Pasolini e Foucault: teatro del corpo e politiche della verità
Presentazione del volume Pasolini, Foucault e il 'politico' (Venezia, 2016)
a cura di Raoul Kirchmayr
English abstract
Pubblichiamo qui di seguito alcuni estratti dal volume Pasolini, Foucault e il 'politico' (Marsilio, 2016), preceduti da brani della Premessa del curatore. Il volume presenta un tratto forse meno noto della parabola artistica di Pier Paolo Pasolini, ovvero l’intersezione con il pensiero di Michel Foucault e la peculiare inclinazione verso trame e questioni di natura eminentemente politica. Il montaggio degli estratti di alcuni contributi, pur nella sua frammentarietà, dà conto di aspetti cruciali e restituisce la vivacità degli studi pasoliniani raccolti nel volume.
SOMMARIO
Raoul Kirchmayr, Premessa a Pasolini, Foucault e il 'politico' (estratto)
Marco Antonio Bazzocchi, Abiura, parresia e sessualità (estratto)
Gian Luca Picconi, Genealogia di un mattino grigio. Appunti su continuità e discontinuità storica in Pasolini (estratto)
Massimiliano Nicoli, Scritti corsari e polizia discorsiva. Politiche della verità in Foucault e Pasolini (estratto)
Gerardo Guccini, Pilade come Pasolini. Teatro politico e corpo mentale (estratto)
Premessa al volume (estratto)
Raoul Kirckmayr
In una prospettiva più ampia si è voluto assumere come polo di riferimento la categoria del “politico”, come sfera definita dall’intreccio di sapere/potere, dalla produzione discorsiva, dal posizionamento dei soggetti, dalle strategie di relazione, dalla dimensione di senso che si apre (o si chiude) nel confronto agonistico con il sapere/potere, e, infine, dall’analisi dell’elaborazione di una cultura in grado di analizzare questi tratti e di articolare in proposito una prospettiva critica. Si è voluto, insomma, tentare un percorso ibrido che procedesse attraversando gli interstizi, gli spazi tra i discorsi, sottoponendo conseguentemente a prova le divisioni tra le forme del discorso e puntando a riconoscere somiglianze e differenze di gesti, atteggiamenti e pensieri.
La posta in gioco non è consistita soltanto nell’avvicinare, una volta di più, Pasolini e Foucault, secondo un accostamento che negli ultimi anni è stato proposto con frequenza, in virtù di una serie di analogie riguardanti l’analisi delle nuove forme di potere, le configurazioni contemporanee del rapporto tra sapere e potere sotto il segno della biopolitica, l’impiego delle forme del discorso pubblico da parte degli intellettuali e della loro collocazione all’interno di una società avviatasi, tra gli anni Sessanta e Settanta, a un’ulteriore trasformazione radicale inquadrata in una nuova razionalità capitalistica, la possibilità di una “parola vera” nella sfera di un’opinione pubblica sempre più dipendente dal sistema dei media e dalle logiche dell’industria culturale, del regime di “falsa tolleranza” e di disciplina delle anime con cui il nuovo potere plasma l’ambito della socialità, l’ambiguo plesso che è venuto costituendosi tra la liberazione del corpo e l’intensificazione del suo sfruttamento, con la conseguente eterogenesi dei processi di liberazione sessuale; non si è dunque trattato di percorrere solo alcune piste già tentate in precedenza e altrove, ma soprattutto di porre l’interrogazione sugli effetti di senso che la sperimentazione poetica in Pasolini e i percorsi genealogici in Foucault hanno prodotto circa il termine “politico”, mostrando le linee di uno strano dialogo, avvenuto a distanza, che i testi dell’uno e dell’altro hanno intrattenuto. Perché, al di là delle assonanze e delle vicinanze (ma, ugualmente, delle distanze, che sono e rimangono ben marcate) tra i due, ciò che si è provato a saggiare è il modo con cui è stata posta, dall’uno e dall’altro, e con le rispettive differenze, la questione del “politico” in un’epoca di transizione – la loro, che continua a essere in una certa misura ancora la nostra – nella quale, con sempre maggiore evidenza, i bordi del 'politico' tendono a sfrangiarsi, rendendo più complessa e articolata la descrizione dei fenomeni sociali e culturali, in quanto sottoposti a un processo di rimescolamento delle distinzioni con cui le coppie oppositive di politico e impolitico, di pubblico e privato, di emancipazione e asservimento, di progresso e conservazione ecc. sono state erose al punto tale che il loro uso è diventato generalmente assai problematico e in qualche caso perfino impossibile. Le virgolette del titolo servono appunto a segnalare una cautela metodologica circa l’impiego del termine di “politico”, tanto più necessaria per evitare di cadere nella trappola dell’attribuzione di una posizione politica – in senso ristretto – da cui far discendere delle conseguenze in merito al pensiero, all’arte, all’opera e, perfino, alla biografia.
Ma cautela non significa mancanza di chiarezza circa i compiti che richiedono la lettura e l’interpretazione dell’opera – preferirei quasi dire dell’atteggiamento etico, politico e culturale – di Pasolini e di Foucault. Entrambi ci hanno offerto strumenti e linguaggi per riconoscere alcuni tratti dell’epoca che stiamo vivendo e per farne qualcosa. L’eredità che hanno consegnato al tempo presente, inattuale o attualissima (o paradossalmente entrambe al tempo stesso), eccede tanto la museificazione memoriale, l’archiviazione pacificante o l’esposizione usurante nel circuito dell’industria culturale. Rotture, deviazioni tematiche, détour, rilanci, aperture di prospettive, indagini inedite, sperimentazioni di linguaggi, tra l’altro, sono altrettanti strumenti per un lavoro di smontaggio e di rimontaggio del presente che richiede descrittori e operatori efficaci: sia Pasolini sia Foucault hanno lasciato una cassetta per gli attrezzi il cui impiego può permettere di riconoscere alcune delle costanti nelle tendenze che caratterizzano l’odierno progetto egemonico del tardo-capitalismo.
