di carattere ideologico e dottrinario, convinto com’era che proprio le pregiudizievoli contrapposizioni tra ortodossia ed eterodossia avevano storicamente reso impossibile ogni più sereno confronto ed ogni valutazione per quanto possibile obiettiva. Egli procedeva, per una tale via, a rintracciare l’origine storica delle divinità e le relative parentele a partire dal fenomeno linguistico legato alla loro denominazione, secondo regole che, soprattutto nei Götternamen, cercava di individuare in maniera rigorosa, riportando così il discorso religioso sul più concreto terreno della ricerca filologica e dell’interpretazione storica. Da questo punto di vista, egli era fortemente convinto che si dovesse legare l’indagine intorno al mito con l’argomentazione religiosa e con quella più propriamente scientifica, privilegiando così la stretta parentela storica tra tali diverse manifestazioni dello spirito e, dunque, rifiutando tutti quei paradigmi gnoseologici (non ultimo quello positivistico) che, con diverse modalità, avevano inteso operare una rigida separazione tra le medesime e che avevano spesso finito per privilegiare, in modo dogmatico ed assolutamente riduttivo, la forma scientifica di matrice logico-rappresentativa.
A questo discorso di Usener (e per molti versi anche di Dilthey) si ricollega, nell’ottica che ha motivato questo lavoro, la posizione di Cassirer, che faceva esplicito riferimento, tra l’altro, alla trattazione del mito come forma originaria del pensiero e come sua parte costitutiva, sebbene poi le conclusioni dei singoli itinerari di ricerca dovevano far emergere la diversa formazione e, per così dire, le differenti esigenze speculative dei due intellettuali. Cassirer allargava il discorso alla produzione ed alla diversa articolazione delle forme simboliche, mettendone in luce l’originario momento comune e, soprattutto, le specifiche differenze dovute al loro sviluppo storico, muovendosi sempre in un’ottica essenzialmente neokantiana, vale a dire tesa alla fondazione gnoseologica ed alla rigorosa ‘classificazione’ delle diverse forme simboliche. Anch’egli, dunque, rientra a pieno titolo nel dibattito teso a riflettere sulla fondazione, la produzione e l’espressione delle diverse attività dello spirito, pur essendo con ogni probabilità (per esempio rispetto ad Usener) maggiormente motivato da esigenze legate alla costituzione ed alla giustificazione del pensiero scientifico, e dunque più incline a vedere definitivamente risolti, a differenza di quanto riteneva il filologo, i precedenti stadi del pensiero e della cultura in quelli cosiddetti più maturi. Usener, invece, si mostrava assai più disposto a considerare sostanzialmente compresenti, sebbene con modalità e misura diverse, le varie forme di pensiero che, a partire dal mito, si sono sviluppate, a grandi linee, fino alle manifestazioni proprie della riflessione strettamente scientifico-razionale. Abbastanza diverse furono, dunque, le esigenze legate al percorso di formazione, così come le prospettive di sviluppo dei rispettivi itinerari di ricerca, ma è indubbio, e ciò costituisce certamente l’aspetto che più mi ha interessato ai fini di questo lavoro, che tali autori si muovessero nell’ambito di un nucleo problematico in qualche modo condiviso, vale a dire all’interno del più ampio dibattito legato all’interpretazione delle diverse forme della cultura, alla loro fondazione, alla loro articolazione ed al loro sviluppo.
Cassirer appare a sua volta strettamente legato a Warburg, e non solo per il rapporto diretto e personale, ma anche e soprattutto per talune argomentazioni teoriche fondamentali, come per esempio quella legata all’analisi delle forme dell’espressione spirituale, della capacità di produzione di simboli ed immagini e del rapporto tra queste ultime e le determinazioni storiche della memoria. In particolare, anche Warburg doveva in qualche modo venire fuori dall’ambito più tradizionale del proprio settore disciplinare, vale a dire dalla storia dell’arte così come era stata per lo più praticata (e cioè nell’ottica di una preponderante attenzione per il tratto prettamente estetico), per volgersi, invece, allo studio comparato delle culture, anch’egli fermamente convinto, sulla scia dell’insegnamento ricevuto da Usener (del quale era stato allievo a Bonn), della sostanziale e costitutiva parentela tra forme culturali spazio-temporalmente assai lontane ed apparentemente eterogenee. Egli guardava alle immagini mettendo deliberatamente in secondo piano l’indagine strettamente legata all’analisi del tratto estetico ed interessandosi assai di più al loro significato in quanto forme espressive fondamentali e proiezioni storiche della memoria, rintracciando così insospettate parentele e rilevando il continuo riemergere delle medesime manifestazioni in ambiti fino ad allora spesso ritenuti del tutto esenti da reciproche interferenze e suggestioni. In questo senso, poi, egli guardava alle culture primitive tentando di rintracciarvi caratteri per certi versi riscontrabili anche nelle forme di civiltà più recenti, riconnettendo in una prospettiva unitaria (ma mai in una chiave unidirezionale ed in qualche modo riduzionistica) il percorso che aveva storicamente condotto dal mito alla scienza, restando completamente al di fuori da qualunque filosofia della storia eventualmente impegnata ad individuare una qualche rigida linea evolutiva. Anch’egli era fortemente animato, dunque, dalla convinzione della sostanziale parentela e della reciproca integrazione delle facoltà e delle capacità dello spirito umano, così come delle diverse manifestazioni storico-culturali che le esprimono, e proprio per questo le sue argomentazioni non potevano che risultare per buoni tratti in linea con i temi affrontati in questa sede, oltre che (e prima di tutto) di straordinario interesse in sé. Risulta poi singolare che tra questi autori ricorresse con una qualche frequenza e familiarità il nome di Tito Vignoli (del quale, però, mi limiterò soltanto ad accennare), il positivista italiano per molti versi ignorato persino in patria e che invece in Germania veniva parzialmente tradotto ed ampiamente utilizzato da Usener a lezione e da questi, con assoluta probabilità, suggerito anche a Warburg e Cassirer. Vignoli aveva legato mito e scienza agli estremi del processo di evoluzione storico-spirituale dell’umanità, un processo che, però, egli soleva rileggere riscontrandovi un itinerario unidirezionale e rigidamente determinato, del tutto in linea con le sue radicate convinzioni positivistiche e con le contemporanee suggestioni esercitate su di lui dall’evoluzionismo darwiniano.
