Quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui.
Post res perditas: l’espressione coniata da Niccolò – per sintetizzare la doppia catastrofica svolta, all’intreccio tra la caduta della repubblica di Soderini e la conseguente espulsione del Segretario dal suo ruolo e da Firenze – suona con fragore quasi onomatopeico, a dire che lo schianto rischiò di travolgerlo, scompaginando la sua integrità sia intellettuale che fisica, ferendo il suo stesso corpo politico e minando alla radice, con l’attentato alla “realtà effettuale” della sua repubblica e del suo mondo, la sua stessa vita.
In un celebre passaggio della lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, Machiavelli scrive:
Entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
In queste parole non si avverte la semplice curiosità del letterato che compulsa i classici per trovare conforto alla solitudine, ma si fa sentire la vera e propria fame di “humanità” dell’intellettuale orfano della politica, che anche con gli Antichi ragiona sulle istanze della vita activa. “Noia”, “affanno”, “vergogna”, “sbigottimento”: vari modi per dire la sofferenza psichica e fisica conseguente all’esclusione dalla città, alla traumatica deprivazione della vita pubblica. Quella partecipazione dalla quale Machiavelli, nella condizione di confinato nella casa sperduta in Val di Pesa, si sente dolorosamente tagliato fuori.
Ma Niccolò non si rannicchia nella postura lagnosa dello sconfitto, magari compilando raccolte di memorie rancorose. Reagisce, invece, scrivendo pagine che impegnano la sua intera personalità in una tensione esistenziale che traspare anche dall’andatura e dal ritmo della scrittura. L’ingaggio della lotta travalica la dimensione filosofica o letteraria. Machiavelli proprio nel momento dell’esilio dalla città vuole verificare – e quindi far diventare vero – il progetto di “vivere libero”, ovvero di vivere politico, che ha informato la sua vita fino a quel momento e che ha subito una così grave battuta di arresto.
Nella condizione personale della sua propria, tormentata, vicenda biografica Machiavelli si imbatte in una situazione di scacco: ma forse è proprio questa la “congiuntura”, il primo presentarsi di uno scenario di sfida che, per trarsi di impaccio, esige una risposta. Niccolò sperimenta su se stesso, in corpore vili, il dispositivo analitico che applicherà alle vicende cruciali della storia, antica e contemporanea, considerate una per una nella loro irripetibile unicità: costellazioni di Virtù e Fortuna, momenti del kairos, culminazioni del tempo come Occasione. Le congiunture della storia non si lasciano cogliere se le facoltà estetiche e ricettive non si sono esercitate e affinate: se il travaglio dell’esperienza individuale non ha già messo alla prova la tenuta e la capacità di resistenza del soggetto che quelle congiunture analizza per innescare la sua propria azione. Il ‘lavoro dell’autore su se stesso’ è rivolto a percepire nella stessa realtà del proprio presente le linee di frattura che va scoprendo e teorizzando nella sua, interessata, lettura e riscrittura della storia: in quei classici che convoca per sfamarsi, senza vergogna di “domandarli della ragione delle loro azioni”, ma anche senza vergogna della propria fame di “parlare con loro”. Machiavelli usa i classici come testo a fronte del dolore vivo della propria condizione di impotenza, e trova così l’esempio delle “mutazioni” che gli interessano nella storia, passata e presente: il contatto con gli Antichi non lo distoglie dall’urgenza del presente, anzi la filologia diventa la leva di un pensiero della trasformazione che, con capacità inquisitoria, interroga e tasta in aderenza il profilo dell’esistente per far trapelare zone critiche e luoghi scabrosi, punti deboli e linee di fuga.
Per capire il tragitto di Niccolò, avverte Delio Cantimori, si dovrà Acheronta movere: “discendere nei meandri della psicologia e della biografia interiore – il che è estremamente rischioso” (Cantimori [1937] 1992, 2, 489, n. 10). Lo studioso sembra ammonirci a non intraprendere la via pericolosa dello scandaglio in profondità, ad arrestarci alle soglie di un territorio così nebuloso. Forse studiare Machiavelli significa anche seguirlo nel metodo, nel suo percorso “periculoso [...] a cercare acque e terre incognite”, accettando il rischio di perdersi e di non arrivare da nessuna parte.
