La curiosità di Carlo Magno
Le Virtù, le loro parti e il loro albero, per un copista-scrittore bolognese del Trecento
Silvia De Laude
English Abstract
A noi Warburgehlerter di Cortona (2017),
che le partes delle Virtù, una sera al belvedere,
abbiamo fatto fatica tutti a ricordarcele bene.
Per le due Anne (Anna F. e Anna G.), Alessandra, Clio,
Monica, Maurizio, Sergi, Simone, Victoria
Les mots et les choses
Il Medioevo, si sa, amava dare un nome alle cose. Persino un oggetto in rapporto con la più devastante irrazionalità erotica, come la freccia scoccata dal dio d'Amore (a volte oltretutto bendato o cieco), non è una freccia e basta. Intanto, secondo Guillaume de Lorris, il misterioso autore della prima parte del Roman de la Rose, Amore non aveva un solo arco, ma due. Uno di legno amaro, pieno di nodi e bozzi, più nero di una mora, e l'altro di un legno sottile, gentile, ornato delle figure di dame e gentiluomini eleganti. Le frecce erano dieci e le teneva in mano un suo valletto, Dolce Sguardo, cinque d'oro nella destra e cinque di ferro, più nere dell'Inferno, nella sinistra. Delle dorate, la migliore e la più veloce si chiamava Beltà. Quella che più ferisce, Semplicità. Un'altra, impennata di valore e cortesia, Franchezza. La quarta Compagnia, lenta nel raggiungere il bersaglio ma capace di produrre grande sofferenza. La quinta, Bel Sembiante, meno dolorosa all'apparenza, ma capace di lasciare piaghe profonde. C'erano poi quelle cattive, nemiche dell’amore: Orgoglio, Villania, Fellonia, Vergogna, Disperazione e Nuovo Pensiero d'Amore. Ovvio che le seconde avessero una forza contraria alle altre, e che il loro miratissimo intervento facesse del cuore e del corpo dell'amante un teatralizzato campo di battaglia.
Uno dei terreni su cui la smania classificatrice e nomenclatoria dell'età di mezzo si esercita con maggiore acribia è il settenario delle Virtù Cardinali e Teologali, con il corrispettivo di cui sono protagonisti i Vizi capitali. Non sorprende. È in gioco, lì, la salvezza dell'anima. Ma occorre che il doppio settenario di Virtù e Vizi si articoli e si apra ad accogliere ogni forma di attitudine al bene e al male, se ad esso, per molti secoli, è demandato in modo quasi esclusivo la costruzione di un discorso morale nel quale il popolo cristiano possa riconoscersi e trovare i propri modelli di comportamento.
Fioriscono allora trattati cavillosissimi, estenuanti distinguo, opuscoli pastorali, prediche, testi mnemonici, manuali ad uso dei confessori. Roberto di Flamborough, autore di un penitenziale composto fra il 1208 e il 1215, è assolutamente convinto che un sacerdote non possa confessare in modo adeguato se non ha ben presente e non riesce a far interiorizzare al penitente la mappa dei Vizi e delle Virtù corrispondenti. “Quasi tutti”, lamenta, “si confessano in modo disordinato; trascurando l’ordine dei vizi seguono il criterio dell’età, dei luoghi, dei tempi”. Si attengono alla fabula, per usare un termine della narratologia. E dimenticano magari di segnalare atti virtuosi che potrebbero controbilanciare i loro peccati. “In questo modo si confondono, e confondono anche la memoria del sacerdote” (in Casagrande, Vecchio 2000, 195).
Il problema era ben presente già a Burcardo di Worms, autore con il Corrector sive Medicus del più famoso penitenziale dell’Alto Medioevo. Era necessario, a suo dire, che al penitente venisse ricordata ogni volta la sequenza (ordo) degli vizi principali, perché egli si rispecchiasse in quell’elenco e riconoscendosi in qualcuno dei vizi trovasse il modo di apporre subito il rimedio o il contrappeso della virtù contraria. Quella sequenza doveva diventare la trama stessa sulla quale intessere il racconto dei peccati, in modo che il confessore ne seguisse l’andamento e fosse in grado, al termine della confessione, di trovare una penitenza adeguata. “Mi piace”, confessa Burcardo, “che cominciando dalla superbia, radice di tutti i mali, tu confessi i singoli vizi con le rispettive specie, seguendo l'ordine con cui un vizio nasce e deriva dall'altro” (ivi, 196).
Il riferimento alla superbia come “radice di tutti i mali” è all'Ecclesiastico, 10, 15, “initium omnis peccati superbia”. Esistono sequenze che stabiliscono gerarchie alternative; il tema già senechiano dell’Ira come peggiore di tutti i peccati, per esempio, si dispiega con ampiezza soprattutto in ambiente monastico, e contro l’ira Ruggero Bacone è animatore di una vera crociata. Neppure l’aritmetica dei Vizi e delle Virtù è una sola. Il settenario è a lungo trionfante (che i peccati capitali fossero sette lo sa ancora Pinocchio), ma non domina ovunque: “quando Pier Lombardo lo aveva inserito nelle Sententiae gli aveva affiancato altri schemi, tutti in qualche misura legittimati dall’autorità della Scrittura o dei Padri” (ivi, 207).
Centrale, comunque, è l’idea di una gerarchia, e dell’esistenza di species o partes afferenti alle Virtù e ai Vizi principali, che si traduce non solo in testi ma in una serie pressoché infinita di rappresentazioni figurative, in cui alla personificazione delle singole Virtù e dei singoli Vizi si accompagna, iscritta su supporti ad hoc, l’enumerazione delle species o partes in cui ogni Virtù e ogni Vizio si declina. I canonici attributi caratterizzanti, fatti per imprimersi quali imagines agentes nella memoria di chi le osserva, danno un orientamento generale, ma non bastano. Le parole devono venire in soccorso alle immagini, e viceversa.
