Le Panthéon, bâti par le gendre d’Auguste,
fut le premier grand monument d’architecture non utile.
Stendhal
Trascorsa la mattinata del 4 marzo 1828 a documentare gli scavi nei pressi della Colonna Traiana condotti da un giovane architetto francese, monsieur N., Stendhal affida al suo carnet de voyage italiano una digressione sulla necessità di indagare i costumi di coloro che hanno edificato i monumenti antichi per poterli comprendere a pieno. Nel rincorrersi delle esemplificazioni tra cronaca e storia, il Pantheon emerge lapidario dall’argomentazione. Acuto osservatore, Stendhal ne coglie una ratio che sembra distinguerlo dalla maggior parte delle costruzioni – specie da quelle che lo precedono. Stendhal nota infatti come il Pantheon non sia un tempio qualsiasi, costruito con i materiali del posto per placare la travolgente impetuosità del dio del tuono e dar ufficialità ai giuramenti degli uomini, né sia assoggettato ad altri scopi pratici come invece è la maggior parte dei grandi edifici della Roma imperiale, come le terme o i circhi. Differenza che lo rende al contempo fascinoso e particolarmente adatto per il sentiero tortuoso che ci si appresta ad affrontare.
Il Pantheon è un vero paradigma. L’aura austera e imperfetta di muta sintesi assoluta sembra farne continua misura e lezione, luminosa dimostrazione dal respiro prototipico - παράδειγμα, appunto. Il "puro tempio corintio" di D’Annunzio (1926, 1, 5) è per Rem Koolhaas – che risponde senza pensarci troppo al giornalista di Der Spiegel (Matussek 2006) che lo incalza in tal proposito – l’edificio più bello del mondo. Certo ha tutta l’aria di una risposta di cortesia, poiché l’architetto precisa che discutendo di bruttezza si otterrebbe una risposta più interessante. Resta tuttavia da domandarsi quanti altri architetti, cultori d’arte e antichità classica avrebbero risposto in modo analogo seppur candidamente animati da tutt’altro entusiasmo.
Oltre che per l’occhio ‘iniziato’ degli esperti, il Pantheon è un vero paradigma anche per l’ignaro turista che disperso nel dedalo di vicoli della città eterna emerge alla luce di una piazza piena di vita ed imbattendovisi esclama sintomaticamente "Wow! That’s classic!", dando prova di sincera ammirazione. Dinnanzi a questa scena sorge legittimo chiedersi quanto questa architettura sia insinuata nella nostra cultura, concettualizzandosi quasi come l’antonomasia dell’oggetto architettonico. Wilson Jones rileva infatti come allo stupore destato dall’inattesa maestà dell’antico edificio si accompagni nei visitatori un senso di famigliarità, una sorta di déjà-vu, evocato dall’aver già incontrato in altri edifici il suo "riflesso risonante" (Wilson Jones et al. 2015, 23) dovuto alla pervasività della sua influenza in luoghi ed epoche differenti. Dall’esclamazione spontanea che il "maestoso colonnato" e l’"immensa e nera rotonda del Pantheon" strappano genuinamente al "forestiero confuso quand’è in cerca di altri oggetti" nei "meandri della città" (Hawthorne [1860] 2010, II, XXV) si leva invero tutta la potenza dell’archetipo. Poche efficaci parole dalle quali si evince come all’ombra della sua cupola - finestra sul firmamento e imago della sfera cosmica – vi sia "davvero un mondo in un mondo" (Kahn 1964, 33), rappresentando l’archetipo di tutta l’Architettura e concettualizzandosi in tal senso.
A ben guardare, le carte sembrano essere tutte in regola per aspirare a quel ruolo: le forme classiche – inesauribile fonte tanto di meraviglia quanto di interminabili disquisizioni – che agli occhi di un certo pubblico sono un vero e proprio passepartout, il valore storico ed archeologico, gli illustri natali, la ricchezza e la fastosità del materiale e della fattura, numerosi primati e uno stuolo sterminato di epigoni variamente riusciti.
Una così vasta genealogia testimonia in particolare come il Pantheon abbia rappresentato per la maggior parte degli architetti, rinascimentali prima e neoclassici poi, la quintessenza dell’architettura antica alla quale ispirarsi – indubbiamente complici sia la sua magnificenza sia il suo eccellente stato di conservazione. Se i primi, nota Meeks (1960, 135), lo osservavano puramente in termini di "linee, piani e decorazioni", i secondi ne studiavano prevalentemente gli aspetti volumetrici volgendo contemporaneamente lo sguardo all’originale e all’opera interpretativa dei loro predecessori attraverso gli epigoni di prima generazione, evitando perlopiù di trasformarne il modello in regola, scadere nell’accademismo o nella copia pedissequa, ma mantenendolo quale imperituro stimolo immaginativo.
Tuttavia, questo spiega solo in parte l’eccezionale mole di studi che interessano l’edificio a partire dal primo Rinascimento. Seppur magnificente, il Pantheon infatti non solo ha rivestito il ruolo che oggi si chiamerebbe di inspirational reference, ma ha alimentato dibattiti tecnici, archeologici e soprattutto stilistici e compositivi protrattisi per secoli, generando un’ingente quantità di materiali che interessano la costruzione, molti dei quali grafici o illustrati.
Se a solleticare il genio tecnologico e la fantasia popolare provvedono le ipotesi circa gli scopi dell’opàion e la posa in opera dell’enorme cupola in calcestruzzo, ancora oggi imbattuta per dimensioni, gli indiscussi protagonisti del dibattito tra gli architetti sono di natura compositiva.