Tutte queste motivazioni appaiono in qualche modo connesse e comunque affrontate, da parte degli autori qui presi in considerazione, sempre a partire dal possibile nucleo comune che qui ho cercato di mettere in evidenza, sebbene secondo modalità specifiche e prospettive diverse e di volta in volta legate alle differenti motivazioni culturali ed alle particolari forme della sensibilità personale. In ogni caso, ciò che è emerso con assoluta chiarezza è l’idea della centralità ineludibile e costitutiva dell’‘uomo intero’ che si fa nella storia e le cui molteplici produzioni spirituali vanno rintracciate, dunque, nell’ambito del succedersi delle culture. È del tutto ovvio, naturalmente, che i singoli percorsi di ricerca dovessero poi svilupparsi in modo individuale ed autonomo, ma resta comunque di sicuro interesse sottolineare (e certo lo si sarebbe potuto fare anche chiamando in causa molti altri autori ed ulteriori argomentazioni non meno degne di attenzione) la straordinaria vivacità di tale dibattito sviluppatosi in Germania (ma non solo lì) nel periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Tra i più rilevanti aspetti comuni su cui ho volutamente insistito vi è certamente l’idea dell’insopprimibile unità, seppur alla luce delle molteplici e successive diversificazioni, dello spirito, e quindi dell’uomo, dal che consegue immediatamente la necessità di analizzarne, in sede scientifica, le relative questioni tenendole in qualche modo insieme ed avendo cura di contemperare le procedure legate alla specializzazione che quelle volte all’universalizzazione dei risultati in un’ottica più generale. Tale percorso, in qualche modo comunemente avvertito, ha spinto i diversi autori qui chiamati in causa a volgersi in modo assolutamente consapevole dalla specificità del proprio ambito d’indagine e della propria disciplina ad una più ampia considerazione della connessione interdisciplinare che, solamente, è capace di cogliere l’irriducibile complessità dell’intero, infrangendo così i consueti e per molti versi asfittici confini settoriali tradizionalmente assegnati alla ricerca e spostandosi sul più interessante (ma certamente più insidioso) terreno comune che qui ho cercato di individuare e di porre in rilievo. Il che ha portato, poi, al necessario disarticolarsi e riarticolarsi, secondo linee ora ampiamente rivedute, delle singole competenze specifiche, con il conseguente disappunto, più o meno avvertito e manifestato, da parte di non pochi ‘puristi’ delle singole discipline di volta in volta chiamate in causa (gli esempi relativi ad alcuni filologi classici, rispetto a quanto sostenuto da Usener, ed a diversi storici dell’arte, per quanto riguarda le argomentazioni di Warburg, sono forse i più rappresentativi in tal senso). Si tratta, in buona sostanza, del medesimo problema che emerge inevitabilmente quando (per esempio in questa specifica occasione) si decide di affrontare un tema complesso che coinvolge discipline ed interpreti diversi e, dunque, mette di fronte all’alternativa radicale tra il lasciar perdere in nome della scontata impossibilità (a meno di un’improbabile sopravvalutazione delle proprie forze) di possedere in modo adeguato così tante e diverse competenze specifiche, che in parte esulano dal proprio campo d’indagine, e, per contro, una certo più produttiva disponibilità ad affrontare un discorso siffatto, considerato il suo straordinario interesse, rimanendo consapevoli di tali difficoltà e rafforzando, dove possibile, qualche ulteriore strumento specifico, ma soprattutto prendendo in considerazione, più che i contenuti particolari delle singole discipline, il loro significato generale entro il quadro di riferimento complessivo e, quindi, all’interno di un più ampio discorso condotto in chiave kulturgeschichtlich. Ho scelto, senza per questo ignorarne i rischi, ma del tutto convinto della sua effettiva, prudente praticabilità, la seconda alternativa, consapevole della rilevanza dei temi di volta in volta affrontati dagli autori qui presi in considerazione, dei loro forti ed evidenti legami e, dal punto di vista più strettamente metodologico, dell’importanza di dovere oramai procedere in un’ottica per quanto possibile interdisciplinare e, nello specifico, in grado di gettare ulteriore luce su un segmento della storia culturale certo rilevante e, soprattutto, di fungere in qualche modo da impulso per ulteriori e più circostanziate ricerche in una tale direzione.
Forme, linguaggi, intersezioni: Warburg e la storia della cultura
Perché Warburg?
Il ruolo esercitato da Aby Warburg all’interno della storia della cultura otto-novecentesca è certamente rilevante e, soprattutto, articolato lungo direzioni diverse e spesso inconsuete. Non intendo qui ricostruire le pur significative vicende biografiche e scientifiche di tale importante autore, né è mia intenzione tentare una rilettura complessiva del rilevante contributo da egli apportato, in modo più specifico, alla storia dell’arte, cosa per la quale sono peraltro già disponibili numerosi studi[1] e che in ogni caso richiederebbe competenze specifiche e per molti versi distanti dalle mie; piuttosto, intendo qui trattare soltanto alcuni aspetti, ed anche qui in maniera necessariamente sintetica, che riguardano la collocazione di Warburg, da questo punto di vista tutt’altro che di secondo piano, all’interno del dibattito intorno al significato ed all’articolazione della Kulturgeschichte, dibattito che ha coinvolto ed in certa misura tenuto insieme, tra Otto e Novecento, studiosi di diversa formazione ma allo stesso modo convinti di articolare i propri percorsi intellettuali lungo direzioni non solo condivise ma spesso inconsuete e per taluni versi persino ostiche da praticare. Mi riferisco, in modo particolare seppur non esclusivo, a quell’indirizzo di studi che, se si vuole in qualche modo rintracciare un possibile punto d’avvio, può farsi risalire all’opera di Hermann Usener [2], il filologo classico capace di oltrepassare, non senza sollevare discussioni e polemiche, gli ambiti tradizionali della disciplina filologica, per rifonderla entro il più ampio lavoro dello storico delle culture, dove queste stesse non sono più considerate limitate né limitabili all’interno dei confini spazio-temporali che, tradizionalmente, si era soliti tracciare e rispettare. Da Usener, infatti, sono venuti spunti certo incisivi ed innovativi che autori come Warburg, Cassirer, Dilthey e Vignoli [3], tra gli altri, hanno saputo riprendere e sviluppare in direzioni apparentemente diverse eppure significativamente legate da importanti punti di contatto e da elementi di sicura comunanza. Il mio interesse per Warburg si inserisce, dunque, in una tale, più generale prospettiva di ricerca, senza voler indugiare su un’analisi più circostanziata della sua opera e, tanto meno, sulla rilevanza della medesima nell’ambito specifico degli studi di storia dell’arte.