Esiste sul primo incontro di Carlo Magno e l'erudito Alcuino di York, convocato dall'imperatore per riformare il sistema scolastico della cristianità (la cosiddetta Schola palatina), un aneddoto che se non è vero è ben trovato. Era il 780. Dopo alcuni preamboli, e una serie di quesiti sulla Memoria (cos’è, e come possa essere acquistata e accresciuta), Carlo Magno avrebbe accolto il dotto inglese investendolo con una domanda: ma insomma, quante e quali sono le parti della Prudenza? Inutile aggiungere che la prima delle Cardinali non era scelta a caso, in quanto tradizionalmente associata all'esercizio del potere (Howell 1941, 136-9, 146; Yates [1966] 1972, 50).
Gli alberi del manoscritto Beinecke 416 e altri alberi
Di particolare complessità sono gli alberi del manoscritto Beinecke 416 della Yale University, costruiti per spiegare le connessioni tra le Virtù principali e i Vizi, e le connessioni tra buone e cattive qualità, associate rispettivamente alle prime e ai secondi. Il manoscritto, databile alla fine del Trecento o ai primi anni del successivo, è una collezione di diagrammi realizzati nell’abbazia cistercense di Kemp, in Germania. Sono 8 ff. raccolti in genere col titolo di Speculum theologie. Una Turris sapientie, un Lignum vitae basato sul testo omonimo di san Bonaventura e, fra l’altro, un albero delle Virtù e dei Vizi, oltre a schemi a ruota che mettono in coincidenza sacramenti, petizioni e doni dello Spirito Santo, armi della Giustizia, opere di Carità. E tabelle, una delle quali, per esempio, giocata sul numero dieci, stabilisce connessioni (“only connect”) fra i dieci comandamenti, le dieci pesti d’Egitto i dieci abusi degli impuri.
Dall’albero dei Vizi, la cui radice è la Superbia, apprendiamo per esempio che afferiscono all’Avarizia peccati come la rapina, il tradimento, lo spergiuro, la simonia, l’usura, la frode. All’Invidia, l’omicidio, il piacere di veder soffrire gli altri, il risentimento. Dall’Ira la violenza, la blasfemia, l’indignazione, la furia rabbiosa. Dalla Vanagloria, la disobbedienza, la presunzione, l’ostinazione, l’ipocrisia. Dalla Gola, l’intemperanza, l’ubriachezza, la logorrea, la sporcizia. Dall’Accidia, l’indifferenza, la fuga dei pensieri, la disperazione, la viltà, la sconsideratezza, la perdita del controllo di sé.
Che una simile organizzazione tesa a visualizzare e far memorizzare le relazioni gerarchiche fra peccati minori e Vizi capitali risenta dei modi in cui il pensiero aristotelico nel Trecento ha improntato di sé l’insegnamento universitario e la stessa conformazione di opere letterarie e filosofiche strutturate in divisioni e suddivisioni, è subito chiaro, anche se l’intento è diverso: imprimere nella memoria i modi di salvarsi dalla dannazione eterna. Obiettivo a cui non è estranea un’analoga organizzazione delle Virtù, principali e secondarie, che possono servire da contrappeso ai Vizi (sui quali, ammettiamolo, a Cortona eravamo più preparati).
L’albero del manoscritto Beinecke ha come radice l’Umiltà, virtù monastica per eccellenza, lodata da Bernardo di Chiaravalle in quell’eserciziario in dodici gradini per perfezionare l’Umiltà nel proprio cuore che è il De gradibus humilitatis et superbiae, in cui l’abate di Clairvaux ha cura di raccomandarsi, poi, di non diventare superbi della propria umiltà, e di menarne un vanto. Problema reale, se ci si pensa, quando la stessa monaca benedettina Ildegarda di Bingen nel ludus scenico dal titolo Ordo Virtutum non esita a incoronare l’Umiltà, conferendole il titolo di “regina Virtutum” (cfr. Dronke 1970 e Tabaglio 1999).
Ecco allora, stando all’albero del manoscritto Beinecke, le virtù sussidiarie. Per la Prudenza, sono memoria, intelligenza, previdenza, timor di Dio, ragione, discrezione e diligenza. Per la Fortezza, com’era prevedibile, tenacia, stabilità, ma anche calma, pazienza, silenzio e fedeltà. Per la Giustizia, ovvio, l’osservanza delle leggi, e correttezza, onestà, severità, rettitudine. Per la Temperanza, moralità e tante variazioni sul “giusto mezzo”: osservanza dei precetti religiosi, discrezione (ancora), affabilità, sobrietà, ossequio ai precetti della religione.
Più attinenti a qualità dell’homo christianus, le sottospecie della Fede (benevolenza, semplicità, continenza, verginità, purezza, candore, castità). La Speranza assume su di sé benevolenza, semplicità, morigeratezza, e ancora candore e castità. La Carità le sovrasta e le riassume tutte, nel suo articolarsi in concordia, gentilezza, attitudine al perdono, pietas, amor di pace, clemenza, compassione, grazia.