Capace di offuscare per importanza alcune imperfezioni sintattiche, lo snodo tra pronao, avancorpo e tamburo dava adito a ipotesi archeologiche circa una realizzazione in distinte fasi di ciascun corpo di fabbrica. Inoltre, la presenza sull’avancorpo di un secondo frontone che ribatte alcuni metri più in alto quello del pronao – il cui timpano non osserva la canonica proporzione greca – contribuiva a rendere la questione ancor più enigmatica. All’interno era parimenti fonte di perplessità ed interrogativi il deliberato disattendere, nell’apparato decorativo, il principio cardine del linguaggio compositivo classico che prescriveva l’allineamento degli elementi verticali. Questo ha fatto sì che molti architetti si siano misurati nel corso dei secoli con il suo riallineamento, ipotizzando innumerevoli soluzioni finalizzate a ristabilirne ‘l’ordine’ riequilibrando la congruità verticale tra ordine principale, ordine attico e disposizione dei lacunari della volta – fedeli alla regola di sovrapporre solido su solido e vuoto su vuoto. In altri termini, se una notevole collezione di immagini ritraggono in modo più o meno fantasioso come il Pantheon appariva agli occhi del disegnatore, un’altra consistente parte provvede invece a mostrare come si riteneva dovesse apparire, illustrando analisi o ipotizzandone risolute variazioni in linea con le teorie e le mode che si sono succedute nel corso della sua lunga storia.
Tuttavia, non sono i suoi molti epigoni variamente riusciti a giustificare il plurale nel titolo di questo scritto né solo le caratteristiche poc’anzi elencate o altre ancor più tecniche a fare del Pantheon un’architettura paradigmatica. Il commento lapidario che Stendhal affida al proprio diario si rivela un formidabile indizio per provare a darne conto, indirizzando lo sguardo altrove rispetto alle caratteristiche materiali del tempio – a suo giudizio primo grande monumento privo di una ‘utilità pratica’. Ne sia prova ad esempio il fatto che persino la banale consuetudine osservata da Meeks (1964, 135) di affermare che "innumerevoli imitazioni del Pantheon sono state costruite in tutta Europa e in America nel tal periodo" contribuisca a rilanciare l’attenzione sull’antico tempio, fondandone la presenza nella cultura. Effettivamente, al di là di quanto questa possa essere superficiale o di quanto possa essere riprovevole l’uso frettoloso – come nota Meeks – del termine imitazione, anche un’affermazione di tal fatta concorre pienamente alla concettualizzazione del Pantheon, ovvero partecipa a farne un paradigma. Infatti, così come una goccia che cadendo imperturbabile e perpetua da un’antica stalattite genera cerchi nell’acqua solcando la roccia sottostante e depositandovi un’impercettibile traccia minerale, l’immagine del Pantheon si propaga nella cultura non solo attraverso i suoi epigoni e le sue rappresentazioni grafiche, ma si insinua lasciando un’eredità più salda e profonda, capace d’emergere sicura, rapida e leggera nei nostri pensieri da condividersi attraverso la parola.
Presente pressoché in ogni nostro atto linguistico, la pratica descrittiva intrattiene con l’Architettura un rapporto speciale. Architettura paradigmatica, il Pantheon ne è testimone d’eccellenza. Nei suoi diciannove secoli di storia, parola e Architettura si incontrano stratificandosi in un inestricabile viluppo, dando prova della profondità e della necessità di questo vincolo tanto solido quanto effimero. Una relazione in costante equilibrio tra realtà esperita, sentimento del mondo ed articolazione del senso lega infatti indissolubilmente questi due universi. Attraversato perlopiù senza neppure accorgersene, questo equilibrio arduo e necessario gioca in ogni istante delicatamente di contrappunto tra il percetto, il visibile, il pensabile ed il dicibile, mentre districandosi tra realtà e finzione scivola nell’ombra.
Sebbene il suo operare passi solitamente inosservato, questa relazione si rivela determinante per l’esistenza dell’Architettura. Accanto al ruolo di filo conduttore fra le quattro polarità in gioco, la parola ha infatti il potere di costruire mondi intersoggettivi attraverso il linguaggio e di sparigliare le carte stupendo con effetti del tutto inattesi, moltiplicando una medesima realtà. Entrambe questi poteri fanno sì che l’Architettura le sia debitrice di gran parte del proprio esistere e del proprio significare, sostanziandovi la sua distanza dal costruire e la sua stessa natura. Significandosi dall’esterno e sostanziata da un intricato sistema di stratificazioni segniche, l’Architettura non può certo esimersi dal trarre linfa vitale dalla descrizione verbale, specie nella sua condivisione sociale.
Un tale rapporto di necessità per l’esistenza dell’Architettura potrebbe essere meglio spiegato alla luce della teoria istituzionale dell’Arte di Dickie (1974) ed ancor più dalle considerazioni di Danto in The Artworld (1964) e successivamente nella Trasfigurazione del banale (1981), ma soprattutto dalla teoria degli oggetti sociali di Searle (1995) nella quale l’Architettura rientra perfettamente in qualità di oggetto sociale.
Il riconoscimento di status di un oggetto sociale avviene in forza di una dichiarazione mediante un atto linguistico costitutivo che trae fondamento nell’intenzionalità collettiva, permettendo ad un oggetto o ad una persona che altrimenti non l’avrebbero l’accesso all’'enorme ontologia invisibile" (Searle [1995] 2006, 9) della realtà costruita socialmente e sancita unicamente grazie ad un accordo convenzionale stabilito intenzionalmente dagli uomini. Vale a dire che il linguaggio ha il potere di affermare che una determinata costruzione fatta di pietre, mattoni, intonaci, marmi e stucchi, che assolve già ad una funzione pratica - ad esempio quella di luogo di culto - conta come Architettura in un determinato contesto. Ogni oggetto che possa dirsi architettonico acquista così socialmente lo status di Architettura attraverso il linguaggio, sistema di rappresentazione per eccellenza. In virtù di questo non è difficile accettare come in assenza di linguaggio probabilmente esisterebbero le costruzioni, ma difficilmente potrebbe esistere l’Architettura. Stendhal pare proprio aver colto nel Pantheon questa deriva ontologica dell’Architettura per la quale il riconoscimento sociale conta più di una materiale utilità.
Tuttavia, ciò che conta per proseguire sulle tracce di ciò che rende il Pantheon un paradigma non sono considerazioni ontologiche generali sull’Architettura, ma è chiarire in particolare come larga parte della molteplice esistenza di un’architettura dipenda strettamente da come è veicolata attraverso la propria descrizione verbale.