Dal valore di quelle analisi e di quelle sintesi occorre, dunque, ripartire a pensare, con due accorgimenti quasi speculari. A proposito di Pasolini, si tratta di evitare il pericolo di un fraintendimento, ancora attualissimo, che ha come effetto di pregiudicare la comprensione del gesto estetico (che è anche politico) e poetico (che è anche critico), con il risultato di mettere fuori gioco la domanda sugli aspetti più scabrosi e inattuali della sua opera: né poeta solo civile né solo poeta politico, Pasolini è forse colui che, nel contesto storico-culturale italiano, ha descritto con maggior vividezza la riconfigurazione del potere politico in biopotere e ha provato a riattivare delle risorse culturali-critiche in nome di una resistenza consapevole ai processi di mutazione in corso. E, a proposito di Foucault, la crescente mole di studi che si è accumulata e che continua a crescere, contestualmente alla pubblicazione dei corsi al Collège de France, oltre a testimoniare della fortuna di un lavoro che non smette di alimentare il discorso critico, dovrebbe peraltro indurre a una qualche forma di sospetto sugli effetti di neutralizzazione del potenziale eversivo del pensiero, di normalizzazione discorsiva prodotti dalle attuali appropriazioni, mimetiche o assimilanti che siano, e di susseguente capitalizzazione simbolica. Far reagire Pasolini e Foucault ha voluto perciò indicare, anzitutto, l’esigenza di sottrarre i loro discorsi all’azione di una memoria selettiva che rimuove, più o meno sistematicamente, i tratti di pensiero eterogenei all’attuale mainstream culturale in quanto a esso antagonisti. Al tempo stesso, si è voluto indicare delle linee di approfondimento e di ricerca che hanno rilanciato l’indagine filologica sul terreno della riflessione teorica, o hanno provato a indicare dei momenti sensibili nell’articolazione del senso del 'politico' per metterne in luce degli aspetti trascurati.
Abiura, parresia e sessualità (estratto)
Marco Antonio Bazzocchi
L’Abiura dalla Trilogia della vita è un testo con statuto particolare: anticipato su giornale (il Corriere della Sera), esce in volume insieme alle sceneggiature della Trilogia stessa, ma le precede e quindi le rinnega. La data della stamperia è ottobre 1975, a ridosso di pochi giorni dalla morte di Pasolini, anche se l’autore dichiara di scrivere il 15 giugno 1975, giorno di elezioni. In realtà, la portata di queste due pagine e mezzo è enorme. Si tratta di una dichiarazione con cui Pasolini allontana da sé gli ultimi anni di lavoro, dal 1970 al 1974. Potremmo considerarla una specie di confessione, ma anche un atto di accusa sia contro il proprio tempo che contro se stesso. Una confessione che afferma un nuovo regime di verità, ma lo fa a partire dalla presa d’atto (fredda, risentita, a volte sprezzante) di una nuova realtà. Una accusa lanciata contro il proprio tempo presente, ma anche contro il proprio passato, e quindi implicitamente anche contro il sé passato. Se la Trilogia era un’archeologia condotta nei mondi antichi alla ricerca di tracce della vitalità e della corporeità (nel medioevo, nel primo umanesimo e nel primitivissimo oriente), l’Abiura dichiara che i corpi del presente sono corrotti, e quindi, implicitamente, erano corrotti anche quelli di epoche passate. Solo un’illusione ottica, una specie di sguardo presbite, offriva l’illusione di un passato ancora “puro” in confronto con un presente irrimediabilmente “impuro”. I corpi che Pasolini aveva cercato con cura e dedizione – a Napoli, nella provincia inglese, in Etiopia – offrivano un’immagine distorta della sopravvivenza del passato: "oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo". Il sottoproletariato del mondo, che "ora" si rivela "immondizia umana", anche "allora" lo era potenzialmente.
Pasolini dice espressamente che nella crisi antropologica iniziata verso la fine degli anni Sessanta, i corpi "innocenti" sembravano essere l’ultimo baluardo della "realtà": l’espressione – che rappresenta una vera e propria parola chiave nel sistema concettuale pasoliniano – va letta in opposizione al concetto di “irrealtà” rappresentato invece dalla cultura di massa e dai mass media. Là dove si stava velocemente creando effetto di irrealtà, il corpo ancora resisteva con la sua realtà. Ora, al contrario,
"anche la 'realtà' dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana"[1].
Ma sappiamo anche che, se esisteva una vecchia concezione della realtà, questa non poteva essere disgiunta dall’idea della sessualità. Creando un nodo tra realtà e sessualità, Pasolini è riuscito a conferire una nuova, specifica identità all’intera operazione culturale dei suoi ultimi anni di scrittore, regista e intellettuale. Se ci pensiamo bene, nessuna delle opere degli anni Settanta (Petrolio, la Trilogia, Salò, Scritti corsari ecc.) si sottrae a questo nodo.
Nell’intervento intitolato Tetis (del 1973) Pasolini aveva anticipato il concetto: i borghesi, con la loro sottocultura, hanno derealizzato il corpo "e ne hanno fatto una maschera"[2]; il popolo invece è arrivato più tardi a questo capolinea, e per questo il significato del corpo popolare è potuto diventare la base dei film della Trilogia. Ma Pasolini, come sappiamo, non si ferma semplicemente a questa considerazione, che potrebbe valere anche per la prima parte della sua attività di autore. Pasolini aggiunge che lui ha avuto bisogno di rappresentare il corpo nudo e il sesso come momenti culminanti che testimoniavano di questa sopravvivenza della realtà. Il corpo nudo e il sesso, soprattutto il sesso (gli organi sessuali), sono “realtà”. Senza questo passaggio non credo si possa capire l’operazione condotta negli anni Settanta, che è tutta all’insegna di un movimento doppio: da una parte la progressiva presenza della sessualità, l’allargamento massimo delle possibilità del rappresentabile fino a comprendere il “coito” (l’attenzione per il coito, sia eterosessuale che omosessuale è al centro di molte strategie discorsive di Pasolini, come vedremo), dall’altra però la constatazione, sempre più fondata, che la sessualità è ormai oggetto di attenzione di un altro regime discorsivo, un regime discorsivo pervasivo e impossibile da ignorare, quel regime che risponde a un soggetto nuovo di Potere ("il nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi"[3]). Vorrei sottolineare che entrambi i testi da cui sto citando, Abiura e Tetis, ripetono le stesse cose, e cioè ribadiscono la scelta della sessualità come oggetto politico e strategia espressiva e nello stesso tempo dichiarano ormai arrivato il tempo in cui questa scelta si rivela fallimentare, inutile, addirittura negativa. Sono due testi sulla 'verità', parlano il linguaggio della verità, esattamente come gli Scritti corsari: in essi Pasolini si espone in pubblico come soggetto che pratica una nuova verità, e trasferisce all’interno di questa verità – di questo discorso sulla verità – il vecchio discorso sulla realtà. Voglio dire che il discorso sulla realtà del corpo, sulla forza espressiva del corpo, sull’esigenza di fare del corpo un oggetto di attenzione che esce dalle vecchie regole della rappresentazione, tutto questo ora sembra trovare una nuova ragione nel momento in cui viene iscritto dentro a una enunciazione che corrisponde alla volontà di dire la verità senza nessun ostacolo. Chi può essere più sincero di un autore che arriva a ripudiare quanto ha fatto pochi mesi prima? A chi credere se non a qualcuno capace di dichiarare apertamente un fallimento estetico, morale e ideologico? Pasolini è molto determinato a definire la distanza insanabile che si è creata tra quanto aveva valore prima e quanto si sta verificando oggi. Solo la verità enunciata ora può rivelare cosa il corpo-realtà implicava, fin da allora. Pasolini sottolinea anche che solo in virtù di un effetto di illusione ha potuto – per qualche anno – far riferimento alla realtà del corpo:
"Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato e, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo"[4].
