Identità e autoritratto: il caso Francis Bacon
Nadia Mazzon
English abstract
Le prime opere realizzate da Francis Bacon dichiaratamente come autoritratti risalgono al 1956 e al 1958: fatta eccezione per qualche episodio isolato, prima che il genere si affermi con continuità e frequenza nel repertorio dell’artista bisognerà aspettare almeno un decennio.
Si può osservare come la rappresentazione dell’immagine di sé sia per Bacon l’esito di un processo lungo e complesso, che, prima di arrivare all’autorappresentazione compiuta e dichiarata, passa attraverso una fase in cui le sembianze dell’artista non sono immediatamente riconoscibili, né immediatamente proposte come proprie: tuttavia, come cercheremo di argomentare attraverso il confronto con materiali pittorici e fotografici, anche alcune opere di questa prima fase si possono definire a pieno titolo autoritratti.
In particolare alcuni dipinti prodotti tra il 1948 e il 1965 costituiscono momenti cruciali del percorso che porta Bacon all’autoritratto: i titoli assieme alle caratteristiche figurative forniscono indicazioni preziose per decifrare i sentimenti profondi dell’artista rispetto all’immagine che egli ha di sé.
Le opere che qui prendiamo in esame fanno parte della serie Head: Head I del 1948 e Head II del 1949. A queste si aggiungono due trittici realizzati negli anni sessanta: Three Studies for a Crucifixion del 1962 e Crucifixion del 1965.
In questi dipinti prendono una prima forma i drammi interiori e i blocchi psicologici dell’artista, che egli, grazie all’espressione pittorica, riesce a rielaborare e sciogliere nella forma compiuta dell’autorappresentazione. La dichiarata angoscia che travaglia Bacon, e a cui l’artista dà forma poetica, è causata tanto dall’esperienza vissuta di un periodo storico tragicamente segnato dalla violenza dei due conflitti mondiali, quanto dal clima altrettanto violento dei rapporti familiari. Le tensioni, vissute soprattutto nella relazione con il padre, sfociarono in un vero e proprio conflitto quando Francis manifestò l’intenzione di dedicarsi completamente all’attività artistica e palesò le proprie tendenze omosessuali.
Eventi esterni e interiori segnarono profondamente la personalità dell’artista e fu grazie all’affermazione nel campo della pittura che egli trovò modo di dare piena e compiuta espressione alla propria identità.
Head I (1948) e Head II (1949) possono essere considerate le prime forme che l’artista propone come rappresentazione di sé.
Prolegomeni a quelli che saranno i veri e propri autoritratti, in queste opere trova espressione un groviglio interno di sentimenti, emozioni e sensazioni che necessiteranno ancora di un lungo percorso prima di sciogliersi in immagini di più chiara autorappresentazione: Head I e Head II rivelano una percezione di sé nei termini di un’umanità incompleta e un’identità in cui prevale l’elemento legato alla natura istintuale. La componente animale, che si raffigura nell’immagine della scimmia, è fusa alla componente umana, con una netta prevalenza della bestia sull’uomo, della scimmia sull’artista.
Nel repertorio simbolico e iconografico la scimmia rappresenta da un lato la tensione dell’uomo, e in particolare dell’artista, a imitare e riprodurre l’atto della creazione; dall’altro, è anche figura dell’umano ridotto alla dimensione istintuale: la rappresentazione di una scimmia in catene, nei dipinti del XV e XVI secolo, era proposta come allegoria della necessità di dominare gli istinti, per raggiungere una superiore condizione di umanità.
Proprio negli anni in cui Bacon propone le sue teste bestiali, si affermavano in Europa le teorie psicoanalitiche e della psicologia del profondo, secondo cui a livello simbolico e onirico la costruzione dell’identità individuale passa anche per una fase di immaginazione e di autorappresentazione in sembianze animali: Jung spiega come il ricorrere nei sogni di immagini in cui si assiste alla trasformazione di animali in esseri umani si collochi all’interno di un percorso che mira a costruire l’unità dell’individuo:
“[...] La scimmia viene ricostituita al solo scopo di venir trasformata più tardi in essere umano. Il paziente [...] deve sottoporsi a una notevole trasformazione per divenire un uomo nuovo attraverso la reintegrazione della sua istintività, finora rescissa” (Jung [1940] 1977).
Significativo è il fatto che l’elemento scimmiesco sia una presenza forte anche in altri dipinti di questo periodo e che il tema della scimmia sia ancora visibile negli autoritratti della fine degli anni Cinquanta.
