“E se tal serpe ultra la usanza onoro”
Il Cupido dormiente di Michelangelo alla corte di Urbino
Nuove dinamiche storico artistiche riguardanti la scultura eseguita da Buonarroti a Firenze nel 1496 e appartenuta al Duca Guidobaldo da Montefeltro sino al 1502
Gianna Pinotti
English abstract
Premessa. Il Cupido dormiente di Michelangelo, daimon ermetico omo- e bi-sessuale
In questo saggio desideriamo discorrere in particolare del contesto urbinate ove approdò il Cupido dormiente scolpito da Michelangelo a Firenze tra 1495 e 1496, riferendoci a quello già da noi assegnato alla paternità di Buonarroti (Pinotti 2005), ossia il Cupido dormiente con due serpi – erote che presenta attributi ‘daimonici’, ermetici, omo- e bi-sessuali [Fig. 1]. Prima di addentrarci in ambito montefeltrino, ove l’opera di Michelangelo aderì a un meraviglioso clima artistico, cerchiamo di descrivere la scultura michelangiolesca nata in ambiente neoplatonico, riassumendo brevemente alcuni risultati delle nostre ricerche svolte nell’ultimo decennio.
Premettiamo dunque che il Cupido dormiente si presenta come una pietra miliare che segna la fine del Quattrocento pur annunciando le novità dell’epoca moderna: in quest’opera l’esaltazione di Cupido, che a nostro parere segue straordinariamente la dottrina di Platone ripresa da Marsilio Ficino, per cui Eros è il daimon che possiede le tre arti, sagittaria, medica e oracolare (Plat. Symp. XIX, 197ab; Ficino Sopra lo Amore ovvero Convito di Platone V, XIII), simboleggiate rispettivamente da arco e frecce, coppia di vipere e sonno oniromantico (Pinotti 2014, 16), diviene anche ritratto di un fanciullo androgino ovvero ermafrodito, omo- e bi-sessuale, per la compresenza dei caratteri maschili e delle morbide forme femminee, degli attributi mercuriali e afrodisiaci (i serpenti ermetico-taumaturgici e la coroncina di rose canine), e per la coppia di serpi in amore che si richiamano a quelle battute da Tiresia, che conobbe sia l’amore maschile sia quello femminile e divenne indovino, immagine dantesca (Inferno XX, 40-45) che Michelangelo bene conosceva: le due speculari vipere del Cupido, indistinguibili nei loro sessi e collegabili all’omofilia, esemplificano dunque anche la bisessualità come inclinazione amorosa per l’uno e l’altro sesso, siglando la paternità della scultura (Pinotti 2014, 51-52).
Il Cupido dormiente buonarrotiano scaturisce dunque dalla elaborazione e sintesi dell’iconografia tipo dell’Erote dormiente classico, improntato a una infantile serenità, e di quella del Cupido medievale, potenza cieca e bendata o artigliata e rapace (Panofsky [1939] 1975, 153-183), mantenendo da un lato la puerizia e dall’altro la ferinità, e ritraendo il daimon d’amore di ascendenza platonica ripreso dalla filosofia ficiniana, che ha sviluppato al massimo le sue potenzialità semantiche, e di conseguenza morfologiche, di semidio intermediario tra divinità e uomo, tra bellezza e il suo contrario, tra buono e malo (Plat. Symp. XXIII, 202e-203a; Ficino Sopra lo amore VI, II). Così la scultura ritrae un Eros filosofico, demone mediatore fra i divini e i mortali, ovvero un Eros orfico che, immerso nel sonno e nella sua stessa attitudine divinatoria attraverso la quale Iddio parla agli uomini, dà l’impressione di essere svenuto o morto, con il capo pesantemente reclinato ovvero disarticolato, poiché l’ekstasis o mania o furor (il furor amoris) conduce alla perdita di sé nel nome dell’amato in una condizione simile al morire, nel momento in cui l’anima viene rimossa dal corpo e ‘rapita’ dal divino. Erwin Panofsky aveva evidenziato queste caratteristiche a proposito del Ganimede michelangiolesco, che disegna il giovane coppiere degli dèi rapito dall’Aquila nella quale si è trasformato Giove per amore (Panofsky [1939] 1975, 298); così dopo avere accuratamente confrontato le due opere, possiamo considerare il Cupido dormiente come evidente e logica prefigurazione del giovane Ganimede rapito e in trance [Fig. 2, Fig. 3], figura emblematica della pederastia (Pinotti 2014, 43-44).
Il tema dei quattro furori – il furor poetico legato alle Muse, il sacerdotale a Bacco, il profetico ad Apollo e il furor amoris, legato a Venere e Cupido, consistente nell’abbandono alle forze irrazionali della quarta mania, considerata da Platone la migliore (Plat. Phaedr., 249d) – verrà ripreso da Ficino nel De Divino Furore e in particolare nel libro Sopra lo Amore, in cui egli discorrerà della stessa attrazione verso gli adolescenti e i maschi come di un Amore celeste (Ficino, Sopra lo Amore VI, XIV), motivi che emergeranno nelle Rime michelangiolesche.
A proposito delle fattezze androgine del Cupido, cogliamo l’occasione per osservare che Giorgio Vasari descrivendo il Bacco ebbro, scolpito appena un anno dopo l’Amore dormiente, sottolineava del Bacco la stessa caratteristica morfologica da noi rilevata per il Cupido, ossia la commistione di forme maschili e forme femminili [Fig. 4, Fig. 5]. Vasari sostiene che il Maestro nel Bacco:
[…] ha voluto tenere una certa mistione di membra meravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventù del maschio e la carnosità e tondezza della femina: cosa tanto mirabile, che nelle statue mostrò essere eccellente più d’ogni altro moderno (Vasari, Vita di Michelangelo, VII, 118).
Michelangelo realizzò un Cupido dormiente dove confluì tutta la dialettica che egli avrebbe di seguito sviluppato a proposito dell’Eros (maschile e femminile, celeste e terrestre, vitale e assassino, rigenerativo e mortale, curativo e velenoso, virtuoso e vizioso, sacro e profano, pagano e cristiano) e di conseguenza tutte le immagini sincretiche visuali e poetiche ad esso collegate.
