Dal sacro al profano
Michele Trimarchi*
English abstract
Convegno Luminar 3. Internet e Umanesimo. Web_Musei | Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 29/30 gennaio 2004
Per interpretare la fenomenologia dei musei virtuali, nella prospettiva dell’economista, occorre fare un passo indietro e mettere a fuoco, per un momento, il settore dei musei reali cercando soprattutto di evidenziarne la natura complessa di prodotto. Possiamo usare una metafora piuttosto semplice: quando è stata inventata l’automobile è cambiato anche il nostro modo di camminare. È cambiata la percezione delle distanze: il mondo ha acquistato per tutti un’estensione molto ampia, potremmo dire indefinita nelle sue aperture e nella sua ricchezza.
Ora, il radicale ampliamento delle coordinate spazio-culturali dovuta alla diffusione dei mondi virtuali pone dei problemi ai musei reali, in generale in tutto il mondo e in particolare in Italia che sta vivendo un periodo buio, non possiamo ignorarlo. Nessun museo italiano esplicita la propria missione, o identifica in modo chiaro i propri obiettivi; nessun museo italiano pubblica un rapporto annuale, come avviene in molti paesi stranieri, e non solo in quelli più avanzati; nessun museo italiano è autonomo finanziariamente, basti pensare che per accettare una donazione il direttore di un museo deve farsi autorizzare dal sovrintendente.
Da qui bisogna partire per capire qual è il campo di battaglia, qual è l’ecosistema in cui ci muoviamo. Bisogna pensare a una ridefinizione del ruolo del museo, anche in virtù di una sua forte e intensa presenza ed estensione virtuale. L’attuale codice dei Beni Culturali è l’esito ultimo di uno smottamento che è partito da lontano, con Ronchey, e che è continuato con i successivi ministri, indipendentemente dalla coalizione politica di appartenenza. Questo codice di fatto prevede che i Beni Culturali siano normalmente alienabili, salvo alcune rigide eccezioni. Questa norma è frutto di un’inversione della prospettiva precedente, che, secondo logica, prevedeva che il bene culturale fosse essenzialmente inalienabile. Il nuovo codice non interviene, per esempio, in merito alle acquisizioni; disciplina soltanto i casi e le modalità secondo cui il museo pubblico può disfarsi dei propri beni i beni del paese e anche disfarsi di Beni Culturali.
È questa una temperie giuridica e culturale molto grave: c’è un problema ovvio di salvaguardia del patrimonio pubblico, che rende più pressante l’interrogativo dal quale siamo partiti: in che modo la diffusione del virtuale potrebbe e dovrebbe influenzare l’organizzazione dell’offerta culturale dei musei reali? È un problema che riguarda i contenuti dell’offerta museale, e la sua leggibilità per i suoi fruitori. Dobbiamo quindi domandarci verso chi sia indirizzata l’offerta museale, quali benefici possa creare, e in che modo, una volta identificato il ventaglio ampio ed eterogeneo dei destinatari e fruitori del museo, in che modo questa offerta museale vada rimessa in discussione, e conseguentemente ridisegnata.
Negli ultimi tempi abbiamo visto alcuni casi di allestimenti museali interessanti. In questo convegno si è fatto riferimento agli allestimenti di Carlo Scarpa; a Roma si segnala la Centrale Montemartini, in cui l’accostamento di macchine, titanici motori di ghisa, a sculture antiche provenienti dai Musei Capitolini produce un effetto molto suggestivo. Ma l’effetto è soprattutto estetico, il che va benissimo; ma non è evidenziato il motivo museologico per cui le statue romane debbano essere accostate, messe in dialogo con le macchine in ghisa. Non è chiaro, cioè, il messaggio museologico e museografico.
Sarebbe opportuno che i musei incominciassero a ragionare in termini diversi. Attualmente il museo italiano è di norma “impaginato” in un modo convenzionale di stampo ottocentesco: l’unica novità, già prevista dalla legge Ronchey, è che alla fine dell’esposizione ci sono uno o due ambienti che contengono i servizi aggiuntivi. Le modalità commerciali ignorano completamente le modalità espositive, lo stile e la ratio di una mostra o di un allestimento; ma, cosa ancor più grave, viceversa, la collezione ignora il fatto che ci siano i servizi aggiuntivi, con il risultato che viene proposto commercialmente un prodotto del tutto diverso e alieno.