Il caso del manoscritto di Yale, d’altra parte, non è isolato. Diagrammi a vocazione didattica, che associano Vizi e Virtù col tema della scala che porta al cielo o all’inferno, o prendono la forma di ruote e alberi, imperversano nella miniatura medievale. A proposito di alberi, uno dei primi è contenuto nel Liber Floridus di Lamberto di Saint-Omer (1120 circa). Lì il settenario non c’entra. I medaglioni-frutti dei singoli rami sono i frutti della carne dello spirito, secondo la Lettera ai Galati, 5, 19-23. Nelle miniature del trattato sui frutti della carne e dello spirito dello pseudo-Ugo da San Vittore, invece, databili a partire dalla metà del XII secolo, l’albero che ha come radice Superbia (contrapposta a Humilitas nel gemello albero delle Virtù), ha sette frutti principali, fra cui Luxuria, in cima (in corrispondenza con Caritas). Vizi e Virtù principali sono rappresentati da un busto, ognuno dei quali regge sette foglie, che designano le sue sette “figlie” (Katzenellenbogen 1935, 66-68 e fig. 66-67). “Immagini classificatrici” di questo genere, che coinvolgono Vizi e Virtù in alberi a ramificazioni sempre più complesse, si trovano impiegate in testi anche molto diversi fra di loro, come lo Specchio della Conoscenza dello pseudo-Bonaventura e intorno al 1300 nel Verger de Soulas, che riunisce numerose, raffinatissime immagini didattiche in un unico manoscritto (il fr. 9920 della Bibliothèque Nationale, su cui Schmitt 1989 e Baschet 2000, 228).
La Canzone delle Virtù e delle Scienze di Bartolomeo de’ Bartoli
Non così sistematico, ma volonteroso, è l’ambiziosissimo copista-scrittore bolognese che sulla base di una compilazione latina nata a Bologna in ambiente agostiniano nella prima metà del Trecento (De Laude 1998 e 2017) ha escogitato non oltre il 1349, in veste di “compositor operis” (così si definisce lui stesso, nel titulus della miniatura incipitaria) di uno dei più straordinari Bilderbücher del Trecento italiano, conservato al Musée Condé di Chantilly (ms. 1426 [cat. 599]), cui il curatore del facsimile (Dorez 1904) ha dato il titolo di Canzone delle Virtù e delle Scienze ricavandolo dall’incipit: “Incipit cantica ad gloriam et honorem magnifici militis domini Brutii, nati incliti et illustris principis domini Luchini Vicecomitis de Mediolano, in qua tractatur de Virtutibus ac Scienciis vulgarizatis. Amen” (f. 1r)
La forma è quella di due canzoni gemelle precedute da un 'prologo', o di un poemetto fatto di stanze di canzone, insolitamente lunghe (21 versi) e tutte costruite secondo uno stesso schema metrico che è un hapax nella tradizione del Trecento italiano (ABhCcDdEeAaBbCcDdEeFF), e carico di implicazioni simboliche, giocato com’è anche nella sua scansione interna sul 7 e sul 3 (De Laude 1996). I versi, di cui ho terminato un’edizione, sono in tutto 400. Dopo il ‘prologo’ (una prima stanza di dedica a Bruzio Visconti, tiranno crudele, intelligente, polemista e poeta aristocratico e sprezzante, con la mania dei libri di Virtù; una seconda di omaggio a sant'Agostino, guida morale del testo), segue una rassegna delle Virtù Cardinali e Teologali (nella “prima pars cantice”, com’è qualificata nell'explicit della prima ‘canzone’) e una rassegna delle Arti liberali (nell'explicit, “secunda pars cantice”).
Nel libro sull’arte della memoria, Frances Yates cita in nota, senza nominarne l’autore, il testo del manoscritto di Chantilly, qualificandolo come “poemetto mnemonico” da mettere in relazione con “un affresco perduto di Padova” (quello di Giusto de’ Menabuoi nella Cappella della Chiesa agostiniana degli Eremitani, descritto dall’umanista tedesco Hartmann Schedel) e con “un manoscritto illustrato dei primi del Trecento” ora a Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms 2639, che “mostra le raffigurazioni delle tre virtù teologali e delle quattro cardinali, disposte in fila” e seguìte dalle sette Arti liberali (Yates [1966] 1972, 91 n. 46 e tavv. 8-9). In realtà, la strana ‘famiglia’ a cui appartiene il libro di Bartolomeo è più ampia e più eterogenea (De Laude 1998 e 2017). Il filone in cui la Canzone di Bartolomeo si inserisce, comunque, è certo quello: una trattatistica fortemente debitrice all’“arte della memoria”, il cui intento è far ricordare soprattutto “le cose che riguardavano salvezza o dannazione, articoli di fede, vie che portavano al Cielo attraverso virtù, o all’Inferno attraverso vizi”. Non erano queste, “le cose” scolpite nelle chiese e nelle cattedrali, o raffigurate “nei vetri istoriati e sulle pareti”? (Yates [1966] 1972, 51). Non era quello, il ‘punto’, il quid della mnemotecnica medievale, la cui identificazione la stessa Yates aveva confessato ripercorrendo la genesi dell’opera come “una difficoltà”?
Nella Prefazione del 1966 la studiosa ammette, ripercorrendo la genesi del libro:
Non riuscivo a capire che cosa fosse accaduto dell’arte della memoria nel Medioevo. Perché Alberto Magno e Tommaso d’Aquino considerarono l’uso dei “luoghi” e delle “immagini” di Tullio come un dovere religioso e morale? La parola “mnemotecnica” appariva inadeguata a spiegare la raccomandazione scolastica dell’arte della memoria e parte della virtù cardinale della prudenza. A poco a poco cominciò ad affacciarsi in me la supposizione che nel Medioevo si potesse pensare alle figurazioni delle virtù e dei vizi come immagini di memoria, composte secondo le regole classiche, o alle divisioni dell’Inferno dantesco come a luoghi di memoria (ivi, XVIII).
Lasciamo perdere per ora l’accenno alla Commedia (ripreso più tardi da Weinrich 1994 e Antonelli 2003), e torniamo alla curiosità di Carlo Magno. Se con un salto nel tempo avesse potuto avere sotto gli occhi la pagina del libro di Bartolomeo dedicata alla Prudenza, realizzata secoli dopo il suo incontro con Alcuino, l’imperatore si sarebbe trovato davanti agli occhi al f. 2r una definizione della Prudenza ricavata con piccole varianti dal De civitate Dei, XIX, 4, 4, con l’aggiunta di una 'bibliografia' in corpo minore, che rinvia ad altri luoghi in cui il santo si era occupato dello stesso argomento:
Prudentia est virtus cuius tota vigilantia bona discernit a malis, ut in illis appetendis istisque vitandis nullus subripiat error.
