Enea Vico, incisore e antiquario parmigiano, ebbe a definire "camei di tanta e rara suprema bellezza" le gemme dei Grimani di Santa Maria Formosa, che intorno al 1551 Giovanni, patriarca di Aquileia, aveva riportato a Venezia da Roma (Vico 1558, 53). Per la raccolta, ogni volta arricchita di nuovi esemplari, si trattava dell’ennesimo trasferimento da una città all’altra al seguito del Grimani di turno. Molte delle gemme, infatti, erano già appartenute al cardinale Domenico, che nel 1523 le aveva lasciate in eredità al nipote Marino, fratello di Giovanni, a sua volta fatto cardinale nel 1528 (Paschini 1926-27, 160-162; Furlan 2014, 34-35, 37-44). Alla morte di costui la collezione di medaglie, intagli e cammei era stata posta sotto sequestro da papa Paolo III e, infine, riscattata da Giovanni per la cospicua somma di tremila scudi, come informa sempre il Vico. Centoventi di queste gemme vennero in seguito montate su una "cassettina" d’ebano e avorio – nelle intenzioni del patriarca essa doveva restituire "in un colpo solo […] le lunghe fatiche et i pretiosi acquisti" dei collezionisti della famiglia – per riaffiorare sul mercato antiquario veneziano del Settecento, dopo passaggi testamentari e vendite (Favaretto, De Paoli 2009 con bibliografia precedente). Settantadue cammei, invece, servirono per ornare il "nobilissimo" studiolo, uno stipo d’ebano decorato con pietre dure, cammei, bronzi e vasi in terracotta, che nel 1592 passò alla Serenissima e che, esposto prima nel Vestibolo della Libreria di San Marco e poi nelle Sale d’armi di Palazzo Ducale, è oggi perduto (Massinelli 1990, 41).
Al Vico e al pittore e incisore veneziano Battista Franco va il merito di aver fissato le gemme della dattilioteca Grimani in due identiche serie di incisioni a stampa che hanno appassionato non poco gli studiosi del settore (Bodon 1997, 88-89; Biferali, Firpo 2007, 299). E hanno consentito negli anni l’identificazione di numerosi esemplari nelle più importanti raccolte d’Europa e nella collezione glittica del Museo Archeologico Nazionale di Venezia (Lemburg-Ruppelt 1981; Neverov 1984; Nardelli 1999, 19-24). Le incisioni di Vico sono in controparte rispetto a quelle di Franco e presentano il medesimo orientamento delle pietre antiche, che è invece ribaltato nelle illustrazioni del Franco. È opinione comune che quest’ultimo abbia lavorato sui disegni originali dei cammei, mentre Vico abbia preparato le sue matrici a partire dalle stampe di Franco (Neverov 1984; Zorzi 1988, 28; di altro avviso è Bodon 1997, 89).
Le traduzioni grafiche delle gemme Grimani: alternative semantiche
La realizzazione dei rami con i cammei Grimani avvenne probabilmente negli anni Quaranta del Cinquecento, circa un decennio prima della data che di solito viene riportata negli studi a essi dedicati. Secondo Rita Parma Baudille, tra il 1541 e il 1545 sarebbe stato il cardinale Marino Grimani, indotto dalla notorietà della sua raccolta glittica anche tra i collezionisti romani, ad affidare al Franco l’incarico di disegnare e incidere le gemme per un futuro catalogo (Parma Baudille 1994, 91). [Fig.1]
La celebrità della collezione è del resto attestata anche da due “invenzioni” di Giulio Romano degli anni Venti dello stesso secolo, incise su fronte e retro di una stessa lastra di Adamo Scultori, da cui derivano vari esemplari a stampa. Si tratta di una scena con tre uomini che pelano un maiale in una caldaia, interpretata come Autunno o Sacrificio a Cerere, e della raffigurazione con tre Amorini sopra delfini , considerata una delle migliori dell’artista (Boorsch, Spike 1986, 175 cat. 23, 220 cat. 104; Bellini 1991, 122-123 cat. 105, 129-130 cat. 107; Massari 1993, 137-139, catt. 138-139). [Fig. 2] Entrambi i soggetti corrispondono a due gemme Grimani delle serie Franco-Vico: del primo, raffigurato solo dal Franco, non è stato ancora individuato l’esemplare antico, il secondo è invece ispirato a un cammeo del I sec. a.C. oggi all’Hermitage di San Pietroburgo (Zerner 1979, 238, 240; Spike 1985, 98; Neverov 1984, 29, fig. 21; Neverov 2002, 148, cat. 73).
