Facendo saltare le parole. Sulle ‘scritture vocali’ di Gabriella Bartolomei
Andrea Torre
English abstract
Il silenzio è alla base del mio lavoro, è lui che all’inizio suona. Senza silenzio non viene mai nulla.
Gabriella Bartolomei
Constatando la stagnazione contemporanea della poesia visiva, ferma alle esperienze degli ultimi decenni del Novecento, Adriano Accattino suggerisce una possibile via di fuga dall’impasse nell’esecuzione sonora di segni alfabetici:
“Combiniamo le nostre lettere come note, come suoni, e suoniamo le nostre composizioni. Forse in questo uso dei segni letterali e alfabetici possiamo trovare la strada di una nuova rinascita della poesia visiva e ora, a questo punto, sonora e musicale […] è possibile costruire vere e proprie partiture di lettere, utilizzando voci che suonano contemporaneamente in combinazioni molto elaborate. Insomma, le possibilità sonore connesse alle lettere e ai suoni che le suonano sono un campo aperto”.
(Accattino 2014, 79)
Sembra indirettamente e inconsapevolmente riecheggiare queste considerazioni di Accattino l’esperienza di dialogo performativo tra parola e immagine, vocalità e musica, che caratterizza il lavoro di Gabriella Bartolomei; un lavoro attoriale che si offre quale originale testimonianza del radicamento delle sperimentazioni verbovisive italiane nella seconda metà del Novecento, o almeno del loro rispondere a istanze espressive e creative diffuse anche all’esterno di precise e consapevoli appartenenze a movimenti culturali. Per l’esecuzione vocale di testi altrui Bartolomei è infatti ricorsa a soluzioni di scrittura visiva accostabili alle pratiche della visual poetry in ragione del comune valore conoscitivo, memoriale e comunicativo riservato alla configurazione iconica di segni grafici e alfanumerici.
Formatasi a Firenze in canto e arte drammatica con Marino Cremesini, Nella Bonora e Tatiana Pàvlova, Bartolomei vede assai presto indirizzato il proprio cammino artistico dall’incontro con il regista Pier’Alli e con Renzo Frangipane, nonché dal dialogo con i compositori contemporanei Sylvano Bussotti, Salvatore Sciarrino, Giorgio Battistelli e Daniele Lombardi. Il suo statuto di ‘musicista per musicisti’, di autentica portatrice di phoné viene subito riconosciuto da Cathy Berberian:
“Se io fossi un’attrice di prosa, vorrei essere Gabriella Bartolomei – afferma Berberian in una dedica fatta in occasione di Giulia round Giulia da A. Strindberg, regia di Pier’Alli, musica di S. Bussotti (1981) – è lei a creare la sua arte vocale dalle sue grandi risorse interiori […] Non le viene mai abbastanza riconosciuto il merito di inventare le sue inflessioni, le sue fantasie, le sue pirotecnie vocali, quasi musicali…”.
(Berberian 1999, 81)
Tra i molti esempi con cui potrei illustrare le parole di Berberian valga un primo ascolto, tratto dallo studio vocale realizzato da Bartolomei per la messa in scena dell’Orlando furioso (1992) ad opera dell’ensemble di teatro d’ombre Teatro Gioco Vita di Piacenza. In questo spettacolo il lavoro sulle ombre è colmato di senso dalla poliedrica voce di Bartolomei che interpreta la drammaturgia selettiva di Dario Del Corno. Di questa performance è rimasta traccia in un due brevissime registrazioni relative ai passaggi del I canto dedicati rispettivamente alla disperata fuga di Angelica nella selva e alla prima comparsa di Bradamante. I primi cinque versi dell’ottava 33, col loro affannato resoconto della corsa della fanciulla inseguita da Rinaldo, si intrecciano con l’inizio dell’ottava 77 dell’ottavo canto, ossia con la voce dell’innamorato, e di lì a poco folle, Orlando che proprio nel turbato vagheggiamento dell’amata lontana fa il suo ritardato ingresso sulla scena del poema.
Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi. [Of I, 33, 1-6.]1
Dove, speranza mia, dove ora sei?
vai tu soletta forse ancor errando?
o pur t’hanno trovata i lupi rei
senza la guardia del tuo fido Orlando? [Of VIII, 77, 1-4.]
Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
candido come nieve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero. [Of I, 60, 1-4.]
Ella è gagliarda, et è più bella molto;
né il suo famoso nome anco t’ascondo:
fu Bradamante quella… [Of I, 70, 1-3.]
Anche nella traccia dedicata a Bradamante si può notare l’intenso lavorìo sul testo, ridotto a ‘scrittura vocale’ dal mixaggio di materiali narrativi non sequenziali attraverso il ricorso simultaneo a più basi registrate su nastro magnetico; soluzione questa, che in altri momenti del lavoro ariostesco consentirà a Bartolomei di congegnare un’ancor più aggrovigliata selva di voci, puntuale doppiaggio fonico di quel cronotopo della selva che è metafora delle dinamiche del poema e dell’articolazione interiore dei suoi personaggi. L’utilizzo del nastro magnetico in fase esecutiva non è però una consuetudine operativa di Bartolomei, che solitamente preferisce ricorrervi solo in fase di composizione. Un’unica altra eccezione ci viene offerta dalla performance Tipografia su testo di Ardengo Soffici. Se per l’Orlando la moltiplicazione tecnica della voce di Bartolomei era funzionale a dar corpo alla simultaneità e al policentrismo della narrazione ariostesca, nell’interpretazione del brano futurista questa modalità operativa serve a conservare – durante il passaggio dalla registrazione in studio all’esecuzione dal vivo – la ‘voce della macchina’, ossia l’efficace timbro con cui la voce umana mediata dal mezzo meccanico riesce a dar corpo ai suoni dell’ambiente tipografico, quelli ascoltati e interiorizzati da Bartolomei in lunghe ore di ricerca sonora in tipografia; una ricerca, qui e altrove nei suoi progetti, che investe ogni volta i più disparati contesti – naturali o artificiali – di produzione sonora.
L’indagine espressiva sul suono e sulla voce rivela l’attenzione di Bartolomei per l’intima musicalità delle cose, dei gesti, degli eventi, investigata anche attraverso l’originale pratica di comporre ‘scritture vocali’ in cui corpo e voce si fondono in un rapporto di intima specularità. Ed è proprio su questo aspetto del suo lavoro che vorrei concentrare la mia attenzione, dal momento che nelle tavole che trasmettono le ‘scritture vocali’ l’iconizzazione del segno linguistico è perseguita attraverso il disegno, il colore e tutti quegli artifici grafici propri anche delle esperienze di visual poetry: ossia gli ingrandimenti e le riduzioni, le spezzature, le sovrapposizioni e le combinazioni, le sistemazioni geometriche o casuali dei caratteri autografi, dattilo e tipografici. Le tavole verbo-visive di Bartolomei, funzionalmente deputate a sovvenire una performance di vocalità, vivono sulla fragile ma fertile tensione tra scrittura e immagine, a produrre “una personalissima semiografia musicale, completa degli strumenti tipici dell’osservazione e della visione (spazio, segni, colori), che le permette di restituire, attraverso una comprensione simbolica del discorso e dell’ascolto, l’intuizione originaria che è il luogo da cui parla l’inconscio” (Tomassini 1999, 57). Gli iconogrammi di Bartolomei si configurano pertanto come segni ad alta intensità figurativa che sembrano disinteressarsi della natura oggettiva del messaggio che veicolano, nonché della funzione enunciativa della scrittura, per farsi invece tracce visive delle corrispondenze implicite tra vocalità e termine designato.