In questo simposio sembra che gli umanisti diano assolutamente per scontato che cosa sia “il Bene Culturale”: ovviamente, la visione critico-estetica del patrimonio culturale è profondamente sviluppata; ciò che manca, però, è un’adeguata percezione delle questioni relative al bene culturale nella sua riproduzione, nella sua imitazione, nella sua estensione (si tratta comunque di forti valenze informative, capaci di erogare conoscenza nei confronti del fruitore, consentendogli una percezione chiara del valore dell’offerta culturale, in termini sia immateriali che materiali).
Nel momento di passaggio che stiamo attraversando sta cambiando lo statuto giuridico, ma anche la qualità comunicativa e il pregio economico del bene culturale: questo è il contributo che può dare al problema un economista che non sia interessato alla finanza della cultura, ma ai processi economici della cultura. Il problema è capire qual è la nuova percezione non solo del singolo bene culturale, ma anche del prodotto culturale nel suo complesso, inteso come somma di segnali, informazioni e simboli percepita selettivamente dal fruitore; il problema è capire in che modo questo nuovo prodotto incorpora tutte quelle che fino a ieri erano considerate le proprietà delle sue riproduzioni o estensioni.
Nel passato il bene culturale era oggetto di consumo rituale, figlio illegittimo di un atteggiamento un po’ tronfio della società del capitalismo manifatturiero: la valenza della cultura era essenzialmente legata alla possibilità, per la borghesia, di ricavarne un passato e un’identità in qualche misura nobile. La domanda che bisogna porsi è: quanto è rimasto di questa società? Cosa giustifica oggi la persistenza di questo uso rituale, quasi sacerdotale della cultura? Molto poco, a guardare gli acciacchi del capitalismo manifatturiero, il suo sostanziale fallimento come snodo del benessere diffuso. La cultura pare avviarsi invece verso inedite frontiere, in un paradigma che a me sembra molto più serio e ricco di stimoli sempre più autenticamente estetici e sempre meno rituali: stimoli che inducono a un dialogo con il suo contenuto.
Parlare di “prodotto culturale” può sembrare svilente: la parola prodotto infatti odora di venale, di commerciale. Pensiamo però agli altri “prodotti”: nessun produttore parla male del suo prodotto o ne svilisce il valore. Anzi: il produttore solitamente esalta il pregio e la qualità del suo prodotto per cercare di convincervi che è un bene non solo in quanto oggetto di un acquisto ma anche perché oggetto di un bisogno o di un desiderio. Non è dunque blasfemo considerare il Bene Culturale come prodotto, nel senso letterale che “è stato prodotto”: è l’esito di un empito creativo originale dalla forte valenza simbolica, è stato realizzato attraverso un processo artigianale o artistico, è oggetto specifico di percezioni e di apprezzamento e genera valore in capo ai propri fruitori.
Importante è capire, a questo punto, quali sono i soggetti che diventano destinatari naturali del prodotto culturale, e quali sono i valori che questi soggetti percepiscono. Oggi si fa un grande abuso di etichette enfatiche, basti pensare al “patrimonio dell’umanità”. Ma “l’umanità” non esiste in quanto tale: al mondo siamo sei miliardi e dire che una cosa è “patrimonio dell’umanità” non ci permette di identificare il responsabile, i destinatari, gli stakeholders. Mi fa capire soltanto che sul prodotto culturale un centro storico, una piazza, un monumento e così via è stata messa una bella etichetta, niente più che un fronzolo rococò (generato da equilibri politici e diplomatici); non mi dice assolutamente chi deve fare e che cosa per tutelare quel bene.
La cultura è un bene molto deperibile, molto delicato e molto fragile: non è un bene che dura in eterno o che si conserva per garanzia divina; rischia il degrado, il deperimento o l’oblio soprattutto se è tenuta in un assetto in cui la sua capacità dialogica non viene sviluppata al massimo grado. Il dipinto e la scultura nel deposito è un bene morto: può essere certamente arte, ma nel momento di oscurità e di abbandono non è sicuramente cultura, nel senso che non eroga nessuna delle sue potenzialità culturali. Sembra facile definire cosa sia un bene culturale: libri, spettacoli, opere, musei, monumenti. Io non so se i libri hanno tutti una valenza culturale: probabilmente per ciascuno di noi, soggettivamente, un libro avrà una valenza culturale che per un altro non ha: il ricettario per alcuni sarà cultura, e per altri no, il libro di massaggi, respirazione, meditazione non sarà cultura, ma magari il romanzo sì. È una scelta legittimamente soggettiva, ma non possiamo negare che delle differenze, spesso rilevanti, esistano.