Stefania Massari ha ipotizzato che Giulio Romano, a Mantova dal 1524, possa aver visto le gemme Grimani a Venezia prima che Marino, novello cardinale, le portasse con sé a Roma nel 1528 (Massari 1993, 137). Toby Yuen, invece, ha ritenuto probabile che l’artista avesse potuto ammirare alcune importanti collezioni del primo Cinquecento, come la Medici depositata presso il banchiere Agostino Chigi, la Gonzaga-D’Este e appunto la Grimani, mentre lavorava a Roma prima della sua partenza per Mantova (Yuen 1979, 266-267).
Nell’analizzare l’influenza esercitata su Giulio Romano dallo studio della glittica antica, Yuen suggeriva pure che la composizione con eroti e delfini disegnata da Giulio avesse potuto passare da allievo a maestro, divenendo uno dei motivi ispiratori della statua di Giona progettata da Raffaello, intorno al 1520, per la cappella funeraria di Agostino Chigi nella chiesa di Santa Maria del Popolo (Yuen 1979, 270-271).
È, dunque, plausibile ritenere che le due gemme Grimani siano state disegnate da Giulio, quando esse erano ancora presso Domenico, grazie ai contatti offertigli dall’ambiente della corte papale di cui facevano parte sia il suo maestro sia il cardinale, che di Raffaello possedeva il prezioso cartone della Conversione di San Paolo (Paschini 1943, 150).
Tornando alle tavole di Franco e Vico, l’occasione per la ripresa dei rami del primo da parte del secondo si presentò forse nella bottega dell’editore romano Antoine Lafréri, dove incisori al suo servizio utilizzarono come modelli pure altri fogli di studi dall’antico del Franco (Parma Baudille 1994, 91-92; Bury 2001, 121-127, 228). Lo stesso Enea Vico, attivo in quella bottega, incise per lo stampatore tre grandi tavole con animali, assemblando disegni di Battista (Massari 1993, 195-197, catt. 182-185). Anche le gemme Grimani apparvero riunite in tre grandi fogli, inseriti dal Lafréri nell’Indice del 1574: "tre tavole di diversi intagli di Camelli fragmenti dove si vedono di molte sorte di sacrifizi et altre cose varie" (Neverov 1984, 22; Alberti 2011). Dopo questo episodio, però, le due serie di incisioni con le gemme Grimani ebbero sorti differenti. [Fig. 3]
Le lastre del Franco passarono in eredità al figlio Giacomo, editore, comparendo nel II tomo del Della nobiltà del disegno, stampato a Venezia nel 1611 (Franco 1611; Stefani 1998; Bury 2001, 174, 226). Il libro, diviso in due sezioni ben distinte, accoglie nella prima una sorta di sintetico manuale grafico per giovani artisti, nella seconda varie incisioni ad acquaforte e bulino di Battista Franco, molte delle quali tratte dall’antico come i bassorilievi dell’arco di Costantino e i cammei Grimani (Biferali, Firpo 2007, 143-145). A testimoniare il grande fascino esercitato per tutto il Seicento da questa raccolta di incisioni è sufficiente ricordare il fatto che ne possedeva una copia Cassiano dal Pozzo, instancabile raccoglitore di antichità nel suo Museo Cartaceo (Parma Baudille 1991; Biferali, Firpo 2007, 146; Stumpo 1986).
Ciononostante, essa in seguito cadde in una sorta di oblio. È lecito chiedersi tuttavia se nell’insieme delle traduzioni grafiche delle gemme Grimani possa esserle assegnato un significato che vada oltre l’incarico ricevuto dal committente. Quale alternativa semantica propongono, infatti, le incisioni di Franco alla luce del loro successivo inserimento in un libro di disegni dall’Antico?