A differenza degli altri oggetti sociali istituiti medianti un ‘semplice’ atto linguistico di tipo costitutivo, gli oggetti architettonici presentano infatti una peculiare crasi tra descrizione ed uso costituivo del linguaggio. Benché la descrizione appartenga normalmente all’uso regolativo del linguaggio e la si impieghi per aggiungere specifiche e stabilire convenzioni su fatti ed oggetti preesistenti, la cui esistenza (ed il cui status) è indipendente dalla descrizione stessa, gli oggetti architettonici paiono invece trarne fondamento. Se mediante una descrizione è possibile definire per esempio le particolari sembianze del denaro o dei pezzi degli scacchi senza comprometterne l’esistenza, la funzione o l’eventuale status, nel caso degli oggetti architettonici sembra che lo sciorinare quanti più dettagli possibili assuma un intento costitutivo, fondandone o rafforzandone lo status di Architettura con l’enumerazione di caratteristiche e dettagli sovente non percepibili e talvolta neppure materialmente parte dell’oggetto stesso.
Più intuitivamente, basti pensare a come quanto di ciò che si ascolta e si legge nei discorsi sulle architetture sia del tutto simile ad alcune dinamiche letterarie per comprendere quanto il mestiere dell’architetto e quello del romanziere condividano alcuni obiettivi e molti strumenti. Primo fra tutti è proprio la finzione attuata mediante la parola, strumento presente nella cassetta degli attrezzi di entrambi che, impegnati nell’immaginare scenari e renderli credibili, ciascuno secondo i propri scopi, giocano con le immagini trasformandole in parole.
Effettivamente le strade della Letteratura e dell’Architettura si incontrano più frequentemente di quanto non lo si riconosca. Critici ed architetti si rendono – talvolta inconsapevolmente – autori di componimenti letterari e, viceversa, nei romanzi sono presenti architetture finzionali o reali di notevole interesse: una sorta di doppio tra architettura letteraria e letteratura architettonica nel quale si dissolve l’ambiguità tra "sostanza corporale e entità narrata" (Casari 1996, 7) di ciascun oggetto architettonico. La stessa idea di progetto architettonico in fondo pertiene al mondo della finzione. Tutto ciò sarà immediatamente evidente riflettendo su come per molti architetti rinascimentali i grandi exempla della Roma antica come "il Pantheon o il Colosseo non erano luoghi di Roma", bensì erano "luoghi di un libro" (Carpo, 1998, 53).
Inesauribile conquista conoscitiva, la descrizione consente di condizionare e moltiplicare una medesima realtà – mai del tutto conoscibile – conferendole una ‘luce personale’ e conservando un’indelebile traccia dei pensieri di colui che l’ha pronunciata o scritta. Questo ne fa risorsa preziosa per inseguire il Pantheon attraverso il gioco intermediale, permettendo di attingere da quella galleria di immagini dipinte nella memoria (Webb 2009, 119) pronte a sprigionare tutto il loro potenziale rappresentazionale attraverso la dimensione verbale tanto dell’oratore quanto dell’ascoltatore. Il linguaggio descrittivo ed in particolare l’ekphrasis costituiscono in effetti un varco preferenziale per quell’universo di immagini private e collettive in continuo mutamento. Abitualmente connotate da una irriducibile vaghezza semantica, queste parole giocano mediante precise strategie con i nostri limiti cognitivi. Affacciarsi sull’orlo di questo oscuro varco per scrutare il flusso delle parole necessita – pur senza indugiare in tecnicismi – di una panoramica finalizzata a cogliere le strategie essenziali attraverso le quali il significato è tendenzialmente indirizzato.
Per inseguire il preciso desiderio ontologico che anima questo scritto e svelare come il linguaggio nasconda le molte esistenze di ciascun oggetto architettonico occorre guardare al testo descrittivo come ad una feconda fonte di conoscenza incessantemente rinnovata. Ogni descrizione costituisce infatti una conquista conoscitiva alla quale è inevitabilmente commisurato il poter cogliere quell’esistenza. A queste condizioni, inseguire il desiderio ontologico si deve largamente misurare nei fatti con questioni epistemologiche, ovvero con le risorse conoscitive offerte dalla parola descrittiva, rendendo opportune due precisazioni.
La prima riguarda il dissolversi dei distinguo retorici e letterari per questi scopi epistemologici, consentendo di proseguire il discorso accettando pienamente l’equivalenza semiologica tra descrizione e narrazione proposta da Genette (1969) che rileva come nel raccontare un evento e nel descrivere un oggetto si mettano in campo le medesime risorse linguistiche.
La seconda riguarda invece l’ampiezza del concetto di conoscenza. Sulla scorta di Goodman ([1978] 2008, 24-25) è bene sottolineare come in questo lavoro la conoscenza non sia incentrata sul determinare ciò che è vero, quanto piuttosto sulla crescita della comprensione e l’affinamento nel discernimento. Se così non fosse, il paragone tra architetto e romanziere quali professionisti della finzione crollerebbe miseramente, costringendo a rivedere non solo i propositi bensì l’utilità di questo scritto. Un concetto di conoscenza ristretto alle sole proposizioni vere escluderebbe la maggior parte di ciò che è abitualmente detto o scritto circa un oggetto architettonico. Non sarà tuttavia difficile per il frequentatore del dibattito architettonico identificare in quell’enorme messe di parole quante pur risultando del tutto inverificabili costituiscano sovente apporti rilevanti.
Ne siano immediato esempio le immagini tanto affascinanti quanto implausibili frutto della fantasia popolare che in ogni epoca ha congetturato sul Pantheon, collezionando narrazioni destinate a trasformarsi ed arricchirsi di dettagli. Una celebre leggenda medioevale narra ad esempio che per evitarne il crollo durante la costruzione si accumulasse all’interno della cupola una montagna di terra mescolandovi monete d’oro. Quando la si volle disarmare fu sufficiente spargere la voce della presenza delle monete per far accorrere il popolo che sgombrò nottetempo l’intero volume dall’imponente centinatura. Il profondo fossato è nella fantasia popolare invece scavato dal diavolo che girando furiosamente intorno alle mura sfogò la propria ira dopo essere stato ingannato dal mago Bailardo, rifugiatosi nel Pantheon – già consacrato a chiesa – per non consegnargli l’anima come pattuito. Si narra anche di stormi di demoni urlanti sollevatisi dal pavimento all’intonare del Gloria durante la messa di consacrazione per poi svanire attraverso l’opàion, oggetto d’indiscutibile attenzione esoterica, come del resto l’intero edificio.