De prudentia edidit Augustinus librum unum qui intitulatur de salutaribus documentis, quam sic diffinit libro XIX de Civitate Dei.
Le partes della Virtù, le avrebbe potute leggere nelle iscrizioni latine della grande miniatura acquarellata, opera di Andrea de’ Bartoli, fratello minore di Andrea (per l’attribuzione vedi almeno Castelnuovo 1961 e Bosi 2012, con ampia bibliografia) che della Prudenza, come di tutte le altre Virtù e le sette Arti liberali, queste ultime nella “secunda pars cantice”, trova il modo di enumerare le sotto-specie. In più, al piede della miniatura avrebbe potuto disporre di una descrizione dell’immagine in versi in volgare, composta dallo stesso Bartolomeo sulla base di componimenti latini in esametri preesistenti.
Nella miniatura la Prudentia – donna di bell’aspetto, incoronata, in trono – è debitamente provvista dei suoi attributi canonici (il libro, il cero, e uno specchio), utilizzati per fornire sulla Virtù stessa informazioni supplementari. Lo specchio lungo la cornice enumera le fasi della vita e del tempo:
Infantia Tempus presens Pueritia et Adulescentia Preteritum Iuventus et Senectus Futurum Mors
Se di tempo si tratta – la particolarità della Prudentia consiste nella “capacità di relazionarsi con la propria esperienza trascorsa, che le consente di analizzare il momento attuale e di prevedere (per quanto possa riuscire a divinarlo coi suoi mezzi umani) l’avvenire” (Lollini 2017) – non sono dimenticate all'interno dello specchio, sopra il libro che vi è incluso o riflesso, una sfera nera che un titulus qualifica come “nox”; e sotto il libro, un'altra, bipartita di bianco e di azzurro, con il titulus “dies”.
All’interno del libro, le famose partes della Prudentia, che dal tempo della risposta di Alcuino a Carlo Magno sulle parti della prima Cardinale (“Tre, memoria, intelligentia, providentia”, sulla base del passo sulle Virtù del De inventione ciceroniano) erano più che raddoppiate.
Memoria Intelligentia Providentia Circumspectio Docilitas Ratio Cautio.
Il testo in volgare allude di continuo (ai vv. 64-84) ad elementi presenti nella miniatura: la notte e il giorno, rappresentati dalle due sfere (v. 1); il passato e il presente (v. 2), nella cornice dello specchio; la definizione della Prudenza nel De civitate Dei (v. 3 e sgg); infine, nell'ultimo verso, la menzione del Vizio corrispondente, rappresentato nell'immagine da Sardanapalo, che la soave Prudenza schiaccia con un sorriso sotto i piedi:
Quest'è la donna che la nocte e 'l zorno
pensa ch'è 'l tempo passato e 'l presente,
e ten volta la mente ver quel che de' vegnir,
per provederse, sì che le cose averse
schivar c'insegna e temperar el bene,
onde a noi ce convene,
vogliendo el modo suo nobel seguire,
inanci el diffinire
di dubii in le sententie far sezomo.
E poi senza ritorno
ce guida al punto che Raxon consente.
Ecco vertù excellente,
ch'examina i consegli in vie diverse,
per le iuste roverse che l'incredibel dà, ch'al ver se tene!
Donqua ferma la spene
doven de l'intellecto in lei tegnire,
ch'Amor, ch'è 'l nostro sire,
l'ha per suo spiechio,
e qui ce la pon prima;
e ten choi pei Sardanaphano ad ima.
Chissà se sarebbe stato più soddisfatto dall’austera Prudentia di Giotto alla Cappella degli Scrovegni, magnificamente studiata da Lollini 2017, dove la Virtù, opposta e speculare alla Stultitia, si contempla in uno specchio convesso che regge con la mano sinistra (vi si legge l’iscrizione “scit f[u]turm”), mentre nella destra impugna un compasso, strumento principe della ponderazione, attitudine evidenziata anche nell’epigrafe: “Res et tempus summa cura agit[a]t Prudentia, spec[u]letur [ut futura [s]ua providentia. Memoratur iam elapsa, o[r]dinata praes[en]tia”.
Le altre Virtù cardinali
Subito dopo Prudentia viene Fortitudo (“Segue mo’ l’altra magnanima e grande / Donna doppo la prima”, nei versi di Bartolomeo), definita con un passo tratto dal De diversis quaestionibus octoginta tribus di Agostino, LXXXIII, qu. 61, cui si accompagna la consueta ‘bibliografia’ agostiniana, che rinvia, imbrogliandosi sul titolo, al trattato agostiniano De dono perseverantiae:
Fortitudo est firmitas animi adversus ea quae temporaliter molesta sunt.
De Fortitudo edidit Augustinus librum unum de bono [sic] perseverantiae; quam sic diffinit libro 4 questionum, questione 63.
La Perseverantia è in effetti tra le partes della Fortitudo inscritte nell’immagine disposta al centro della pagina, dove la seconda delle Cardinali fa la sua apparizione, unica tra le Virtù, non in trono, ma in azione. In veste di Sansone, una figura androgina con ambigua treccia marziale indossa un’armatura e divarica puntando un ginocchio a terra (sì, una Pathosformel) le mascelle di un leone. La stessa iconografia della Fortitudo-Sansone che smascella il leone sarà ripresa una ventina d’anni dopo nel codice delle Tragedie di Seneca nel ms. 87 della Universitätsbibliothek di Innsbruck da Niccolò da Bologna (Flores D’Arcais 1992; Monti, Pasut 1999; Fachechi 2010/11): lo stesso miniatore che era intervenuto, sembra, accanto al ‘Maestro del 1346’ nell’esemplare Vaticano delle Metamorfosi di Apuleio offerto nel 1345 da Bartolomeo a Bruzio, facendosi rappresentare nel frontespizio in ginocchio davanti al giovane Visconti come donatore del libro (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 2194).