Sappiamo da Vasari che Battista nell’ultimo periodo del suo soggiorno romano – prima di trasferirsi definitivamente a Venezia, dove morirà nel 1561 – era impegnato a "disegnare non solo le statue ma tutte le cose antiche" di Roma "per farne, come fece, un gran Libro, che fu opera lodevole" (Vasari [1568] 1855, 327-328). Spinto dalla sua naturale e 'vorace' predisposizione per il disegno, l’autore aveva coltivato l’ambizioso progetto di un libro a stampa, rimasto incompiuto, che riproducesse tutti i resti del mondo antico (Biferali, Firpo 2007, 144). I "filologici fogli disegnati o incisi dal Franco con l’amore e la pazienza tipici del collezionista", dunque, non sono più elementi sciolti di un taccuino d’artista ma costituiscono un’antologia di testimonianze dell’antichità e trovano perciò posto nella biblioteca del dal Pozzo, che stava in quegli anni componendo il suo museo di disegni (Biferali, Firpo 2007, 145). Del resto anche le stampe del Lafréri – e con esse quelle vichiane delle gemme Grimani – acquistabili in fogli sciolti, assemblabili a piacimento sotto il titolo di Speculum Romanae Magnificentiae, finivano col comporre personali collezioni, che erano altrettanti 'musei di carta' corrispondenti alle memorie di viaggio di coloro che visitavano Roma nella seconda metà del Cinquecento. Agli artisti invece esse offrivano materiale di studio dall’antico e motivi classici cui ispirarsi, anche qualora essi non avessero intrapreso il doveroso 'pellegrinaggio' nell’Urbe (Lowry 1952, 46-47; più in generale per una panoramica sull’immensa tematica del disegno dall’antico si veda Giuliano 2001).
Nel XVII secolo poi le illustrazioni del Vico, cui toccò in sorte ben diversa fortuna, furono ristampate nell’Ex antiquis Cameorum et Gemmae delineata et ab Aenea Vico Parmen. Incisa dall’editore francese Philippe Thomassin, che a Roma non disdegnava la pubblicazione di tavole acquistate o copiate da altri stampatori, per esempio Lafréri e Salamanca (Vico 1620; Bury 2001, 232-234). Successivamente uscì anche l’Ex Gemmis et Cameis Antiquorum aliquot Monumenta ab Aenea Vico Parmen. Incisa, opera che con la precedente è stata inserita da Giulio Bodon tra i titoli postumi di Vico (Vico 1650; Bodon 1997, 165-166). In entrambi i casi, va sottolineato un importante elemento di novità rispetto ai tre fogli degli anni Settanta editi dal Lafréri: a ciascuna illustrazione venne ora riservata un’intera pagina, corredata di una breve didascalia o titolo in alto e di una spiegazione del soggetto in versi latini in basso [Fig. 4].
Forse proprio a Vico sono da attribuire i commenti eruditi dei temi delle gemme e del loro significato, elaborazione cólta successiva al profondo mutamento intellettuale coinciso col suo arrivo nella Serenissima dopo le esperienze romane e fiorentine. Un processo di evoluzione che, innestatosi nell’interesse antiquario già manifestato, lo portò da un approccio alle antichità prevalentemente estetico a un’indagine motivata da più profonde esigenze conoscitive, trasformando l’esperto incisore in erudito studioso (Bodon 1997, 85). È probabile che l’autore, stimolato dal contatto diretto con le antichità di casa Grimani tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, abbia desiderato ritornare su quelle vecchie incisioni, riprendendole e commentandole alla luce di una nuova consapevolezza antiquaria.
Ciò spiegherebbe l’intestazione delle due opere postume, che è forse troppo semplice attribuire a un errore o a un espediente commerciale del Thomassin.