Mutata negli scopi e nella fenomenologia, la potenza immaginifica della grande cupola forata continua a destare la curiosità popolare. L’eloquio di Jim – guida turistica improvvisata – strappa ogni giorno sospiri e sguardi sognanti a comitive di turisti statunitensi narrando della ciclopica colonna di neve che si forma al di sotto dell’opàion in occasione delle rare ma intense nevicate romane (Mari 2015).
Per quanto inverosimili, ciascuna di queste immagini verbalizzate concorre a fare di quell’edificio un’Architettura, mostrando quanto sia opportuno disporre di concetti di conoscenza e realtà decisamente ampi, poiché accanto a descrizioni rigorose danno il loro contributo anche suggestioni e tanti "si narra", non necessariamente vincolati al valore di verità.
Potrebbe apparire tautologico e persino ricorsivo affermare che la descrizione è la descrizione di qualche cosa. Tuttavia ciò non è così scontato. Si immagini di leggere qualcosa a proposito di un tempio a pianta circolare con un elegante pronao d’ordine corinzio sormontato da due minuti campanili simmetrici e coperto da una cupola. Limitata a queste parole, la descrizione non consentirebbe di distinguere la cappella palladiana di Maser dal Pantheon pre Bernini o, se si preferisce, post 1883, così come non permetterebbe di identificarla tra molti epigoni di quest’ultimo. Ciò significa che una descrizione esatta e precisa ha come sintomo riconosciuto l’evidenza, l’immodificabilità e un certo grado di necessità, menzionando solamente le proprietà rilevanti che permettono di individuare puntualmente ciò a cui si riferisce. In altri termini, una buona descrizione acquista interesse nella misura in cui riesce a rendere evidente la distinzione fra diverse realtà focalizzandone una, della quale enfatizza alcuni aspetti non noti o considerati in precedenza. Ragione per la quale la descrizione è una conquista conoscitiva.
Un grosso rischio di riduzione del grado di conquista conoscitiva si corre lasciandosi trasportare dalle formule generiche stereotipate presenti nelle lingue naturali, ovvero lasciando parlare il linguaggio. Si producono così descrizioni banali e prive della loro potenza conoscitiva, mascherando nell’uniformità del dicibile il varco d’accesso alla ricchezza del contenuto. Più che tradire qualche cosa dell’intervallo interpretativo che l’Architettura affida ad ogni individuo, questo genere di espressioni svuota la concentrazione di significato di certe immagini della cultura attraverso il logorio frutto dell’abusione – fatto salvo un acuto impiego postmoderno rigorosamente tra virgolette.
In fondo, per raggiungere un buon risultato descrittivo è necessario opporsi non senza fatica ai cliché linguistici e ai luoghi comuni e percepire l’attrito prodotto dalle parole sulla realtà, gettando inevitabilmente una luce personale sull’oggetto descritto. La ricerca della parola perfetta non riguarda solo il poeta sempre intento a lottare contro l’ineffabile, ma chiunque si accinga ad affrontare lo scarto tra la morbida vaghezza del pensiero e ciò che può essere detto, consapevole di non essere mai del tutto al riparo dal far prendere il sopravvento al linguaggio. Vincere l’attrito prodotto dalle parole su una realtà esperita o immaginata induce a "tentare delle approssimazioni che ci portano sempre un po’ più vicino a quello che vogliamo dire, e nello stesso tempo ci lasciano sempre un po’ insoddisfatti" (Calvino 1969). Frustrazione ulteriormente accentuata dagli oggetti architettonici, non esperibili se non per sequenze di viste parziali e sovente caratterizzati da aspetti non direttamente percepibili.
L’esperienza mostra così come l’attuare la trasposizione da un medium denso, continuo e dalla semantica sfumata, quali sono le immagini, ad uno certamente più ‘discretizzato’, qual è il linguaggio, lasci in ognuno di noi la consapevolezza di non essere riuscito a comunicare agli altri ciò che si stava osservando. Questo perché il linguaggio è composto da elementi separabili: elementi morfologici distinguibili che le immagini non hanno, offrendosi come un unicum. Alla luce di questo si coglierà immediatamente come la difficoltà risieda nel dover operare una riduzione di complessità passando attraverso la selezione delle proprietà rilevanti, differenziando così il Pantheon dalla cappella palladiana di Maser.
Il principale ostacolo da affrontare nel tentativo di trasporre una realtà – e un oggetto estetico in particolare – in parola deriva proprio dalla sovradeterminazione dell’immagine e reciprocamente dalla sottoderminazione del linguaggio. Questo scarto può essere quantificato intuitivamente paragonando una scena – o anche solo un suo singolo istante – narrata in un romanzo alla sua visualizzazione nella trasposizione cinematografica. La rappresentazione visiva è estremamente più potente del linguaggio nel trasmettere dettagli e visione d’insieme al contempo, rendendo assai difficoltoso selezionare le proprietà da riferire. Al contrario, forte della paradossale caratteristica di far coesistere nello stesso atto analisi e sintesi, la parola è più ambigua e modulabile e il suo vantaggio sulle immagini risiede proprio nel maggior controllo sull’ampiezza dell’intervallo semantico evocato, potendo generare latenza.
In buona sostanze le parole permettono di ritagliare in svariati modi qualcosa da ciò che Eco (2007, 590) ha chiamato il "continuum del contenuto", ovverosia tutto ciò che è pensabile, esperibile e dicibile o, "se volete, l’orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza". A questo inevitabile atto di selezione – che svela e nasconde al contempo – è essenzialmente attribuibile la conquista conoscitiva, quantificabile nello scarto tra ciò che traspare dall’atto linguistico e l’infinita possibile ricchezza percettiva ed emotiva immaginabile.