Quel che mi preme sottolineare è soprattutto che, così come la performance vocale che guidano, anche le ‘scritture vocali’ rappresentano a tutti gli effetti delle riscritture di una struttura ben definita (prosa lirica o dramma). Sono esse stesse, e in prima istanza, esperienze di lettura e interpretazione di un testo. Sono un’esecuzione performativa (iconica e bidimensionale) che organizza, scorta e conserva un’altra esecuzione (sonora e pluridimensionale), e così facendo agevola un ripristino del sonoro nel visivo. La formulazione verbale-sonora e la concezione segnico-visuale appaiono dunque come due momenti contemporanei, e reciprocamente influenti, dell’evento artistico e performativo. La coesistenza di codice visivo e codice sonoro sul foglio bianco, nonché la presenza della voce ‘in attesa’ al suo esterno, portano a uno stravolgimento del tradizionale ordine di produzione semantica, dal momento che il segno non è più (o soltanto) un grafema che condensa la potenzialità di un fonema, bensì un disegno che tale potenzialità rappresenta in una delle sue attuazioni, ossia nell’esecuzione vocale: “l’arbitrarietà apparente della trascrizione del ‘testo primo’ in un nuovo tracciato grafico si risolve nella restituzione di rilievi sonori ignoti e autonomi rispetto ai fonemi di origine, e dei quali sono in grado di restituire il lato in ombra” (Tomassini 1999, 58). La voce, dunque, è intesa aristotelicamente come il segno delle affezioni che hanno luogo nell’anima. Vincenzo Accame rileva che mentre per le avanguardie storiche (Surrealismo, Dadaismo, Futurismo, etc.) l’uso di materiali della tradizione non poetici, non propri della poesia, trovava ragione in una esigenza di aggressività, di sconvolgimento o semplicemente di rottura col passato, le nuove esperienze (dal Lettrismo in poi) mirano invece sostanzialmente alla comunicazione, all’analisi dei processi comunicativi e mentali, con un doppio fondo di stimoli scientifici e sociologici (cfr. Accame 1981, 7-10). A questa propensione analitica e comunicativa sembrano dunque rinviare anche le ‘scritture vocali’ di Bartolomei, testimonianze non tanto di un procedimento puramente fisico, quanto piuttosto espressione cognitiva di stati d’essere.
Di certo, comune tanto alle esperienze artistiche delle avanguardie quanto alle esecuzioni di Bartolomei è il ricorso ai più vari materiali sonori e visivi per esprimere la convinzione che ogni singola lettera alfabetica, ogni parola, ogni nucleo linguale, sillabico o no, è o può essere materiale poetico. Non per niente, come s’è già detto, all’interno del repertorio di Bartolomei trovano spazio anche interpretazioni vocali di brani futuristi da Marinetti, Cangiullo, Boccioni, Soffici, Depero. Si accosti, ad esempio, l’ascolto di alcuni passaggi da Sensibilità numerica di Marinetti alla visione delle tavole di ‘scrittura vocale’ in cui il pensiero iconico di Bartolomei infonde ai numeri vita e voce, un carattere e un corpo [figg. 1-2]; e lo fa con esiti che ricordano il pensiero sinestesico di Seresevskij, ‘l’uomo che non dimenticava nulla’, studiato da Aleksandr Lurija negli anni Sessanta:
“Persino i numeri mi ricordano delle immagini: ‘1’ è un uomo snello; ‘2’ è una donna sorridente; ‘3’, non saprei dire perché, è un uomo tetro; ‘6’ è un uomo con una gamba gonfia; ‘7’ è un tale con i baffi; ‘8’ è una donna grassa, un sacco appoggiato su un altro sacco […] Ecco ‘87’: io vedo una donna grassa e un uomo che si arriccia i baffi”.
(Lurija 1996, 35)
Considerazioni come queste potrebbero essere accostate a quelle di Bartolomei in materia dell’uso espressivo del colore. Il raggiungimento delle sue potenzialità evocatrici si dispiega infatti in una artigianale pratica di ricerca di una tonalità ideale, della quale si possiede una vaga, inconscia percezione:
“Durante il lavoro per la capretta di Daudet mi sarei morsa le mani per la difficoltà di riportare su carta quello che scoprivo; perché in una m, in una t, in una l ci doveva essere tutto un paesaggio particolare […]. Ma dire una parola, in effetti, vuol dire vedere tutto questo paesaggio: qui rivedo l’albero e allora la parola è diventata a elle bi erre o, è così, ma è albero nello stesso tempo, ecco che allora cerco di intervenire con i colori […] molte volte passo uno strato di colore, uno strato di un altro, con tutto quello che mi capita sotto mano, che va dallo smalto per unghie fino al carbone o al rossetto, quello che trovo insomma, il petalo di un fiore, qualunque cosa per arrivare a dare quella gamma che sia poi per me leggibile”.
