L’attrazione psicologica di Warburg per il ‘Laocoonte’. Un esempio di cattiva lettura di Ernst Gombrich
Monica Centanni
Nella Biografia intellettuale Ernst Gombrich ribadisce che il Laocoonte ebbe un ruolo significativo nell’imprimere una direzione agli studi di Warburg:
Non era stata comunque la cultura letteraria dell’antichità classica ad attrarre la sua immaginazione, ma un problema psicologico di etica e di espressione tradizionalmente connesso nella cultura tedesca con un’opera d’arte dell’antichità. Warburg diceva spesso che era stata la lettura del Laocoonte di Lessing, con il suo maestro Oscar Ohlendorff, a imprimere una direzione ai suoi pensieri (Gombrich [1970] 2003, 28).
Gombrich dà testimonianza di una relazione – a oggi inedita – tenuta dallo studente Warburg il 24 maggio 1889 al seminario di Carl Justi, dal titolo: “Abbozzo di una critica del Laocoonte alla luce del Quattrocento fiorentino”. A quanto si evince dallo schema e dalle note pubblicate da Gombrich il Laocoonte in questione è senza dubbio il Laocoonte di Lessing (Gombrich [1970] 2003, 52). Gombrich non resiste alla tentazione di trovare una spiegazione psicologica a questa influenza esercitata dal testo filosofico e dal soggetto artistico sul giovane Warburg:
I problemi intellettuali posti da questo classico della critica avrebbero accompagnato Warburg per tutta la sua vita e siffatte questioni astratte come la natura dell’immagine visiva e la sua specifica funzione nella gerarchia dei segni avrebbero continuato a interessarlo. Ma può essere stato un altro tema a spiegare il fascino che il trattato di Lessing esercitava su Warburg. Era il problema dell’espressione della sofferenza, del riserbo e dell’abbandono negli estremi stati emotivi, un problema destinato a far vibrare una nota nella mente di un adolescente ipersensibile, soggetto a crisi di nervi (Gombrich [1970] 2003, 28).
La considerazione dell’aspetto “psicologico” e il richiamo continuo alle debolezze nervose di Warburg come causa obbligatoria delle sue scelte, nella Biografia di Gombrich risulta essere, com’è noto, un filtro fisso che interferisce con i dati e, spesso, ne inquina il vaglio. Nel caso specifico Gombrich riconosce che l’interesse di Warburg verso il ‘Laocoonte’ è volto verso il pathos, i movimenti e i gesti violenti; ma legge però in Warburg, del tutto impropriamente, una considerazione di tali movimenti come derive estreme dell’arte: forme patologiche che, sempre secondo Gombrich, Warburg “non smise mai di considerare [...] come segni di debolezza piuttosto che di forza, come una prova di decadenza morale” (Gombrich [1970] 2003, 29).
Da un punto di vista meno teorico, ma estetico ed esperienziale, secondo Gombrich il giovane studente Warburg avrebbe mutuato da Burckhardt la passione incoercibile per alcune, particolari, immagini antiche: il Laocoonte, la ‘Ninfa’, le scene di violenza nelle metope del Partenone (Gombrich [1970] 2003, 64-65). Questa passione sarebbe dunque la manifestazione di una sensibilità particolarmente eccitabile e attratta quasi fisicamente dalle figure più morbose e sensuali dell’arte antica. Così Gombrich a proposito dei temi che ‘psicologicamente’ attraevano il giovane Warburg (il riferimento è ai reperti antichi e ai soggetti presentati nelle Tavole 4-8 dell’Atlante):
Un altro simbolo perenne viene qui richiamato – il sacrificio umano richiesto dagli dei. Rappresentazioni del sacrificio di Polissena sono collocate significativamente vicino al grande simbolo del dolore non redento, la figura del sacerdote morente, Laocoonte, e quella della ‘Magna Mater’, Cibele, i cui macabri rituali rappresentano tutto quel che vi è di oscuro nella religione greca (Gombrich [1970] 2003, 249).
Gombrich è indotto dal suo stesso schema interpretativo – pesantemente psicologistico – a stigmatizzare l’attrazione psicologica coatta di Warburg. Ma in realtà Warburg – proprio da grande storico della cultura – si interroga non su ciò che il ‘Laocoonte’ è, ma su ciò che il ‘Laocoonte’ rappresenta nell’estetica rinascimentale. Se, dunque, sotto il rispetto estetico, la passione per il Laocoonte sarebbe un sintomo della sensibilità malata di Warburg, dal punto di vista metodologico, nel capitolo della Biografia “Il posto di Warburg nella storia dell’arte”, lo “storico dell’arte” Gombrich contesta al maestro:
La legittimità di identificare il paganesimo come tale con l’arte ellenistica, con quella fase relativamente tarda della scultura classica che ci ha trasmesso il ‘Laocoonte’ e gli archetipi dei sarcofagi classici. Warburg fa riferimento ai riti orgiastici del culto dionisiaco e ad altri culti misterici per dar fondamento alla sua identificazione, ma queste reminiscenze nietzscheane e questi rimandi ai paralleli antropologici non possono spiegare da soli il fatto che tali gesti e tali movimenti vennero rappresentati solo in una fase particolare dell’arte antica. La lacuna non deriva da una svista: essa ha in Warburg un carattere sistematico. Egli non fu mai interessato all’approccio ortodosso in storia dell’arte, consistente nel concentrarsi sulla lenta evoluzione dei mezzi stilistici in rappresentazione (Gombrich [1970] 2003, 262).