Seppure la forte parzialità abbia mantenuto la descrizione al margine di letteratura e filosofia fino al XIX secolo – giudicata eccessivamente finalizzata e rozza dalla prima ed estremamente ‘imperfetta’ e distante dalla vera natura delle cose dalla seconda – si rivela un elemento chiave per questo discorso, indirizzandolo verso la sua soluzione. Infatti, "descrivere non è mai descrivere una realtà, ma è dimostrare le proprie competenze e capacità retoriche, è dimostrare la propria libresca erudizione [...] descrivere è, quindi, ‘descrivere per’" (Hamon 1981, 6), ovvero è produrre conoscenza esercitando secondo i propri mezzi e i propri scopi quel ‘ritaglio dallo sfondo’ in modo sempre nuovo – dinamica sulla quale si articola l’attitudine del linguaggio di moltiplicare una medesima realtà.
L’importanza di una pagina descrittiva non risiede infatti secondo Robbe-Grillet nell’oggetto descritto, ma nel "movimento" stesso del descrivere che lascia intendere come la descrizione, per quanto fredda e scarna possa apparire, rappresenti la presenza umana, l’operato di un soggetto pensante che pone in essere l’oggetto descritto in una modalità irripetibile. Per quanto attento a celare le proprie opinioni, il descrittore compirà inevitabili scelte concernenti tanto i tratti dell’oggetto da restituire linguisticamente quanto le modalità espressive di tale restituzione, tradendo sempre e comunque la propria presenza e la propria peculiare visione di quel momento, come mostrano i trafiletti che alcune guide turistiche dedicano al Pantheon. Dopo alcune notizie storiche, infatti i redattori della Guida turistica d’Italia del Touring Club Italiano (1987, 508) predispongono l’atmosfera definendo la piazza "uno degli ambienti più pittoreschi di Roma" per poi accompagnare il lettore-visitatore attraverso le colonne del pronao in un accenno ekphrastico. Varcato il pesante portone, un’oculata enumerazione illumina all’interno del tempio alcune elementi notevoli, offrendoli all’occhio del lettore. Quasi amareggiati invece dal fatto che il Pantheon monopolizzi l’attenzione sulla piazza, i redattori della guida di Roma (Touring Club Italiano 2002, 121) giocano sul legame indissolubile tra tempio e piazza, dipingendo quest’ultima come integrata al monumento in qualità di vestibolo. Anche laddove ci si aspetterebbe un’arida oggettività, non potrà mai essere raggiunta una descrizione verbale del tutto neutra e scientifica capace di un’imparziale restituzione di una realtà per mezzo delle parole, poiché qualsiasi testo è connotato da scelte formali. A dispetto di qualunque sforzo di retaggio positivista, chi cercasse quindi di perseguire la piattezza e la banalità nella parola si scoprirebbe, suo malgrado, autore di una precisa scelta espressiva, poiché "la frase media, la parola standard, la descrizione banale, non sono meno ‘stilistiche’ delle altre" (Genette [1991] 1994, 108).
La selezione dei tratti rilevanti unitamente alle scelte stilistiche permettono alla descrizione nel suo complesso di veicolare l’oggetto sotto un certo preciso rispetto, portando alla luce qualche frammento proveniente da quella galleria di immagini dipinte nella memoria, utili indizi sulle loro riattivazioni. Per questa ragione è fondamentale distinguere una descrizione diluita nell’abitudine linguistica da una vaga ma non priva di un contenuto conoscitivo che sovente riguarda proprio un oggetto estetico.
Ritenuta necessaria a massimizzare il guadagno semantico di un’espressione, la vaghezza tipica di alcuni discorsi descrittivi è al contempo sintomo della difficoltà di veicolare linguisticamente un significato percepito in modo non determinato. Dinnanzi alla difficoltà di trasporre in parole qualcosa di estremamente sfuggente, qual è la significazione di un’opera o qualche frammento di immagine impresso nella nostra mente, si affaccia come una vetta irraggiungibile un limite del linguaggio, una sorta di intrinseco margine di approssimazione, probabilmente dovuto ai nostri limiti cognitivi. In fondo, "se il linguaggio fosse perfetto, l’uomo cesserebbe di pensare", annotava Valéry nei suoi Cahiers (1986, 26).
Dietro a questa vetta irraggiungibile si nasconde il fatto che l’impiego di una parola da parte di ciascuno individuo non coincide mai esattamente con quanto pensato da tutti gli altri, poiché "solo nell'individuo la lingua raggiunge la sua determinatezza ultima" (Humbolt [1836] 1991, 51).
Si pensi a quanto è arduo a queste condizioni doversi misurare con la trasmissione di qualcosa che rasenta l’ineffabile, come la propria temporanea ed idiosincratica significazione di un oggetto architettonico. Per affrontare l’alta vetta del linguaggio si ricorre così alla metafora in grado di aprire "un territorio altrimenti inaccessibile" (Terzaghi 2006, 67).
Lungi dall’essere "un semplice orpello retorico", la metafora è "un modo con cui facciamo sì che i nostri termini rendano anche un servizio un po’ più clandestino" (Goodman [1978] 2008, 122), chiamandola in nostro soccorso per il suo alto valore cognitivo. Il linguaggio abbandona così la descrizione diretta e liberando "la sua funzione di scoperta" (Ricœur [1975] 1976, 325) rifigura la realtà, svelando dimensioni ontologiche nascoste dell'esperienza umana grazie ad una nuova pertinenza concettuale. Più pragmaticamente, la linguistica cognitiva definisce la metafora come la comprensione di un dominio concettuale nei termini di un altro. Grazie a questa dinamica è possibile radicare un concetto astratto o difficilmente spiegabile ad un concetto concreto del tutto pre-linguistico, come lo spazio, il moto, il corpo umano, la gravità ed altri elementi essenziali dell’esperienza umana, detto metafora concettuale. Ecco allora che per tentare di spiegare qualche cosa al limite dell’ineffabile è necessario scendere sino alle radici delle nostre strutture e categorie cognitive, forgiate dall’esperienza e dalla cultura, per trovare un appiglio sul quale fondare un’espressione metaforica capace di rendere quel concetto quanto più condivisibile possibile.