Seppur così circoscritta, la trattazione del tema in oggetto incontra comunque difficoltà oggettive e questo non solo, come avrò modo di mostrare, per l’indubbia complessità della vicenda esistenziale e, soprattutto, culturale di Warburg, ma anche (ed i due aspetti non possono essere qui tenuti disgiunti) per il carattere tormentato e per certi versi inconsueto della sua scrittura, spesso affidata ad una complessa quanto problematica sinergia di parole ed immagini e non sempre approntata per confluire in pubblicazioni definitivamente organizzate e licenziate dall’autore medesimo. Ciò ha da sempre comportato, nell’ambito dell’esegesi dell’opera warburghiana, da una parte l’evidente difficoltà di organizzare e di rendere disponibile l’intero, composito materiale scientifico elaborato dallo storico dell’arte tedesco [4] e, dall’altra, il lento e sempre problematico succedersi di semplici progetti o di concreti ma spesso frammentari tentativi volti a renderne ricostruzioni biografiche esaurienti e studi specifici in grado di riconnettere in un quadro complessivo le diverse direttrici seguite dal suo tormentato lavoro di ricerca [5]. La biografia di Warburg curata da E.H. Gombrich (Gombrich [1970] 1983) è venuta fuori, infatti, dopo un lungo e tormentato periodo, durato svariati decenni, durante il quale si erano succeduti molteplici, convinti e generosi tentativi, soprattutto da parte di alcuni suoi collaboratori più prossimi (e qui il dato è certamente significativo), come per esempio F. Saxl e G. Bing, finalizzati all’organizzazione ed alla pubblicazione degli scritti dello storico dell’arte amburghese (scritti peraltro ancora solo parzialmente affidati alle Gesammelte Schriften [6]) ed alla ricostruzione del suo complicato percorso biografico-intellettuale [7]; si tratta, quindi, di un contributo comunque (vale a dire nonostante i suoi pregi ed i suoi limiti) significativo, se non altro perché ha proceduto ad organizzare in forma più compiuta ed ordinata il profilo biografico ed intellettuale di Warburg, anche se la difficoltà di muoversi al cospetto di un materiale tanto articolato quanto fin lì organizzato in modo tutto sommato soltanto episodico e frammentario ha certo costretto l’autore a compiere scelte precise (e talvolta inevitabilmente riduttive) che sono state poi oggetto di numerose critiche, anche piuttosto radicali [8]. D’altra parte, lo stesso Gombrich non ha mancato di ricordare le straordinarie difficoltà nelle quali si era venuto a trovare quando aveva cominciato a guardare più da vicino i materiali warburghiani: “Mi resi conto così delle intrinseche difficoltà che ostacolavano il progetto originario. A quanto risultava, Warburg non aveva mai buttato via un pezzo di carta. Scriveva con grande difficoltà ma non smise mai di scrivere. Una larga parte della sua produzione è costituita di appunti, abbozzi, formulazioni e frammenti, abbandonati via via che il lavoro veniva compiuto… Il problema di come pubblicare materiali di questo genere era spaventoso” (Gombrich [1970] 1983, 9). Proprio tale vertiginosa e spesso estemporanea produzione di testi (sovente formati dall’accostamento tematico di scritti ed immagini in vista di qualche conferenza) ha reso ancora più necessario, per cercare di ricostruirne l’effettiva consistenza e la più autentica collocazione, tenere sempre connesso l’aspetto più strettamente biografico con l’evoluzione dell’apparato teorico: “Una cosa era chiara: l’osservazione di coloro che ritenevano che le idee di Warburg non potessero essere presentate da sole e separatamente dalla sua personalità e dalla sua vita, era pienamente giustificata” (Gombrich 1970] 1983, 10). Guardando, seppur in modo qui soltanto esemplificativo, più da vicino a tale difficoltà per così dire strutturale, è noto come, benché le sue competenze specifiche nell’ambito (soprattutto) del Rinascimento fiorentino fossero di assoluto rilievo, Warburg avesse sempre stentato ad organizzare gli straordinari materiali di cui era venuto a conoscenza (e che spesso aveva tirato fuori dall’oblio degli archivi) nella forma compiuta di una pubblicazione organica; ciò fu dovuto, però, anche alla sua precisa e ribadita convinzione che si fosse pervenuti, ormai all’uscita dal Medioevo, ad un’età straordinariamente conflittuale e per certi versi persino contraddittoria, tutt’altro, quindi, rispetto all’immagine restituita dalla lettura storiografica più consueta che tendeva a scorgere in tale periodo rinascimentale la risoluzione e, per certi versi, la composizione armonica di quei conflitti che avevano dolorosamente segnato l’epoca ‘buia’ dei lunghi secoli medievali. Se si vuole, poi, si trattava della medesima conflittualità che lo stesso Warburg aveva da sempre vissuto come dimensione dell’esistenza personale e che forse aveva reso autenticamente possibile, entro il suo denso percorso speculativo, la straordinaria commistione tra il linguaggio artistico (e per buoni tratti persino immaginifico) e la più tradizionale argomentazione rappresentativo-concettuale [9].
A tale complessità relativa all’articolazione ed alla comunicazione dei contenuti deve poi aggiungersi, come causa di primo rilievo, l’ampiezza dei temi trattati ed il loro radicarsi in scenari diversi e compositi, nel senso che Warburg ha sempre inteso procedere oltre i tradizionali ambiti disciplinari, guardando per esempio al significato antropologico-culturale dell’arte, prima ancora che al suo carattere strettamente ‘estetico’; allo stesso modo, egli ha rivolto particolare attenzione agli elementi in qualche misura comuni di culture prima per lo più ritenute tanto lontane da non dover neppure essere collocate, nella prospettiva di una possibile comparazione, sui medesimi piani d’osservazione o, quantomeno, in reciproca prossimità. Così, per esempio, i suoi studi sugli indiani d’America (sui quali tornerò brevemente), compiuti soprattutto alla fine del secolo decimonono, erano stati sostenuti proprio dalla precisa convinzione di poter rintracciare elementi comuni, o quantomeno assimilabili, all’interno di culture sviluppatesi in contesti spazio-temporali assolutamente eterogenei [10].
Il tentativo scientifico e speculativo di Warburg si è dunque articolato, con evidente fermezza e regolarità di intenti e nonostante l’indubbia tortuosità dell’itinerario seguito, attorno all’idea di rendere una storia della cultura in grado di legare in modo significativo aspetti del sapere e, più in generale, della vita certamente diversi ma spesso tenuti troppo artificiosamente distinti, procedendo così, per esempio, ben oltre il riduzionismo ascrivibile allo scientismo di ispirazione positivista che aveva nel frattempo segnato una consistente parte della cultura ottocentesca. Da questo punto di vista, si può dire egli è stato buon allievo di Usener [11], nel senso, cioè, di averne compreso a fondo e metodologicamente condiviso la necessità di dover procedere, per poter cogliere in modo soddisfacente la complessità storica delle diverse forme di cultura, ben oltre gli steccati disciplinari tradizionali e le consuete suddivisioni e separazioni più o meno arbitrariamente poste tra i diversi ambiti spazio-temporali delle varie culture. Così, se alla metà degli anni ’20 egli ricordava che “l’idea fondamentale è sorta più di venti anni fa dalla percezione che la comunità scientifica versasse in una miseria spirituale che al sottoscritto era diventata inesorabilmente chiara in una epoca che voleva sentir parlare solo delle vette raggiunte dalla scienza tedesca” (Warburg [1925] 2007, 291), in modo del tutto consequenziale egli esortava poi a ristabilire, come peraltro provvedeva a fare direttamente, “la relazione tra religione, arte e scienza così come si riflette in una adeguata raccolta di testi e immagini” (Warburg [1925] 2007, 291). Si può certo sostenere che egli cercò di mettere concretamente in pratica tale ideale di una storia della cultura ricostruita in chiave interdisciplinare ed al di là da ogni rigido schematismo settoriale, come peraltro risulta evidente anche dalla diversificazione dei suoi studi (che spaziarono dalla storia dell’arte alla filologia, alla storia della filosofia, alla psicologia e così via) e dalla curiosità intellettuale che seppero suscitare in lui ricercatori di diversa provenienza ed inclinazione purché in grado di legare in modo dinamico e convincente le diverse espressioni storiche della cultura. Si trattava, dunque, di una prospettiva teorica assolutamente radicata e tutt’altro che episodica, prospettiva neppure esclusivamente riferibile alle pur ragguardevoli ipotesi metodologiche che la sostenevano [12]. I già ricordati influssi, a vario titolo e con diverse modalità, di Usener, Cassirer, Lamprecht e Vignoli, sui quali tornerò ancora più avanti, suggeriscono proprio la ragguardevole ampiezza degli interessi di Warburg e la sua idea di una storia della cultura ora capace di comprendere il divenire complesso e complicato di forme del sapere tanto apparentemente distanti quanto, in realtà, continuamente ricorrenti e variamente collegate [13]. Da questo punto di vista, va sottolineato che notevoli e diverse sono state le fonti di ispirazione e di riferimento utilizzate da Warburg, così come articolate e complesse sono state le tematiche e le prospettive ermeneutiche che egli ha avuto modo di sperimentare direttamente e con cui si è confrontato nel corso della sua rilevante e densa parabola speculativa [14].