Dietro la strana figura guerriera, nella miniatura è una collinetta con pochi fiori sparsi (i “bei fiur” del v. 94), con una torre merlata sulla sommità, che ospita disposte vigorosamente in verticale le partes della Fortitudo:
Magnanimitas Magnificentia Fiducia Pacientia Perseverantia Constantia Securitas Tollerantia
A cornu Epistulae, non è rappresentato solo Oloferne (“Ollolfernes” nel titulus), schiacciato dalla Fortitudo come Sardanapalo dalla Prudentia, ma una scena più articolata, in rapporto con la tradizione iconografica che ha il suo modello nei manoscritti illustrati della Psychomachia di Pudenzio, dove Vizi e Virtù (o i loro rappresentanti) sono impegnati in veri combattimenti: davanti a un padiglione tendato, è una Giuditta (“domina Judith”) che a Oloferne sta tagliando la testa, mentre un’ancella dietro di lei è pronta a riporla in un canestro (sì, altra Pathosformel). Questa, aperta da un’iniziale miniata da cui una figurina di sesso indefinito osserva l’animata scena dell’immagine sovrastante, la stanza della canzone:
Segue mo’ l'altra magnanima e grande
donna, doppo la prima e ’l suo bel stile,
valoroxo e zentile
sì chome se convene a sua francheza
ch’ el’ è torre e fermeza
d’ogne vertute, e sì d’inzegno althiera,
che mette la gran fiera
cum le sue mani arma quaxe a morte.
Or si’ constante e forte,
Tu, che voi far di sui bei fiur ghirlande,
E per dona o se pande
Che poi vendecta fare in atto humile;
E s’alchun penser vile
In ti regnasse, i’ vedrai pur la treza,
Ma si tu vuoi la chiareza
Di suoi begli occhi haver per tua lumiera,
Vivi in cotal maniera
Liber, sechuro, aliegro, e poi la corte
D'amor t’avran consorte.
Sì chom fiducia [in] Judith Olloferne
Havé, ch’ el vixo dal chorpo glie discerne.
Viene poi la Temperantia, definita riprendendo un passo dell’agostiniano trattato De libero arbitrio, I, 13, come specificato nella bibliografia, che rimanda anche all’agostiniano trattato De continentia:
Temperantia est cohercens et cohibens appetitum ab hiis rebus que turpiter appetuntur.
De Temperantia edidit Augustinus librum unum qui intitulatur de continentia, quam sic diffinit libro I de libero arbitrio.
Nella miniatura, la personificazione della Virtù ha in mano una chiave, con la quale rinchiude in una torre le passioni violente. In un giardinetto pensile della torre, le partes della Virtù sono iscritte nelle foglie di un palmizio, e sono molte, anche se manca l’Humilitas, che gravita in genere nell’orbita della Temperantia:
Clementia Abstinentia Castitas Sobrietas Coniugium Honestas Caritas Continentia Sobrietas Virginitas Moderatio Modestia Verecundia
Sotto i piedi, la Temperantia schiaccia un personaggio qualificato dal titulus come “Epicurus voluptuosus”, bocconi sulla predella del suo trono. Ai versi 106-126, Bartolomeo de’ Bartoli descrive la scena così:
La terza donna che ’l nostro apetito
Ch’ha ’l soperchio dexio, domma e refrena,
Sempre è d’onestà piena
E volse al suo chastel discreta chiave:
Avre e serra soave,
Cum vol raxone a la cupiditate,
Et in sobrietate
S’aviva, con fa ’l corpo in nui per l’alma
E de vertù gran palma
Produce e fructo bon suo dolce lito:
E poi chi vol nel sito
Esser d’amore amante, chostei ’l mena
A la sua real cena,
Ma d’ogne vanitate e parlar brave
Prima ch’i’ va, se lave.
Ch’ ivi è pur zente de benegnitate,
Sì ch’onne dignitate
A lor s’avean, però pun giù la salma
D’ogni viltà che scalma
In l’inferno Epichuro, che non volse
Viver modesto e mo’ sotto lei dolse.
“Ultima e quarta de le cardinali” è la Giustizia, definita secondo un passo dell’agostiniano De moribus ecclesiae catholicae et Manicheorum, I, 1322, a cui come sempre si accompagna in corpo minore una bibliografia aggiuntiva:
Iustitia est amor soli Deo serviens, et ob hoc bene imperans ceteris que homini subiecta sunt.
De iustitia edidit Augustinus librum unum qui incipit: “Salomon sapientissimus” et librum de perfectione iustitie hominis: quam sic diffinit liber de moribus Ecclesie.
Le partes sono come di consueto all’interno dell’immagine, elencate in un libro rilegato di rosso:
Religio Pietas Gratia, Vindicatio Observantia Veritas Obedientia Innocentia Concordia Amicitia Affectus Humanitas Liberalita Legalitas
Altri libri di argomento giuridico poggiano su un tavolino sormontato da un leggio. Aperto, è quello che reca l’incipit delle Institutiones di Giustiniano: “Imperatorem maiestatem non solus armis decoratum, sed etiam legibus oportet esse armatum”. Sotto i piedi, la Iustitia schiaccia, neanche a dirlo, “Nero iniqu[u]us. Ai vv. 127-147, e Bartolomeo descrive “questa donna de vertù” superna (moltissimi, nella Canzone, i deittici) così:
Ultima e quarta de le cardinali
È questa donna de vertù superna,
La qual reze e ghoverna
Per lege l’universo e cum la spada
Et ecce da quel dada,
Che tutto pò che l’umeltà nutrighi
E chi nostri chor[i] lighi
Cum fedel compagnia d’amor luntani,
E gl’iintellecti humani
Divida per pietà dagli animali.