(Bartolomei, Tomassini 1999, 62, corsivi miei)
Che sia poi per me leggibile. Ossia che dia conferma, quasi stupita, alle inconscie percezioni di tale ideale tonalità.
In tutte queste tavole il segno grafico funge talora anche da nota fisica che indica il punctum temporis esatto in cui deve avvenire il suono, nonché le differenti modulazioni di gamma che necessariamente lo connotano. E ciò chiama in causa un’altra interessante questione che pongono le ‘scritture vocali’ di Bartolomei, ossia la tensione tra temporalità durativa del codice verbale e temporalità istantuale del codice visivo. Se tale dialettica abita ogni esperienza di illustrazione libraria o, più semplicemente, di compresenza dialogante di parole e immagini sulla pagina, nel caso delle ‘scritture vocali’ interviene una terza componente di temporalità – che condiziona le prime due –, ossia la temporalità cadenzata delle unità ritmico-musicali. Questa terza dimensione temporale da una parte pone limitazioni alle prime due, dall’altra viene da queste trascesa. Anche in questi termini le ‘scritture vocali’ di Bartolomei contribuiscono a colmare la distanza tra l’orale e il visivo. Come ha lucidamente illustrato Achille Bonito Oliva, le esperienze di scrittura visuale – a cui potrebbbero essere ascritte anche le ‘scritture vocali’ di Bartolomei – si caratterizzano per una riconfigurazione iconica del linguaggio che comporta anche la variazione del tempo di contemplazione e percezione del testo, assimilato a quello dell’immagine:
“Un tempo unitario e poggiante sulla simultaneità ed istantaneità, una dimensione unitaria che non prevede più una temporalità che sgocciola lungo la dimensione verticale del verso, ma semmai si contrae nell’attimo della dispersione orizzontale dello spazio tridimensionale”.
(citato in Allegrini 2014, 37)
Il formato delle ‘scritture vocali’ è nella maggior parte dei casi quello rettangolare. Talora però varia, a evidenziare una più suggestiva convergenza semantica tra il supporto materiale dell’atto di scrittura vocale e la traccia grafica ivi contenuta. Si veda, ad esempio, la tavola di ‘scrittura vocale’ dell’episodio di Farfalletta tratto da E.T.A. Hoffmann, dove si assiste al completo doppiaggio analogico della forma dell’originaria emozione sonora (ossia, il dato naturale) nella forma simbolica della rielaborazione immaginativa, e poi nello spazio fisico offerto alla vocalità [fig. 3].
Un’altra infrazione di formato si riscontra nelle tavole che accompagnano l’esecuzione vocale di Aphrodite (1988, ma l’estratto qui presentato è relativo a una registrazione live del 1990), monodramma dal testo di Pierre Louÿs con musiche di Giorgio Battistelli. La forma rotonda delle tavole di ‘scrittura vocale’ allude, secondo Bartolomei, a uno dei simboli di Afrodite; mentre la forma chiusa del copione ricorda la mezzaluna, altro suo simbolo. In queste tavole possiamo constatare la centralità del piano del corporeo nella delineazione dei segni che designano i fonemi. Nel loro procedere a una frantumazione della parola d’autore, le ‘scritture vocali’ di Bartolomei sembrano far propria la vocazione, comune a molta visual poetry, di realizzare un intreccio di fisicità e astrazione emotiva, vòlto a superare lo status della comunicazione logica, discorsiva, per raggiungere nuovi effetti di conoscenza attraverso l’integrazione polisensoriale di codici espressivi fatti cozzare l’uno contro l’altro. In ragione di tale polisensorialità è corretto parlare di una corporeità della ‘scrittura vocale’ di Bartolomei; una corporeità che appartiene sia al momento in cui la voce si ispessisce entro gli iconogrammi, sia a quello in cui tali tracce verbo-visive accompagnano l’esecuzione.