Fra queste spicca quella dell’ambigua serpe, nella cui muta si trasfigurerà, sotto la spinta dell’amore, il ringiovanimento periodico dell’artista e anche la sua progressiva trasformazione spirituale e mutazione finale in vista della comunione divina in chiave cristiana. D’altronde la vipera, velenosa e taumaturgica al tempo stesso, quale attributo di Cupido, diviene per Michelangelo l’animale che riesce a farsi eletto simbolo della ferita e della cura, della volgarità e della sapienza, o dei due Amori platonici figli delle due Veneri, la carnale e la celeste, la generazionale e la spirituale, dunque di un dualismo insito nella stessa Creazione percepibile nella sua unità ricomposta in Eros, “principio cosmogonico unico e unificatore […] dal carattere bisessuale” (Calame 1992, 138-159); e se da un lato l’amore può colpire come fa la serpe, dall’altro il suo morso può essere neutralizzato dalla stessa forza dell’Amore che tutto vince: il Cupido con le serpi sembra insomma ricordare che solo l’Amore, a cagione della sua doppia natura, può dominare l’amore.
L’iconografia del serpente ‘erotico’ legato all’androginia, alla morte e rinascita, sarà ripresa da Michelangelo anni dopo il Cupido dormiente, ossia nel disegno Testa di Cleopatra dove, come abbiamo osservato in più occasioni, la regina d’Egitto sta per morire ad opera della vipera che a sua volta sta uscendo dalle sue exuviae, tornando a nuovi colori e custodendo gli oscuri segreti della rinascita dell’artista stesso, che nelle Rime si identifica con la serpe in muta; in questo disegno d’omaggio a Tommaso de’ Cavalieri ricompare la stessa vipera del Cupido (per l’identificazione della vipera rimando a Pinotti 2005, 20) e la regina Cleopatra, che sembra celare i tratti di Andrea Quaratesi al quale il Maestro fu legato da appassionata amicizia, diviene sintesi del maschile e del femminile: d’altra parte la treccia dei suoi capelli forma con la vicina serpe il Rebis ossia la Y, simbolo alchemico dell’androgino, della fusione dei due principii, per la conquista dell’oro filosofale, ossia della sublimazione erotica [Fig. 6/Fig. 7/Fig. 8] (Pinotti 2014, 50).
Dunque il ritratto del daimon spinge l’artista a realizzare un’immagine che esprima naturalmente la convivenza delle contrarie e complementari polarità, poiché l’Amore, che con il suo morso mortale e con le sue saette colpisce ogni essere vivente, tutto può anche vincere e sanare proprio grazie alla sua forza totalizzante: straordinariamente Buonarroti nelle Rime, oltre a sostenere che l’amore vincerà ogni ritrosia dell’amata, traducendo peraltro l’immagine del suo stesso Cupido dormiente (“’l morso il ben servir togli’ a’ serpenti”), giungerà a descriversi come colui che, dotato di qualità antiofidiche, resterà immune dalle serpi, assimilandosi a un ‘teurgo’ o a un ‘sampaolaro’ che per grazia ricevuta ha acquisito l’incolumità dagli animali velenosi, neutralizzandone magicamente il morso con la propria saliva (“col mie sputo sano ogni veleno”), come facevano anche le antiche stirpi guaritori (Pinotti 2016, 155-157).
Inoltre nella elaborazione e sintesi operate da Michelangelo dell’iconografia tipo dell’Erote dormiente classico e di quella del Cupido medievale, questo daimon d’amore di ascendenza platonica, semidio intermediario tra bono e malo, avvinghiato dalle due serpi arriva ad assommare in sé la tradizione iconografica medievale toscana del serpente legato alla morte al peccato e a Lucifero – alla quale Michelangelo ebbe modo di attingere direttamente attraverso gli affreschi di Andrea e Nardo di Cione (Pinotti 2007) – non disgiunta, come dicevamo, dalla tradizione dantesca e infine da quella ermetica tutta fiorentina, a cui fanno riferimento immagini con cui lo scultore pure familiarizzò, come quella del caduceo taumaturgico, che con i due serpenti avvolti nell’atto di unirsi diviene lo strumento in grado di aprire cielo e terra, di donare la vita e la morte, e la piena corrispondenza con il cosmo, e dell’androgino alchemico alato e volatile nel quale i due principii si congiungono, il solare e il lunare, tendendo all’alto, ossia all’elevazione celeste e al compimento dell’Opera, che è l’opera dello spirito [Fig. 9, Fig.10, Fig. 11], principii peraltro trasfigurati in alcune Rime amorose michelangiolesche di ispirazione neoplatonica e in una lirica in particolare dove l’artista si identifica con la luna e la notte, mentre l’amato è definito solare e diurno (per la lettura astrologica della Rima si vedano le interpretazioni di Cambon 1991, 39-40; Pinotti 2014, 20-28).
D’altronde le opere michelangiolesche, in particolare quelle strettamente lagate al tema amoroso (disegni e poesie), discendono dalle scelte contenutistiche ed estetiche fatte dall’ancor giovanissimo artista durante l’esecuzione del Cupido dormiente, scultura autobiografica che dunque si fa tramite tra i contenuti della filosofia ficiniana e le stesse Rime della maturità, dove ritroviamo tutti i motivi che vengono compressi nella meravigliosa scultura, quali: l’impresa ‘daimonica’ di mediazione tra il mondo celeste e il mondo terrestre; il tema del furor amoris o della perdita di sé nel nome dell’amato; i temi del sogno come oracolo e del sonno come “ombra del morir”; la fusione alchemica degli amanti alla ricerca del “casto amor” e la loro elevazione celeste “con pari ale”; il tema della complementarietà erotica; quello dell’omofilia come amore celeste e dell’attrazione amorosa per entrambi i sessi.