Le pubblicazioni seicentesche della serie vichiana ebbero grande diffusione e le immagini delle gemme furono riprodotte più volte fin nel XVIII secolo, acquisendo nuovo valore semantico e confluendo, infine, in quegli ordinati corpora di conoscenza, che nei disegni dell’antico videro dei documenti utili alla sua interpretazione (Settis 1994, 258). Due testimonianze assai significative della fortuna delle incisioni vichiane raffiguranti i cammei Grimani sono date, ad esempio, dall’opera di Paolo Alessandro Maffei Gemme antiche figurate e da L’antiquité expliquée di Bernard de Montfaucon. La prima è una riedizione del volume di analogo contenuto di Leonardo Agostini – da matrici acquistate dallo stampatore Domenico de’ Rossi – con l’aggiunta di "alcuni rami di gemme antiche […] intagliate da Enea Vico" (Maffei 1707a, XIII, XV). Della seconda, pubblicata nel 1719 – cui fece seguito nel 1724 un corposo supplemento – basti ricordare che, monumentale compendio del sapere antiquario, attraverso i testi degli autori classici e le immagini essa si proponeva come "una rappresentazione fedele, completa e accessibile del mondo antico" (Vaiani 1998, 155).
In merito alle gemme Grimani, Maffei, che di tutte fornisce interpretazioni in parte riprese da Vico in parte nuove, ripropone trentadue delle trentasette stampe vichiane, attribuendone però cinque all’editore romano Pietro Stefanoni (Bury 2001, 234). Tra queste ultime figura per esempio una famosa gemma con Ercole e Cerbero (Maffei 1707b, 201, tav. XCVI; Neverov 1984, 29; Neverov 2002, 148, cat. 74; Lemburg-Ruppelt 1984, fig. 45.1; Tondo Vanni 1990, 39-40, n. 83). Montfaucon riprende Maffei, ora confermandone le esegesi come nel caso di una Nereide su ippocampi – entrambi ritengono si tratti di Venere (Maffei 1708, 14-15, tav. VII; Montfaucon 1722a, 166, tav. CI, 2; Neverov 1984, 31) – [Figg. 5-6], ora reinterpretando i soggetti delle gemme rappresentate come per Psiche punita da alcuni eroti – Montfaucon la ritiene Psiche, Maffei "virtù in schiavitù" – (Maffei 1709, 119-120, tav. LXXIV; Montfaucon 1722a, 193, tav. CXXII, 3; Neverov 1984, 29). Ma Montfaucon pare dimenticare quasi sempre l’origine delle immagini che utilizza; solo in un caso, infatti, si mostra consapevole di una derivazione del Maffei da Vico (Montfaucon 1722b, 198, a proposito della tavola XC del secondo volume dell’Antiquité expliquée). E non cita mai l’originaria appartenenza delle gemme alla collezione Grimani. Si tratta di documenti antichi e tanto sembra bastargli. Via via che ci si allontana nel tempo dalle prime traduzioni grafiche dei cammei Grimani sembra, dunque, perdersi la memoria del nesso tra pietre e disegni.
Chi non dimenticò l’origine delle gemme rappresentate nelle illustrazioni vichiane fu invece Lorenzo Pignoria, che all’inizio del XVII secolo ne fece un uso piuttosto interessante (Favaretto [1990] 2002, 165-167; Buora 2015). Notevole figura di erudito e stimato collezionista in contatto epistolare con, tra gli altri, Nicolas-Claude Fabri de Peiresc e Cassiano dal Pozzo, nel 1615 costui commentò un’edizione delle Immagini degli Dei di Vincenzo Cartari, corredata di nuove illustrazioni, prefazione e apparato scientifico (Cartari, Pignoria 1615; Volpi 1992, 60-77; Volpi 1996, 23-27). Il testo di Cartari, in origine pensato come manuale di mitologia classica principalmente a uso degli artisti, divenne nelle mani di Pignoria uno strumento di ricerca per eruditi, fornendogli la cornice in cui inserire in modo organico "oggetti antichi […] della sua collezione e di quelle che aveva potuto osservare o di cui aveva ricevuto disegni o stampe" (Volpi 1992, 60). Le immagini aggiunte correggono di fatto le illustrazioni delle edizioni precedenti, prendendo a modello veri reperti archeologici, in molti casi gemme, e mostrando una notevole aderenza alle fonti figurative antiche (Volpi 1992, 61; Volpi 1996, 27). Tra questi vi sono otto esemplari della collezione del patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani.