Con questa attitudine esistenzialmente e intellettualmente “pericolosa”, Machiavelli si impegna a “trovare modi nuovi e ordini nuovi” e su questi cerca il dialogo con gli Antichi, perché “i savi de’ nostri giorni” sono sacerdoti della vecchia Sapienza che si risolve in speculazione disarmata, puro rispecchiamento senza incrementi tra Idee fisse e Realtà congelata, che nulla può conoscere dei sottili rapporti di reciproco guadagno che si innervano tra azione e pensiero, tra intenzione alta e Occasione, tra decisione appropriata e irripetibile congegnarsi di ogni congiuntura.
Il dialogo di Machiavelli con gli Antichi inaugura un pensiero dell’inizio, che apre un varco di trasformazione, rappresenta la nascita di un nuovo genere espressivo, dotato di una forma diversa e distinta da quella speculativo-filosofica. Lingua e pensiero di Machiavelli sono distanti dal clima dell’erudizione umanistica, di quella cultura impolitica che, come notava Giovanni Gentile:
Crea il letterato italiano, l’uomo dell’erudizione, della coltura, della raffinatezza intellettuale, ma senza una fede, senza un contenuto morale, senza un orientamento nel mondo. E letterati di questo genere saranno anche, la maggior parte, i filosofi, nei quali molto raramente la filosofia sarà fede e vita piena dello spirito più che dotta suppellettile della mente e virtuosità dialettica e formale […], padronanza della forma che, staccata dallo spirito che la produsse, diventa in mano all’umanista strumento atto a trattare indifferentemente qualunque soggetto, interessi di un qualunque Stato che meglio compensi l’umanista […]. Il letterato sarà una piaga della cultura italiana (Gentile [1935] 1969, 158-160).
Machiavelli incarna uno scarto decisivo rispetto al letterato di corte, quello sì al servizio incondizionato del Principe – qualsiasi principe tenga il letterato-filosofo a servizio e che – come dice Michel Foucault – gli offra un posto “che lo onora ma lo disarma”.
Risalire alla fonte antica proprio per mettersi a distanza di sicurezza dal sapere umanistico, all’inizio del XVI secolo ormai privo di gittata politica e ingessato in una postura statica, comunque ‘ineffettuale’: l’andamento sempre paradossale del procedimento di Machiavelli consente l’apertura di una prospettiva inedita.
Contro la figura dell’uomo di cultura, retoricamente ribelle ma di fatto acriticamente filogovernativo, Machiavelli rappresenta la rinascita dell’intellettuale che si espone consapevolmente al rischio, sull’esempio dei filosofi greci dei quali Luciano Canfora ha investigato il “mestiere pericoloso”. Machiavelli paga caro il suo impegno repubblicano (“tutto quello che io in tanti anni, e con tanti miei disagi e pericoli ho cognosciuto ed inteso”), tanto in termini di tortura e esilio, quanto di damnatio plurisecolare delle sue opere. Ancora, quel che conta è l’intensità delle parole di Machiavelli che risulta dalla convergenza di pensiero, vita e azione: la consapevolezza che una teoria non è mai vera se non è testimoniata nell’esistenza e ancor più che la conoscenza non può essere raggiunta se non prendendo partito, aprendo una prospettiva conflittuale. Rinunciando alla pretesa di uno sguardo panoptico, che divina dall’alto con scansioni millenaristiche, distaccato dalla passione e al di sopra della mischia, l’intellettuale del tipo incarnato da Machiavelli avanza invece nella conoscenza per scintilla di attrito, nell’urto della contesa. Nella scabrosità della contingenza e nel tempo contratto dell’immediatezza.
Contro “i Savi de’ nostri tempi”, contro la presunzione filosofica che paralizza l’azione e proprio per questo è anche incapace di espandere e mettere in movimento la conoscenza, Machiavelli cerca gli attrezzi di un pensiero davvero politico, quello che nasce in una situazione storica concreta, senza riconoscersi in qualche invalidante genealogia filosofica, ma immediatamente dentro il divenire dell’azione. Con lui, secondo Hannah Arendt, si inaugura una serie, quella degli scrittori politici, e a loro credito:
Deve essere conteggiata un’attitudine singolare ad accogliere l’avvenimento, una facoltà di pensarlo, cioè di percepire ciò che esso contiene di eventualmente nuovo, senza precedente. Percezione che obbliga a riprendere di nuovo il lavoro di pensare. Questa possibile disponibilità degli scrittori politici è ciò che li distinguerebbe fra l’altro dai filosofi [...] che avrebbero una propensione faziosa a sottrarsi allo choc dell’avvenimento, ‘annegandolo’ in una costrizione che avrebbe prima di tutto l’effetto di smorzarne la forza disgregante (Abensour [2004] 2010, 17-18).