Il Cupido è uno scrigno prezioso nel quale si trovano racchiusi, quasi stipati, i motivi che Michelangelo libererà nelle opere successive, anche visuali, e per questa ragione il prezioso marmo ci suggerisce vie interpretative dell’intera opera buonarrotiana, tutta improntata a tradurre la ‘teurgia’ salvifica dell’Amore.
Il Cupido dormiente acconciato come antico
Desideriamo immediatamente mettere in luce alcuni fatti importanti che solitamente non risaltano a proposito del Cupido dormiente di Michelangelo, cioè che esso non ebbe un committente e che solo una volta terminato esso venne acconciato dallo scultore come un pezzo di antichità. Inoltre il Cupido venne reputato ‘antico’ per un certo tempo, sino al 1502 quando, dopo essere giunto a Mantova presso Isabella d’Este, verrà riconosciuto come “cosa moderna”: l’inganno si perpetuò a cagione dell’anticazione e per il fatto che Michelangelo, come abbiamo ricordato, aveva ripreso un soggetto diffuso in epoca ellenistica, seppur con innovative e rivoluzionarie modifiche. Si noti inoltre che Buonarroti, negli anni in cui la sua scultura aveva iniziato a interessare i collezionisti, non poteva ancora definirsi un artista rinomato, mentre la fama della bellezza del Cupido superò quella del suo artefice. Ma procediamo per gradi.
Nel 1496 l’opera, una volta terminata, era stata abilmente contraffatta da Michelangelo su consiglio di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici il Popolano, al quale era stata mostrata:
Per mezzo di Baldassarri del Milanese fu mostro a Pierfrancesco per cosa bella, che giudicatolo il medesimo gli disse: “Se tu lo mettessi sotto terra son certo che passerebbe per antico, mandandolo a Roma acconcio in maniera che paressi vecchio, e ne caveresti molto più che a venderlo qui”. Dicesi che Michelagnolo l’acconciò di maniera che pareva antico, né è da meravigliarsene perché aveva ingegno da far questo e meglio. Altri vogliono che ‘l Milanese lo portassi a Roma e lo sotterrassi in una sua vigna (Vasari, Le Vite VII, 117).
Dalla narrazione vasariana veniamo a conoscenza che l’opera, con l’intermediazione del mercante, venne mostrata “per cosa bella” al Medici. Come dicevamo, la mancanza di un vero e proprio committente non può essere assolutamente trascurata poiché il Cupido dormiente risulta opera straordinariamente libera e autobiografica, assai vicina in spirito a quelle opere eseguite “per amore e non per obrigo”, come l’artista dichiarava riferendosi ai disegni d’omaggio per gli amati e le amate. Il Medici, una volta considerata la particolare qualità dell'opera, gli consigliò di contraffarla e di venderla a Roma. Dunque Michelangelo solo in un secondo tempo “l’acconciò di maniera che pareva antico”, per venderlo, sempre attraverso il mercante, a Roma, come consigliava il Medici, ossia lontano dalla Firenze savonaroliana dove le opere a tema pagano si erano svalutate essendo difficilmente collocabili. Sottolineiamo infatti che questa particolarissima scultura non solo si pone in una fase decisiva nell’ambito del percorso esistenziale e creativo buonarrotiano ma, più in generale, in un cruciale momento di transizione dal punto di vista storico e culturale, quando la filosofia neoplatonica, raggiunto il proprio apice, stava ripiegando in se stessa, nel passaggio dalla Signoria dei Medici alla Repubblica Fiorentina, teatro dell’accesa predicazione del Savonarola e della conseguente iconoclastia nei confronti delle immagini pagane. In quel particolare contesto l’artefice si risolse a contraffare il marmo per venderlo a Roma e ricavarne più denaro.
Il Medici consigliò a Michelangelo di sotterrare il Cupido, e probabilmente così avvenne. Come ci hanno insegnato alcuni grandi Maestri della scultura (Wildt 1921), le componenti chimiche contenute nel terreno, o nell’urina umana e nello sterco animale, avrebbero intaccato il marmo in modo da farlo sembrare antico, usurato dalle ingiurie del tempo e dagli agenti atmosferici.
La vendita a Roma del Cupido dormiente: tanti colti uomini ingannati
Così, spacciato per reperto, venne venduto dal mercante Baldassarre del Milanese al Cardinale Raffaele Riario, che, scoperto il raggiro – e anche la truffa perpetrata ai danni del giovane artefice al quale il mercante aveva fatto credere di avere guadagnato molto meno di quello che in realtà ne ricavò – lo restituì al mercante, ma si interessò al Buonarroti, mandando a Firenze il banchiere Jacopo Galli, sua persona di fiducia, per conoscere l’artefice del Cupido. Poco dopo Michelangelo partì per Roma portando con sé diverse lettere di presentazione di Lorenzo di Pierfrancesco indirizzate allo stesso Riario e ai banchieri fiorentini residenti nella città pontificia. Osserviamo che il Cardinale non fu l’unico a credere che la scultura fosse un pezzo antico. Infatti l’opera, a metà del 1496, venne di nuovo messa in vendita nella città papale: il mercante aveva esposto il Cupido nel palazzo del Cardinale Ascanio Sforza, zio di Caterina, cognata di Riario, e proposta per 200 Ducati al Conte Antonio Pico della Mirandola, agente di Isabella d’Este a Roma. Il Conte della Mirandola scriveva a Isabella una lettera parlando del Cupido come di un’opera perfetta, pur non sapendo se il marmo fosse antico o moderno, dunque non conoscendo affatto il nome dell’artefice:
Un Cupido, che si ghiace e dorme posato in su una mano, è integro et è lungo circa IIII spanne quale è bellissimo. Chi lo tene per antiquo e chi moderno. Qualunque se sia, è tenuto et è perfectissimo (Lettera di Antonio Pico della Mirandola a Isabella d’Este del 27 giugno 1496 in Brown 2002, 112, n. 6a).