Le statistiche che leggiamo suonano trionfalistiche, e segnalano che la cultura è in grande espansione: a ben guardare, sono dati adulterati, perché la cultura rimane sempre consumata da pochissimi, da una percentuale molto bassa di italiani e di europei. Si tratta di pochi fruitori che visitano ripetutamente mostre e musei; elevata presenza, bassissima partecipazione.
Il settore museale in moltissimi casi non comunica: spesso addirittura l’80% del patrimonio museale sta in deposito e quindi non attiva alcun processo culturale. La domanda che ci dobbiamo porre è: che cosa vogliamo fare di questo prodotto? E per rispondere dobbiamo domandarci: che cosa c’è al posto del rito, cos’è che ha sostituito, se qualcosa l’ha fatto, l’atteggiamento sacerdotale che si aveva nei confronti dell’opera d’arte (e più generalmente del bene culturale)? Significativo è quello che succede dentro un museo o dentro un teatro: i visitatori-spettatori assumono una serie di atteggiamenti canonici e tutti quelli che non ci vanno spesso evitano la visita culturale perché hanno paura di essere osservati come degli intrusi. Raramente in un museo troviamo un divano davanti a un dipinto, perché uno si possa sedere e gustarsi l’opera con calma, anche per mezz’ora. Se in un museo c’è un divano è in luogo a parte, riservato alla sosta, quando il visitatore esausto si slaccia le scarpe e può riposarsi. Manca una struttura logica che colleghi la conoscenza al piacere, allo svago; è venuta meno l’idea rituale perché non abbiamo più niente da celebrare, non siamo un capitalismo vincente, il capitalismo manifatturiero è moribondo.
Ma al di fuori del museo c’è un mondo reale in cui, cosa che sorprende sempre gli analisti della cultura, ci sono persone che comprano film e partite dalla pay-tv, che in una parola riconosce il valore immateriale, quindi economico, quindi finanziario dell’informazione complessa veicolata da questi spettacoli. Questo vuol dire che si riconosce un valore forte all’informazione, e si sa che l’informazione non è gratuita e disponibile per tutti, ma la si può comprare. E, ovviamente, ognuno ha la sua gerarchia di valori e di gusti, e in base a questa gerarchia compra l’informazione che gli serve.
Il problema allora si pone in questi termini: che cosa l’individuo cerca e intende conseguire dal prodotto culturale? Sicuramente una parte del beneficio consiste nel fatto stesso di esserci stato: esporsi direttamente al consumo culturale appare ancora in linea con i residui celebrativi del consumo culturale – una sorta di certificazione di appartenenza, della quale il trofeo (ossia il catalogo) viene esibito nel salotto di casa. Credo di poter dire che si tratta di un vezzo tardo-borghese in via di estinzione.
Il punto allora è capire quale può essere la valenza che l’individuo contemporaneo può voler assegnare al prodotto culturale. Per mettere a fuoco il problema possiamo ricorrere all’esempio dei viaggi: come viaggiamo adesso? E come si viaggiava negli anni cinquanta? Fino a pochi decenni fa la logica del viaggio, soprattutto per i più giovani, era quella della vacanza, ossia del “fare il vuoto”: il viaggio era un lungo riposo dopo il quale si tornava a casa più carichi, avendo smaltito le scorie della vita quotidiana.
Quando oggi ci si mette in viaggio, ci si attrezza con una serie di preliminari che sono sorprendenti, se considerati con occhio ‘laico’. Innanzitutto si compra una guida, pesante un chilo e piena di tutte le nozioni che abbiamo odiato a scuola: la storia e la geografia; e ci si fa raccontare esattamente tutto quello che succede in questi paesi. Si pensa (secondo me a ragione) di non poter godersi un paese se non se ne sa nulla: qualunque colore, sapore o atteggiamento che si incontrerà in quel paese non ha senso se non supportato da una chiara cornice di consapevolezza. Al ritorno in patria, scatta l’impulso verso una catena indefinita di acquisti o comunque di consumi, per cui musiche, stoffe, spezie, cibi, persone, giornali e tutto quanto è proprio di quel paese sono già entrati nel cuore e nel desiderio del viaggiatore. Egli attiva una catena di bisogni informativi che comincia preliminarmente rispetto all’esposizione diretta (il viaggio in senso stretto), si snoda intorno ad essa, e continua senza mai arrestarsi dopo il ritorno: il valore dell’esperienza si moltiplica progressivamente.