D’altronde, in contrappunto al tema del dolore fisico da deprivazione politica, è la stessa Arendt che teorizza, come cardine del proprio pensiero, la “pubblica felicità”, la dimensione di realizzazione personale veicolata dalla politica intesa come stile di vita, esercizio pieno della vita activa – con discorsi e azioni concertate – nel perimetro pubblico della città, l’unico ambiente congeniale all’uomo, “perché l’huomo è il più nobile di tutti gli altri animali se vorrà usare la virtù alla quale egli è naturalmente inclinato et il vivere politicamente” (così Antonio Brucioli, sodale di Machiavelli, recupera da Aristotele la lezione sulla ‘natura’ politica dell’uomo, nei suoi Dialogi della morale philosophia).
Per Machiavelli, e soprattutto per noi dopo Machiavelli, se vogliamo, come dice Louis Althusser, “pensare con Machiavelli”, non si tratta di riconoscere un movimento di trasmissione, magari di segno ideologico inverso ma con il quale si passerebbe il testimone da un autore all’altro con la stessa spensierata scorrevolezza della sapienza canonica. Se così fosse, lo scheletro strutturale del meccanismo di perpetuazione di un sapere sempre uguale a se stesso troverebbe comunque conferma e il rovesciamento dei contenuti non scalfirebbe l’egemonia formale dell’impianto tradizionale, riproponendo l’architettura gerarchica e il sistema chiuso di una (opposta e uguale) ortodossia, con il necessario corredo funzionale di eresie: un ironico trionfo della teologia politica in munere alieno. È il destino delle troppe rivoluzioni tradite e delle costituzioni controriformate o neutralizzate per imbalsamazione: quando la promessa inaugurale, esaurita la prima spinta, non si avvede della riemersione di ataviche pulsioni conservatrici all’interno del nuovo ordine, non le contrasta e implode in un circolo vizioso, già iscritto nel difetto del genoma, che non è programmaticamente predisposto a provocare e accogliere future irruzioni del novum e si preclude gli innesti e i meticciamenti con i quali la res publica potrebbe fiorire in un nuovo inizio.
A volere che una setta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio. Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s’egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io parlo de’ corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso e’ principii suoi. Perché tutti e’ principi delle sètte, e delle republiche e de’ regni, conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione ed il primo augumento loro (Discorsi III, 1).
In Machiavelli, la consapevolezza del problema è rotonda: Niccolò raccomanda di ricapitolare i principi, e quindi richiamare nel presente l’effervescenza del momento fondativo, smentire l’irrimediabilità dello Stato, ricomporre l’infranto – per richiamare Manfredo Tafuri – in una prospettiva spiazzante.
Con questa intenzione anche la storia del pensiero conosce un movimento improvviso e nel mutamento selettivo si configura non una tradizione rovesciata ma il contrario di una tradizione, di un canone uniformante, culturalmente dispotico e politicamente neutralizzante. Emerge piuttosto un incrocio, dove il succedersi di rotture creative mantiene sempre problematico e spigoloso l’incontro persino tra gli autori convocati, di volta in volta e ogni volta in maniera diversa, dal conatus improvviso di uno scrittore emergente, dal disporsi di un’imprevista “congiuntura” che si stringe in un nodo politico e intellettuale.
In questo senso anche le frequentazioni di Machiavelli con i suoi autori di riferimento segnano, più che un’amicizia, una intermittente congiura stellare. Come noto, Niccolò gioca i suoi autori l’uno contro l’altro, gli storici greci e latini, Dionigi, Tucidide, Livio, Polibio, e non solo. Da ognuno prende qualcosa in un montaggio sorprendente, stando attento a non lasciarsi identificare con nessuno ma usando frammenti di tutti in un conflitto culturale impegnato su molti fronti. Persino la scelta di stare sulla falsariga di Livio è indicativa del modo di procedere di Machiavelli. Livio è uno storico non distaccato ma appassionato, nostalgico del mito della concordia civile e della Roma repubblicana – Tacito dice che Augusto lo chiamava scherzosamente “il mio Pompeiano” (Annales, IV, 34) – ma del tutto funzionale, forse suo malgrado, al disegno egemonico del Princeps, impegnato sotto copertura – nel momento stesso in cui si proclamava, con grande finezza ideologica, restauratore della res publica – a prosciugare la vigenza residua delle istituzioni repubblicane.