È certo significativo, al di là di ogni possibile quanto improbabile coincidenza, che tra i primi intellettuali italiani a ricordarsi di Warburg, subito dopo la sua scomparsa, vi fosse un attento filologo classico, vale a dire Giorgio Pasquali: “Parrà strano che parli qui del Warburg non uno storico dell’arte, di quelli che gli furono amici sin dalla giovinezza prima, ma uno che di conoscenza di arte figurata e di Rinascimento non fa professione, un filologo classico serio serio, uno studioso senz’occhi. Ma forse non è male sia così: il Warburg, che in quel primo lavoro era partito da considerazioni stilistiche, non si era già allora in quelle acquetato, e non mostrò poi mai, che io sappia, tenerezza, per problemi o tecnici o estetici puri: egli indagò sin d’allora l’arte quale espressione di cultura” [15] (Pasquali 1930, 484-495). Pasquali non mancava di apprezzare, poi, la complessità degli interessi di Warburg, complessità che a suo dire affondava le radici nei decisivi influssi da parte dei diversi maestri che egli aveva avuto modo di ascoltare e dei quali talvolta aveva cercato di mediare, entro una sintesi storica tanto produttiva quanto problematica, le differenti convinzioni metodologiche e tematiche, e ciò proprio in nome di una forma notevolmente ampliata e complessa di Kulturgeschichte: “…uno studioso d’arte fiorentina che s’interessa per l’etnografia di tribù primitive. Più sopra abbiamo nominato la cultura greca, ellenistica. Quale la sintesi di tali contrasti? A trovarla giova aggiungere ancora i nomi di due città tedesche, Bonn e Basilea: Bonn dove il Warburg udì le lezioni dello storico dell’arte Justi, ma anche del grande filologo Hermann Usener; Basilea dove hanno insegnato e scritto il Burckhardt e il Nietzsche”. E tale complessità intellettuale di Warburg doveva ricevere un ulteriore, fondamentale impulso proprio dall’incontro con un altro importante filologo classico, Franz Boll (sul quale tornerò tra breve), come risulta evidente anche dall’ampia ed ininterrotta (specie a partire da un certo punto della sua parabola intellettuale) trattazione warburghiana di argomentazioni legate all’astrologia classica ed alla sua sopravvivenza in epoche successive ed in culture diverse (il che aveva costituito un punto rilevante proprio degli interessi di Boll): “La ricerca del Warburg non è stata mai così fruttuosa come quando ha potuto incontrarsi con quella di un filologo classico puro, che sentì poeti greci, come i suoi scolari ci testimoniano ora dopo la sua morte, con tutto il calore e la chiarezza di un vero umanista, ma che scrisse soprattutto sull’astrologia ellenistica e le sue relazioni con l’Oriente, Franz Boll”. Il riferimento a Pasquali ed alla filologia classica non è qui casuale, dal momento che proprio uno dei maestri più significativi per Warburg, vale a dire Usener, era stato tra i principali esponenti di tale disciplina nella Germania della seconda metà dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento e ne aveva fortemente voluto la svolta (problematica ed a molti spesso invisa) da disciplina tecnica rigorosa, ma inevitabilmente circoscritta, a più ampia capacità di comprensione storica delle connessioni tra le diverse forme di cultura. Fu proprio questo il senso dell’innovativa ricerca che ha sempre animato il percorso di Warburg, un intellettuale di straordinaria curiosità ed apertura mentale, capace di spunti di riflessione assolutamente originali e sviluppati nell’ottica di una più ampia connessione storico-culturale e attraverso la collaborazione di saperi e studiosi di varia formazione e di diversificati interessi.
Tra psicologia, biologia, antropologia e medicina
All’interno dell’itinerario speculativo di Warburg l’intreccio tra motivazioni storico-culturali, nel senso più ampio, e più specifiche questioni di psicologia, biologia, antropologia e medicina è quanto mai stretto, continuo e per molti versi costitutivo, anche perché costantemente alimentato dalle vicende personali dell’autore. Egli è sempre stato convinto, d’altra parte, della sostanziale irriducibilità di ogni trattazione riguardante l’‘uomo intero’ entro un qualunque schema semplicemente disciplinare e settoriale, propendendo, invece, per una sua considerazione dinamica e mai definitivamente risolta, sempre collocata e mantenuta nell’ambito del fluire dinamico costituito dall’incessante dialettica esercitata da opposte polarità. Ciò che lo ha sempre interessato è stato, in modo particolare, il legame strutturale dell’uomo con l’ambiente e le espressioni di tale rapporto, laddove tutto questo può essere colto all’interno di una storia della cultura che egli suole e vuole rileggere in modo problematico, dunque al di fuori da qualunque schema di filosofia della storia e da qualsivoglia formula in qualche misura risolutoria e definitiva.
La dinamica costitutiva della vita si riflette, secondo Warburg, nell’eterna tensione legata al trasferimento di stati d’animo, emozioni ed intenzioni in simboli e in immagini, e proprio in quest’ottica egli andava poi a rileggere le opere d’arte, cercando di scorgervi, ben al di là della perfezione del tratto (che lo interessava assai più marginalmente), il senso e le motivazioni recondite che potevano averne guidato la realizzazione. Si capisce, dunque, l’enorme suggestione che dovette esercitare su di lui il celebre testo darwiniano sulle emozioni (Darwin [1872] 1998), specie per ciò riguardava la convinzione, lì contenuta, secondo la quale le diverse espressioni del volto rappresentano il risultato e la stratificazione del susseguirsi di precise risposte a determinate situazioni emotive vissute dall’uomo e rispetto alle quali questi ha imparato ad atteggiarsi in modo assolutamente funzionale; con il susseguirsi delle epoche, poi, si è avuto il progressivo scollamento, e dunque l’apparente, reciproca indipendenza, tra le risposte espressive e le emozioni che originariamente ne erano state la causa [16]. Ciò significa, in altri termini, che la civilizzazione non è altro che il processo in cui viene lentamente sviluppata tale capacità di produzione simbolica come risposta sempre più raffinata agli stimoli ed alle passioni, il che non implica, però, la totale scomparsa di tali aspetti pulsionali ed istintivi che, al contrario, permangono più o meno celati anche nelle forme di civiltà apparentemente più evolute. Si tratta, è evidente, ancora una volta dell’assimilazione e della riformulazione in chiave assolutamente personale degli importanti stimoli che Warburg aveva ricevuto da diverse fonti, innanzi tutto dall’insegnamento di Usener (e per suo tramite dalle convinzioni di Vignoli) e dal fecondo dialogo, specie nella fase ‘matura’ della sua vita, con Cassirer, per non dire di altri [17].