Proprio nelle tavole di Aphrodite constatiamo come il corpo-parola, sezionato con meticolosa cura, venga ispezionato dall’indagine anatomica della performer. L’immaginata corporeità di Afrodite rivive, così, nei volteggi della voce e nelle dinamiche dell’apparato fonico, ad alimentare sulla tavola un’immagine memoriale non solo del significato testuale che si intende interpretare ma anche dell’atto fisico e dello strumento fisiologico necessari a tale esecuzione, dal momento che nell’esperienza creativa ed interpretativa di Bartolomei i piani psichico, fisico e spirituale sono sempre armonicamente fusi, e l’indagine sul significato del testo trova necessario compimento solo nella fisicità dello strumento vocale. Di particolare interesse, nel caso di Aphrodite, è anche il formato dell’intero copione della ‘scrittura vocale’. Esso deve infatti essere sfogliato verticalmente (e l’apertura del copione, durante la lettura sul palcoscenico, va a formare delle ondulazioni entro le tavole, simili all’increspato elemento acquoreo da cui nasce la divinità), mentre la ‘scrittura vocale’ è leggibile entro i singoli fogli secondo il tradizionale andamento orizzontale da sinistra verso destra. L’organizzazione materiale del copione trova talora dei richiami anche nell’organizzazione grafica delle singole tavole. Ad esempio, in quella dedicata all’allucinato monologo di Criside [fig. 4], la labirintica selva che, seguendo il movimento verticale del macrotesto, ostacola lo sviluppo orizzontale della scrittura, vale da visualizzazione della frantumazione del flusso del discorso in un reiterato balbettìo della sintassi, nonché da icastica sintesi di tutti gli attimi in cui la protagonista incontra l’amato e gli si offre. Echi memoriali di momenti vissuti trovano dunque forma e vita sulla tavola.
La composizione verbovisiva delle ‘scritture vocali’ non rappresenta un semplice sussidio mnemonico dell’esecuzione, quanto piuttosto la trascrizione grafico-cromatica della vita del segno verbale che si sceglie di indagare e ricreare. Bartolomei parla, a proposito, di una memoria che è in ascolto visivo e che, grazie alle potenzialità evocatrici del colore e alla dimensione gestuale del segno grafico, riesce a rappresentare – ossia, a rendere ogni volta presente e unica – l’esperienza del primo contatto corporeo della voce con quel preciso testo (e con quel preciso contesto di esecuzione). Come ricorda spesso Bartolomei, il suo non è infatti un atto interpretativo prodotto da un’azione memorativa e che si configura come una pratica anamnestica. Ogni volta che legge le proprie ‘scritture vocali’, Bartolomei si immerge in un luogo da guardare, sentire e vivere come se fosse la prima volta.
Un altro chiaro esempio di come il tratto grafico valga da annotazione semantica dell’esecuzione vocale, ci viene offerto dalle tavole dedicate all’Arlésienne di Daudet e Bizet; ad esempio, da quella che introduce la fuga della capretta dal recinto di Moussu Seguin [fig. 5], nella quale la frantumazione delle parole e la loro elaborazione cromatica gestiscono sapientemente il controllo delle poliritmicità, delle a-ritmicità e delle dislocazioni di accenti che introducono la musica nella recitazione.
Nell’iconogramma che funge da sintesi voco-visiva dell’incontro tra la capretta e il lupo, visto con gli occhi dell’indifesa vittima, notiamo la dieresi su “Vide”, funzionale allo strascicamento della vocale, oppure la doppia ‘acca barrata’ che indica l’effetto di espirazione attraverso cui si fondono la sorda risata in 'e' del lupo e l’intimorita reazione della voce narrante (enorme, fig. 6).
Differente è invece l’organizzazione della tavola che riporta il racconto della vicenda attraverso la voce della madre di Fréderic [fig. 7]: all’uniformità dello sfondo a dominante grigia corrispondono parole che fin dall’artificiosità dattilografica rimandano a un grado azzerato di evocatività del segno, pienamente corrispondente alla natura anonima della voce materna. Un sistema di relazioni grafico-materiali interagisce qui col sistema linguistico vero e proprio, e trasforma il modo stesso di pensare le parole. Si veda come l’iniziale, brevissimo e improvviso attacco musicale prenda la forma dell’origine indistinta di un’esplosione cromatica che genera l’ambiente sovra il quale si stratificano le parole. Queste ultime risultano isolate, in voce e sulla tavola, a visualizzare la totale disarticolazione del pensiero propria della leggera atmosfera di festa qui narrata. Posizionati su questo spartito a colori secondo meditate coordinate spaziali, i brandelli del testo sfruttano la tecnica espressiva del collage per segnare i cambi di ritmo dell’enunciazione o le variazioni di timbro (anche interne a una singola parola, che così si frantuma: “cas-care”).