Le illustrazioni, volute da Pignoria, per lo più ridisegnano i soggetti delle gemme, ispirandosi alle incisioni di Enea Vico di cui riproducono l’orientamento, come per Apollo e Dafne, Igea, un baccanale, Ercole musagete e Bellerofonte con Pegaso (Cartari, Pignoria 1615, 57, 83, 367, 546, 542; per le gemme, tranne quella con Igea non identificata, si veda Neverov 1984, 31). In tre casi – dio Como, giovane su capricorno e Psiche con eroti – i cammei Grimani sono addirittura inseriti all’interno delle tavole figurate, a loro ulteriore corredo, e ne viene restituita non solo la silhouette dei soggetti rappresentati ma anche la forma di gemme (Cartari, Pignoria 1615, 369, 534, 575; Neverov 1984, 30-31). Tale elemento sembra collocare l’utilizzo delle immagini vichiane fatto da Pignoria su un piano semantico analogo a quello del più tardo Montfaucon – la spiegazione dell’antichità attraverso esemplari originali di essa – benché a un livello di consapevolezza maggiore rispetto alla fonte prima di quelle stesse immagini, vale a dire la collezione Grimani [Figg. 7-8].
Spolia in re: declinazioni funzionali
La scelta di Pignoria, di rappresentare i tre cammei Grimani come gemme vere e proprie, evidenzia per contrasto un elemento già osservato da Irene Favaretto a proposito delle illustrazioni Franco-Vico: di fatto esse ignorano forma e dimensioni delle pietre, nonché eventuali montature, per concentrarsi sulle scene raffigurate (Favaretto, De Paoli 2009, 270). È il soggetto a importare, non il supporto materico in cui la gemma è intagliata o scolpita. Guardate da questo punto di vista, ci sembra che le immagini dei cammei Grimani rientrino a pieno titolo in quel patrimonio grafico di disegni di traduzione dall’antico che fu feconda pratica artistica delle botteghe rinascimentali.
L’uso 'strumentale' del disegno dall’antico, adoperato per trarne schemi e temi iconografici, è stato paragonato da Salvatore Settis al reimpiego dei marmi (Settis 1994, 258). Spolia in re nel cui riutilizzo, analogamente a quanto accadde per le pietre, possono presentarsi diverse declinazioni funzionali: il modello antico viene recepito in forma e significato oppure replicato nella forma ma reinterpretato o, infine, assunto e riproposto come tale in quanto tramandato, senza alcuna interpretazione (Settis 1986, 408-409). Le gemme Grimani e l’uso fatto dagli artisti delle loro immagini sembrano presentare tutte queste sfumature.
Nell’esaminare alcuni dei loro prestiti-reimpieghi è doveroso iniziare dalle decorazioni a stucco della scala "di grande ricchezza e di qualificante rappresentanza" realizzata a palazzo Grimani negli anni Sessanta del Cinquecento (Bristot 2008, 103-112). Incaricato di ornare le volte a botte del pianerottolo e della rampa che porta al primo piano fu Federico Zuccari, a Venezia dal 1563 chiamatovi da Giovanni per completare i lavori nella cappella di famiglia a San Francesco della Vigna, interrotti dalla morte di Battista Franco (Acidini Luchinat 1999, 238-240). Come ricorda Vasari, al giovane artista fu dapprima affidato un incarico di prova a palazzo Grimani, dove appunto adornò la scala con "figurette poste con molta grazia dentro a certi ornamenti di stucco" (Vasari [1568] 1856, 123). L’assetto compositivo di tali stucchi ricorda i precedenti della Scala d’Oro a Palazzo Ducale, opera di Alessandro Vittoria e Battista Franco (Finocchi Ghersi 1999), al punto che Cristina Acidini Luchinat ha ipotizzato che la decorazione dello scalone non sia da attribuire per intero allo Zuccari, ma che si tratti in realtà di un completamento e che già Franco – e forse Vittoria – ne avessero preparato lo schema e le parti in rilievo, venendo a mancare gli affreschi per la morte del primo dei due (Acidini Luchinat 1999, 229-230).