In questi casi Bacon propone come termine di definizione dell’umanità del soggetto rappresentato l’abbigliamento, piuttosto che le fattezze fisiche.
Il senso di disgregazione suggerito dal volto nell’autoritratto del 1956 potrebbe essere espressione del processo di reintegrazione di parti di sé scisse: Bacon sembra avere costruito il ritratto assemblando pezzi diversi, privi di una sintesi armonica e il risultato è un volto asimmetrico in cui le singole parti (naso, occhi, bocca, orecchie) sembrano vivere ciascuna di vita autonoma, temporaneamente giustapposte per restituire una precaria idea di fisionomia.
I primi autoritratti si possono ascrivere, quindi, a un processo interiore in cui è evidente un urgente bisogno di riconoscimento e di identità ma anche la necessaria trasformazione di parti di sé vissute senza una accettazione unitaria. Per questa poetica Bacon trova precedenti e modelli in due grandi artisti da lui molto amati, la cui opera è, come la sua, segnata da una violenta tensione interiore: Rembrandt e Van Gogh (su questo, già pubblicato in Engramma, si veda anche, di chi scrive, L’arte dell’autoritratto: Francis Bacon a lezione da Rembrandt e Van Gogh).
Il disegno di Rembrandt Autoritratto nei panni di mendicante del 1630 costituisce un referente diretto per l’autoritratto di Bacon del 1956.
È interessante notare il fatto che Bacon si ispira proprio al piccolo disegno in cui Rembrandt raffigura se stesso nei panni di un mendicante. Per intendere la portata scandalosa della scelta dell’artista bisogna tener presente che nella società protestante del XVII secolo esisteva una distinzione ben precisa, che trovava un riflesso in pittura, tra i poveri meritevoli “di una caritatevole attenzione [...] e le vaganti schiere di vagabondi vicini alla delinquenza” (Schama [1999] 2000): e proprio con questa seconda categoria, socialmente disprezzata, Rembrandt sembra identificarsi nel disegno. Allo stesso modo, a distanza di tre secoli, Bacon trova nell’immagine del mendicante-vagabondo una figura utile a esprimere il senso di emarginazione e di rifiuto che contrassegnava le sue relazioni familiari e sociali.
Van Gogh, e in particolare il suo Autoritratto sulla strada di Tarascon del 1888, è invece l’oggetto di una serie di studi, realizzati da Bacon nel 1956-1957, in una fase di evoluzione stilistica e tematica che condurrà l’artista alla ricca stagione ritrattistica degli anni Sessanta: le prime tracce di questo confronto con il modello sono già evidenti nel dipinto del 1958, dove la stesura del colore, soprattutto nel volto, si fa più intensa e vorticosa.
In un saggio intitolato L’Edipo capovolto, Saverio Falcone analizza la pittura di Bacon in chiave psicoanalitica e si sofferma sui temi di alcuni dipinti, ritenuti tappe significative di quel processo di sviluppo psicologico che portò l’artista a rielaborare esperienze traumatiche, blocchi psicologici dell’infanzia e della giovinezza, che non solo erano di impedimento alla piena realizzazione di sé, ma che se non avessero trovato una forma espressiva adeguata “sarebbero probabilmente implosi provocandogli una disintegrazione schizofrenica” (Falcone [1998] 2000).
Nella ricostruzione del processo che segna l’evoluzione interiore e psichica dell’artista acquistano così un’importanza determinante i trittici realizzati negli anni Sessanta, Three Studies for a Crucifixion (1962) e Crucifixion (1965), i quali, se da un lato contengono sicuramente riferimenti alle atrocità del XX secolo fattore che ha determinato la grande risonanza di queste opere presso il pubblico dall’altro rivelano anche il progressivo avvicinamento dell’artista alla sua propria autorappresentazione: scorgiamo quindi un autoritratto, ancora in chiave simbolica nel trittico del 1962, che diventa palese e dichiarato nell’opera del 1965.
Intervistato da David Sylvester sul significato attribuito al tema della Crocifissione, Bacon affermava:
Questa scena è diventata una magnifica armatura [...] su cui appendere sentimenti e sensazioni le più diverse [...] non ho trovato un soggetto altrettanto capace di ricoprire certe aree del sentimento e del comportamento umano (Bacon [1975] 1991).