Si noti che oltre ai due livelli primari, quello del disegno (piano cromatico-musicale) e quello del collage (piano dattilo-vocale), abbiamo anche un terzo strato costituito dalle minime notazioni manoscritte di accentazione che evidenziano precisi luoghi sillabici nelle stringhe di testo. In questa come in altre tavole registriamo dunque la compresenza e la collaborazione di tre sistemi segnici – l’immagine, il testo, l’annotazione – che la voce deve cogliere ed eseguire nelle singole specificità e nelle reciproche relazioni. Tale soluzione formale di sovrapposizione della parola a un oggetto puramente visivo strappa tale oggetto alla sua condizione iniziale, gli conferisce linguisticità e lo inserisce nella stratificazione della ‘scrittura vocale’.
Di implicazioni ermeneutiche dell’atto esecutivo di Bartolomei si può parlare anche per il Frau Frankenstein con la musica di Giorgio Battistelli. Per questa ‘scrittura vocale’ Bartolomei si immerge nel materiale critico relativo alla figura biografica e intellettuale di Mary Wollstonecraft Shelley, e al suo romanzo; e lo fa accostandosi a tale documentazione sulla scorta di una prospettiva psicanalitica di marca junghiana. La psicologia del profondo diviene così l’intuizione fondamentale per porre la scrittrice inglese sul lettino dello psicanalista e farle ritrovare, in stato di trance, la voce del proprio inconscio, che poi è la voce della Creatura. Questa voce, ricorda Bartolomei, nasce “dall’impossibilità di essere come lui è dentro, dall’incapacità di accettarsi come agglomerato di pezzi di altri uomini […] una voce che viene su da ostacoli incredibili, dall’informe, però con un calore che fa tenerezza quando impara a parlare” (Bartolomei, Tomassini 1999, 78).
La tavola iniziale di Frau Frankenstein riguarda proprio il momento della Nascita della Creatura, interamente concentrato in un atto di nominazione [fig. 8]. La prima esperienza di espressione di questa informe Creatura e il primo tentativo di comunicazione col suo creatore sono riconoscimento dell’altro e autodeterminazione di sé: e questi due atti si realizzano nel suono che – come ricorda Paul Zumthor – è “in origine, il luogo dell’incontro dell’universo e dell’intelligenza” (Zumthor 2002, 10). Volontà di dire e volontà di esistere si condensano nella faticosa articolazione della voce in versi, suoni e rumori. Questa difficoltà primigenia viene tradotta graficamente in lettere che hanno una traccia elementare, una consistenza grezza e una dinamica interna apparentemente priva di ordine e senso. La progressiva conquista della facoltà espressiva interessa tanto la Creatura quanto la voce di Bartolomei e procede attraverso aridi aspirati che fisiologicamente precedono e generano i soffiati attraverso cui si articola l’incerto suono “Frau”; un suono ancora pre-linguistico, che si struttura solo nella parte bassa della tavola con la sua rapida metamorfosi nel nome “Frankenstein”. La macchia di colore che taglia verticalmente la tavola segna i due tempi della formazione di questa voce cosciente, ma vale anche da rappresentazione di una massa informe che cerca a fatica di divenire individuo. Nella tavola relativa alla fase dell’Apprendimento [fig. 9] si può invece notare la sovrapposizione tra le voci di Shelley e della Creatura; sovrapposizione testimoniata a livello visivo dalla differente configurazione grafica e cromatica della medesima parola (ad es. “percepito”), che – come possiamo ascoltare dalla registrazione della sola voce di Gabriella Bartolomei – viene prima presentata in una veste luminosa, ordinata, e poi deformata nell’oscuro e precario balbettìo di una bocca informe e incapace di una normale articolazione del parlato.