La prospettiva machiavelliana non scansa né esorcizza l’evento, ma esalta, nella politica e nel pensiero che la attraversa, il momento espansivo, la “decisione che qualcosa avvenga”. Irrompe una concezione travolgente, che si muove con il passo rapido di un’intenzione in aperto distacco dalle inveterate abitudini conservatrici e dalle cadenze ‘pastorali’ del ‘Buongoverno’. Con Machiavelli la Politica fronteggia il Politico. Machiavelli inventa dai classici il rinascimento dell’idea di un “repubblicanesimo tumultuario”: è questa la sua risposta alle considerazioni erudite e astratte sui sistemi politici del passato e del presente. L’apologia del “vivere libero” mina la ferrea legge dell’oligarchia che irride qualsiasi insorgenza di partecipazione attiva della cittadinanza alla vita pubblica (il “governo stretto” opposto al “governo largo”); “i modi e ordini nuovi” smontano la cattedrale dei saperi – tanto esoterici nelle intenzioni quanto stucchevolmente proverbiali negli effetti – preposti a interdire alla funzione intellettuale l’impegno appassionato, la convergenza focale di pensiero, azioni e stile di vita
Contro ogni ragionamento politologico ante litteram, che finisce inevitabilmente per sancire regolarità immutabili e che neutralizza la possibilità stessa di una rottura rivoluzionaria, Machiavelli enfatizza la portata del momento aurorale e orienta così la sua ricerca sulle condizioni dell’atto fondativo, sul nuovo inizio da istituire: un “principiare” che, dopo la parabola del Valentino, deve, pena la smentita, introdurre da un altrove storico le perduranti ragioni a conforto della realizzabilità dell’impresa. In altre parole deve evocare dal passato, con efficacia predittiva, le immagini mobilitanti, selezionando quelle in grado di tenere aperto il varco trasformativo. Una breccia istantanea, nella quale troverà – o non troverà – modo di condensarsi, in figura di protagonista adeguato all’altezza dei tempi, una soggettività ancora completamente dispersa nella complessa e frammentata realtà della società italiana. La costruzione del modello esige la concretezza della materia storica e l’esempio di fondazione non può che essere quello romano.
Alla ricerca di risorse per la partita nel presente, l’intenzione di Machiavelli nell’usare l’esempio romano è dettato più dall’ “impeto” che dal “respetto” e mantiene un andamento consapevolmente ossimorico nella convinzione che il repertorio classico è un deposito di materiali dal quale si può estrarre l’inaudito e che quindi “occorre saccheggiare gli archivi dell’antica prudenza” (Arendt [1963] 1999, 238). Il riferimento a Roma consente a Machiavelli di vestire di immagini storiche il suo progetto radicalmente innovativo, di ‘inventare una tradizione’ offrendo una lettura in sequenza delle mutazioni politiche auspicate (“perché sempre una mutazione lascia lo addentellato per la edificazione dell’altra”).
‘L’ordine del discorso’ di Machiavelli si costruisce quindi sull’ordito dei fatti storici e sulla trama dell’innovazione senza precedenti, e la tessitura viene a dispiegarsi nell’incontro puntuale e incessante dei due diversi filati. La fragilità costitutiva del novum trova così protezione nel riferimento continuo alla solidità memoriale degli eventi del passato, che restituiscono allo sguardo straniante dell’autore, e a quello straniato dei suoi “leggenti”, sfaccettature inconsuete e impreviste, oppure obliate dalla vulgata dominante. Il risultato è che la tracciatura della provenienza dei singoli elementi si fa volutamente ardua e l’efficacia dell’intenzione sovversiva aumenta, custodita nell’intreccio quasi inestricabile con l’auctoritas degli scrittori antichi: sotto la copertura di Livio, Machiavelli può avanzare affermazioni che Livio, in quei termini, non avrebbe mai formulato.