Era questa, d’altra parte, l’idea warburghiana di arte come complessa manifestazione storica della cultura, come forma significativa della cosiddetta ‘biologia delle immagini’, come deposito simbolico delle emozioni originarie che occorre saper riconoscere: dunque, una dimensione assolutamente lontana dalla mera considerazione estetizzante che a quel tempo (e, per la verità, non solo allora) guidava collezionisti e mercanti d’arte e che spesso ispirava, come motivazione dominante, anche l’allestimento delle mostre e dei musei. Warburg preferiva, piuttosto, una lettura storica e contestualizzante dell’opera d’arte, cercando di collocarla sempre nel fondamentale retroterra psicologico-culturale, a partire dal quale, soltanto, essa può essere autenticamente compresa: “Prendendo le distanze dunque da una storia dell’arte estetizzante, Warburg abbraccia una scienza dell’arte [Kunstwissenschaft]con particolare riferimento alla psicologia dell’espressione [Ausdruckskunde] che interagisce con la storia della cultura [Kulturgeschichte] in termini significanti e contestuali. Alla “psicologia storica dell’espressione umana” Warburg avrebbe voluto dedicare un libro che non trovò mai una forma definitiva ma rimase a livello di raccolta di aforismi attualmente ancora inediti e conservati nell’archivio del Warburg Institute a Londra…” (Cieri Via 2011, 61-62).
Va ulteriormente ricordato che il sopra accennato riferimento alla ‘biologia delle immagini’ ha costituito uno dei punti fermi dell’itinerario speculativo di Warburg, il quale si ricollegava esplicitamente, in questo senso, a tale corrente di pensiero (rappresentata, tra gli altri, da I. Löwy, che tenne la prima cattedra di Archeologia classica all’Università di Roma), che, alla fine dell’800, considerava il disegno primitivo come diretta proiezione della memoria, piuttosto che come espressione, per così dire, di qualcosa di oggettivo [18]. Tale corrente culturale ebbe vita tutto sommato breve, dal momento che scomparve dalla scena già dopo il primo ventennio del ’900, non senza lasciare, però, eredità significative e variamente riprese da alcuni importanti sostenitori soprattutto in area tedesca (dove si tese a privilegiare una prospettiva per lo più antievoluzionistica e direttamente ispirata alla morfologia goetheana: tra i rappresentanti di quest’area vanno ricordati almeno A. Bastian, G. Semper e F. Boas) ed inglese (più aperta, invece, alle suggestioni darwiniane: qui si possono riconoscere, per esempio, W.H. Rivers e W. Bateson). Warburg, fortemente attratto dall’idea delle immagini come espressioni di operazioni mentali e biologiche elementari e dalla possibilità di rintracciarne l’eventuale fondamento comune, doveva in qualche modo riconoscersi nella corrente di pensiero che sosteneva la cosiddetta ‘biologia delle immagini’. In un certo senso, si può dire che egli indagò il legame tra pensiero ed immagini cercando di coniugare, in modo sicuramente complicato e problematico, istanze fino ad allora decisamente contrapposte come la tendenza morfologica di ascendenza goetheana ed il più recente e suggestivo evoluzionismo di matrice darwiniana. Proprio in una tale ottica egli intendeva poi procedere dalla ricognizione e dall’analisi delle immagini ad una sorta di psicologia interculturale ora concepita in chiave evoluzionistica (da questo punto di vista, però, con una qualche ‘prudenza ermeneutica’), per questo era così interessato ai riti primitivi e tribali, dove era possibile osservare direttamente fenomeni che potevano in qualche modo rappresentare le forme più antiche della capacità di espressione dell’uomo e dei quali aveva sentito parlare anche durante le lezioni di Usener. Inoltre, non gli sfuggivano precise rispondenze con le idee di Vischer riguardo il ruolo esercitato dal simbolo nelle culture primitive, ancora pervase da considerevoli forme di magismo (dove i riti con gli animali servivano, come si è avuto modo di dire, per stabilire una forma di controllo sulla natura).
Queste particolari suggestioni si univano, in Warburg, con gli stimoli ricevuti da altri importanti maestri che egli ebbe modo di seguire già durante la formazione, primo fra tutti Lamprecht, che aveva inteso guardare allo sviluppo storico della mente individuale e dunque procedere, almeno nelle intenzioni, alla fondazione di una ‘psicologia sociale scientifica’ capace di intendere la memoria e le altre funzioni del pensiero a partire dalle impressioni sensoriali che ne sono alla base; ciò era reso funzionale, poi, al più ampio tentativo di comprendere l’intreccio originario delle forme simboliche sviluppate dall’essere umano (mito e linguaggio, innanzi tutto).
Inoltre, Warburg doveva certamente conoscere ed in parte anche utilizzare le teorie di alcuni studiosi che, in forme diverse, avevano tentato un’interpretazione in chiave psicologica delle forme d’arte, studiosi, cioè, come Vischer, Fiedler e Wölfflin (per non dire, poi, dell’importanza degli echi suscitati dalle ricerche antropologiche di Boas). Da questo punto di vista, nell’ambito dell’annosa disputa tra coloro che intendevano procedere alla comprensione delle forme dell’immaginazione in chiave scientifica e coloro che, invece, privilegiavano, in tale processo, l’approccio psicologico Warburg si trovava di certo assai più in sintonia con questi ultimi. Egli era convinto, d’altra parte, che arte ed immaginazione si situassero in qualche modo in una posizione di mezzo tra l’atteggiamento magico ed il razionalismo scientifico e proprio per questo riteneva importante studiare le diverse forme artistiche e, più in generale, qualunque modalità espressiva figurativa a partire dal riferimento alla situazione specifica dell’artista durante l’atto creativo.
Tutte queste suggestioni e influenze (ed altre ancora delle quali, però, qui sono costretto a tacere) dovevano fondersi, nell’animo di Warburg, con le esperienze nel frattempo maturate in prima persona, così da lasciar emergere e manifestare quelle che sono poi diventate, in una sorta di congiunzione assolutamente originale, le idee fondamentali del suo intero itinerario di ricerca, come ad esempio, per l’appunto, la convinzione che la memoria [19] sia un magazzino di immagini suscitate da reazioni storicamente date ad emozioni vissute in modo particolarmente intenso (e spesso direttamente conseguenti alla percezione di un pericolo), proprio come gli avevano mostrato determinati comportamenti degli indiani americani durante la sua visita presso quelle tribù: “Nell’uomo primitivo la memoria ha una funzione sostitutiva biomorfa e comparativa. Si tratta di una misura di difesa nella lotta per la sopravvivenza contro dei nemici viventi che il cervello/la memoria, in uno stato di eccitazione fobica, tenta di comprendere da un lato nella loro estensione più evidente e distinta, dall’altro misurandone la forza, così da poter prendere le misure difensive più efficaci. Si tratta di tendenze che non giungono a livello cosciente” (Warburg 2006, 40). Ricompresa in una tale prospettiva, “la memoria è solo una raccolta selezionata di quelle eccitazioni che hanno ricevuto risposta attraverso espressioni fonetiche [lautliche Äußerung] (esplicite o interiori). (Per questo motivo ho in mente di definire la finalità della mia biblioteca in questo modo: una collezione di documenti relativi alla psicologia dell’espressione umana).