Oltre al fatto importante che il Conte non sa giudicare se l’opera è antica o moderna, questa sua lettera ha fornito le misure dell’opera di Michelangelo: “circa quattro spanne” che corrispondono a circa settantasei centimetri; inoltre egli riferisce che il Cupido è “posato in su una mano” come in verità si presenta, ossia posato a sinistra.
Quasi contemporaneamente a questa missiva di Antonio Pico, il giovane Michelangelo scriveva da Roma al Medici, riferendogli di avere cercato di riavere l’opera. Secondo noi è un elemento significativo che l’artista cerchi di riprendersela attraverso diverse vie. Tuttavia i tentativi di Buonarroti risultavano vani, dal momento che il mercante aveva deciso di non restituirgliela. Michelangelo così scriveva a Lorenzo di Pierfrancesco:
Dipoi dètti la lettera a Baldassarre, e domanda’gli el bambino, e ch’io gli renderia e’ sua danari. Lui mi rispose molto aspramente, e che ne fare’ prima cento pezi, e che el bambino lui l’aveva comperato e era suo […] Ora fo conto di fare per via del Cardinale: che così sono consigliato da Baldassarre Balducci (Lettera di Michelangelo da Roma a Lorenzo di Pierfrancesco de Medici del 2 luglio 1496, in Michelangelo, Le Lettere).
In quel medesimo frangente, il conte della Mirandola spediva un’altra lettera a Isabella, avvertendola che l’opera in oggetto non era reperto antico, ma la scultura moderna di un artista che in quel momento là dimorava:
Quel Cupido è moderno et lo maestro che l’ha facto è qui venuto, tamen è tanto perfecto che da ognuno era tenuto antiquo, et dapoi che è chiarito moderno, credo lo daria per manco pretio, ma non lo volendo la signoria vostra, non essendo antiquo, non ne dico altro (documento in Brown 2002, 112, n. 6b).
Dunque Isabella, essendo venuta a sapere che l’opera non era antica, non si interessa più all’acquisto, che sollecita invece la brama di Cesare Borgia; questi acquista il Cupido come “cosa antica” pagandolo 200 Ducati, somma richiesta da Baldassarre del Milanese (Baldini 1965, 87; Valeri 2004, 56-57).
Borgia acquista il Cupido e lo cede a Guidobaldo Duca di Urbino: i possibili motivi del dono
Cesare Borgia, acquistato il Cupido dormiente lo donò a Guidobaldo da Montefeltro Duca di Urbino (1472-1508) mentre questi dimorava a Roma alla fine del 1496, secondo l’opinione di Richter, appoggiata da Venturi e da Müntz (Luzio, Reiner 1893, 171). D’altronde il figlio di papa Alessandro VI cercava spesso di lusingare Guidobaldo per le mire sul suo Ducato, irretendolo con profferte d’affetto, persino nel 1502 quando in realtà stava tramando di tradirlo e spodestarlo.
Il dono fatto da Cesare a Guidobaldo non è affatto da sottovalutare, dal momento che si tratta di uno scambio tra i più colti uomini del tempo. A questo punto cerchiamo di capire gli ancora insondati motivi per cui Cesare donò la scultura al Duca di Urbino: riteniamo infatti che la singolare iconografia del Cupido dormiente di Michelangelo abbia giocato un ruolo decisivo nel passaggio alla collezione dei Montefeltro. Cesare, spregiudicato ma sagace, senz’altro aveva visto nella scultura un’attinenza con le vicende biografiche del Duca: è infatti probabile che il figlio del Papa, essendo stato a conoscenza dell’impotenza di Guidobaldo, emersa già dai primissimi tempi del matrimonio – della quale peraltro ci sono giunte significative testimonianze come quella del Cardinale Pietro Bembo ospite della corte urbinate (Centanni 2013) – abbia visto in questo Cupido dormiente che giace come morto avvinghiato dalle vipere, il soggetto ideale a suggerire la condizione di impotenza, o forse di castità alla quale era improntata la vita intima della coppia dei Duchi di Montefeltro. È la stessa Elisabetta Gonzaga, sposata a Guidobaldo dal 1488, che nel 1502 confermava come il loro matrimonio non fosse mai stato consumato (Sanudo, Diari IV, 568) ossia nel momento in cui Guidobaldo aveva fatto balenare al Borgia di una sua rinuncia al Ducato compensata con la porpora cardinalizia che avrebbe permesso l’annullamento del matrimonio per far sì che la moglie convolasse a nuove nozze; Elisabetta si opporrà con forza all’idea del marito, mostrando di essergli affezionata e devota: la Duchessa “rinunciò quindi, ripetutamente, all’annullamento del matrimonio, perfino quando questa opportunità le viene offerta, consenziente Guidobaldo, per ragioni politiche e di salvaguardia personale” (Centanni 2013).
Così il Cupido dormiente con serpi nella collezione montefeltrina avrebbe potuto alludere all’Eros di Guidobaldo: un Amore casto e spirituale, o anche avvelenato e morto, ovvero fiacco e spossato, impotente e disarmato, attributi che prendono forma nei versi dedicati al Cupido dormiente di Michelangelo del poeta di corte prediletto dai Duchi, Serafino Aquilano, dei cui sonetti avremo modo di parlare tra breve più approfonditamente.