Tutte queste tavole – tessiture di parole, disegni e musica – testimoniano dunque l’istintiva sensibilità di Bartolomei verso le lettere, percepite in tutti i loro aspetti (simbolico, di suono e di immagine), e ne configurano l’attività attoriale come un’esperienza fondata su presupposti ermeneutici e creativi che riconoscono nell’atto performativo un’occasione per scardinare l’ordine abituale del linguaggio e incrinare l’autorità del discorso. Azioni e intenzioni queste, lucidamente presentate da Jacques Derrida in un’intervista del 1990 sulle arti del visibile:
“Ciò che faccio con le parole è farle saltare perché il non-verbale appaia nel verbale, cioè faccio funzionare le parole in maniera tale per cui in un certo momento non appartengono più al discorso, a ciò che regola il discorso […]; se amo le parole, è anche in ragione della loro capacità di evadere dalla forma che è loro propria, che sia l’interesse che porto loro in quanto cose visibili, lettere rappresentabili la visibilità spaziale della parola, o in quanto cose musicali o udibili. Dunque se mi interesso alle parole è anche paradossalmente perché sono non discorsive, perché è così che le si può impiegare per far saltare il discorso”.
(Derrida 2016, 55)
* Desidero ringraziare Roberto Nigro per il supporto tecnico relativo ai materiali sonori. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l’affettuosa e generosa collaborazione di Gabriella Bartolomei, che ringrazio di cuore.
Note
1 | Per la citazione dei passi ariosteschi si è ricorsi a L. Ariosto, Orlando furioso, commento di E. Bigi, a c. di C. Zampese, Milano 2012.
Bibliografia
- Accame 1981
V. Accame, Il segno poetico. Materiali e riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Milano 1981. - Accattino 2014
A. Accattino, La Poesia visiva oggi in Italia, in G. Allegrini, L.V. Masini (curr.), Visual Poetry. L’avanguardia delle neoavanguardie, Bologna 2014, 75-82. - Allegrini 2014
G. Allegrini, La Scrittura Visuale/Nuova Scrittura, in G. Allegrini, L.V. Masini (curr.), Visual Poetry. L’avanguardia delle neoavanguardie, Bologna 2014, 37-40. - Bartolomei, Tomassini 1999
G. Bartolomei, S. Tomassini, "Come da bocca a bocca". I muti discorsi e gli anonimi legami di un suono. Da un incontro con G.B., “Scena‹e›. Studî sulla vita delle forme nel teatro”, 3-4 (1999), 61-80. - Berberian 1999
C. Berberian, Lettera a Gabriella Bartolomei, “Scena‹e›. Studî sulla vita delle forme nel teatro”, 3-4 (1999), 81. - Derrida 2016
J. Derrida, Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004), Milano 2016. - Lurija 1996
A. Lurija, Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Roma 1996. - Tomassini 1999
S. Tomassini, Scrittura eloquente e «poema» della voce in Gabriella Bartolomei, “Scena‹e›. Studî sulla vita delle forme nel teatro”, 3-4 (1999), 55-60. - Zumthor 2002
P. Zumthor, Prefazione, in C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna 2002.
English abstract
This essay aims to investigate the original experience of the performative nexus between words / images and vocalism / music, which characterizes the work of the actress Gabriella Bartolomei. Her performances are striking evidence of the diffusion of Neo-Avant-Garde artistic experiments, even outside a clear belonging to specific cultural movement. Indeed, Bartolomei performs texts of other authors through a system of iconic rewriting (‘scritture vocali’), which is very similar to the experiences of visual poetry because she uses the same techniques of drawing, painting, and collages. In both cases, the iconic arrangement of the graphic and alphanumeric signs has a hermeneutical, mnemonic, and creative purpose. Only after having iconically translated the text to be interpreted is Bartolomei able to make a vocal performance.
Per citare questo articolo: Andrea Torre, Facendo saltare le parole. Sulle ‘scritture vocali’ di Gabriella Bartolomei, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 285-301. | PDF dell’articolo