L’Abiura, dunque, non è un testo da trascurare. Anzi. Si tratta di una frattura che spacca in due il mondo pasoliniano, ma che nello stesso tempo trasporta le idee dell’autore su un altro piano. Bisogna anche tener presente che non siamo di fronte a un concetto del tutto nuovo, perché Pasolini ha già utilizzato altre volte il termine “abiura”. In particolare sottolineo la presenza del termine alla fine del complesso componimento Poema per un verso di Shakespeare, costruito come una specie di rievocazione autobiografica visionaria, dominata da una figura allegorica (l’uccellaccia) che rapisce l’autore nei cieli diversi della sua vita (Friuli, Roma, Africa) per poi lasciarlo svuotato di ogni sapere, e capace solo di innalzare il grido di abiura: "Abiuro dal ridicolo decennio", cioè dagli anni Cinquanta e dall’impegno ideologico che li hanno caratterizzati. "Abiuro da": questa è la formula che si ripete, che torna nella premessa alla Trilogia. Cioè: mi allontano, volto le spalle, prendo le distanze, rinnego. Anche nel caso del testo poetico, la struttura della rievocazione autobiografica prende il colore della confessione e quindi diventa un atto discorsivo fortemente implicato con il bisogno di dire la verità su di sé nel momento in cui ci si vuole liberare del proprio passato.
Liberarsi del passato, non riconoscersi in quanto si è fatto, praticare una verità su di sé: questi tre atti sono impliciti nella scelta della strategia retorica che chiamiamo “abiura”. E che possiamo far rientrare nella più ampia categoria della confessione. Prendo questa affermazione di Foucault dal volume delle lezioni Mal faire, dir vrai, cioè il corso di Lovanio del 1981:
"La confessione è un atto verbale attraverso cui il soggetto fa un’affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso"[5].
So bene che Foucault non si riferisce a testi di natura espressiva o poetica ma ad atti verbali con diverse caratteristiche discorsive. Ma secondo me la traccia foucaultiana può servirci anche se la trasponiamo nella prospettiva che ci interessa, soprattutto perché niente ci impedisce di considerare l’intera opera di uno scrittore come un unico atto discorsivo, come una fondazione discorsiva che convive, affianca, spesso disdice le altre formazioni discorsive di un’epoca.
E vorrei appunto sottolineare due concetti: il fatto che la confessione lega il soggetto a una verità e nello stesso tempo lo mette in posizione di dipendenza nei confronti degli altri. Penso che questa posizione di dipendenza si senta in molti punti dell’opera di Pasolini, proprio come posizione di chi sa bene di porsi dentro la Legge come trasgressore della Legge (un concetto di San Paolo che Pasolini conosce benissimo) e quindi di non poter fare a meno della Legge stessa.
Questa è la logica con cui prendere in considerazione l’Abiura. Si tratta di un atto parresiastico, cioè di una assunzione di verità che mette il soggetto in una posizione particolare, come atto rituale che implica un pubblico ma anche un officiante. Vorrei però anche sottolineare l’effetto che questo atto di parresìa crea intorno all’opera, o meglio nel rapporto dell’autore con la propria opera. Se l’autore confessa di sconfessare la sua opera, e lo fa perché ammette che l’opera non è più plausibile in un nuovo regime di verità che lui stesso sta portando alla luce, ciò produce come effetto che l’opera viene collocata in una posizione sospesa. Non c’è più l’istanza dell’autore a sostenerla, soprattutto non c’è più quel patto fiduciario per cui l’autore crede in quello che ha creato. Nello stesso tempo però l’opera, proprio attraverso la negazione, acquista un valore nuovo, e questo valore è direttamente proporzionale all’atto parresiastico dell’autore. Proprio perché lasciata in uno stato sospeso, l’opera acquista uno statuto particolare, che la rende non idonea al presente ma nello stesso tempo capace di anticipare qualcosa che deve ancora venire. Cioè nell’opera compaiono dei segnali che inevitabilmente hanno a che fare con la nuova verità e anche con la nuova realtà. Pasolini utilizza (come altre volte) il ricorso al termine “sopravvivenza”. “Sopravvivenza” è il concetto centrale con cui Pasolini definisce la realtà contenuta nella Trilogia. Sopravvivenza vuol dire che anche dalla negazione della morte può tornare la vita, o che perlomeno alcuni elementi dell’opera che sembrano per sempre perduti nel fondo del passato possono essere letti come anticipazioni allegoriche di qualcosa che ancora deve manifestarsi[6]. Questa è un’idea centrale che Pasolini elabora a cominciare da Poesia in forma di rosa, e che torna più volte nelle pagine degli ultimi anni, fino a permeare anche il modo con cui Pasolini pensa di realizzare alcuni atti definitivi che hanno il suo corpo come oggetto, per esempio quando decide di farsi fotografare o di rappresentarsi come Dante mentre compie una nuova discesa agli inferi del neocapitalismo.