D’altra parte, a proposito di biografia per immagini, è di appena qualche tempo prima, ossia del 1495, la medaglia di Andriano Fiorentino per Elisabetta dove la nobildonna è raffigurata come Danae con il motto HOC FULGIENTI FORTUNAE DICATIS [Fig. 12], i cui significati si collegherebbero alla condizione ‘vedovile’ e in particolare ad una maternità miracolosa invocata a dispetto della sorte, come è stato sottolineato da Monica Centanni nello studio relativo alla medaglia, che evidenzia, tra l’altro, come Danae divenga “alter ego mitico” di Elisabetta, e:
[…] la chiave dell’allegoria stia non solo (e non tanto) nella castità, nella pudicizia e insomma nelle virtù caratteristiche dell’onestà femminile che la Duchessa di Urbino sceglierebbe per autorappresentarsi, ma stia piuttosto nel fatto mitico: la miracolosa fecondazione di Danae, avvenuta per intervento divino […] nel 1495 Elisabetta Gonzaga poteva sperare, come Danae, di afferrare un’occasione miracolosa della Fortuna fugiens, sperare che accadesse a lei quel che era accaduto a Danae, sperare di divenire davvero “aurea vergine” come la chiama l’amico Pietro Bembo il quale, rivolgendosi a lei con questo epiteto, non poteva non aver presente la fanciulla mitica che la Duchessa aveva scelto come figura della sua impresa. Immagine e motto sul verso della medaglia di Adriano Fiorentino, di cui Elisabetta nelle lettere al fratello e a Isabella si mostra tanto entusiasta, fissavano così, in sintesi icastica, la sua condizione e la sua speranza (Centanni 2013).
Lo stesso Scorpione indossato dalla Duchessa come ornamento da lenza, elemento tipico delle acconciature femminili del tempo, nel ritratto eseguito da Raffaello [Fig. 13] qualche tempo dopo il trasferimento del Cupido dormiente alla corte di Mantova, è interpretabile, come hanno osservato Lorenzo Bonoldi e Monica Centanni, “alla luce delle tristi vicende coniugali di Elisabetta, e soprattutto in relazione alla sterilità della sua unione con l’impotente Guidobaldo”; secondo gli studiosi:
[…] si può ipotizzare una lettura dell’ornamento della lenza alla luce della fede negli astri: nella teoria della melothesia (la disciplina medica che teorizzava i legami intercorrenti tra i segni dello zodiaco e il corpo umano) il segno zodiacale dello Scorpione è infatti preposto all’apparato riproduttivo. Il gioiello in forma di scorpione di Elisabetta Gonzaga potrebbe quindi essere una sorta di talismano, incaricato di invocare le forze celesti per coadiuvare la Duchessa nel difficile – e in realtà impossibile – compito della nobildonna di dare un erede al ducato di Urbino (Bonoldi, Centanni 2010).
Vogliamo dunque mettere in evidenza come la scultura del Cupido con serpi di Buonarroti venisse ad assumere valenze profonde in relazione al destinatario del dono, legandosi a un contesto culturale assai colto attorno al quale ruotava la vicenda dei Duchi di Montefeltro che avevano conosciuto le insidie di Eros, i velenosi incantesimi di Cupido, nutrendo la speranza in un risveglio del ‘capriccioso’ Amore e cercando soluzioni alternative alla procreazione della carne, come insegnava il neoplatonismo ficiniano, di cui si faceva promulgatrice la corte stessa urbinate.
Le vipere del Cupido e lo Scorpione: animali paralleli della sfera medica, erotica ed ermetica
Desideriamo approfondire a questo punto la lettura relativa all’interessante talismano propiziatorio indossato da Elisabetta, composto da una pietra incastonata tra le chele di uno Scorpione; come la vipera del Cupido michelangiolesco, infatti, anche lo Scorpione assume un duplice valore, tossico e taumaturgico, in relazione alla sfera erotica alla quale in questo caso viene riferito. Come noto, secondo l’astrologia medica ad ogni parte del corpo umano presiedeva un segno zodiacale, e il segno dello Scorpione corrispondeva ai genitali e all’apparato riproduttivo: così troviamo attestato anche nell’uomo zodiacale nel Fasciculo de Medicina di Johannes de Ketham del 1493 o in un manoscritto ebraico del XII secolo dove notiamo che lo Scorpione si assimila alla Y o al Rebis, sintetizzando in modo emblematico gli apparati riproduttivi maschile e femminile [Fig. 14], ragione per cui lo scorpione alchemico è considerato anche simbolo dell’ermafrodito, fatto che lo accomuna ulteriormente al Cupido con due serpi michelangiolesco.
Nelle corti italiane del Quattrocento, e dunque anche presso i Gonzaga, si riteneva che lo Scorpione avesse straordinarie virtù terapeutiche e che fosse sua caratteristica, una volta ucciso, medicare con varie modalità le piaghe velenose da lui stesso inflitte, come si tramandava dall’antichità (Celso nel De Re Medica, opera del 13 dopo Cristo, stampata da Manuzio nel 1528, scriveva “Ad Scorpionis ictum Scorpione ipse est pulcherrimum medicamentum”): dunque, come dicevamo, questa sua proprietà curativa lo assimilerebbe alla serpe erotica del Cupido, per le fortissime virtù medicinali che, dagli Egizi sino al Rinascimento e oltre, sono state attribuite al veleno, alla pelle e al sangue della vipera.
Vorremmo a questo punto rivolgere la nostra attenzione anche alla presenza della pietra nel talismano di Elisabetta e segnalare un argomento di rilievo di cui disserta lo studioso Teodoro Katinis a proposito della medicina e filosofia ficiniane: l’uso dell’immagine dello Scorpione che, in associazione alla pietra bezoar, viene considerata da Ficino un rimedio contro i veleni e contro la peste, come si legge nel suo Consilio contro la pestilenza pubblicato nel 1481, testo nel quale il filosofo, parlando delle virtù curative della pietra bezoar, considerata nella medicina orientale e medievale un efficace controveleno, ne descrive il suo utilizzo come concrezione su cui scolpire l’immagine dello Scorpione a scopo terapeutico:
Hahamed dice che si mecta in anello et scolpiscasi in essa l’immagine dello Scorpione, quando la Luna è in Scorpione et risguardi l’Ascendente. Dipoi si suggelli con essa l’incenso quando la Luna è in Scorpione, imperché decto incenso dandolo bere trito giova aì veleni come decta pietra (Ficino, Consilio 48 in Katinis 2007, 123).