‘L’ordine del procedere’ il metodo e il ritmo della narrazione, non modifica solo la percezione dei testi classici ma introduce modificazioni nel racconto stesso di Machiavelli, produce effetti di crescita e mutamenti in corso d’opera:
Non è un caso se quell’introduzione dei soldati come terzo umore compare alquanto tardi nel testo, nel capitolo 19, come una delle maggiori tracce dell’autogenerazione del testo del Principe, ossia della capacità dell’autore di far nascere dal testo stesso alcuni momenti dell’argomentazione senza che essi siano stati preventivati e pensati nello schema iniziale del lavoro (Fournel 2015, 30, n. 13).
Gli scatti della scrittura sono conseguenza di un pensiero aperto, che si registra graficamente e senza mediazioni speculative sulla congiuntura attuale e che si proibisce la chiusura nell’astrazione utopica. Senza perdere nulla della potenza evocativa, la strategia si risolve in tattica, in presa tattile, nel senso che il pensiero tocca e tasta la realtà per introdurre mutazione, ed è pronto a modificare anche il linguaggio perché le parole siano attrezzate ad afferrare l’occasione. Anche l’immaginazione, declinata come presentimento e preparazione dei varchi trasformativi, è pienamente allertata. Nella logica del paradossale ‘realismo’ di Machiavelli, si deve mirare alto, bisogna:
[...] fare come gli arcieri prudenti, ai quali parendo il luogo, dove disegnano ferire, troppo lontano, e cognoscendo fino a quanto arriva la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta, che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro forza o freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro (Principe, VI).
Realista dunque Machiavelli, perché tiene in conto il punto di partenza e l’obiettivo: realista di un realismo che non implica affatto un pregiudizio sull’immutabilità dell’esistente. La sua lucidità consiste anche nella consapevolezza di dover superare il normale, “naturale” sentimento di rassegnazione e cinismo:
Io so che a questa mia opinione è contrario uno naturale difetto degl’huomini: […] non credere che possa essere quel che non è stato (lettera a Francesco Vettori del 10 agosto 1513).
Ma proprio per vincere le resistenze al nuovo, ‘l’intenzione alta’ non può peccare d’ingenuità: deve invece dotarsi di un dispositivo persuasivo sapientemente organizzato e scovare tra le pieghe del passato i precedenti del giudizio inaudito. In attrito con “l’opinione dei molti”, la presa di posizione di Machiavelli deve trovare una copertura nell’autorità rassicurante di una tradizione, così da attenuare l’effetto di scandalo.
Del repertorio classico Machiavelli imita agonisticamente la perfezione ma l’obiettivo non è l’appiattimento sul modello: Machiavelli usa i classici proprio per sfuggire alla presa del passato, per scalzare la tirannia di una tradizione troppo ingombrante, per inaugurare, a quella stessa altezza, il regno (la repubblica?) della libertà. Per liberare lo sguardo sul presente, sciogliere il ritmo dell’azione urgente dal calcare di depositi sedimentati, occorre aggredire il passato alle spalle:
La sola via d’uscita sembra essere quella alle nostre spalle: procedere a ritroso, nell’esperienza e nella storia, per affrontare il passato al suo apparire. Assalirlo nel suo cuore, nel suo rapporto con l’immediatezza, giudicare il valore di quella accumulazione (Colli 1982, 272).
L’evocazione storica di Niccolò è selettiva e l’insistenza apologetica sul carattere tumultuario della società romana rappresenta l’emersione più appariscente del novum politico che viene annunciato (sul tumulto come principio della vita della res publica v. fra gli altri: De Lucchese 2004, Pedullà 2011). Non a caso il tema sovversivo del ‘tumulto’ come innesco di una positiva dinamica storica e politica, contrapposto provocatoriamente al modello della concordia ricercato nell’esempio antico, è oggetto di immediata polemica già all’atto della sua formulazione, in primis da parte dell’amico Guicciardini, le cui obiezioni sono un’autentica cartina al tornasole delle reazioni della communis opinio.