Ma torno al problema della parresìa. A mio parere, una volta che l’autore ha sconfessato la sua opera, si apre un nuovo spazio tra lui e l’opera. E questo spazio è precisamente quello che l’autore ha già identificato, in quanto vi si è installato un nuovo soggetto che si mette in tensione con l’autore stesso. Questo soggetto, questo intruso, questo portatore di violenza è precisamente il Potere, quello che Pasolini, in tutti gli Scritti corsari, descrive sotto infinite variazioni come il nuovo Potere, o il Potere del nuovo Capitalismo. L’atto di parresìa è provocato, voluto da questo nuovo Potere, è dalla tensione con questo nuovo Potere che nasce la parresìa. E direi quasi dal 'legame' con questo nuovo Potere perché in effetti – anche se non mi sembra che Pasolini si fermi mai su questo – noi possiamo pensare (sempre utilizzando Foucault) che questa nuova forma di soggettività con cui Pasolini si mostra sia anche una specie di sua personale strategia per far saltare il gioco del Potere. Se è vero – come dice Foucault – che l’esercizio del potere richiede atti di verità da parte degli individui che sono "soggetti" in questo rapporto, e che la storia dell’occidente è anche la storia di un nuovo regime di verità connesso alla soggettività, allora proprio esibendo questo rapporto, portandolo all’estremo, Pasolini sta anche esorcizzandolo. È chiaro che l’esorcismo ha bisogno di un passaggio successivo, e il passaggio dobbiamo individuarlo nella coppia di opere Petrolio/Salò. Con queste opere, infatti, sembra che il percorso arrivi a realizzare interamente se stesso, attraverso l’adozione di due forme che contengono, con modalità diverse, l’intero mondo elaborato da Pasolini, riversato però in nuovi contenitori in modo da far emergere con insistenza la centralità del corpo e della sessualità nel loro essere già oggetti di dominio del Potere (e vorrei sottolineare come sia assolutamente errato interpretare le scene di anomia sessuale di Petrolio, in particolare il famoso Appunto 55, come scene di una sessualità finalmente realizzata e liberata, o come esplicita espressione di fantasie pasoliniane: ripeto, in Petrolio come in Salò il sesso non è più liberazione o opposizione, è al contrario già 'assoggettato', cioè effetto di soggettività).
Genealogia di un mattino grigio. Appunti su continuità e discontinuità storica in Pasolini (estratto)
Gian Luca Picconi
L’incipit di Nietzsche, la genealogia, la storia recita: "La genealogia è grigia, meticolosa, pazientemente documentaria"[7]. C’è un legame simbolico, puntualmente registrato da Foucault, tra i concetti di genealogia e storia, da un lato, e il colore grigio dall’altro; e non è casuale che la recensione di Foucault a Comizi d’amore si intitoli Le matins gris de la tolerance[8]. Il titolo è ripresa testuale di un passo dell’articolo: "In fondo, i mattini grigi della tolleranza non incantano nessuno, e nessuno vede in essi la festa del sesso"[9]. Se "tolleranza" è parola desunta dall’idioletto pasoliniano[10], Mattino grigio è sintagma di ascendenza nietzschiana: "Mattino grigio. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo"[11]. C’è un "grigio mattino" anche in Pasolini, in Vittoria, testo di Poesia in forma di rosa[12]. Si tratta di un sintagma molto comune, qui dotato di significazione allegorica. È impossibile dire se Foucault lo avesse notato[13], cogliendovi un’allusione a Nietzsche; ma la rincorsa reciproca e inconsapevole cui pare di assistere tra Pasolini e Foucault[14], legati da evidenti consonanze intertestuali, sembra innescata da un comune patrimonio di suggestioni nietzschiane[15].
Nell’articolo, Foucault non tematizza esclusivamente la questione biopolitica della "tolleranza" e della falsa liberazione dei corpi. Il film di Pasolini gli consente di cogliere il manifestarsi di "una specie di timore storico, un’esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza"[16]. Foucault individua, nel bianco e nero del testo filmico, il baluginare di un elemento di discontinuità storica, con cui Pasolini sarebbe alle prese[17]: la frattura tra mondo dei giovani e mondo dei vecchi (o dei padri e dei figli) da Pasolini ossessivamente tematizzata a partire dai quarant’anni[18]. Ma prima di esplorare il rapporto di Pasolini con la questione vecchi-giovani ci si può chiedere, più astrattamente, quali siano, per lui, gli strumenti di registrazione e rappresentazione della discontinuità storica.
Nell’epigramma Alla Francia, Pasolini è alle prese con il grigiore della storia:
Ho la lieta sorpresa di vedere che assomiglio a Sekou Touré il Presidente della Guinea: il naso schiacciato e gli occhi vivi. Anche lui risalito al grigiore della storia da baratri di puro spirito selvaggio[19].
Risalire al grigiore della storia: accedere alla dimensione storica (una dimensione grigia), a partire da quella preistorica, consiste in una forma di ascensione, per Pasolini. Il sintagma "grigiore della storia" ricorre anche in Foucault:
In un discorso come questo non si tratta di considerare il grigiore della storia come un dato superficiale che bisognerebbe ricondurre ad alcuni principi stabili e fondamentali; non si tratta di giudicare i governi ingiusti, gli abusi e le violenze, riferendoli a un certo schema ideale [...]. Al contrario, dietro le forme del giusto quale è stato istituito, dell’ordinato quale è stato imposto, dell’istituzionale quale è stato accettato, si tratta di scoprire e di definire il passato dimenticato delle lotte reali, delle vittorie effettive, delle disfatte che lasciano il loro segno profondo anche se sono state dissimulate[20].
Proprio su questo grigiore, è possibile azzardare un parziale bilancio di affinità e divergenze tra i due autori. In Foucault il grigiore – una forma di opacità – della storia intesa come Historia rerum gestarum si oppone alla fantasmagoria delle reali res gestae: fantasmagoria che il grigio lavoro del genealogista è in grado di cogliere sotto forma di una serie di effetti di superficie del discorso. La grigia pazienza del genealogista è allora il contrario della passione di Pasolini, per il quale il grigiore della storia è una connotazione atmosferica: si tratta dello strato superiore, aereo, superficiale, di una serie di strati più profondi. Una concezione della storia fatta, per Pasolini, a strati, viene fuori esplicitamente – più o meno negli stessi anni di redazione di Alla Francia – su "Vie Nuove":
"La storia è spessa, scorre su più strati! E lo spirito non è che la coincidenza semantica dell’individuo con la storia"[21].
C’è una trascendenza della storia e una verticalità del discontinuo, basato su salti, di contro all’orizzontalità del discontinuo foucaultiano, basato su strappi e fratture[22]. E c’è un grigiore di una storia attualmente incapace di evoluzione, perché non più investita frontalmente dalla progressiva "luce / del futuro"[23], di contro al foucaultiano grigiore, residuo di una incessante fantasmagoria.