Il Pantheon stesso diventa metafora concettuale per le sue ‘colossali’ dimensioni grazie alla penna di Sheridan, in una battuta teatrale in The School for Scandal (1777). Si apre il sipario sul secondo atto e nella prima scena Sir Peter Teazle accusa la moglie di volerlo rovinare scialacquando talmente tanti denari in abiti da riempire il "guardaroba di fiori sufficienti a trasformare il Pantheon in una serra". L’esperienza percettiva delle dimensioni interne del Pantheon emerge fulminea dalla cultura dell’ascoltatore-spettatore, instaurando un legame immediato e saldissimo, ben più potente di un affastellarsi di mirabolanti aggettivi.
Alla luce di tutto questo, se si declina a questo discorso l’adagio di Baxandall ([1985] 2000, 10) per il quale "non si danno spiegazioni dei quadri: si spiegano le osservazioni fatte su di essi", si giunge rapidamente a concludere che qualunque descrizione verbale di un oggetto architettonico non permette di riprodurre l’opera di architettura che descrive. Parimenti, dinnanzi all’impossibilità di scalare la vetta del linguaggio e raccontare al nostro interlocutore lo sfuggente e personalissimo significato di un’opera d’Architettura o di un dipinto, il profumo di una rosa o il sapore di una madeleine non resta che prendere atto di come gran parte "di quelle che chiamiamo descrizioni sono solo racconti di sensazioni o emozioni molto soggettive che un oggetto ha suscitato in chi le guarda" (Ivins 1953, 57).
Rifiutata la possibilità che la descrizione verbale mimi l’opera, uno degli atteggiamenti possibili è quello per la quale la descrizione mimi "lo sguardo che percorre l’opera" (Mengaldo 2005, 38), atteggiamento tipicamente alla base del patto ekphrastico antico al quale tuttavia la crisi della rappresentazione classica ha affiancato nuove vie analitiche che fanno sovente dell’ekphrasis lo strumento per un viaggio introspettivo. Alla gloriosa quadreria di Filostrato e a quella evocata durante la Seconda Guerra Mondiale dalle guide dell’Hermitage costrette ad accompagnare i rari visitatori tra sale di cornici vuote, si affiancano l’esplorazione freudiana del Mosè michelangiolesco e l’autoritratto di Brodskij tra il pizzo delle facciate veneziane in Fondamenta degli Incurabili. Se le evocazioni vasariane di opere che né lo scrittore né il lettore avevano mai potuto ammirare erano funzionali a colmare le lacune di riproducibilità delle immagini regalando una palpabile ‘percezione di realtà’, oggi da vivide descrizioni ekphrastiche i lettori si attendono un contributo conoscitivo di carattere analitico. Come precisa Webb (1999), le finalità ultime di questo tipo di descrizione hanno subito una profonda mutazione senza incidere sulle modalità retoriche che ne permettono l’attuazione, in una salda continuità tra Filostrato e Foucault. Si noti tuttavia come le ekphrasis di Filostrato presupponessero un’irriducibile reciprocità di verbale e visuale, mentre quelle odierne finiscono con lo svelare l'eterna menzogna di una perfetta coincidenza tra visibile e dicibile, riproponendo l’opposizione già messa in campo da Lessing tra arti del tempo ed arti dello spazio. In altre parole, l’ekphrasis contemporanea non crede più nell’ut pictura poësis, abbandonando l’ideale della arti sorelle e pensandole ora come "sorellastre" sempre pronte a strapparsi ogni primato, come osserva Michele Cometa (2012, 52). Ciò mostra ancora una volta a chiare lettere quello scarto tra visibile e dicibile in cui "è possibile abitare", (ivi, 290) sapendo che ciò che si dice è fondato altrove – e si vede per differenza dal visibile – e ciò che si vede non necessariamente è interamente presente in ciò che si è detto.
A ben pensarci, l’atto di scrutare l’opera – il giganteggiare tranquillo e maestoso dell’antico tempio contro il cielo di Roma che si riaffaccia nell’opàion – ha un andamento difficilmente riproducibile per mezzo del linguaggio e non si esaurisce certo con un mera e sensibile esplorazione visiva, bensì coinvolge ampiamente la nostra mente, consentendole di vagare in vorticose passeggiate inferenziali tra emozioni, immagini, concetti e sensazioni. Quasi magico, quello scrutare sembra avvicinare per qualche istante alla consapevolezza del susseguirsi disordinato dei pensieri: offre quasi l’illusione di poterne sentire il rumore nel silenzio delle grande volta rabbuiatasi al volgere del giorno.
Il linguaggio in qualche modo è come la luce, che noi non vediamo, ma della quale possiamo vedere gli effetti e grazie alla quale alcune cose diventano visibili, rivelandosi ed entrando a far parte dell’ontologia di ciascuno di noi, del mondo contemplato dalle nostre menti. In una parola esse esistono. La loro esistenza dipende dal linguaggio e in virtù di quanto si è mostrato sino ad ora l’Architettura è sicuramente una di queste. Lontani dai pericoli dei cliché linguistici, attraverso ogni descrizione l’oggetto emerge rinnovato e permette di conoscere "più di ciò che già si conosceva" (Gadamer [1960] 1989, 146), offendo quel piacere del riconoscimento che si ha nell’identificare il noto sotto una nuova veste. Nel caso di un oggetto estetico conosciuto, una buona descrizione fa sì che riconoscere non voglia semplicemente dire "vedere di nuovo una cosa già vista una volta", ma nel "riconoscimento la cosa conosciuta emerge, per così dire, come attraverso una nuova illuminazione".
L’Architettura vive della propria capacità evocativa, del suo essere scintilla per un gioco intertestuale di ineffabile rimando di pensieri, attingendo dalla cultura dell’osservatore tutto ciò che le è necessario per essere interpretata ogni volta in modo differente. Ogni opera genererà ad ogni lettura di ogni utente un nuovo processo inferenziale e nuove immagini, risignificandosi all’infinito. Il moltiplicarsi esponenziale delle possibili interpretazioni, comprendenti la conoscenza privata ed idiosincratica di ogni utente, può essere immaginato come una fitta e intrecciata nuvola rizomatica sempre in evoluzione, il cui accesso sarebbe paragonabile ad un attraversamento dell’indomabile nero delle tavole warburghiane del Bilderatlas Mnemosyne. L’attitudine del linguaggio a dar vita a mondi intersoggettivi è essenziale per arginare una deriva solipsistica di questa potenziale proliferazione. Si è visto infatti come ogni restituzione verbale di un’opera la faccia esistere socialmente e non solo nella nostra mente, gettando una precisa luce sull’oggetto.