Com’è noto, Marilyn Perry ha riconosciuto i modelli di alcuni degli stucchi nei cammei della dattilioteca Grimani, incisi da Franco e Vico (Perry 1993, 270-271). Rispetto alle gemme, e alle loro traduzioni grafiche, va però osservata la grande libertà dell’artista che ideò la decorazione della scala. Alcuni dei cammei, Ercole con Cerbero, il giovane su capricorno e un cinghiale, sono riprodotti in maniera pressoché letterale, con minime modifiche apportate al secondo per adattarlo allo spazio disponibile (Zerner 1979, 238, 239, 241; Neverov 2002, 148, cat. 74; Neverov 1984, 30, n. 28) [Figg. 9-10].
Nel caso degli stucchi ispirati ad altre gemme – la Nereide su tritone e soprattutto la Nereide su ippocampo – il modello di partenza viene invece trattato con maggiore libertà, semplificando lo schema originario che perde alcuni elementi e, nel caso della Nereide su ippocampo, viene addirittura ribaltato nell’orientamento per soddisfare, crediamo, esigenze compositive generali dell’impianto decorativo della scala (Zerner 1979, 238; Neverov 1984, 31, n. 35 e 36). La contiguità tra decorazioni e cammei, conservati dalla metà del Cinquecento a palazzo Grimani, fa pensare a un eventuale utilizzo delle traduzioni grafiche degli stessi, più che come modelli da seguire, come strumenti utili ad agevolare il lavoro dello stuccatore, impegnato ad accontentare il suo committente. Il patriarca d’Aquileia, infatti, desiderava forse che nello scalone comparissero alcune repliche delle gemme migliori, nell’aspettativa che gli ospiti più accorti cogliessero la citazione (Perry 1993, 271). Qualora poi dovesse attribuirsi già al Franco il progetto dello schema compositivo della scala, non è improbabile che egli abbia riutilizzato alcuni suoi vecchi disegni.
Gli stucchi dello scalone di palazzo Grimani costituiscono quindi un esempio di reimpiego, circostanziato e consapevole, di forma e significato delle gemme antiche della casa. Poco li separa dalla raccolta glittica e dalle traduzioni grafiche di essa. Più lontani, ma di uguale interesse, sono due esempi offerti dalla maiolica rinascimentale. Si tratta di una coppa del Louvre (Inv. MR 2215) e di un piatto già nella collezione della Corcoran Gallery di Washington, da pochi anni passata alla National Gallery of Art, che in modo inequivocabile e, salvo alcune lievi modifiche, fedele si rifanno a due incisioni di Battista Franco raffiguranti rispettivamente Meleagro morente e una scena di sacrificio (Zerner 1979, 238, 243).
Nonostante il ruolo avuto dalle incisioni a stampa, a partire dal secondo quarto del XVI secolo, nel fornire modelli classici ai pittori della maiolica istoriata (Jestaz 1972, 229-230), nel caso in questione è forse possibile ipotizzare una trasmissione più diretta del modello, qualora si consideri l’intensa attività del Franco come disegnatore di maioliche alla corte di Urbino, tra il 1544 e il 1551, per conto del duca Guidobaldo II (Lessmann 1976, 27; Clifford, Mallet 1976; Ravanelli Guidotti 1983; Saccomani 2000, 219-229; Biferali, Firpo 2007, 136-143). Quale migliore occasione per il passaggio dei motivi delle antiche gemme Grimani dai taccuini del nostro ai pennelli degli artisti della maiolica?
La bottega urbinate che realizzò molte delle ceramiche ispirate a incisioni e disegni del Franco fu quella dei Fontana. Dei due esemplari in esame, la coppa del Louvre, in maiolica istoriata, è datata intorno al 1550-60 e dubitativamente considerata un prodotto nel ducato di Urbino, il piatto di Washington, del tipo decorato a grottesche su fondo bianco, è invece datato al 1565-75 e attribuito proprio alla bottega dei Fontana (Ravanelli Guidotti 1994, 71; Watson 1986, 151 cat. 59). Nella prima un paesaggio – promontorio su cui svetta una città murata, vegetazione lussureggiante e scorci di mare con al largo una nave – fa da ricca cornice alla scena della gemma Grimani, in cui un giovane, assistito da tre donne, è seduto su un masso in atteggiamento di abbandono con un cane accucciato ai suoi piedi. Il pittore segue piuttosto fedelmente l’illustrazione del Franco; si concede, infatti, l’aggiunta di una quarta figura femminile e copre con la veste la spalla di quella impegnata a sostenere il giovane, ma ne conserva l’orientamento e gran parte dei particolari. La forma è quindi mantenuta; a cambiare radicalmente è l’interpretazione che viene data del soggetto antico. Un’iscrizione posta sul retro, all’interno del piede del piatto, dà un nome al protagonista della raffigurazione: "Guidon selvaggio". Il Meleagro morente della gemma Grimani è diventato un personaggio dell’Orlando furioso.