Il sintagma "grigiore della storia" mostra come, nella poesia di Pasolini, si mescolino continuamente significazioni allegoriche vere e proprie con enunciati o concetti teorici: figurante e figurato convivono esplicitamente nello stesso spazio testuale. L’allegoria è positivamente disvelata: ogni qual volta si parla di sole e di luce – e a fortiori anche quando si parlerà di lucciole – si può stare sicuri che nei testi pasoliniani è in gioco un’allegoria della dimensione storica. La storia è un cielo grigio, animato da bagliori, baluginii, variazioni luminose: discontinuità di diverso segno e intensità. Ora, Pasolini si avvale di almeno tre figure di pensiero, per concettualizzare gli aspetti di discontinuità storica: sopravvivenza, rinascita[24] e metastoria. È in particolare di quest’ultimo concetto che qui ci si intende occupare.
La prima occorrenza di un lessema afferente al campo lessicale della metastoria (per la precisione dell’aggettivo metastorico), nei testi di Pasolini, ha luogo nel 1954, in una lettera a Carlo Betocchi:
"Non c’è niente in cui creda di più che in quello che Lei scrive nella sua lettera: la libertà dell’io in direzione basso-alto, ch’è una direzione metastorica [...]. Operata questa identificazione cultura-storia, è chiaro che è su questo piano che vivono i nostri simili – il prossimo – e che è su questo piano che noi dobbiamo esternare e far concreto l’amore: proprio l’amore metastorico di Cristo. Badi che Cristo, facendosi uomo, ha accettato la storia: non la storia archeologica, ma la storia che si evolve e perciò vive: Cristo non sarebbe universale se non fosse diverso per ogni diversa fase storica. Per me, in questo momento le parole di Cristo: 'Ama il prossimo tuo come te stesso' significano: 'Fa’ delle riforme di struttura'"[25].
Scritti corsari e polizia discorsiva. Politiche della verità in Foucault e Pasolini
Massimiliano Nicoli
È chiaro che la questione della parresìa nei termini in cui la analizza Foucault e nella misura in cui se ne rintracciano gli echi in Pasolini ha a che fare con una “politica della verità”: espressione che rimanda non solo alle implicazioni politiche che i discorsi di verità possono avere, ma soprattutto al fatto che la stessa produzione dei discorsi di verità è un fatto eminentemente politico. In questo senso, la questione della parresìa non può essere scollegata dall’attualità e dai giochi di verità in cui ci troviamo nel presente, e l’importazione della questione della parresìa dall’antichità greco-romana nella contemporaneità è un’operazione che richiede un’enorme dose di cautela. Per esempio, possiamo prendere in considerazione il fatto che nella scena odierna il gesto di presa di parola ha cambiato la propria connotazione politica. Sappiamo bene, infatti, che esistono almeno due modalità per neutralizzare i discorsi e i loro possibili effetti politici: esiste la modalità tradizionale della censura, della repressione della parola, della sua riduzione al silenzio, ed esiste, al contrario, la proliferazione indefinita ancorché disciplinata del discorso, la sua demoltiplicazione fino a divenire una sorta di continuo brusio. In questo secondo quadro – e mi chiedo se oggi non sia proprio qui che ci troviamo – il coraggio della verità potrebbe avere a che fare, paradossalmente, con la creazione di zone di interruzione, di silenzio e di ascolto, o per lo meno di rarefazione della parola: "vacuoli di non-comunicazione" avrebbe detto Gilles Deleuze[26]. Del resto, già Foucault, analizzando il personaggio filosofico del cinismo antico, raccoglieva un invito che proveniva da quell’epoca e che parlava di “poco di vita” e “poco di verità”, adombrando un gesto di rimpicciolimento dell’ipertrofia del logos e forse della nozione stessa di soggettività per come siamo abituati a maneggiarla[27]. Non solo, Foucault ha anche molto insistito sul carattere ambiguo della parresìa, dei pericoli insiti nel suo stesso gioco, cioè la possibilità sempre incombente che essa si rovesci nel suo opposto, nella chiacchiera, nella parola populista, nell’esibizione narcisistica. È necessario immaginare nuove mosse quando problematizziamo la parresìa in un presente in cui forse c’è un troppo di discorso, un eccesso di esposizione di sé, e il coinvolgimento soggettivo nel discorso rischia di essere ripreso nelle forme identitarie della confessione o catturato dalle psicologie prêt-à-porter a uso aziendale in cui siamo sollecitati a conoscere noi stessi, a esporci per convertirci a un destino di performance e di gestione manageriale della nostra esistenza.
Ora, per evitare questo rischio – un rischio che è proprio della parresìa – suggerisco – e in questo intervento non posso che limitarmi a questo – di indagare un altro terreno comune tra Foucault e Pasolini. Un terreno che riguarda il tipo di gesto che entrambi effettuano, prima che sul piano della propria soggettivazione di intellettuali, sull’oggetto del proprio operare intellettuale e sui modi di questa operazione, come se fosse un gesto preliminare, una specie di rinnovata epoché fenomenologica che si esercita a livello – ripeto – di una politica della verità e della nostra collocazione all’interno dei giochi di verità. Mi concentro sull’immagine evocata dal titolo di questo intervento: Scritti corsari – titolo pasoliniano – e polizia discorsiva – espressione che Foucault utilizza nel corso della sua lezione inaugurale al Collège de France[28]. I corsari e la polizia. C’è un luogo, in Foucault, in cui entrambi i personaggi – i corsari e la polizia – vengono chiamati in causa. Si tratta di una conferenza radiofonica del 1966 intitolata Le eterotopie[29] (in rete è disponibile la registrazione della conferenza). Che cosa sono le eterotopie? Sono degli spazi altri, dei contro-spazi, degli spazi assolutamente differenti, ma, diversamente dalle utopie, sono spazi concreti, reali, utopie localizzate, luoghi reali fuori da tutti i luoghi.
I bambini – dice Foucault – conoscono benissimo questi spazi: sono l’angolo del giardino, la tenda piantata nella soffitta, il grande letto dei genitori che diventa mare in cui nuotare, cielo in cui volare, bosco in cui nascondersi, notte in cui diventare fantasmi[30]. E conoscono questi contro-spazi perché gli adulti non fanno altro che crearne: sono "contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo"[31]. Le eterotopie – dice Foucault – hanno come regola quella di sovrapporre in un luogo reale più spazi che normalmente dovrebbero essere incompatibili, come nel caso del teatro, della sala del cinema, del giardino tradizionale, con le sue architetture complesse e i suoi significati simbolici. E poi i musei, le biblioteche, i villaggi vacanze, le fiere, i cimiteri, i manicomi – certo, le eterotopie non sono per forza luoghi gradevoli. Ora, la nave, "spazio vagante", "riserva dell’immaginazione", "luogo senza luogo"[32], è l’eterotopia per eccellenza. Quando una civiltà è senza navi – e soprattutto senza navi pirata (certo, occorrerebbe forse puntualizzare la differenza tra pirata e corsaro, ma non è questa la sede) – i sogni dei bambini "si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari"[33].