L’irriducibile parzialità del linguaggio descrittivo capace di evidenziare una realtà sotto certi rispetti celandone altri sembra poter avvicinare quanto più possibile alla sequenza dei pensieri, lasciando nelle parole un’indelebile traccia di quell’andirivieni tra concetti, sensazioni ed immagini che l’opera ha scatenato. Ciò significa che ogni restituzione verbale è in qualche modo la via per la condivisione – seppur parziale – di quella catena di pensieri, rappresentandone una sorta di cristallizzazione. Le pieghe del linguaggio si rivelano così un’irrinunciabile scorciatoia per provare ad insinuarsi in quello scarto tra visibile, pensabile e dicibile, rintracciandovi frammenti comunicabili di quelle catene mediante le quali ciascuno significa gli oggetti architettonici.
In quest’ottica i testi scritti fermano su un supporto il risultato tangibile di un processo inferenziale. Poco importa che siano lapidari eserghi, brevi frammenti di poche righe, interi sonetti o corposi articoli, ciascun testo ferma la parte comunicabile, quindi non solo interpretata, ma anche contrattata e condivisa, di quel processo di accumulazione progressiva del significato al quale è soggetto ogni oggetto architettonico.
Le parole forse non possono essere dinamogrammi come le immagini, ma certamente possono aiutare a tenere traccia delle successive significazioni che un determinato oggetto architettonico ha assunto nel tempo, liberando la propria carica a contatto con nuovi vissuti. Come le formule iconografiche cristallizzano per Warburg le energie psichiche depositate nella memoria, le parole sul Pantheon in qualità di frammenti di immagini dipinte nella mente possono tracciarne le successive polarizzazioni, ovvero le riattivazioni di quelle immagini ogni volta risemantizzate. Attraversate dalla tensione tra le opposte forme che l'emozione in esse racchiusa può assumere, quelle immagini della mente riemergono ricombinandosi ed i loro tentativi di verbalizzazione testimoniano in qualche modo questa effimera unione.
Complici il tempo, la fama e la grandiosità, il Pantheon ha potuto accumulare una straordinaria quantità di queste interpretazioni documentate. Illustre sfondo di un mare di pagine e protagonista di fiumi di inchiostro lungo i secoli, le sue immagini si moltiplicano vorticosamente nelle parole descrittive dagli scopi più disparati: teatro, poesia, cronaca, diari, guide turistiche e persino – come si è visto – aneddotica popolare.
In particolare, la letteratura odeporica – in gran parte collocabile nella tradizione del Grand Tour – è un valido alleato per allargare l’orizzonte rispetto ai soli testi disciplinari: Roma è sempre stata tappa obbligata per chi attraversava l’Europa. Nel racconto di viaggio "l’edificio è […] sempre aperto a qualche attività di produzione di senso, di pulsione di scrittura, di parafrasi, di metalinguaggio o di lettura: si legge il monumento, nel monumento (dove si sogna, si prendono appunti, si leggono le guide che lo descrivono), si scrive a proposito del monumento, anzi grazie a lui e a partire dalle sue suggestioni" (Hamon [1989] 1995, 56). Ecco che allora attraverso le pagine dei loro racconti di viaggio che sono "sempre soltanto un percorso di discorsi, un viaggio attraverso i racconti già archiviati della Storia ufficiale o individuale" (ivi, 56) si ritrovano i grandi nomi della cultura europea degli ultimi tre secoli a discutere del Pantheon a tratti come in un dialogo asincrono.
Un tale dialogo virtuale si accenderebbe indubbiamente discutendo della conservazione del monumento, del paragone con la Basilica di San Pietro e dell’opportunità della sua trasformazione in chiesa. A rammaricarsi profondamente di questa scelta è il Marchese De Sade, al quale "il cuore si spezza […] e le lacrime sgorgano" vedendo il "capolavoro del secolo d'oro di Augusto […] mutato in una sventurata chiesa nuda e spoglia, nella quale la meschineria della superstizione moderna non compensa" la magnificenza di coloro che lo edificarono. Nonostante l’inganno delle alterazioni subite, il tempo in "questo luogo felice dove abitavano tutti gli dèi che si veneravano" ha conservato al riparo dalla falsità qualcosa "appartenente alla stessa antichità del tempio", permettendo a chi ne calpesta gli antichi marmi l’emozione di esclamare "gli Imperatori furono qui con me!" (De Sade [1776] 1996).
A fargli eco con nostalgica afflizione è Clough che, incurante dell’imperversare dei moti del 1848, siede su una panchina di fronte al Pantheon rivolgendogli in versi un accorato appello. "No, grande Cupola di Agrippa, tu non sei Cristiana!" esclama, invitandola a spogliarsi di questa ‘nuova’ veste "con i martiri e santi" per rivedere rivestita "di fresco" la sua "intera rotonda vastità" pagana – mutilata nei fatti dall’aggiunta dei campanili (Clough 1849 I, VIII).
Parimenti non manca chi come Sthendal in apertura delle molte pagine che dedica al Pantheon nelle sue Passeggiate romane si rammarica del contrario: se il cristianesimo si fosse "impadronito" dei templi pagani "l’antica Roma sarebbe ancora quasi tutta in piedi". La ricchezza delle immagini acute che egli intreccia attorno al tempio "sublime" oscillano tra la critica politica e il consiglio di viaggio, discutendo di conversioni metriche, ratti del Tevere, attitudini caratteriali di Winckelmann e sfiorando persino sensazioni olfattive laddove il lettore attende una spiegazione per il grande foro che corona "l’immensa volta sospesa, senza appoggio apparente" (Stendhal [1829] 1973).