E non pur solo i mali
Schiva chostei, ma chi i fesse gl’inferna,
Et à sua roccha eterna
Drittura per lieltà vera, e la strada
Che ce mena o desgrada
Li suoi statuti per nostri chastighi;
Li quai se ben destrighi,
In pace i trovi e d’ogni equità piani:
El chan crudel di chani,
Neron, filiol d’iniquità protervo,
Trida[r]li questa ogni osso, polpa e nervo.
Il diverso trattamento delle Virtù Teologali
Diverso è il trattamento delle tre Virtù Teologali, per le quali partes, o species passano in secondo piano rispetto all’intento di “far credere”, per riprendere il titolo di una tavola rotonda tenuta all’École Française de Rome (e in particolare particolare l’intervento di Schmitt 1981). La Fides, al f. 4r, è una donna incoronata che si affaccia da un albero folto di rami, ognuno dei quali culminante in un frutto, nel quale è inscritto in forma abbreviata un versetto del Credo, o Symbolus Apostulorum, ritenuto opera collettiva degli apostoli, e preghiera quasi ‘magica’, cui la Chiesa ha tradizionalmente affidato il compito di mantenere i laici almeno al livello di una credenza implicita.
La definizione della Fede combina due diversi passi agostiniani, ricavati dal trattato In Johannis Evangelium, 40, 9 e dal De civitate Dei, IV, 20. Sopra il suo capo, un volto triforme porta l’iscrizione “Trinus est Deus”, e figura la Trinità. Sotto i piedi, la donna schiaccia “Arius hereticus”, a terra dietro un tempietto in mezzo al quale sta un altare con la scritta: “Petra autem erat Christus. Et super hanc petram he[dificabo] ec[clesiam] meam”, riecheggiando Matteo, 16-18. Questa, ai vv. 148-168, la descrizione in versi di Bartolomeo:
Fé è la prima che se ferma in pietra,
Di quelle tre vertù che l’alma induxe
Sopra ’l celeste luxe,
Con ce dimostra in pomme el simbol santo;
Ch’in septe e septe è ’l canto
Distincto tutto e da quel sol procede.
Che de vergene herede,
Havé per spirito santo un figliol karo;
Ch’el fé nostro riparo
A trar l’umanità de la faretra
Enfernal, chava e tetra,
In qual punisse anchor le septe acchuxe.
Questo ch’è ’l sopran duxe
Unito e tripartito in un Dio tanto,
La sua possanza è quanto
Comprehender più si pò per nostra fede,
E che ven per mercede
In carne e sangue de nui su l’altaro.
Et Arrio el niegha, e chiaro
La Gliexia el dampna lui cum la sua septa
A l’inferno, e la nostra in ciel confetta.
La Sperantia, che viene subito dopo (f. 4v), schiaccia sotto i piedi, neanche a dirlo, un “Iudas desperatus”, a terra, che porta ancora al collo la corda con la quale si è impiccato.
Verso di lei, dal cielo, si protendono due maniculae: una per porgerle la corona che merita (il tipo iconografico è diffuso), l’altra per affidarle un cartiglio in cui sono elencate in due colonne le “Beatitudines animae” e le “Beatitudines corporis”: un’ennesima classificazione, introdotta da Anselmo d’Aosta nel Liber de beatitudine coelestis patriae in forma di doppio settenario di doni immortali, e ripreso senza variazioni di sostanza dai teologi dei secoli successivi. La variante accolta nel libro di Bartolomeo ne aggiunge per ogni gruppo due. Sono dunque, nell’ordine:
Beatitudines Anime |
Sapientia |
Beatitudines corporis |
Claritas |
Amicitia |
Agilitas |
||
Concordia |
Voluptas |
||
Honor |
Libertas |
||
Potentia |
Longevitas |
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Securitas |
Sanitas |
||
Visio |
Pulchritudo |
||
Fruitio |
Fortitudo |
||
Tentio |
Impossibilitas |
||
Et deinde oritur gaudium |
Questa, ai vv. 169-189, la stanza di Bartolomeo, che allude alla partizione delle Beatitudini “nove da nove in due mude”:
Fé è sta’ quinta e Speranza seconda
Ad orden lei, sì ch’in lo cerchio è sexta:
De chi dovean far festa,
Ch’amor la manda per nostra salude
A trarce del palude
Mondano e fuora del profundo fiume
Di rei pensier che sume
La mente nostra in adversa fortuna:
E con più mal ci aduna
Chostei de l’anchor suo lor ce la sponda,
E d’ogni ben ioconda,
Expecta gratia dal ciel manifesta,
E la sua vita honesta
Divide nove da nove in due mude
Beatitudin ignude
D’ogni diffecto e falle suo costume:
E ’l suo perfecto lume
Infunde in nui chon fa ’l sole in la luna,
Per indurce a la cruna
Che perdé Juda, disperà trahitore,
Ch’a si de’ morte e tradì ’l suo segniore.
La Caritas, ultima delle Teologali, nella miniatura è una donna con parole al posto del cuore, per dire la sua pietà verso Dio e verso gli uomini (“Amor Dei, Christi, amici, inimici”); nelle mani regge cartigli in cui si leggono condensati in versi, in una formula mnemonica ampiamente diffusa nell’età di mezzo, i Dieci Comandamenti (una variante della lezione attestata da Bartolomeo è nel frammentario, bolognese ms. it. 112 della Bibliothèque Nationale di Parigi, f. 16v, di cui andranno studiati i rapporti con il manoscritto di Chantilly: “Sperno deos, fugito periuria, sabata colo. / Habens uni Deo amorem timorem amorem. / Sit tibi patris honor, sit tibi patris [per “matris”] amor. Non sis ociosus [per “occisor”]):
Sit tibi patris honor, sit tibi matris amor.