È una catena edonistica, se facciamo riferimento al piacere multidimensionale di possedere informazioni varie ed eterogenee e di farle dialogare, borgesianamente, tra loro senza un programma predefinito. La stessa cosa avviene esattamente per il ‘prodotto cultura’: ma il prodotto cultura non è solo la mera esposizione fisica, percettiva, sensoriale all’oggetto d’arte che ci interessa. È tutto l’insieme delle informazioni di diversa natura che ne costituiscono la sostanza relazionale, spaziando dall’estremo della pura emozione a quello dell’appagamento cerebrale.
Oggi l’etichetta ‘culturale’ rischia l’inflazione: la cultura si allarga all’enogastronomia, ai casali in campagna, alle riserve paesaggistiche. Tutte cose bellissime, ma che forse sarebbe giusto chiamare con un altro nome: se l’etichetta si dilata, rischia di slabbrarsi e di perdere identità. La cultura è ‘inutile’, non svolge nessuna funzione materiale e in questo si distingue dal resto delle cose del mondo. Questo è il dato che ce la fa amare: è inutile, eppure è indispensabile, nel senso che senza la cultura ci manca un pezzo di noi. Volendo enfatizzare, potremmo dire che senza cultura ci manca l’identità, il senso di appartenenza, il senso, la direzione verso cui andiamo. Senza la cultura non sappiamo neppure porci domande; in questo senso la cultura è un bagno cognitivo, e in questo senso nell’esperienza culturale non importerà più raccontare di esserci stati, importerà invece esserci, ma anche ragionarci prima, durante e dopo. E questa lunga e scomposta catena di esperienze e ragionamenti altro non è che il prodotto culturale.
Pensiamo a un museo in cui ci siano esposti dei dipinti, appesi alla parete, ciascuno con la sua didascalia con la data e il nome dell’autore. A me, profano ma appassionato, questo allestimento convenzionale non fornisce nessuna informazione addizionale: a meno che non si tratti di autori che anch’io, da profano, conosco, le etichette con i nomi significano poco o nulla. Probabilmente significherebbe molto di più vedere accanto al dipinto una piantina in cui mi si dice in che posto della città era collocato quel dipinto; quale è il soggetto, la cosa che il dipinto racconta; in quale posto della città, in quale palazzo storico, viveva il notabile che il dipinto ritrae, e così via. Questo darebbe un senso, anzi più direzioni, all’informazione culturale.
C’è in questa fase storica una responsabilità fortissima in capo ai musei, una responsabilità che tutti quelli che hanno a che fare con il museo virtuale dovrebbero spingere e attivare: è la responsabilità di ridisegnarsi, di riconfigurarsi, rinunciando alla consuetudine di esposizioni che siano solamente celebrative. Tutti i musei, tutti i bellissimi musei che ci sono in Italia non danno nessuna informazione; o ne danno troppe, ma poche realmente capaci di attivare un processo cognitivo in capo al fruitore. I miei colleghi economisti si dilettano dei loro bravi giochi di parole e scrivono articoli intitolati: “il passato ha un futuro?”, “qual è il futuro del nostro passato?”. Giochetti verbali sul passato e sul futuro che, però, dimenticano il presente.
Senza un presente la cultura non ha un futuro, e comunque non è in grado di dare senso al suo passato. Il presente siamo noi qui e ora. È giusto pensare all’eredità delle prossime generazioni, ma la cultura è, prima di tutto, un bene da godere nel presente, se vogliamo essere capaci di trasmettere qualcosa alle generazioni che verranno. Se non godiamo-capiamo noi i nostri beni culturali, come trasmetteremo la nostra ‘cultura’ ai nostri figli e nipoti? Il presente è costituito da molti attori, una molteplicità di soggetti che comprende, prima fra tutti, la comunità residente: quella che ha un sentimento comune e collettivo della specifica offerta culturale. Molto spesso il museo non dialoga con il suo territorio; in questo senso tutte le sue estensioni, reali e virtuali, possono giovare a trovare i meccanismi perché sia attivato ed esplicitato questo dialogo.