E a proposito del motivo che lo aveva spinto a realizzare un’opera come quella del ’62, Bacon dichiarò:
Le immagini di mattatoi e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano direttamente legate alla Crocefissione. Ci sono delle foto straordinarie di animali appena prima di essere sgozzati. L’odore di morte... Non ne sappiamo nulla naturalmente, ma in quelle foto hanno un’espressione talmente consapevole che sembra facciano di tutto per scappare. Ecco, per me la potenza di quelle immagini ha molto a che fare col senso stesso della Crocefissione. Per chi è religioso, cristiano, la Crocefissione avrà, credo, un significato completamente diverso; ma per un non-credente è solo un comportamento umano, un modo di essere nei riguardi di un’altra creatura (Bacon [1975] 1991).
L’attenzione del pittore è rivolta, in questi dipinti, al soggetto principale il sacrificato e la sua sofferenza che nel trittico del ’62 viene riproposto in tutti e tre i pannelli e nelle varie forme in cui tale motivo aveva trovato espressione anche in precedenti opere dell’artista: quarti di carne macellata, corpo dilaniato dai colpi di arma da fuoco, carcassa di carne appesa. Nel trittico del ’65 invece il tema trova, nella riconquistata posizione centrale, il massimo sviluppo, ponendosi, inoltre, in una relazione sempre più evidente e stretta con la vicenda personale dell’artista.
Nel pannello centrale del trittico del 1962, tradizionalmente riservato alla figura del Cristo crocefisso, viene rappresentato un corpo disteso su un letto, crivellato di colpi di arma da fuoco.
Questo motivo viene ripreso anche in un dipinto del 1963 riconducibile nonostante il titolo – Study for portrait on folding bed – al genere dell’autoritratto per la notevole somiglianza del soggetto raffigurato con il viso che compare in un autoritratto dello stesso anno.
Nel terzo pannello del trittico del 1962 è riconoscibile la carcassa di un animale appesa e macellata, a rappresentare il corpo di Gesù crocefisso, dalla quale sta per fuoriuscire una testa, che è sovrapponibile alla Head urlante del ’48: ovvero, ancora, un autoritratto cifrato.
La figura del crocefisso riconquista la posizione centrale nel trittico del 1965 e al tempo stesso viene a trovarsi in una relazione ancora più stretta e palese con l’artista: se nel trittico del 1962 la testa è contenuta all’interno della carcassa, in quello del 1965 la vediamo invece fuoriuscita dall’ammasso informe di carne, da cui sembra essere stata appena partorita: infatti è ancora legata ad esso mediante una sorta di cordone ombelicale.
Si tratta di una testa sofferente, ferita: nella parte superiore è fasciata da bende, ma il volto non è più urlante, è quasi sereno, in stato di quiete. E in questo viso, dal confronto con altri autoritratti, è possibile riconoscere i tratti dell’artista.
Un dipinto del 1974 risulta morfologicamente assimilabile agli altri di questa serie: è intitolato genericamente Sleeping Figure, ma, in base a questi confronti, si lascia interpretare come un ulteriore autoritratto.
Oltre ai confronti è la stessa testimonianza dell’autore a supportare l’ipotesi che la testa della Crucifixion del 1965 nasconda un autoritratto:
D.S. Quando dipingi una Crocefissione, affronti il problema in modo radicalmente diverso dagli altri temi?
F.B. Direi di sì. Perché si lavora sui propri sentimenti e le proprie sensazioni. È quasi un autoritratto. Si toccano sentimenti molto intimi (Bacon [1975] 1991).
Con Three Studies for a Crucifixion del ’62 sembra chiudersi il periodo nel quale per Bacon la rappresentazione di sé era possibile prevalentemente attraverso la simbiosi con elementi animali; con l’opera del ’65, invece, si può considerare aperta una nuova stagione in cui al volto vengono restituite caratteristiche più propriamente umane.
A partire da questo momento è possibile, per l’artista, concentrare l’attenzione sul proprio volto realizzando una serie di autoritratti: nel corso del periodo 1967-1969 egli esegue numerosi studi tra i quali fa la sua comparsa la forma fino ad allora inedita del primo piano ravvicinato.
L’autoritratto che conclude il periodo di conquista della definizione della propria identità e che si pone come immagine ufficiale è quello del 1970, realizzato in concomitanza con il progetto per una importante mostra retrospettiva, organizzata a Parigi, al Grand Palais, che sanciva e celebrava l’affermazione dell’artista a livello europeo e internazionale.
Bacon si ritrae di tre quarti, a figura intera seduto su una sedia, con una posa molto disinvolta: il collo del soprabito rialzato, le mani sprofondate nella tasche, le gambe accavallate.