Torniamo allora al discorso di verità, al discorso vero, e proviamo a considerarlo come uno spazio in cui abitiamo. Impariamo da Foucault che non si tratta di uno spazio "neutro e bianco", ma di uno spazio solcato da un reticolo di poteri, uno spazio quadrettato, ordinato, con zone di luce e zone d’ombra. È uno spazio – dice Foucault, questa volta nella sua lezione inaugurale al Collège de France – controllato, selezionato, organizzato da una serie di "procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiare l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità"[34]. Il discorso è una pratica discontinua, disordinata, battagliera che va sempre assoggettata all’interno di ciò che Foucault definisce un "regime di verità". Da qui una serie di "procedure di assoggettamento del discorso", come il principio del commento, la funzione dell’autore, l’organizzazione delle discipline, che svolgono la funzione di istituire il campo del vero, il campo del visibile, il campo del dicibile, selezionando i soggetti autorizzati a prendere la parola e rappresentando quel campo come uno spazio pacificato, celeste e animato dal puro, innocente, originario desiderio di conoscere. Questa è la polizia discorsiva di cui parla Foucault, il quale ci indica anche delle figure che, con la loro opera e con la loro vita, hanno ingaggiato un corpo a corpo contro questo genere di polizia: Nietzsche, Artaud, Bataille – scrittori corsari, forse – e chissà se noi possiamo aggiungere il nome di Pasolini.
Io aggiungerei il nome di Pasolini e anche quello di Foucault stesso, nell’ipotesi che Pasolini e Foucault, ciascuno lavorando lungo i bordi delle discipline e dei linguaggi, ciascuno mettendo in discussione le posizioni consolidate dell’autore e le regole acquisite della rappresentazione, abbiano cercato di dire il vero senza essere nel vero, ma situandosi piuttosto nello spazio di una "esteriorità selvaggia" – per dirla con Foucault – rispetto al quadrillage disciplinare dei discorsi e alle forme attuali e riconosciute della nostra "volontà di verità". Pasolini e Foucault, dunque, scrittori corsari che hanno lavorato alla costruzione della propria opera come una nave pirata, come un’eterotopia, che solca lo spazio ordinato del discorso – salvo poi essere eventualmente recuperati nell’ordine del commento, dell’autorialità e dell’organizzazione disciplinare da noi commentatori, ma questo è un problema che chiama in causa la responsabilità politica degli studiosi. Se vogliamo, questa operazione di recupero e di assimilazione che si esercita post mortem sull’opera di Foucault e Pasolini è la vendetta della polizia discorsiva, una vendetta più sottile e sofisticata della reazione che ebbero i guardiani del sapere di allora, quelli che accusavano Pasolini di essere un patetico ripetitore di cose già ben note alle scienze sociali, o quelli che contestavano a Foucault di non adeguarsi alle procedure di veridizione delle discipline che interpellava, fossero la filosofia, la storia, l’economia, la scienza politica, la medicina, la psichiatria, la psicoanalisi.
Pilade come Pasolini. Teatro politico e corpo mentale
Gerardo Guccini
Le tragedie giungono in un momento in cui Pasolini mette retoricamente a punto nell’agorà della stampa periodica la sua identità pubblica di individuo legato alla polis, ma non a questa integrato; politico, ma non partitico. Il teatro aggiunge a questa arrovellata interlocuzione sociale i dialoghi interni all’oratore-poeta, che restituiscono al contesto civile quanto ne hanno tratto in termini di conoscenza e coscienza. Le tragedie di Pasolini non interagiscono con la realtà attraverso la sua imitazione, bensì affilando le valenze dialettiche del linguaggio lirico dell’io, che viene a coinvolgere ogni aspetto dell’individuo sociale: i legami parentali e gli aspetti economici; la psiche e il corpo; i desideri e il rapporto con il potere.
In una dichiarazione seguita alla rappresentazione di Orgia, l’unica tragedia direttamente curata dall’autore, Pasolini avvicina la sua drammaturgia alla dimensione ateniese del teatro:
"io trovo che invece sia profondamente democratico ribellarmi a questo, rinunciare a certi miei vecchi ideali nazional-popolari, rinunciare anche a quello che volgarmente si definisce 'successo', e rivolgermi a dei pubblici ristretti che riproducono in qualche modo, democraticamente, l’antica Atene"[35].
Ecco, l’antica Atene. La prima tragedia edita di Pasolini, Pilade ("Nuovi Argomenti" numero 7-8 del 1967), è un prolungamento dell’Orestea eschilea, precedentemente rivista dallo stesso Pasolini per gli spettacoli al Teatro greco di Siracusa con Vittorio Gassman. Pasolini si avvicina alla dimensione ateniese attraverso un argomento ateniese. Chi è il suo interlocutore quando scrive le tragedie? Chi è il suo interlocutore quando pensa al "nuovo teatro"? È probabile che questo interlocutore sia lo stesso. Il Manifesto lo indica esplicitamente: "I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia"[36].
Tra questi "gruppi avanzati" c’erano però, in primo luogo, le folle dei giovani pacifisti, ribelli e politicamente impegnati che individuavano nell’innovazione artistica un incentivo a trasformare se stessi e il mondo sociale. Pasolini le incontra a Roma nel 1965[37] e l’anno dopo a New York, dove, come ricorda a tre anni di distanza, gli sembrano inscenare una "tragedia spettacolare, vissuta pubblicamente e perciò trascinante, vitale, esaltante"[38]. La scrittura tragica di Pasolini è impensabile in assenza della frattura generazionale-culturale degli anni Sessanta, alla quale il drammaturgo ispira le matrici profonde del suo teatro, che, nel rapportarsi alle rivendicazioni dei figli, fa i conti col rimosso ruolo paterno. Negli anni Sessanta, tra happening pubblici, cortei e ’68, Pasolini scopre una nuova mobilità generazionale, una diversa identità antropologica. I giovani gli sembrano poter superare l’appiattimento borghese. Non appartengono al passato, ma nemmeno ne implicano la perdita. Anzi, le loro rivendicazioni potrebbero raccogliere il testimone della Resistenza, rigenerare il suo spirito civile. Sono l’imprevedibile futuro che s’affaccia sulle crisi del presente. Il rapporto di Pasolini con la nuova leva generazionale e con il Movimento studentesco è stato, prima di essere fortemente critico, un amore contraddittorio e combattuto. Pasolini si è rapportato ai giovani provando un sentimento di inclusione quasi carnale. Si rivolgeva loro non per educarli o per indottrinarli, ma per condividere un’inquieta particella del proprio esistere, ricevendone in cambio un senso d’appartenenza alla nuova epopea resistenziale.