Il problema è: come sorgono le espressioni linguistiche o figurative? Quali sentimenti o punti di vista, consci o inconsci, guidano la loro registrazione nell’archivio della memoria? Esistono leggi che governano la loro sedimentazione e il loro riemergere?” (Warburg 2006, 50). Le immagini sono, dunque, il prodotto, in qualche modo stratificatosi nella memoria, di precise modalità di reazione a sollecitazioni ed a pericoli provenienti dal mondo esterno, tutt’altro, insomma, che un’esercitazione tecnica finalizzata all’espressione fine a se stessa. Per quest’ordine di motivazioni, dunque, comprendere un’opera d’arte semplicemente dal punto di vista formale è, per Warburg, un’operazione assolutamente insignificante; piuttosto, egli intende procedere all’individuazione delle cosiddette Pathosformeln come “indissolubile intreccio tra carica espressiva e formula iconografica. Non si tratta di una contrapposizione fra storia dello stile e storia della cultura, ma del tentativo di superare i confini disciplinari” (Pasini 2004). Le Pathosformeln, altra significativa e nota espressione warburghiana, indicano proprio questa stretta unione tra le immagini e le forze emotive che ne sono alla radice. Così, nella concezione di Warburg, la memoria costituisce uno straordinario patrimonio storico-culturale che occorre indagare in modo attento, mentre gli engrammi rappresentano i depositi del manifestarsi storico delle diverse sollecitazioni energetiche ricevute ed accumulate dall’uomo nel corso della sua storia [20]. Riconsiderato in questo senso, il percorso di Warburg si manifesta “come una spirale che si svolge su tre piani: quello dell’iconografia e della storia dell’arte, quello della storia della cultura e quello definito ‘Scienza senza Nome’, ovvero l’analisi della memoria culturale dell’uomo occidentale” (Pasini 2004, 32). Le sue convinzioni recuperano e tengono conto, dunque, dei preziosi insegnamenti e delle sollecitazioni che egli aveva ricevuto e continuava a ricevere da parte di diversi maestri e collaboratori; fu suo indubbio merito quello di saperli integrare e rifondere entro un modello di ricerca del tutto personale ed autenticamente capace di abbattere gli steccati disciplinari e di rileggere le diverse manifestazioni storiche dello spirito umano tenendo sempre sullo sfondo la sua complessa e complicata unità di fondo [21]. In questa prospettiva, quindi, anche la sua idea di memoria risulta strettamente connessa con l’interpretazione delle immagini in chiave psicologia e antropologica [22].
In tale articolata confluenza di motivazioni psicologiche, biologiche, antropologiche ed artistiche merita almeno un cenno (ma in realtà si dovrebbe sviluppare, a tal proposito, un discorso specifico e ben più ampio che esula, però, dal carattere di questo scritto) l’importante rapporto di Warburg con il celebre psichiatra Ludwig Binswanger [23], presso il quale fu ricoverato e che dovette constatarne, nonostante lo scetticismo iniziale, la guarigione, tanto da decidersi a dimetterlo, dopo gli anni lunghi e bui del ricovero nella clinica di Kreuzlingen [24]. Va ricordato che Binswanger, già assistente di Jung, aveva in qualche modo tentato di legare psicoanalisi e psichiatria e, pur non senza evidenti difformità di vedute, aveva instaurato un fecondo rapporto di collaborazione anche con Freud. Cultore della fenomenologia [25], egli era fermamente convinto dell’utilità di un approccio ‘umanistico’ rispetto al malato, ritenendo determinanti, o quantomeno utili, gli atteggiamenti di collaborazione sincera ed aperta tra medico e paziente: fu questo, in linea di massima, il metodo del quale si servì per curare Warburg, benché all’inizio egli stesso dubitasse fortemente delle possibilità di guarigione dell’illustre paziente. Ma, come ho già avuto modo di accennare, la situazione clinica di Warburg era stata, per motivi diversi, critica già dalla prima infanzia, quando, in preda al delirio provocato dalla febbre, aveva cominciato a sviluppare immagini fantastiche: “Sono stato malato di tifo nel mio sesto anno d’età, se ricordo bene solo per sei settimane e non in modo particolarmente grave… Da quell’epoca ho conservato le immagini fantastiche provocate dalla febbre con tale chiarezza, che mi appaiono alla memoria come se vi fossero state impresse ieri…” [26]. Warburg non dimenticò mai l’esperienza della malattia vissuta durante l’infanzia, anzi fu sempre convinto che proprio lì aveva avuto in qualche modo inizio il suo duraturo confronto con il fantastico e con l’irrazionale, confronto poi ulteriormente condizionato dai successivi avvenimenti della sua vita pubblica e privata: “Il delirio febbrile appunto isola ed enfatizza l’immagine mnemonica, che ci sta improvvisamente di fronte nella sua sfrenata potenza individuale. Solo che la paura supplisce e complementa in modo terrificante, mentre, in una vita reale, è la comunità normale a intervenire e a porre ordine… Una circostanza particolare è che la mia fiducia nella vita, già fragile a causa della febbre tifoide, venne ulteriormente danneggiata in anni precoci” (Binswanger, Warburg 2005, 154-155).
Vi era, dunque, in Warburg la convinzione che a quella normale condizione umana che vede dinamicamente contrapposti razionale ed irrazionale si fosse aggiunta, per quel che riguardava la sua condizione individuale, l’esperienza della malattia e della visione fantastica ad essa legata e sperimentata già nei primi anni di vita. Egli era altresì convinto che soltanto l’impegno intellettuale gli avrebbe permesso di venire in qualche modo fuori dalla malattia: “Per me l’occupazione con la mia ricerca professionale è chiaramente un sintomo che la mia natura vuole ancora una volta tirarsi fuori da questa palude da sé sola” [27]. In realtà, però, sappiamo che egli considerava solo momentaneamente raggiungibile l’equilibrio tra le forze irrazionali del caos e quelle della ragione: così come era sempre stato per la storia dell’umanità, anche la sua vicenda personale, con le aggravanti appena ricordate, si giocava in qualche modo interamente nell’ambito di tale perenne contrapposizione polare, contrapposizione che egli riteneva, tuttavia, un’autentica ricchezza, convinto com’era del significato straordinariamente fecondo ed autentico di ogni percorso esistenziale, sempre costitutivamente sospeso tra equilibrio e caos. La sua storia clinica, l’‘infinità’ costitutiva della guarigione rientrano in pieno nell’ambito di una tale, profonda convinzione. In questo senso, si può immaginare che il rapporto con Binswanger e con la sua specifica terapia ‘umanistica’ abbiano giocato un ruolo rilevante ai fini della sua guarigione, anche se, naturalmente, la storia non può offrire, in questo senso, né certezze né smentite. Ma è indubbio (e ciò appare ancora più evidente quando si leggono le carte del suo soggiorno a Kreuzlingen, dove emergono chiaramente gli sforzi terapeutici del medico volti a ricollocare, gradualmente e con la dovuta prudenza, il malato all’interno di condizioni di vita normali e quotidiane) che la spietatezza della malattia mentale doveva trovare nell’umanizzazione del rapporto medico/paziente una probabile quanto decisiva spinta in direzione del ristabilimento di quell’equilibrio, sempre precario, tra razionalità ed irrazionalità. Le manifestazioni patologiche di Warburg, se si leggono quei resoconti clinici, appaiono in tutta la loro crudeltà e violenza, il che rende ancora più interessante cercare di capire come egli ne sia venuto fuori con una forza tale da consentirgli di riprendere pienamente in mano la propria vita e la propria attività negli anni che dovevano ancora restargli.