L’intransigente concezione conflittuale sposta Machiavelli fuori dall’alveo della coeva cultura umanistica fiorentina, ancora bloccata sul mito organicista della concordia civile, esemplato su Menenio Agrippa: nel testo dei Discorsi l’apologo è significativamente eluso ed è certamente un “silenzio non casuale” (Pedullà 2011, 205-206). La facies costruttiva della repubblica fondata sul tumulto è un modello ordinamentale nel quale, fin nella sigla ‘Senatus PopulusQue Romanus’, il conflitto è prassi costituzionale, che garantisce dinamismo e rinnovamento nella vita della Città. Senato e Popolo: la storia antica va interrogata a partire dalle sue formule, per farci scoprire che la congiunzione che unisce i due soggetti contemporaneamente situa una disgiunzione istituzionalizzata che genera libertà e potenza.
Il passo dei Discorsi che esalta la funzione benefica dei tumulti repubblicani costituisce l’apice della rottura politica di Machiavelli con l’ideologia tradizionale e merita quindi di essere ripreso per intero:
1.4 Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de’ Tarquinii alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica […]. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose, o e’ non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come ei s’ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. […] E se i tumulti furano cagione della creazione de’ Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana.
Forzando Livio, esaltando i tumulti e i Tribuni della Plebe quali garanzie della libertà pubblica, Machiavelli poteva prendere posizione in maniera pedagogicamente efficace e allusiva nei confronti degli esiti politici della cultura del suo tempo (sul punto pagine importanti in Raimondi 2013). Gli esponenti dell’Umanesimo quattrocentesco si esaltavano liricamente per Bruto e la libertà romana ma di fatto non concepivano di assumere una posizione critica nei confronti della mentalità politicamente asfittica e dell’esclusivismo sociale della classe agiata, la quale si era preclusa la possibilità di essere davvero una classe dirigente, avviando se stessa e l’Italia verso un inevitabile declino.
La radicale novità del pensiero di Machiavelli comporta la rottura con l’opinione pressoché unanime dei “Savi” e la conseguente introduzione di un punto di vista consapevolmente soggettivo e di parte sulla storia, in opposizione a una forma di sapere che si considera oggettivamente indiscutibile, a inveterati schemi di comportamento assunti come normali e naturali. La schiacciante e sfavorevole asimmetria di questi rapporti di forza imponeva di trovare una sponda accogliente, sia per consolidare la testa di ponte, la differenza intellettuale assoluta che stava emergendo, sia – prima ancora – per certificare che quella di Niccolò non fosse una reazione emotiva dell’individuo mentalmente oppresso dalle sconfitte precedenti, un’elaborazione del lutto, un delirio personale e privato insorto nella ‘solitudine di Machiavelli’.
Persino l’amico Francesco Vettori aveva corrisposto con l’eloquente freddezza del silenzio, condito da formule di cortesia, all’invio del manoscritto del Principe, redatto come compito urgente del momento. Un’urgenza che evidentemente non gli riusciva di comunicare, non almeno a uomini della vecchia generazione, formati e deformati da quella cultura di cui avvertiva i limiti incapacitanti.
Per salvare dal naufragio il senso e le ragioni della sua scrittura, per avere il riconoscimento della sua Virtù, doveva capitare a Niccolò un incontro fortunato. Un mutamento di luogo, dall’eremo di Sant’Andrea in Percussina agli Orti Oricellari, accompagna il passaggio di stato d’animo di Machiavelli dalla riflessione tortile in interiore homine alla ritrovata volontà di dispiegamento e di condivisione del progetto politico, che, per definizione, non viene neppure a esistenza se non trova forma espressiva nel dialogo con un ambiente complice.