In definitiva sia le tragedie che il Manifesto per un nuovo teatro presuppongono una leva generazionale che stia perturbando il mondo sociale, e che, riconoscendo d’acchito i pensieri fraterni alla sua rivolta, dispensi loro quelle forme di viscerale ascolto e analitica attenzione di cui il teatro pasoliniano, sia scritto sia teorizzato, abbisognava.
Nella tragedia di Pasolini prende corpo e si svolge, come appunto voleva il Manifesto, un discorso sul reale, che ha però la densità e la forza di una verità custodita. Il mondo sociale, di cui parla Pasolini, non figura in primo piano come in un romanzo o in un pamphlet, ma viene filtrato da dinamiche interne all’orizzonte coscienziale. La tragedia pasoliniana, insomma, oggettiva drammaticamente l’introiezione del contesto civile: il suo essersi fatto corpo e pensiero dell’autore. Di questo Pasolini ci parla.
In seguito, la tragedia sviluppa organicamente questa linea drammaturgica, che condensa quale proprio contenuto tematico la storia civile dell’Italia post-bellica. A fronte della minaccia costituita dai fuoriusciti dalla città che si sono rifugiati con Pilade sui monti, il Coro propone infatti l’alleanza con Elettra, delineando una realtà politica fatta di opposti estremismi e oscure connivenze. Elettra e Pilade, o, meglio, i loro rispettivi alleati e seguaci, sono le polarità tra cui si dibatte un sistema democratico malato alle radici. Al centro di questi due estremismi, quello di Pilade sui monti e quello di Elettra, la "nera" Elettra con gli scherani “fascisti”, c’è il Coro dei cittadini che, per reazione al rischio di una minaccia radicale, si allea con Elettra e i suoi seguaci. In trasparenza, si intravvedono i servizi segreti deviati, le connessioni tra la destra extraparlamentare e il potere politico e, più in là, il futuro articolo scritto da Pasolini il 14 novembre 1974: "Io so chi sono gli autori delle stragi italiane". La crisi politica narrata dalla tragedia in parte riflette eventi del passato recente – la traumatica costituzione del governo Tambroni grazie all’appoggio dell’estrema destra –, in parte anticipa eventi futuri: la stagione delle stragi e degli opposti estremismi. Pasolini fu consapevole del fatto che gli sviluppi storici modificavano la sua allegoria tragica, tanto che, rimettendo mano alla prima versione edita del Pilade, apportò mutamenti che riflettevano il radicalizzarsi dei conflitti. Sul coperchio della pentola, dove, nella profezia di Atena, bollono i corpi dei giovani sterminati, appare il simbolo della svastica: "due serpentelli geometrici, in croce". In modo analogo cambia anche il contesto della mitica scena (probabilmente ispirata a Medea), che, nell’edizione postuma Garzanti del 1977, evoca piuttosto i lager nazisti, ambientandosi "[i]n una distesa di neve, tra piccole casematte circondate da invalicabili reticolati". Poi, pochi versi dopo, la Dea non dice più, come nell’edizione del 1967, "Non profetizzo questa guerra per chi la vivrà", ma con più stretta aderenza ai plumbei anni Settanta: "Non profetizzo questa rivoluzione di destra e questa guerra per chi la vivrà".
La tragedia Pilade rivela un meccanismo fautore di stragi. Ma quest’opera di poesia non parla soltanto delle degenerazioni del sistema politico; i suoi versi dichiarano infatti strane vicinanze e promiscuità morali. Il comune riferirsi al passato salda trasversalmente Pasolini, Pilade ed Elettra, personaggio che è un’ulteriore voce dell’autore, qualcosa, in lui, di intimo e terribile. Pasolini stesso lo sottolinea con un atto emblematico. A un certo punto Elettra e Pilade si scambiano un bacio: chiara metafora del comune magma antropologico che supporta le loro diverse lotte di “forze del passato” contro una "modernità, responsabile di sviluppo senza progresso e, negli esiti ultimi, di un (irreversibile?) genocidio culturale". Bellissimo il commento poetico che Pasolini affida alla voce di Elettra:
"Ora so soltanto che non esistono nemici, e che i nemici ... sono degli amori sconosciuti..."[39].
Nella versione del 1967, Pasolini/Pilade, forse pensando al rapporto con Ezra Pound (intervistato nell’ottobre di quell’anno)[40], si spingeva ad affermare la consanguineità ideale che lo univa alla nera Elettra: "Ah, lo so, mia sorella – perché gemi così?". Prima ancora, in una variante scritta nel 1966 e poi espunta, Pasolini si era diffuso sulle scandalose contiguità tra Pilade ed Elettra. I tagli della variante nella versione del 1967 e, poi, del riferimento alla fraternità incestuosa tra i personaggi, mostrano come Pasolini si preoccupasse di adattare le tematiche tragiche alle situazioni della contemporaneità civile. Iniziata la stagione delle stragi, le corrispondenze tra Pilade ed Elettra vengono attenuate, mentre si esplicita il timore d’una rivoluzione di destra. In conclusione, le tragedie adempiono al mandato civile del Manifesto, che, giustamente, non essendo una poetica ma un invito a mutare il modo di fare teatro, omette di considerare i processi che filtrano attraverso la persona dell’autore i temi su cui confrontarsi e dibattere.
[1] L’Abiura dalla "Trilogia della vita" si trova in P.P. Pasolini, Lettere luterane, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 601.
[2] P.P. Pasolini, Ivi, pp. 257-264. L’intervento esce in P.P. Pasolini, Erotismo, eversione, merce, Bologna, 1973.
[3] Ivi, p. 263.
[4] Pasolini, Abiura dalla "Trilogia della vita", cit., p. 601.
[5] Cito da M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981) (2012), traduzione di V. Zini, Torino, 2013, p. 9.
[6] Cfr. G.L. Picconi, Genealogia di un mattino grigio. Appunti su continuità e discontinuità storica in Pasolini, in questo stesso volume alle pp. 57-69.
[7] M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, 1977, p. 29.
[8] M. Foucault, Les matins gris de la tolerance, apparso dapprima in "Le Monde" del 27 marzo 1977, p. 24, e successivamente raccolto in Id., Dits et écrits, Paris, 2001, vol. ii, pp. 269-271, si legge in traduzione italiana, con il titolo I mattini grigi della tolleranza, e preceduto da una puntualissima introduzione di R. Kirchmayr, in "aut aut", 345, gennaio-marzo 2010, pp. 55-59.