Note
[1] Per un primo inquadramento della copiosa ed articolata bibliografia di e su Warburg si v. Cieri 2011, 169-194.
[2] Sia consentito rimandare, a questo proposito, ad alcuni miei recenti lavori: in particolare, Magnano San Lio 2011; 2011a; 2011b, 2012.
[3] Su tali argomenti ho già detto, e per questo motivo eviterò qui di ritornarvi, in più di un’occasione, per esempio in Magnano San Lio 2008; 2000 e 2008a.
[4] Sono noti e certamente assai apprezzabili gli sforzi compiuti, in questa direzione, dal Warburg Institut, specie a partire dal problematico trasferimento, per via dell’avvento del nazionalsocialismo, dei materiali warburghiani a Londra, non fosse altro perché ciò ha permesso di salvare tale straordinario patrimonio, rendendo tra l’altro possibile il complesso tentativo di organizzarlo per la pubblicazione e di renderlo concretamente accessibile agli studiosi.
[5] È nota la difficoltà, dovuta proprio al carattere composito e nello stesso tempo frammentario dei suoi scritti ed al fatto che spesso si trattava di testi e di immagini messi insieme ed utilizzati in vista di determinati seminari e conferenze, non solo di procedere all’organizzazione ed alla pubblicazione delle opere di Warburg, ma persino di ricostruire in modo sufficientemente organico e plausibile la biografia intellettuale di questo grande storico dell’arte: non a caso sono stati compiuti, come è noto, diversi tentativi in tale direzione (per esempio dalla sua diretta collaboratrice G. Bing) senza che se ne venisse mai realmente a capo, almeno fino al lavoro (peraltro esso stesso assai controverso e da più parti duramente criticato) di Gombrich ricordato anche nella nota successiva.
[6] Vanno almeno ricordate, tra le raccolte delle opere warburghiane, Warburg 1932 [1998], se non altro perché costituiscono il primo tentativo di raccogliere gli scritti di Warburg appena dopo la sua morte. Altre raccolte sono di anni più recenti.
[7] Per queste vicende si v., tra l’altro, Mazzucco 2003, dove sono brevemente ricostruite le principali tappe che hanno portato alla tanto discussa e criticata pubblicazione di tale biografia. Va detto, senza entrare neppure per un momento nella relativa polemica, peraltro ben nota, che, al di là degli eventuali limiti dell’impresa gombrichiana, deve essere certamente apprezzato tale primo tentativo di mettere ordine entro un materiale così complesso e che per tanto tempo aveva ‘resistito’ ad ogni pur autorevole sforzo di muoversi in una tale direzione.
[8] Per esempio, è noto che E. Wind recensì l’opera di Gombrich assai duramente, criticandone persino le ragioni poste a fondamento, vale a dire la selezione delle fonti primarie e in qualche caso finanche la loro correttezza, non senza denunciare, poi, l’immagine unilaterale (nel caso specifico eccessivamente tormentata) di Warburg che ne veniva fuori (Wind 1971 e Wind 1992, 161-173).
[9] Mazzucco [2000] 2004, già nel numero 1 del settembre 2000 de “La Rivista di Engramma”; tale rivista on-line (www.engramma.it) che ha svolto e svolge un pregevole lavoro di edizione di materiali warburghiani e di studi critici intorno ad essi; la modalità on-line rende naturalmente superfluo indicare ogni volta, al di là dell’anno e del fascicolo di edizione, l’esatto numero della pagina di riferimento), ha sottolineato come Warburg procedesse, dal punto di vista metodologico, dapprima illustrando l’ipotesi che intendeva dimostrare, il percorso da seguire e le relative regole, per poi passare all’esposizione ed alla spiegazione della sua tesi, sempre sostenuta da documenti di diversa provenienza e fattura (parole, immagini, fotografie e così via); inoltre, egli usava un linguaggio quanto mai articolato e diversificato ed aveva c. di sottolineare sempre la provvisorietà dei risultati raggiunti, considerati soltanto come punti di partenza per ulteriori e successive argomentazioni. Il suo tentativo di ‘parlare per immagini’ doveva certamente contribuire, e probabilmente in modo decisivo, alla già ricordata difficoltà di pervenire ad una definitiva sistemazione dei materiali via via utilizzati in vista di una loro pubblicazione.
[10] È noto che Warburg approfittò del viaggio in America in occasione del matrimonio di uno dei fratelli per organizzare il soggiorno, avvenuto nel 1895-96, presso alcune tribù di indiani sopravvissute all’interno del continente americano: lì egli, oltre a raccogliere materiali della tradizione locale di vario genere, ebbe l’occasione di assistere a suggestivi riti propiziatori e di scattare diverse fotografie (poi ampiamente utilizzate in alcune sue conferenze), cogliendo così l’occasione per osservare più da vicino culture troppo spesso ritenute, in modo fin troppo semplicistico, ‘primitive’ e dunque assolutamente estranee rispetto, per esempio, a quelle più recenti e prossime. Egli poté così accorgersi, al contrario, della sopravvivenza di taluni elementi già appartenuti ad ambiti remoti in forme culturali apparentemente lontanissime e del tutto eterogenee anche dal punto di vista della semplice collocazione spazio-temporale. Ma su questo avrò modo di tornare più avanti.
[11] Per questo aspetto si v. quanto dice Ghelardi 2007, XIV-XV, dove, tra l’altro, viene ricordata l’importanza, per Warburg, di procedere al tentativo di una “storia delle immagini della civiltà”.
[12] Si v., per questo, Warnke 1998,16-17.
[13] Cfr., a tal proposito, Agamben 1984, 52-54.
[14] A questo proposito, per esempio, Ginzburg [1966] 2000 sottolinea la complessità delle fonti di Warburg, individuandone giustamente alcune tra le principali in Burckhardt (specie per quanto riguarda l’interesse per il Rinascimento e per la storiografia ‘individualizzante’), Nietzsche (che lo interessava specialmente per il ruolo esercitato, nell’antichità greca, dal dionisiaco) ed Usener (soprattutto per la storia delle religione come luogo topico delle relazioni tra Oriente e Occidente, tra culture apparentemente lontane eppure inevitabilmente legate). Ginzburg sottolinea anche il rifiuto della storia dell’arte ‘estetizzante’ da parte di Warburg e la sua idea di legare fonti documentarie e figurative all’interno di ogni più plausibile tentativo di comprensione storica di un’epoca o di un contesto.