Non sis occisor, fur, mecus, testis iniquus,
Vicinique tuorum resque caveto suas.
Sperno deos, fugito periuria, sabbata colo,
Habens uni Deo amorem, timorem et honorem.
Ai vv. 190-210 Bartolomeo presenta questa Virtù somma, “sostegno” di tutte le altre, così:
Ogne vertù senza chostei si perde:
Karitate è, ch’è d’ogn’altra sostegno,
Come ce mostra in segno
Amor che i ven dal cor da quatro parti,
Et ha in man due carti:
A Dio va l’una, e l’altra a nui riverte.
E ten sue aile aperte
Ciaschun chiamando; e s’alcun hom la schiva,
Se stesso d’onor priva,
E sta comm’ albor seccho in zardin verde,
In la sua vita, e ver de’
Per tal diffecto ametter l’altro regno;
Chè ’l suo zentile inzegno
È de condurce tutti in quelle parti
O i seraphyni en sparti
Del ciel chol sancti a veder chose certe,
Fé e Speranza experte
En di tal donna che da lor deriva;
Septima in ziro e viva
In Dio se trova eternal questa zemma,
Che lassù Herodes, onde è ben ch’el zemma.
L’albero delle Virtù
Segue finalmente, ai vv. 211-221, il congedo riassuntivo della “prima pars cantice”, che ancora insiste sul ruolo privilegiato della Carità (f. 6r):
Chanzone, ogne vertù ven giù dal cielo
Et al ciel tutte Charità le porta,
O’ l’amor ce conforta.
Che de lei nasce, et ella in Dio ci anida.
Chossì schiven le strida
Di sottoposti a le donne dolen[tri]
Che de l’inferno i centri
Provan per suoi difetti e ’l caldo e ’l zielo.
Nesun lor nome ’l cielo;
Mo’ i va narrando, e s’ tu vi’ che ’l sezorni
In vitio alchun, fa che vertù mel torni.
DOPOIA DIVIDIVI
I versi però occupano uno spazio ristretto della pagina, e sono sovrastati da un albero, probabilmente di mano diversa da quella di Andrea de’ Bartoli, che dovrebbe riassumere quanto detto e illustrato nel libro, ma introduce nell’iconografia delle Virtù alcune variazioni.
Se le Cardinali sono tutte, come nelle miniature ad esse dedicate, “in schanni” (v. 39), diciamo in cattedra, la Giustizia conserva la spada sguainata, ma regge con l’altra mano, invece di un libro, una bilancia. La Fortezza lascia alle spalle la coreografia del combattimento di Sansone con il leone, e pure la Giuditta “tagliatrice di teste”: è sola, con una piccola torre nella mano sinistra, e nella destra una clava di Ercole. La Temperanza non ha più la sua torre in cui chiudere a chiave ciò che è sfrenato, ma è dotata di una brocca d’oro e un bacino d’argento, strumenti nobili per ottenere tiepidezza. Solo la Prudenza, che come depositaria della Memoria ha un ruolo privilegiato nel “libro d’autore” (nel senso in cui impiega questo termine Petrucci 2017), si mantiene fedele a se stessa: nella destra ha un cero acceso, nella sinistra un disco-specchio semplificato rispetto a quello del f. 2v, dove si leggono le sole parole: “Presens preteritum et futurum”. Bastava quello, in effetti.
Le Teologali cambiano ancora di più. La Fede è vestita di verde ma non sbuca da un albero frondoso come al f. 4r. Nella destra tiene un crocifisso e leva gli occhi devotamente verso Cristo in maestà. La Speranza è inginocchiata a mani giunte in una navicella di cui l’albero è spezzato (sì, un altro tema caro a Warburg). A mani giunte è anche la Carità, in un disco che è quasi il doppio degli altri: è lei nel grembo dell’“Omnipotens Deus”, e il suo gesto è il gran finale della storia.
Nell’albero che nel manoscritto di Chantilly visualizza le relazioni familiari tra le Virtù, insolita è già la Madre: una Discretio (così il titulus) che era comparsa come “Dicretio mater o sal Virtutum” già nella miniatura iniziale, quando insieme a una “Docilitas mater scientiarum” nella stanza apostrofa Bartolomeo chiedendogli di descrivere “in rima per vulgare” le figlie di entrambe (v. 17).
Di una Discrezione che personifica la capacità di discernere il bene dal male (per metafora, cogliere le rose gettando le spine) aveva parlato già Francesco da Barberino in quello straordinario prototipo di Bildercodex che sono i Documenta amoris (Ciccuto 2011). Fonte di entrambi è forse il De virtutibus et donis Spiriti Sancti di Alano da Lilla (in Lottin 1960; cfr. Marruzzo 1974 e per il trattato di Alano almeno Vasoli 1961). Ma la questione sarà da riprendere. Prima della prossima chiacchierata sul belvedere di Cortona.
Questa volta, nell’albero, le Virtù parlano in prima persona:
Onnipotens Deus:
I’ sono eterno et in eterno e’ fui
E sserò sempre e son quel che mai fui.
Karitas
Karità sum ch’in Dio sempre m’abraxo
Et ello in mi se possa, et in lui giaxo.
Spes
Chon più me trovo in fievoletta barcha
Più spiero in Dio, del ciel patre e monarcha.
Fides
De vergen naque e po’ fu crucifixo
Quel che de giudicare lo mondo è fisso.
Prudentia
E’ m’aspiecho in tri tempi, e sì i dispono
Chon vol raxon; però Prudentia sono.
Temperantia
De l’apetito inordinao la falda
Cum l’aqua freda amorto e cum la calda.
Fortitudo
Per mia forteza i’ porto tutto il carcho
D’ogne vertute, e done ai miei barcho.