Come già rilevato da Bertrand Jestaz, non è dato sapere se il disinvolto pittore sia partito dallo schema iconografico, intuendo che il gruppo di donne raccolte intorno al giovane languido si adattava all’episodio, o sia invece partito dai versi del XX canto dell’Ariosto, in cui il cavaliere narra a Marfisa e ai compagni la sua origine (Jestaz 1972, 229). Certo è l’uso, strumentale, che viene fatto del disegno dall’antico, conservato nella forma ma radicalmente reinterpretato e attualizzato nel significato. In una temperie culturale che vedeva la maiolica farsi "cassa di risonanza della fortuna popolare delle gesta delle principali figure ariostesche" e il poema cavalleresco divenire uno dei mezzi della maturazione figurativa e narrativa dei maiolicari del tempo, non sorprende questo reimpiego del modello antico in chiave moderna (Ravanelli Guidotti 1994, 62, 73; Langiano 2013, 12) [Fig. 11].
Diversa interpretazione sembra potersi dare al caso della seconda gemma Grimani, ritratta da Franco, presentato dal piatto di Washington. Lo schema iconografico – un uomo barbato seduto su un masso sacrifica un maialino – viene anche qui ripreso fedelmente nell’orientamento e nei particolari, se si eccettua l’eliminazione della statua di culto, davanti a cui avviene il sacrificio, dovuta probabilmente a ragioni di spazio; il tema, per contro, non viene sottoposto a nessuna interpretazione, né in chiave antica né in chiave moderna, e sembra trattato alla stregua di un modello di repertorio decorativo. Viene infatti dipinto a monocromo blu e relegato sul lato secondario del piatto, il cui soggetto principale è una scena della vita di Scipione, per la quale è stato utilizzato un prestito da una stampa, ancora di Battista Franco, con un rilievo dell’Arco di Costantino (questa volta integrato di alcune figure per riempire la composizione sul lato sinistro; Watson 1986, 152-153).
Il medesimo schema iconografico viene ripreso, miniaturizzato, nelle grottesche del lato principale del piatto, a ulteriore conferma di una sua appartenenza a un repertorio più di motivi decorativi che di temi narrativi.
La stessa impressione, di modello di repertorio decorativo, viene data dal terzo esempio che qui si propone, il più lontano, non solo temporalmente, dalle gemme Grimani: un quadro della metà del Seicento, opera del pittore francese Thomas Blanchet, considerato uno degli artisti 'antiquari' del secolo per la sua produzione ricca di prestiti dall’architettura e dalla scultura antiche (Galactéros-de Boissier 1991). Attivo a Roma tra il 1635/40 e il 1654, Blanchet si mosse nell’ambiente della comunità artistica francese, di cui facevano parte tra gli altri Nicolas Poussin e Pierre Mignard e che in quegli anni fornì giovani copisti all’impresa del Museo Cartaceo. Le sue opere del periodo romano sono realizzazioni per il carnevale e pitture di cavalletto, piccoli quadri disseminati di rovine e di sculture, di cui è provata la dipendenza dallo studio diretto dei monumenti, dalla consultazione degli album di François Perrier e delle stampe pubblicate in fogli liberi o in raccolte dagli editori Falda e Rossi (Galactéros-de-Boissier 1991, 262-263). Di questo panorama di fonti probabilmente faceva parte anche la fortunata serie vichiana, stampata più volte, come si è visto, dal Cinquecento in avanti.