Infatti, come lo studioso Andrè Chastel aveva messo in evidenza, Ficino nel De Vita (III, 12), stabilendo la teoria dei temperamenti in funzione della scienza astrale, disserta della medicina dei talismani che ne risultano, sostenendo che se si intende stimolare un organo in particolare, si dovrà ricercare l’aspetto del cielo da cui esso dipende e si dovranno conoscere gli esseri, gli animali, le piante che esso direttamente ispira per concentrare le loro energie con i mezzi appropriati. Ficino parla dunque anche delle pietre dotate di proprietà occulte, smeraldo, zaffiro, topazio, rubino, corno di unicorno e della pietra che gli Arabi chiamano lapis bezzar, sostenendo dunque che la sua qualità deriva dalle stelle e ribadendo la sua utilità contro i veleni. Chastel ricorda inoltre il piccolo trattato dedicato alla magia delle pietre Speculum lapidum pubblicato a Venezia nel 1502 dal marchigiano Camillo Leonardo da Pesaro, amico di Lorenzo Bonicontri (membro del circolo ficiniano e in contatto con la corte montefeltrina), un trattatello che sviluppa le teorie esposte da Ficino: la virtù del talismano dipende dall’accordo tra la natura della pietra e l’immagine che vi è incisa (Chastel 1996, 88).
Nel pendente della lenza di Elisabetta Gonzaga vediamo uno Scorpione che tiene tra le chele incastonata una pietra la cui natura non può essere certo casuale; tanto meno casuale sarà il taglio della pietra, che si presenta tagliata a piramide [Fig. 15], la figura geometrica tridimensionale che sin dall’antichità egizia era ritenuta la più importante per l’interazione tra la sua forma e l’energia circostante, fungendo da amplificatore, accumulatore, o schermo a seconda del suo orientamento (sulla piramide si veda almeno Tresoldi 2002, 267-269). Il pendente sarebbe stato per la Duchessa un oggetto magico che esercitava, probabilmente in concomitanza ai transiti astrali favorevoli, la sua funzione specifica sul tessuto sottile e invisibile della realtà; e la esercitava ancor più efficacemente, grazie all’associazione dell’animale con la pietra appropriata, dal taglio che agevolava la trasmissione di energie celesti. È così che il talismano, che assumeva a questo punto anche un carattere apotropaico, si sarebbe fatto tramite delle energie astrali legate allo Scorpione che presiede all’apparato riproduttivo, secondo il principio analogico spiegato da Ficino, per il quale la magia si esercitava attraverso il potere di precise immagini, per cui la figura chiama a sé la figura:
Quam vim habeant figurae in caelo atque sub caelo; quales coelestium figuras antiqui imaginibus imprimebant, ac de usu imaginum (De Vita III, 17-18).
Dunque possiamo anche comprendere con quale spirito sia stato realizzato il ritratto raffaellesco, attraverso il quale Elisabetta sembra avvalorare ulteriormente il proprio talismano con cui si trova in assoluta empatia, accrescendone la potenza attraverso l’immagine. Un talismano che di conseguenza diviene l’emblema personale con il quale la Duchessa di Urbino decide di farsi immortalare, poiché, come spiegava Chastel, a proposito del rapporto tra la filosofia ficiniana e l’arte, anche l’opera d’arte possiede il potere di tradurre il volto invisibile delle potenze astrali, divenendone uno strumento:
L’œuvre d’art traduit le visage invisible des puissances astrales. Il y a là comme l’esquisse d’une philosophie des formes sous le vêtement d’une pseudo-science. Ficin […] reccomande d’interroger les symboles antiques, les hiéroglyphes, tous les témoins des sciences “sacerdotales” de l’Orient, qui guident et favorisent l’intuition, de même, il considère la mythologie comme le répertoire des relations obscures qui animent le cosmos, l’instrument du sovoir positif (Chastel 1996, 84).
E a proposito di scienze filosofico-astrologiche, possiamo notare che Elisabetta, indossando lo Scorpione come ornamento da lenza che ricade al centro della fronte, sembra richiamarsi a un contesto strettamente ermetico. Infatti Selkis, dea della fertilità e della natura, della magia e del morso degli animali velenosi, veniva rappresentata come scorpione con volto di donna, o come donna con lo scorpione stilizzato sul capo [Fig. 16], esattamente come Iside, sua compagna di peregrinazioni: la dea Selkis possedeva infatti poteri magici e taumaturgici, esercitati tramite maghi e incantatori e i suoi sacerdoti erano medici.
Sappiamo quanto il culto dell’Egitto e dell’ermetismo nel corso del Quattrocento si sia diffuso grazie al grande contributo di Ficino – la cui filosofia aveva esercitato una forte influenza sulla cultura urbinate sin dal 1472 (Pernis [1990] 1996, 25-43) – sebbene “sin dalla fine del XIII secolo si fosse trasmesso per più vie” (Wittkower [1977] 1992, 43-81), come testimoniano la vita e l’opera di un altro membro dell’Accademia fiorentina e familiare della corte di Urbino, Leon Battista Alberti, le cui opere, anche letterarie, mostrano che in lui “il fascino per i misteri ermetici si congiunge col fascino per l’antico Egitto” (Dezzi Bardeschi 1974, 33-68) [Fig. 17].
L’interesse per la cultura ermetica ed egizia coinvolse la corte dei Montefeltro, come altre corti italiane e gli stessi Borgia che vantavano la discendenza mitica dal dio Api, e proprio questa potrebbe essere una delle ragioni che hanno spinto la nobildonna a fregiarsi proprio il capo con lo Scorpione che assume valenza apotropaica; lo stesso amico Pietro Bembo si era tanto appassionato di cultura egizia da acquistare la Mensa Isiaca, tavola di epoca romana ispirata ai geroglifici, dove si ripresenta l’immagine dello scorpione umanizzato [Fig. 18]. Alla corte dunque si coltivava un grande interesse per i misteri ermetici e la magia, e ricordiamo che il tutore di Guidobaldo, che crebbe orfano di madre e successe al padre a soli dieci anni, era lo zio Ottaviano Ubaldini della Carda, noto come alchimista e tanto esperto di astrologia che i suoi contemporanei lo consideravano addirittura come il primo degli astrologi (Michelini Tocci 1986): Bembo, nella sua versione latina dell’elogio funebre a Guidobaldo, lo avrebbe descritto come l’artefice della malia che aveva stregato il Duca rendendolo impotente, (Bembo Opere IV, 299 in Centanni 2013), manipolando dunque le sue energie psichiche per mezzo di un qualche sortilegio, fatto che ci induce anche a sospettare che egli possa avere giocato un qualche ruolo in relazione alle cause dell’infermità del nipote.