Il giardino degli Orti Oricellari, voluto da Bernardo Rucellai accanto al palazzo di famiglia di quella importante casata fiorentina, denunciava fin dal nome, declinato latinamente, la sua funzione di luogo di riflessione e raccolta dell’élite della città (sulla genesi dello spazio e l’ambiente architettonico e artistico degli Orti Oricellari, v. Comanducci 1996). Era stato dapprima il centro dell’opposizione ottimatizia e antirepubblicana ma, dopo la morte di Bernardo e la caduta di Soderini, stava conoscendo una seconda stagione di intensa attività grazie all’impegno del nipote Cosimino Rucellai, nel segno della continuità del rapporto con l’eredità classica e però con una diversa e variegata composizione, quanto a tendenze ideologiche, della schiera dei partecipanti. Punto obbligato d’incontro per la vita culturale cittadina, offrì a Machiavelli “il terreno fertile per esercitare il proprio influsso e mitigare pertanto il dolore per la sua forzata inattività politica” (Dotti 2003, 306). All’interno del frastagliato ambiente degli Orti, si era aggregata una più ristretta cerchia, un sodalizio di giovani predisposto a condividere la radicalità dell’impegno militante e l’impaziente attesa dell’azione. Per inciso, alcuni di loro si spingeranno fino alla partecipazione nella fallita congiura repubblicana del 1522. Gran parte dei commentatori, tutto il fronte degli impegnati a esorcizzare Machiavelli dipingendolo come un conservatore pessimista, si sono sentiti in dovere di versare fiumi d’inchiostro per escludere che il quondam Segretario potesse mai aver ispirato simili comportamenti sovversivi. Ma, quali che siano stati i suoi giudizi tecnici sull’ “onorata impresa” dei congiurati, l’attiguità e la vicinanza ambientale sono innegabili e testimoniate anche nominalmente dalle dediche di vari scritti machiavelliani e da quel che scrive Jacopo Nardi:
Per il che detto Niccolò era amato grandemente da loro, e anche per cortesia sovvenuto, come seppi io, di qualche emolumento: e della sua conversazione si dilettavano maravigliosamente, tenendo in prezzo grandissimo tutte l’opere sue, in tanto che de’ pensamenti e azioni di questi giovani anche Niccolò non fu senza imputazione (Jacopo Nardi, Istorie della città di Firenze II, 7).
Ma quel che conta è che agli Orti Machiavelli ha la sua scuola, e nel dialogo con i giovani trova parole nuove e sboccia un altro linguaggio. Il suo stile compatto si apre in un atteggiamento di reciprocità dialettica, il suo insegnamento fa testo, si fa – letteralmente – testo:
Non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all’altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per memedesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto [corsivo mio]. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch’io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi” (Discorsi, Dedica).
I Discorsi sono dialogicamente indirizzati e l’autore non manca nel seguito di sottolineare che la dedica, questa volta, è sinceramente sentita – lo sarà anche il commosso ricordo di Cosimo Rucellai, scomparso poco più che ventenne, nell’apertura dell’Arte della Guerra – e non opportunisticamente rivolta al potente di turno – come invece attestato, nel caso del Principe, dalla elaborata ricerca del topos retorico adatto, come pure, persino, del dedicatario.
L’incontro con i “letteratissimi giovani” (così Benedetto Varchi) raccolti presso gli Orti Oricellari rappresenta un’occasione, di cui non possiamo misurare tutta la portata, forse salvifica per la scrittura dell’opera di Machiavelli. E non solo sul piano dei contenuti politici e culturali; a riprova che si trattava di una cerchia reattiva ed esigente (“poeti e muse” come si chiamavano fra loro con scherzosa complicità), i giovani interlocutori intervenivano, molto poco reverenzialmente, anche per affinare lo stile dello scrittore in vista della pubblicazione dei Discorsi. Questo apprendiamo da una lettera di Filippo de’ Nerli a Niccolò datata 1 agosto 1520:
Co’ poeti et con le muse si parlò della lingua molto a lungho: a questo s’è pensato, per rassettarvi il gusto come voi tornate, di darvi qualche buono preceptore.
Muse sediziose, riprendendo il titolo avvincente di una recente ricerca sull’Eros politico che ispirava la produzione poetica della cerchia di Cosimo Rucellai, la cui eroina amorosa, Flora, sarebbe anche nel nome allegoria della Repubblica fiorentina (Chiodo, Sodano 2012), vero oggetto del desiderio, condiviso da tutti gli amici nel linguaggio cifrato di matrice petrarchesca e cavalcantiana. Preso in questo clima di primavera culturale e di fervore civile, Machiavelli poteva più agevolmente alzare la guardia contro l’offuscamento di giudizio provocato dalla vecchiaia, addebitando all’indurimento senile la caduta di tensione progettuale e la paralisi dell’azione. Una selva oscura dalla quale, ci lascia presagire, si è ritratto in grazia di un incontro che gli ha restituito energie nuove. Questo il Proemio al II libro dei Discorsi:
Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono […]. Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore, o il secolo presente o l’antico, in quelle cose dove per l’antichità e’ non ne ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de’ suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne’ vecchi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro avendo quelli e questi equalmente conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando gli uomini, quando gl’invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza, è necessario che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo [corsivi miei].