Discretio
Dicerno spin de belle roxe e fiuri,
Perch’[om] no ‘m lassi i primi e gli altri honori.
Sotto al trono su cui siede Discretio, un mostro con fattezze diaboliche, e una quartina che non sarà da mettere in bocca a lui, ma alla Giustizia divina:
Sardanaphallo, Olofferne, Epichurio,
Nerone et Ario, Juda et Herode
Cum la mia spada percottendo ’i schurio,
Chon vol l’eterno Re degno di fede.
Qualche voce fuori dal coro, e un altro Diavolo
C’è qualcuno che, fuori dal coro, manifesta insofferenza di fronte alle partes e alle species delle Virtù, come tentativo impossibile di sfidare la realtà sul piano della distinzione analitica e dell’accumulazione onomastica. Tra i più drastici è Guglielmo d’Alvernia, nel De virtutibus: “Non ingannare la tua anima, non affaticarti in suddivisioni che non servono a niente” (in Casagrande, Vecchio 2000, 213). Nessuno schema sembra a Guglielmo in grado di catturare quelle che chiama le “realtà del mondo”. L’affanno dei nomi, però, è dominante. Descrivere, suddividere, rappresentare ad oculos partes e species è per l’uomo del Medioevo un’arma di salvezza. È il Diavolo ad averlo capito benissimo, quando nell’Ordo virtutum di Ildegarda di Bingen cerca di mettere in difficoltà la schiera ordinata delle Virtù con questa accusa: “Vos omnes nescitis quid sitis” (in Tabaglio 1999, 60).
Riferimenti bibliografici
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R. Bosi, L’Offiziolo bolognese della Biblioteca Abbaziale di Kremsmünster, in «Conosco un ottimo storico dell’arte…». Per Enrico Castelnuovo. Scritti di allievi e amici pisani, a cura di M.M. Donato e M. Ferretti, Pisa 2012, 131-140. - Casagrande, Vecchio 2000
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S. De Laude, Uno stemma per parole e immagini: intorno alla “Canzone delle Virtù e delle Scienze” di Bartolomeo de' Bartoli, in Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia romanza, Palermo 18/24 sett. 1995, a cura di G. Ruffino, vol. VI, Edizione e analisi linguistica dei testi letterari e documentari del medioevo. Paradigmi interpretativi della cultura medievale, Tübingen 1998, 95-111. - De Laude 2017
S. De Laude, Una storia bolognese. Sulla “Canzone delle Virtù e delle Scienze” di Bartolomeo de’ Bartoli, in corso di stampa in “Quaderni di filologia romanza”. - Dorez 1904
La Canzone delle Virtù e delle Scienze di Bartolomeo di Bartoli da Bologna, testo inedito del secolo XIV tratto ms. originale del Museo Condé ed illustrato a cura di Leone Dorez, Bergamo 1904. - Dronke 1970
P. Dronke, The Text of Ordo Virtutum, in Id., Poetical Individuality in the Middle Ages. New Departures in Poetry 1000-1500, Oxford 1970, 180-192. - Howell 1941
W. S. Howell, The Rhetoric of Alcuin and Charlemagne, Princeton 1941. - Katzenellenbogen 1935
A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtues and the Vices in Medieval Art from Early Christian Time to the Thirteen Century, London 1935. - Lollini 2017
F. Lollini, “Quasi stupida virtus”. Prudentia e Stultitia nella Cappella degli Scrovegni: una postilla, in “La Rivista di Engramma”, 149, settembre 2017. - Lottin 1960
O. Lottin, Alain de Lille. Traité sur les vertus, in Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, VI, Louvain-Gembloux 1960. - Marruzzo 1974
G. Marruzzo, Composizione e significato de “I Documenti d’amore” di Francesco da Barberino, in “Giornale italiano di filologia”, 26, 217-251. - Pasut 2013
F. Pasut, I miti di Seneca tragico nelle miniature di Nicolò di Giacomo, Il codice Ambrosiano C 96 inf. con le Tragedie di Seneca miniate da Nicolò di Giacomo, a cura di C. Monti, F. Pasut, Milano, 225-258. - Petrucci 2017
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J.-C. Schmitt, Du bon usage du “credo”, in Faire croire. Modalité de la diffusion et de la réception des messages réligieux du XIIe au XVe siècles. Actes de la Table Ronde de Rome, École Française de Rome (22-23 juin 1979), Rome 1981, 337-361. - Schmitt 1989
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ldegarda di Bingen, Ordo Virtutum. Il cammino di Anima verso la salvezza, a cura di M. Tabaglio, San Pietro in Cairano (VR) 1999. - Vasoli 1961
C. Vasoli, Temi e motivi della riflessione di Alano da Lilla, nella “Summa quoniam homines” e nel “Tractatus de Virtutibus”, “Bullettino Storico del Medio Evo”, 75, 123-72. - Weinrich 1994
H. Weinrich, La memoria di Dante, Firenze 1994.
English abstract
Taking the first meeting between Alcuin and Charlemagne as a starting point (it seems the Emperor, after a few preambles, asked Alcuin how many and which are the parts of Prudentia), this paper considers the medieval obsession with dividing the Virtues into partes, giving them a name and showing hierarchical relationships between Virtues and Vices through mnemonic trees and other “Images classificatrices” (J.-C. Schmitt). The sample text examined is the 1349 Canzone delle Virtù e delle Scienze by Bartolomeo de’ Bartoli from Bononia, illuminated by Bartolomeo’s brother, the painter Andrea, and dedicated to Bruzio Visconti (Chantilly, Musée Condé, ms 1426 [cat. 599].
keywords | Alcuin; Charlemagne; Virtues; Bartolomeo de’ Bartoli.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. De Laude, La curiosità di Carlo Magno. Le Virtù, le loro parti e il loro albero, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 433-457 | PDF