Dunque la Duchessa di Urbino, che nell’emblematico ritratto sembra voler mostrare la propria vocazione sacerdotale in campo amoroso, potrebbe rappresentare a questo punto il contrappeso dell’Ubaldini: la nobildonna, che peraltro esercitava un grande fascino sui poeti che frequentavano il suo palazzo, era descritta dall’Aquilano come colei alla quale Cupido aveva ceduto le armi (Aquilano, Sonetti XII) e da Bernardo Accolti “miracolosa” (per questa testimonianza si veda Centanni 2013). La Duchessa era considerata un’ammaliatrice, come si legge in un suo interessante ritratto scolpito in forma di parole dello stesso Accolti, peraltro figlio di quel Benedetto, membro dell’Accademia di Careggi, che Ficino faceva rientrare tra i “familiares confabulatores” (Pernis [1990] 1996, 27); il componimento è documento chiave che spiega ulteriormente il clima culturale e artistico urbinate:
Io che son sculta in marmo humido, e basso,
dal Spirto di fuor, son simile a la viva,
Acqua da me, da lei pianto deriva,
lei dora e fredda, io duro e feddo sasso.
Io ogni viator stupido lasso;
lei ogni servo suo di senso priva;
lei è candida più, che rosa estiva;
et io col candor mio la neve passo.
Lei d’ogni amator suo frauda il desio;
et io, che mostro esser viva, e confondo
chi cerca indarno il concubito mio.
Qual lei ridendo mia durezza asecondo,
qual lei miro ciascun con volto pio;
ma se chiami, qual lei non ti rispondo.
Accolti, Della Duchessa di Urbino SCOLPITA
Questa poesia, che fa parlare la donna in prima persona, ha un spessore magico e alchemico, poiché composta di materie, qualità e misteriosi umori che giocano tra loro e attraverso i quali Accolti racconta le attitudini di Elisabetta.
Ricordiamo a questo punto che anche la straordinaria Biblioteca dei Duchi, che, come dicevamo, si distinguevano per il loro elevatissimo livello culturale e per i forti interessi astrologici ed esoterici (al tredicenne Guidobaldo l’astrologo Paul de Middelbourg aveva dedicato l’opera Prognostica ad viginti annos e Aldo Manuzio nel 1499 a lui aveva dedicato una propria edizione di testi astronomici di Firmico Materno, Manilio, Arato e Proclo) era uno scrigno di testi preziosi, tra cui compariva oltre al De Amore di Ficino, ovvero la traduzione e il commento al Convito di Platone, altre importanti opere raccolte grazie al bibliotecario fiorentino Vespasiano da Bisticci che fu al servizio del Duca Federico (Chastel [1959] 1991, 354); tra i testi ermetici spiccava la traduzione di Ficino del De Potestate et Sapientia Dei di Hermes Trismegisto (Pernis 1997, 59).
Dunque non ci stupisce affatto che Elisabetta fosse appassionata di quelle antiche dottrine, senza le quali peraltro per lei non sarebbe stato possibile coltivare un rapporto intellettuale e affettivo col marito e magari sperare di propiziarsi energie astrali positive esercitando anche favorevoli influenze al fine di sollevare l’Amore dormiente “ponderoso e vile”, come lo descrive l’Aquilano.
Insomma, con tutte queste considerazioni vogliamo mettere in evidenza come l’eccezionale scultura del Cupido con serpi di Michelangelo fosse in grado di tradurre, e anche di influenzare, un contesto culturale neoplatonico e artistico dove la filosofia veniva esplicata per immagini, giocando un ruolo primario in relazione alle vicende personali di Guidobaldo e di Elisabetta, per i quali solo un contravveleno erotico, ovvero un miracoloso concepimento, o un’alchimia mistica sarebbero divenuti l’antidoto e l’equo riscatto della loro privativa condizione ‘carnale’, sollevandoli a una sfera magica e spirituale dove, come i principii maschile e femminile, avrebbero potuto sondare fusioni alternative. Dunque, il Cupido dormiente ermetico veniva a collocarsi in un contesto ricco di frammiste suggestioni tratte dalle antiche dottrine, divenendo un’opera importante della corte montefeltrina, un ambiente ricettivo che guardava alla bellezza e alla magia delle parole: il colto esteta e sensibile Guidobaldo, che aveva persino rifiutato di sposare Maddalena, sorella di Elisabetta, “per non esser bella”, e che amava moltissimo la letteratura “leggendo i testi in greco e parlando come un Greco” (Benzoni 2004), poteva ben apprezzare un ritratto del daimon, maestro dell’arte medica e custode della cura dalle sue stesse insidie erotiche, un Cupido per cui la procreazione della carne aveva ceduto il passo al parto dello spirito; un Eros che avrebbe potuto ricordare e al contempo sublimare l’impossibilità coeundi.
“E se tal serpe ultra la usanza onoro”: il Cupido di Michelangelo nelle Rime di Serafino Aquilano.
Alla corte di Urbino soggiornò il poeta Serafino, nato a L’Aquila nel 1466 e morto a Roma nel 1500, del casato de’ Ciminelli. L’Aquilano a fine Quattrocento, fu sia a Urbino che a Mantova presso la cognata di Elisabetta, Isabella d’Este moglie del marchese Gianfrancesco II Gonzaga, e di quest’ultima fu pure tra i prediletti poeti (Rossi 1980). L’Aquilano, secondo i documenti e la corrispondenza intercorsa tra le due corti (Luzio, Reiner 1893) soggiornò a Urbino negli anni 1498 e 1499, proprio nel periodo in cui il Cupido dormiente di Michelangelo fu di proprietà di Guidobaldo e di Elisabetta. Alla Duchessa, il Ciminelli era molto affezionato e per lei nutriva particolare dedizione, dedicandole versi d’amore.