[9] Ivi, p. 59.
[10] Tra i tanti casi, uno indicativo del 1973: "La tolleranza è la peggiore delle repressioni" ([Descrizioni di descrizioni], in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, vol. II, p. 1796).
[11] Si cita, per la facilità di reperire l’edizione, da F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, a cura di P. Gori e C. Piazzesi, Roma, 2012, p. 59.
[12] "Faccio ridere / ora, se, suggerite dal sogno, / in un grigio mattino che videro / morti, / e altri morti vedranno, ma per noi / non è che un ennesimo mattino, grido / parole di lotta?" (P.P. Pasolini, Vittoria, in Id., Poesia in forma di rosa [1964], in Tutte le poesie, a cura di W. Siti, cronologia di N. Naldini, Mondadori, Milano, 2003), vol. I, p. 1259, (corsivo mio). Probabile nel sintagma una suggestione goethiana.
[13] Nel 1973 era uscita, presso Gallimard, nella traduzione di José Guidi, una antologia di Pasolini (Poésies 1953-1964, Gallimard, Paris, 1973) comprendente poesie tratte da Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, tra cui appunto Vittoria (mentre non figura l’epigramma Alla Francia).
[14] Un esempio macroscopico di queste consonanze è dato dall’episodio Che cosa sono le nuvole? in Capriccio all’italiana, di cui Marco Antonio Bazzocchi, molto puntualmente, ha messo in relazione la citazione di Las Meninas con Le parole e le cose (si veda M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Milano, 2007, p. 89).
[15] Secondo Enzo Siciliano, "Non vi fu mai un esplicito, consapevole accostarsi di Pasolini a Nietzsche. Nietzsche era per lui quel che Lukács aveva deciso fosse per tantissimi suoi lettori: l’immagine negativa ed esemplare dell’irrazionalismo borghese. Ma alcune sintonie si sviluppano spesso irresistibili" (Vita di Pasolini, nuova edizione aggiornata, Milano, 2005, p. 365). Un interessante riscontro su intertestualità nietzschiane proviene da L. Gasparotto, Narciso trasfigurato. Comparsa dell’Anticristo nella poesia di Pasolini, in A. Cinquegrani (a cura di), Anticristo. Letteratura Cinema Storia Teologia Filosofia Psicoanalisi, Padova, 2012, pp. 203-215.
[16] Foucault, I mattini grigi della tolleranza, cit., p. 58.
[17] Su questo tema si legga, tra gli altri, il recente testo di G. D’Agostino, Pasolini e la discontinuità del tempo storico, "Il Ponte", lxx, n. 5, maggio 2014, pp. 99-111.
[18] Il tema della polemica contro la gioventù è cruciale in tutto Pasolini, ma soprattutto in Trasumanar e organizzar: "I temi di questo libro politico sono sostanzialmente due: il pci e la nuova generazione “rivoluzionaria”" (P.P. Pasolini, Autorecensione a "Trasumanar e organizzar", in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. ii, p. 2577). Nel libro serpeggia "l’idea [...] che l’uomo – soprattutto giovane – non possa, e perciò non voglia, vivere la libertà" (ivi, p. 2579).
[19] P.P. Pasolini, Alla Francia, in La religione del mio tempo, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 1006.
[20] M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano 1998, p. 53.
[21] P.P. Pasolini, I dialoghi, a cura di G. Falaschi, prefazione di G. C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 235.
[22] L’immagine del salto compare appunto in Trasumanar e organizzar, là dove si parla del "salto tra le due nature, metastoria e storia metastorica" (Pasolini, Tutte le poesie, cit., vol. ii, p. 28); l’immagine foucaultiana delle "fratture della storia" compare in M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, 1997, p. 122.
[23] P.P. Pasolini, Il pianto della scavatrice, in Id., Le ceneri di Gramsci, in Id., Tutte le poesie, cit., vol. i, p. 849.
[24] Si veda, su questi temi, G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza, Torino, 2010, e G.L. Picconi, La “sopravvivenza” di Pasolini: modernità delle tradizioni popolari, in L. El Ghaoui e F. Tummillo (a cura di), Le tradizioni popolari nelle opere di Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, Pisa-Roma, 2014, pp. 69-78.
[25] P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, con una cronologia della vita e delle opere, a cura di N. Naldini, Torino, 1986, p. 709, corsivo mio.
[26] G. Deleuze, Pourparler (1990), traduzione di S. Verdicchio, Macerata, 2000, p. 231.
[27] Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 187. Cfr. anche P.A. Rovatti, Quel poco di verità. Una lezione su Michel Foucault, a cura di R. Kirchmayr,Milano-Udine, 2013.
[28] M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, traduzione di A. Fontana, Torino, 2004.
[29] Id., "Le eterotopie", in Id., Utopie Eterotopie (2004), a cura di A. Moscati, Napoli, 2006, pp. 11-28.
[30] Ivi, p. 13.
[31] Ivi, p. 14.
[32] Ivi, pp. 27-28.
[33] Ivi, p. 28.
[34] Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 4-5.
[35] P.P. Pasolini, Appendice a "Orgia", in Id., Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 2001, p. 331.
[36] P.P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano, 1999, vol. ii, p. 2482.
[37] Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, introduzione di L. Ronconi, Milano, 2005, p. 171.
[38] P.P. Pasolini, Incontro col Living ("Tempo", 16, 19 aprile 1969), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 1206.
[39] Pasolini, Pilade, cit., p. 443.
[40] A. Felice, "Stringo un patto con te Ezra Pound". In margine all’intervista televisiva di Pier Paolo Pasolini Un’ora con Eza Pound, al link http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/ppp-intervista-ezra-pound-di-angela-felice/, pubblicato il giorno 11 aprile 2015, p. 2.
English abstract
The volume Pasolini, Foucault e ‘il politico’, edited by Raoul Kirchmayr, faces a series of crucial issues on the relationship between Pasolini and the culture of his time. Here, we present a reasoned selection of some contributions with the aim of providing a summary of the main issues addressed in the book.
keywords | Book; Politics; Pasolini; Foucault.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Raoul Kirchmayr, Pasolini e Foucault: teatro del corpo e politiche della verità. Presentazione del volume Pasolini, Foucault e il 'politico' (Venezia, 2016), in “La Rivista di Engramma” n.146, giugno 2017, pp. 83-102| PDF