[15] Pasquali 1930 ricorda anche come il continuo, fitto riferimento al mondo antico non dovesse essere stato affatto semplice per chi, come Warburg, non avendo avuto modo di studiarlo a scuola, aveva dovuto imparare il greco per precisa scelta individuale e dopo il regolare curriculum scolastico.Per quel che riguarda la penetrazione del pensiero di Warburg in Italia va ribadito che si deve, sostanzialmente, proprio a Giorgio Pasquali una delle prime e più incisive riletture della sua opera. Si segnalano, poi, le attenzioni rivoltegli da Farinelli (il quale si recò anche alla Bibliothek) e da Bandinelli. Sostanzialmente episodici, invece, i rapporti con Croce, mentre successivamente e in tempi più recenti l’opera warburghiana è stata analizzata, con prospettive ed intensità diverse, da studiosi come Cantimori, Momigliano, Ginzburg, Settis, Rovatti, Dal Lago ed Agamben (tra gli altri). Per un primo inquadramento della ripresa, in Italia, del pensiero e dell’opera di Warburg si v. Agosti 1985.
[16] A questo proposito, riferendosi all’idea darwiniana sostenuta nel testo appena ricordato e poi ripresa da Warburg. Ghelardi 2006, XVI, scrive: “ … tentativo di Warburg di interpretare a Firenze gli affreschi di Masaccio nel Carmine attraverso il testo sulla espressione delle emozioni di Darwin. Qui, facendo tesoro del presupposto darwiniano, secondo il quale l’espressione del volto è il riflesso di un atteggiamento funzionale attraverso il quale l’uomo in stadi remoti della civiltà ha tradotto un turbamento psichico, egli aveva sottolineato che col tempo l’evoluzione aveva operato un distacco delle emozioni dalle relative espressioni facciali, sicché in quest’ultime noi potevamo cogliere una sorta di residuo simbolico di ciò che originariamente era stato biologicamente utile, quando tra emozione, espressione del volto e azione si era stabilito un rapporto di interdipendenza. Facendo proprio il precetto darwiniano secondo il quale l’evoluzione ci mostra in quale misura le espressioni del viso relative ad alcune sensazioni elementari (paura, dolore, stupore…) si siano oggettivate e cristallizzate in formulazioni o formule nel momento in cui si sono distaccate dai comportamenti biologicamente utili, Warburg era giunto così alla conclusione che questa grammatica visiva costituiva lo strumento più adeguato per cogliere certe risorgenze. Difatti, l’evoluzione, svuotando di contenuto queste espressioni, avrebbe condotto ad un distacco tra queste ultime e l’impressione sensibile. Ciò si sarebbe fissato in una grammatica, in un repertorio di formulazioni, ed esse non sarebbero altro che il residuo cristallizzato di quella gestualità piena, un tempo legata a determinate emozioni. Così, fin dal 1888, le idee di Darwin sembravano confermare a Warburg, in polemica con il classicismo e la fisiognomica, che la mente umana era in realtà il risultato di una evoluzione, e che le fasi primitive della cultura ne erano il deposito più profondo e originario”.
[17] Cfr. Ghelardi 2006, XVI-XVII; e, dello stesso 2004, X.
[18] Di questo ho detto in modo più circostanziato in Magnano San Lio 2006.
[19] A proposito della cosiddetta ‘teoria della memoria sociale’, che riprende le argomentazioni appena accennate, si veda anche quanto dice Gombrich 1970, 207-222, specie in relazione alle suggestioni esercitate, in tal senso, dalle riflessioni sviluppate da Semon 1904.
[20] “L’engramma diventa, così, simbolo e immagine in cui si imprimono una carica energetica e un’esperienza emotiva che sopravvivono come eredità trasmessa dalla memoria e si fanno reattive attraverso il contatto con la volontà selettiva di una determinata epoca. I simboli-engrammi si concretizzano nelle Pathosformeln o formule del pathos, espressioni di un sentimento o di un’attitudine spirituale che, in quanto riconducibili all’antica emotività della dimensione mitica, derivano, più o meno consapevolmente, dall’antico” (Pasini 2004, 32).
[21] “È quindi probabile che la scienza di Warburg dovrà restare senza nome finché ad essa non sarà data la possibilità di scardinare le divisioni settoriali tra le diverse discipline di ricerca: divisioni che si sono affermate nell’Ottocento e poi congelate nel corso del Novecento in settori di ricerca via via sempre più separati tra le discipline umanistiche e la scienza. Forse la frattura che divide poesia e filosofia, arte e scienza, ‘parola-che-canta’ e ‘parola-che-ricorda’, non è che un aspetto di quella schizofrenia della civiltà occidentale che Warburg aveva riconosciuto” (ibidem).
[22] A proposito della consistenza antropologica della teoria della memoria prospettata da Warburg rimane di sicuro interesse quanto dice Severi 2004, 21- 86.
[23] Si v., per questi aspetti, anche Raulff 1998, 72-74 e 104-108.
[24] Per quanto riguarda le vicende legate al ricovero a Kreuzlingen ed alla successiva guarigione di Warburg è importante vedere il già ricordato Binswanger, A. Warburg 2005, particolarmente interessante anche perché raccoglie i resoconti clinici quotidiani della permanenza di Warburg a Kreuzlingen, nonché alcuni importanti appunti e diverse lettere, di quel periodo, dello stesso Warburg, oltre ad ulteriori materiali, tra i quali non si può non ricordare il carteggio intercorso tra Binswanger e lo stesso Warburg a partire dalla guarigione di quest’ultimo (1924) e fino alla sua morte. Il saggio introduttivo del curatore del volume (Stimilli 2005) getta luce, inoltre, su quel periodo della vita di Warburg, per molti versi oscuro eppure di certo estremamente significativo per l’evolversi della sua vicenda esistenziale ed intellettuale, periodo tra l’altro spesso taciuto o volutamente mistificato nell’ambito di talune ricostruzioni critiche. In particolare, poi, nel testo in questione sono ricostruite le vicende legate alle diverse diagnosi della malattia di Warburg stilate da parte degli specialisti che ebbero modo, in quegli anni, di seguirlo, nonché i principali aspetti del suo soggiorno a Kreuzlingen.
[25] Il testo di una conferenza che Binswanger tenne, in quel periodo, sulla fenomenologia è ora consultabile anche in Binswanger- Warburg 2005, 255-302.
[26] A. Warburg, Primo frammento autografo, in Binswanger, Warburg 2005, 153.
[27] A. Warburg, Lettera al fratello Max del 16 aprile 1924, in Binswanger, Warburg 2005, 174.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
Ninfe ed elissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer by Giancarlo Magnano San Lio (Liguori ed. 2014), analyzes some speculative itineraries within the history of German culture between the second half of the nineteenth and early twentieth century, related to the debate on the Human Sciences. The philological, historical, philosophical and iconographic studies of Dilthey, Usener, Cassirer and Warburg unfold relevant contact points. Engramma publishes the Introduction and some excerpts dedicated to Warburg, taken from the third part of the book.
keywords | Ninfe ed elissi; Dilthey; Usener; Warburg; Cassirer; Giancarlo Magnano San Lio; Excerpt; Book.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Magnano San Lio, Ninfe ed ellissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer, “La Rivista di Engramma” n. 125, marzo 2015, pp. 99-126 | PDF of the article