Ultima nota: in questo convegno si è parlato di una “via italiana” e questo spunto è bello e proficuo: in genere, infatti, quando parliamo di gestione della cultura, facciamo sempre riferimento ad altri paesi. Si parla così della Francia e delle grandi committenze pubbliche, della Gran Bretagna e della sua capacità di gestire il bilancio o di fare marketing; della Spagna e, inevitabilmente, del Guggenheim di Bilbao. Ora, venendo a noi, l’Italia ha una sua via alla gestione dei Beni Culturali? Esiste un ‘modello italiano’? Sicuramente esiste una grande tradizione scientifica e tecnica, scuole formidabili e impareggiabili di storici dell’arte e archeologi, archivisti e restauratori. Scuole che potremmo dire con una frase pomposa e retorica ci vengono invidiate e che, comunque, producono studiosi e tecnici che vanno a fare formazione in tutti i paesi del mondo. Ma manca la polpa dell’organismo, la struttura: manca la gestione e la capacità di dare alla cultura un indirizzo e un senso.
Una caratteristica tutta italiana è, per esempio, l’esistenza di una stratificazione del patrimonio culturale: una stratificazione visibile e pervasiva, come in nessun altro paese del mondo. Peculiare dell’Italia è la sovrapposizione di fasi culturali diverse, e quindi una capacità di dialogo formidabile tra le diverse fasi, dalla preistoria al moderno, che passa diacronicamente per molti stili di civilizzazione, e contempla contemporaneamente anche gli influssi stranieri. La questione è in che misura questa capacità dialogica viene esplicitata, in che misura viene invece lasciata latente, in che misura viene affidata alla buona volontà del visitatore.
Inoltre nella civiltà e nella cultura italiana l’offerta culturale è un prodotto strettamente legato all’idea della città. La cultura italiana è cultura della città: da una parte il disegno urbano giustifica il valore informativo e simbolico della città e del suo patrimonio culturale, dall’altra i segni culturali fanno capire meglio il disegno urbano. E questa stretta relazione interessa i rapporti tra potere politico e potere religioso, interessa gli orari, i ritmi della giornata, il rapporto tra lavoro e ozio, e così via. Un altro tratto tutto italiano è il legame fortissimo tra patrimonio monumentale e attività artistiche: si pensi ai teatri storici italiani, una messe di teatri storici grandi e piccoli che sono considerati patrimonio culturale comune.
Sarebbe opportuno che il modello italiano esplicitasse queste sue peculiarità. Si tratta di una scommessa importante, sicuramente, in prima battuta, per gli operatori culturali e per i direttori dei musei, ma è una responsabilità molto forte anche per tutti quelli che erogano informazioni su supporto diverso: non si tratta più di riproduzioni, o di surrogati, sostituti, rivali della cultura; al contrario, i nuovi supporti sono integratori fondamentali, senza i quali non si può capire il senso dell’offerta culturale.
Questo può essere un punto da cui partire, mettendo insieme, in stretta connessione, i musei veri, i musei virtuali e tutta quella massa indefinita e fertile dei prodotti che hanno un contenuto informativo e che configurano il prodotto culturale come prodotto complesso: un prodotto che ognuno di noi incrementa, fabbricando, di volta in volta, elementi di arricchimento sul piano della conoscenza.
*Trascrizione dell’intervento al convegno Luminar 3 rivista dall’autore.
English abstract
To interpret the phenomenology of virtual museums, from the economist’s perspective, it is necessary to take a step back and focus, for a moment, on the real museum sector, trying above all to highlight its complex nature as a product. Today there is an obvious problem of safeguarding public heritage, which makes the question we started from more pressing: how could the diffusion of the virtual one influence the organization of the cultural offer of real museums? It is a problem that concerns the contents of the museum offer, and its readability for its users. We must therefore ask ourselves to whom the museum offer is addressed, what benefits it can create, and in what way, once the wide and heterogeneous range of recipients and users of the museum has been identified, how this museum offer should be questioned, and consequently redesigned. Luminar 3 conference. Internet and Humanism. Web_Museums | Querini Stampalia Foundation, Venice, January 29-30, 2004.
keywords | Luminar 3; Internet; Umanesimo; Museum; Cultural Heritage; Legislation; Legal protection.
Per citare questo articolo: M. Trimarchi, Dal sacro al profano, “La Rivista di Engramma” n.33, maggio 2004, pp. 41-49 | PDF