Il dipinto in questione è un olio su tavola del Museo Nazionale di Stoccolma, intitolato Cleobis e Biton II (NM 6780; Galactéros-de Boissier 1991, 358-359, P145; Michel, Maynard 1995, 56, n. 29). I fratelli mitici trainano il carro della madre Cidippe accompagnati dalla figura della Fama alata, immersi in un paesaggio di rovine popolato di piccole figure, in cui il primo piano è occupato da quattro slanciate colonne corinzie sorreggenti degli architravi, che ricordano le colonne superstiti dei monumenti nel Foro Romano, mentre sullo sfondo tra le costruzioni di una città adagiata sulla sponda di un fiume si riconoscono un tempio rotondo, un obelisco e un edificio dalle mura merlate. Appena alle spalle della scena principale si eleva un’architettura ad arcate, simile ai resti di un acquedotto, decorata da rilievi tondi. Sono proprio questi improbabili rilievi che riportano l’attenzione sulle gemme Grimani o, meglio, sulla fortuna delle loro illustrazioni, in particolare di quelle vichiane. Nel primo tondo da sinistra è rappresentato il sacrificio di un capretto da parte di un uomo e una donna ai lati di un altare [Figg. 12, 13], in quello al centro sono riprodotte tre delle cinque figure della cosiddetta Gemma Mantovana [Fig. 15], mentre quello a destra, incompleto, ospita una figura maschile sopra un delfino dalla lunga coda spiraliforme, ripresa con modifiche dalla gemma con Bellerofonte e Pegaso cui si è già accennato (Spike 1985, 87, n. 105; 85, n. 101; 86, n. 103; Neverov 1984, 30 n. 31, n. 33) [Figg. 14, 15]. Tutti e tre i rilievi di Blanchet mostrano l’orientamento delle incisioni vichiane; non si tratta, però, di citazioni pedisseque, giacché ciascuno dei modelli viene liberamente adattato dal pittore alle esigenze spaziali della sua composizione. Le modifiche nei primi due casi alterano soltanto lo schema iconografico, eliminandone per economia alcuni elementi, nel terzo mutano anche il soggetto. Nella scena di sacrificio sono stati tolti l’albero di fondo e il capretto trascinato per le corna dall’uomo, del cammeo con Bacco e Arianna sono state invece mantenute le figure di Arianna semidistesa, del satiro che la insidia e del giovane che lo trattiene ma eliminate quelle di Bacco e del suo assistente, infine della gemma con Bellerofonte è rimasto l’eroe dal mantello svolazzante, privo tuttavia del cavallo alato sostituito dalla creatura marina ai suoi piedi.
Anche nel caso del Cleobis e Biton di Blanchet, il prestito dalle gemme Grimani è costituito da forme liberamente interpretate e prive ormai di significato, se non quello di una vaga ripresa dall’antico per le decorazioni secondarie di una ricca composizione che è essa stessa collage di suggestioni antiquarie. La loro trasmissione è avvenuta con un numero maggiore di passaggi – dalle gemme alle incisioni di Franco, da Franco a Vico, dalle riedizioni delle stampe dello Speculum del Lafréri al Blanchet – che hanno presumibilmente allentato il nesso con l’origine dei modelli reimpiegati, vale a dire le gemme Grimani. Allentato, non reciso. Perciò, usando – e si spera non abusando – categorie divenute familiari a quanti frequentano gli studi dedicati alla memoria dell'antico, si è tentata questa riflessione sulla fortuna nelle arti dei cammei Grimani e delle loro traduzioni grafiche.
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English abstract
What do the stucco works of a Venetian palace staircase, two Renaissance maiolica dishes and a French painting of the 17th century have in common? Their ancient models, the cameos of the Grimani collection, and their possible source of inspiration, the engravings designed by Battista Franco and Enea Vico. This paper focuses on the images of the Grimani gems, revealing how artists and men of learning “re-used” them in their works of art and treatises, from the mid 16th the early 18th centuries. The reader will meet famous painters, engravers, editors, collectors, scholars, and discover some new examples of the survival and revival of the Antique.
keywords | Stucco; Venice; Reinassance; Grimani; Gems.
Per citare questo articolo / To cite tthis article: M. De Paoli, Ancora sulla fortuna delle gemme Grimani. Un paradigma efficace, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 469-488 | PDF