Enfatico e declamatorio D’Annunzio spalleggia quella tesi, elogiando Bonifacio IV, "escito dal ceppo di nostra gente" per aver conservato "alla gioia e all’orgoglio degli uomini il più insigne monumento di Roma […] già votata alla ruina" (D’Annunzio 1926, 5).
D’accordo sul fatto che la cristianizzazione abbia salvato il Pantheon dai saccheggi è anche Cantel, Vicomte de Letnac, che ipotizza nei suoi scritti due città, la Roma di Augusto che "stupisce ancora" e quella cattolica. Nel passaggio tra le due città il tempio dalla pianta "semplice e grande" e dalla forma "fortunata" è stato "spogliato di tutto ciò che lo arricchiva, ma hanno lasciato tutto ciò che lo rendeva grande […] e tutto questo lo ha reso santo".
La volta che "incurva maestosamente le sue mura" non ha stupito Michelangelo che ne ha tratto per Cantel "una sola delle sue idee": la cupola di San Pietro, facendo del Pantheon un ponte tra le due città (Cantel 1870, 52-54). Decisamente più radicale è Hugo che immagina di sorvolare Parigi e decanta la superiorità di Michelangelo – "titano dell’arte" – che ottenne San Pietro per sovrapposizione ed incastro del Pantheon al Partenone (Hugo 1831, III, II).
Se ci si limitasse a ciò che è misurabile il Pantheon risulterebbe "dimensionalmente insignificante se paragonato a San Pietro", tuttavia il "suo interno è decisamente superiore – uno dei più impressionanti al mondo" (Granrud 1912, 61). Secondo Kahn, infatti, misurarlo sarebbe addirittura "un crimine", poiché "lì è l’architettura, l’incarnazione dell’incommensurabile". La sua assenza di assi – tranne quello con il cielo – priva il Pantheon di una direzione, sradicando ogni possibilità "di dire che qui o lì vi è un luogo di culto". Solo la porta d’accesso – "unica impurità" – macchia questo spazio perfetto nel quale la luce scende dall’alto e non "è possibile avvicinarla o a essa esporsi: taglia come un coltello, induce a fuggire" (Kahn 2002, 111-112; 128; 144).
Quel santuario di tutti gli dei, dice l’Adriano della Yourcenar, deve riprodurre "la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene". La sua cupola guarda a "quelle capanne ancestrali" nelle quali scivola "il fumo dei più antichi focolari" ed è "costruita d'una lava dura e leggera che pareva partecipe ancora del movimento ascensionale delle fiamme". Il tempio "aperto e segreto" che "comunica con il cielo" era concepito da Adriano come un "quadrante solare", nel quale "il disco del giorno vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d’oro […] e la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli déi" (Yourcenar [1951] 1981, 320-323).
Quel vuoto che permette il funzionamento del Pantheon come macchina solare è dominato da un "ampio raggio d’oro – un’obliqua cascata di luce" che lambisce instancabile i marmi rincorrendo le ore e le stagioni. Al tepore di quel raggio dorato i protagonisti del Fauno di Marmo trovano un "gatto tigrato paffuto" che tranquillo "dormiva profondamente tra i ceri sacri", "consapevole di trovarsi lì al posto di un Santo", seppure l’insieme dia un impressione "di solennità che neppure San Pietro riesce a produrre" (Hawthorne [1860] 2010 II, XXV).
Altre immagini ed altre voci partecipano a questo vortice come quella di Shakespeare, di Shelley, di Eaton, di Madame de Staël, di Defoe, di Gregorovius solo per citarne alcune, tralasciando quelle degli architetti e dei critici che vi partecipano in misura ancora maggiore.
Giunti a questo punto non sarà difficile accettare che descrivere un’architettura "significa [...] riscrivere e riattivare la nebulosa più o meno diffusa dei discorsi latenti e assenti (aneddoti, miti, racconti storici, leggende, racconti eziologici di ‘fondazione’ o di battesimo del luogo ecc.) che circondano l'edificio" sia esso un edificio costruito, progettato o solo un puro fatto mentale (Hamon 1995, 55). In questa logica appare, a tratti, che un’architettura possa essere congruamente rappresentata dalla somma dei discorsi che si possono tenere su di essa. In fondo, come scrisse Adolf Loos, "Das Parthenon kann man niederschreiben" (Loos 1924), ovvero il Partenone si può scrivere.
Accettata la possibilità di costruire realtà con il linguaggio – grazie alle potenzialità dell’ekphrasis da una parte ed alla dimensione deontica del linguaggio mostrata da Searle dall’altra – non sarà difficile accogliere positivamente l’idea che ogni descrizione di un oggetto lo faccia esistere in modo nuovo e sempre diverso. In qualche modo, quindi, dipingiamo scenari alternativi reificando gli oggetti architettonici sempre in assenza, solo attraverso segni, riontologizzandoli ad ogni descrizione.
Ciò significa che le architetture esistono per come sono pensate o dette da noi stessi, ogni volta in modo differente. Per fare eco a Loos, allora si potrà dire che esistono tanti Pantheon quanti se ne possono descrivere.
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English abstract
Description exists in almost all human linguistic acts and has a special relationship with Architecture. It represents an unlimited cognitive achievement. Description allows us to influence and to increase a reality which cannot be entirely known, and it confers on this reality a personal point of view, preserving a lasting trace of the thoughts of who said or wrote it. Architecture is anchored in words, and it is due to the spoken word that Architecture achieves significance and existence. Talking about Architecture dispels every difference between substance and narration. Language depicts an undeniable shortcut to wander amid what can be seen and what can be said. A description can reveal communicable fragments of changing spaces of the conveyance of meaning of architectural works. Every time these objects are expressed, they exist in another way and they are re-ontologised. The Pantheon of Rome is not only a famous locus for many books, but it's also a model for generations of architects, painters and poets from all over the world. The Pantheon, with the help of time, fame and its splendour, is the perfect example to demonstrate the expansion of its possible interpretations from the different words used to refer to it. Every time words are used to depict the Pantheon, it achieves a new existence under different aspects.
keywords | Architecture; Language; Pantheon of Rome.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Canevari, Esistono tanti Pantheon, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 213-234 | PDF