Alle spalle si staglia una tela completamente rosa, che fa da sfondo e contiene quasi l’intera figura, eccettuata la parte inferiore della gamba che poggia per terra: se non fosse per questo dettaglio, grazie al quale possiamo leggere chiaramente il soggetto come una figura seduta davanti a una tela vuota, si potrebbe pensare che l’artista intendesse rappresentarsi come in un quadro, su una tela posta a sua volta all’interno del quadro osservato dallo spettatore.
Nell’autoritratto del ’70 il corpo della figura è rappresentato in maniera realistica, senza alcuna deformazione o contorsione; il volto, invece, è raffigurato secondo l’impronta che Bacon imprime a tutti i volti umani: quello stravolgimento dei lineamenti che è la sua cifra caratteristica.
Il dipinto afferma la personalità artistica di Bacon e forse il particolare del colore rosa della tela cela un indizio dell’identità omosessuale; ma per questo autore un ritratto deve rappresentare innanzitutto “un volto, e insieme le pulsioni, gli istinti, i sogni che quel volto hanno modellato” (Bacon [1971] 2000).
L’artista esprime dunque in questa tela il suo sentimento nei confronti della vita: pittore e tela sono inseriti in uno spazio astratto e buio, lo sguardo dell’unico occhio visibile è assorto e triste, fisso nella contemplazione del vuoto nero che si apre sotto i suoi piedi. Bacon non si lascia accecare dagli onori che gli vengono tributati, ma resta consapevole, come ha dichiarato molte volte nelle interviste, della vanità dell’arte e della vita, del fatto che l’unica certezza è la verità della morte.
È in questo motivo che risiede il punto cruciale del modo di rappresentare l’uomo da parte di Bacon:
Ciò che mi interessa [...] è cogliere nell’aspetto esteriore degli individui la morte che lavora dentro di loro. Ogni secondo, un po’ della loro vita se ne va. Questo è, in sé, un fatto... Quel che ci distingue dagli animali è, forse, la coscienza della morte (Bacon [1971] 2000).
Ciò appare evidente soprattutto negli autoritratti successivi al 1970 e in particolare dopo la morte del suo compagno che fu anche il modello di molti dei dipinti degli anni Sessanta, George Dyer, suicidatosi due giorni prima dell’esposizione al Grand Palais.
Se negli anni precedenti l’autoritratto sembra essere prevalentemente un mezzo attraverso il quale l’artista indaga su se stesso per dare forma alla propria identità, dopo questa perdita, esso diventa uno dei principali soggetti dell’artista, con una evidente curva di crescita nel periodo 1971-1973: ciò che guida la mano dell’artista ora è la volontà di catturare la materia sulla tela nell’atto stesso della sua trasformazione, nella specificità del suo movimento che è corsa verso il disfacimento e la dissoluzione nel nulla.
Il sentimento della caducità, la malinconia che accompagna l’artista e la dichiarata ossessione che lo spinge a rappresentare questo doloroso sentimento di sé e del mondo si evidenzia inequivocabilmente negli autoritratti successivi al 1970: il soggetto si aggiorna, così, in una versione del tema cinquecentesco e barocco della Vanitas – il volto in disfacimento al posto del teschio, l’orologio come moderno sostituto della clessidra.
Bibliografia
- Bacon [1971] 2000
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Francis Bacon and the Tradition of Art, catalogo della mostra (Vienna, Kunsthistorisches Museum 15 ottobre 2003-18 gennaio 2004), a cura di W. Seipel, B. Steffen, C. Vitali, Milano 2003. - Falcone [1998] 2000
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S. Schama, Gli occhi di Rembrandt, [1999] tr. it. di P. Mazzarelli, D. Aragno, L. Vanni, Milano 2000. - Sinclair
A. Sinclair, Francis Bacon. His life and Violent Times, London 1993.
English abstract
This contribution focuses on Francis Bacon’s Self-portraits. The works we are considering here are part of the Head series: Head I of 1948 and Head II of 1949. To these are added two triptychs made in the sixties: Three Studies for a Crucifixion of 1962 and Crucifixion of 1965. In these paintings the artist’s inner dramas and psychological blocks take a first form, which he, thanks to pictorial expression, is able to rework and dissolve in the completed form of self-representation.
keywords | Francis Bacon; Self-portrait.
Per citare questo articolo: N. Mazzon, Identità e autoritratto: il caso Francis Bacon, “La Rivista di Engramma” n.38, dicembre 2004, pp. 7-20 | PDF