Traspare dal finale della dedica quella particolare forma di legame che è l’amicizia politica, lo sguardo d’intesa che autorizza la previsione di un mondo mutato. La sensazione che l’impresa comune abbia margini di realizzabilità si irradia a partire da un ambiente di incubazione, il clima di rigore e passione degli Orti Oricellari: solo in quel luogo d’incontro elettivo le parole nuove scandiscono la rinascita della politica senza suonare vane e inautentiche, solo in quella cornice di congiura intellettuale i Discorsi possono essere pronunciati e scritti. Ed è del tutto fugato il sospetto che le prime intuizioni abbiano contornato la maschera di un labile e osceno fantasma del desiderio, alimentato da una psiche sconfitta. Nella cerchia qualificata dei giovani amici – “cerchia ristretta [dove] vige una perfetta reciprocità data dal rapporto di libera discussione” (Frosini 2013, 93) – Machiavelli connette indizi e inizi di mutazioni, e scopre cosa può un corpo politico, come potrebbe dire Gilles Deleuze: si delinea un percorso di azioni praticabili, e anzi il pensiero è già quel percorso. E introduce, adesso, anche il discorso – i Discorsi.
Machiavelli e il suo ambiente, dunque. Una scuola particolare, con il maestro discreto che non rivela il suo ruolo ma lascia la scena a protagonisti antichi, mentre il copione è nuovissimo e scritto per un nuovo teatro, da un regista che ‘ama nascondersi’, con un pensiero che non si lascia catturare da nessuna rete, in nessuna griglia definitoria e classificatoria, ma è tanto prensile quanto mimetico.
Gli Antichi sono cattivi maestri per l’uso improprio che ne fa Machiavelli che li distorce e che, per convincerci, prende le sembianze – di Livio, di Tucidide, di chi vuole. Ci vorrà il genio del più grande teatrante per capirlo:
I can add colours to the chameleon,
Change shapes with Protheus for advantages,
And set the murtherous Machiavel to school.
William Shakespeare, The third part of Henry VI, III, 2, 165.
Ha ragione Shakespeare ad accostare il ‘micidiale Machiavelli’ al camaleonte e al multiforme Proteo; ma non è Machiavelli che deve andare a scuola da altri – neanche dal ‘principe’ di Inghilterra. Machiavelli, invece, è prezioso rabdomante, e cattivo maestro, per chi vuole trovare, nel vuoto della contingenza, un pensiero politico sorgivo. Machiavelli – per fortuna e per sua virtù – è cattivo maestro per noi.
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English abstract
From the specimen episodes of Roman history, Machiavelli selects and highlights the elements that had been overshadowed by common sense: for example, “tumulti”, the riots that shook the Roman Republican Age, have not endangered the res publica, as commonly believed, but caused blasts of new energies, fresh ways and outbursts of desire of freedom by the people, and just this fact has long prevented the involution of the Roman republican constitution in an oligarchic form. Machiavelli uses the classic writers, the historians in particular, in order to articulate a revolutionary breaking perspective in the society of his time. But Machiavelli could not have been fully able to process his Republican thought, more and more radical in the Discourses on the First Decade, if he had not met a group of young people (this is the main thesis of the essay). So he involved himself in a circle of educated and politically active men and women, which he met at the Orti Oricellari, the garden which at the time was an important cultural centre in Florence, as a magnificent set for meetings and debates reserved to social and cultural elites of the town. In this “school” even Classical authors are recruited by Machiavelli as teachers, to say what until then had been silent: all the cues that Machiavelli had read among the lines of their works and had succeeded in extracting from their voices. “Bad teachers” the Classics, indeed, but only in the prejudice of learned people, the “Savi of our time”, as Machiavelli himself called them ironically, who fear the teaching of a thought of freedom that eludes any classification. As only William Shakespeare will see, Machiavelli’s thought has the form of Proteus and cannot be captured.
keywords | Machiavelli; Orti Oricellari.
Per citare questo articolo / To cite this article: P. Nanni, “Cattivi maestri”: Machiavelli e i classici, “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 229-247. | PDF