Gombrich misconosce dunque la qualifica di “storico” a Warburg, anche sulla scorta di questo argomento: Warburg avrebbe avuto una visione unilaterale – tutta dionisiaca – dell’arte classica che non si poneva neppure la questione (e quindi non rendeva ragione) delle fasi diversificate dell’arte greca e romana. Il fraintendimento di Gombrich è grave e (probabilmente) non totalmente in buona fede, Gombrich infatti non capisce – o non rileva – che Warburg si interroga invece continuamente sulla sua prospettiva sull’arte antica: il fatto è che riguardo all’essenza dell’arte antica Warburg è convinto (nietzscheanamente, per l’appunto) non già che essa sia univocamente dionisiaca, ma – come ripete ogniqualvolta gli capita di toccare il punto in questione – essenzialmente duplice, costitutivamente “a doppio taglio”. Una prospettiva aperta da Nietzsche che molto precocemente pare a Warburg acquisita, e oramai irrinunciabile:
Dopo Nietzsche, per ravvisare l’essenza dell’antichità nel simbolo di un’erma bifronte di Apollo-Dioniso non occorrono più pose rivoluzionarie. Al contrario, l’uso quotidiano e superficiale di questa teoria dell’opposizione nel considerare le forme dell’arte pagana impedisce semmai che si intraprenda con serietà una comprensione dell’unitarietà organica della sophrosyne e dell’estasi nella loro funzione polare di coniare i valori limite della volontà d’espressione dell’uomo (Warburg [1929] 1998, 40).
Nello specifico Warburg evita sempre di porre al centro della sua indagine cosa l’arte antica realmente sia, ma ricerca quale nel Rinascimento fosse il filtro di ricezione e in generale l’estetica dell’antico.
Quanto al “paganesimo” sui cui lati più oscuri Warburg concentrerebbe la sua, personalissima e parziale, percezione dell’antico, in realtà Warburg dichiara ripetutamente il suo interesse non già genericamente per “il paganesimo” in quanto tale, ma ancora una volta per quanto del paganesimo volevano, sapevano, cercavano gli uomini del Rinascimento. E ciò non significa negare – come infatti Warburg non nega, ma anzi tenacemente afferma – che esistano nel Rinascimento anche altre estetiche dell’antico, altre tendenze che rispetto alla cifra dell’ “antico ellenistico” che finirà col prevalere innescando la nuova stagione ellenistica della maniera, stanno in polarità: separatamente irresolubili, come in un’equazione a più incognite. Sul punto, come ricorda Kurt Forster, così scriveva Warburg:
Non dobbiamo intimare all’antichità che essa risponda al quesito se sia classicamente serena o affetta da una frenesia demoniaca, puntandole al petto la pistola dell’aut aut. Sapere se l’antichità ci spinge all’azione appassionata o ci induce alla serenità di una tranquilla saggezza, dipende in realtà dal carattere soggettivo dei posteri piuttosto che dalla consistenza oggettiva dell’eredità classica. Ogni epoca ha la rinascita dell’antichità che si merita.
E ancora:
Ogni epoca è capace di vedere solo quei simboli dell’Olimpo che può riconoscere e assimilare in virtù dello sviluppo dei suoi strumenti di visione interiori. Noi, per esempio, abbiamo appreso solo da Nietzsche a “vedere” Dioniso (Forster [1999] 2002, 7 e 19).
Riguardo al “movente psicologico” dunque Gombrich ha un briciolo di ragione nella diagnosi, ma torto pieno nel giudizio e nelle deduzioni. Warburg si interroga sulla questione del dionisiaco come necessaria compresenza di uno dei due “tagli” nella cifra complessa, ed essenzialmente pericolosa, dell’antico: e questo interrogativo e questa ricerca non vengono perseguiti soltanto avvalendosi delle armi dell’erudizione (ed è quanto probabilmente disturba, quello che ‘non torna’ nella Biografia che Gombrich dedica a Warburg). Di fronte al pathos, per esempio, che il ‘Laocoonte’ incarna e a quanto quella visione poteva trasmettere all’artista rinascimentale, Warburg mette in azione acuti e preziosi terminali sensoriali, sfruttando anche la propria ipersensibilità.
Warburg fa storia della cultura non solo comprando, procurando all’Istituto e studiando molti libri, guardando e fotografando molte immagini, ma virando la sua instabilità psichica a farsi ‘organo’ della ricerca; mettendo nel gioco, come sensori estetici raffinati, anche la sua emotività e i suoi propri nervi.
Per citare questo articolo / To cite this aricle: Monica Centanni, L’attrazione psicologica di Warburg per il ‘Laocoonte’. Un esempio di cattiva lettura di Ernst Gombrich, “La Rivista di Engramma” n. 25, maggio/giungno 2003, p. 43-48| PDF