Gli studiosi in passato hanno rilevato come nelle Rime l’Aquilano svolga il tema del Cupido marmoreo, ispirandosi al Cupido dormiente di Buonarroti, precisamente nel sonetto XI (Luzio, Reiner 1893,171) dove, come nel sonetto XII, “viene illustrato un tête-à-tête fra la donna e amore” (Rossi 1980, 47). Ma un terzo sonetto, il XIX, sino ad oggi trascurato, ha attirato il nostro interesse, poiché in questa lirica Amore, parlando in prima persona sotto forma di Cupido marmoreo, suggerisce di non stupirsi se, diversamente dalla sua usanza, tiene “un serpe in man”. Dunque analizziamo con ordine e più dettagliatamente le liriche. Il sonetto XI, Quel nimico mortal de la natura, così recita:
Quel nimico mortal de la natura
Che ardi ferir più volte omini e dei
In marmo è qui converso da costei,
Che col dolce mirar gli animi fura,
Ferir la volse un di senza aver cura
A quelli ardenti sguardi medusei,
Et a questi alti monti, che per lei
D’omini son conversi in pietra dura.
Quanto amore ha variato stile
Qui freddo iace, e fu si fiero ardore,
Fu lieve spirto, or ponderoso e vile.
Ma un tale exempio a ognun metta terrore
Né sia già mai nisiun tanto sottile
Che non presuma aver superiore.
In questo sonetto possiamo osservare che Amore “freddo iace”, annichilito dalla donna che lo ha trasformato in marmo coi suoi “ardenti sguardi medusei”; Cupido è dunque “ponderoso” ossia pesante, quando un tempo è stato invece “lieve”. Questo pesante e freddo giacere del Cupido marmoreo michelangiolesco richiama naturalmente il sonno di Eros, ma anche l’abbandono al proprio peso, poiché il termine latino iacere indica anche il giacere abbandonati, soccombendo a malattia e a morte. Il termine “vile” è interpretabile come pauroso o timoroso, in contrapposizione al “fiero ardore” del coraggio, e potrebbe alludere alla stessa infermità di Guidobaldo. A elogio di Elisabetta il poeta canta la potenza della donna che con gli sguardi mette in fuga gli animi e fa impietrire gli uomini. Infatti nel successivo sonetto XII, Quel fier Cupido assiduo e tenace, ai versi 7-8 leggiamo che il Cupido dormendo iace, così da non poter causare altre ferite ai mortali, poiché, seppur sia giunto armato per vincere la donna, stanco ha ceduto a lei le proprie armi, esaltando il poeta i poteri di lei: “E da quel dì per più securo starse / Lei far officio, e lui dormendo iace”.
Nel sonetto XIX, che risulta per noi fondamentale ai fini dell'indagine storico artistica e filologica sul Cupido dormiente michelangiolesco, possiamo leggere che il Cupido dichiara di non meravigliarsi se egli tiene “un serpe in man de tanta alta bellezza”, serpe che per amore perde “i crudi morsi”. Amore sostiene che chi ama disprezza anche “i serpenti” oltre agli altri animali feroci; e se Cupido “tal serpe ultra altra usanza” onora, questo accade perché il rettile può essere animale in cui si è tramutato Giove per amore, come altre volte ha fatto, trasformandosi in cigno per amore di Leda, o in toro per rapire Europa:
Non te admirar, Fidel, se già mi torsi,
Da che non era mia natura avezza,
Che un serpe in man de tanta alta bellezza
Perde l’ardire, el tosco e i crudi morsi.
Questo mi vinse in lei che prima scorsi
Che ha vinto amore e tanta sua durezza,
E chi fa quello assai facil desprezza
I serpenti, i leoni, i tigri e gli orsi.
E se tal serpe ultra la usanza onoro
Esser può Iove in tal forma mutato
Come altre volte in bianco cigno in toro;
Non voglio già da me resti indignato,
Né pien d’ardir lui con Madonna adoro
Che l’uno e l’altro mi può far beato.
È interessante osservare come l’Aquilano, già nella prima quartina, scriva del serpe che per Amore perde il “tosco”, che sta per ‘tossico’ ossia ‘veleno’ (per l’uso di “tosco” si veda anche Tasso Opere II, 158: “la testudine alhor, che’l fero tosco/della serpe l’ancide, e dentro serpe/il pasciuto velen, salute, e vita/dell’origano cerca, e non indarno”); si tratta dunque della vipera che, nelle mani di Amore vincitore di ogni selvaticità, “perde i crudi morsi”; il poeta introietta ed esplicita i contenuti del Cupido dormiente michelangiolesco, dichiarando “quanto amore ha variato stile”, onorando il serpe “ultra la usanza”, tenendo un serpe “da che non era sua natura avvezza”. Possiamo inoltre notare che il poeta, facendo parlare lo stesso Amore, giustifichi la presenza dell’animale come un’ipotetica metamorfosi del dio Giove, che conviene onorare; trattasi dunque di un Cupido dormiente rapito dal rettile dall’ambigua identità, velenosa e divina, e, come Giove si era trasformato in cigno per amore di Leda o in toro per rapire Europa, ora lo stesso Amore dichiara che il dio può essersi trasformato in serpe per rapirlo, “ultra la usanza”: si tratta di una insolita metamorfosi per Giove che era disceso come pioggia d’oro per amare Danae, nella quale peraltro si identificava la Duchessa stessa alla quale l’Aquilano dedica il sonetto (“Madonna”). Risulta doveroso a questo punto osservare il fatto che il poeta inventi una storia mitologica che possa motivare l’insolita iconografia del Cupido, ossia essere calzante all’opera materiale e al contesto artistico in cui viene a collocarsi, una storia che sembra fare il paio con il mito di Danae, che Elisabetta aveva scelto nel 1495 per la propria medaglia rappresentativa. E se come ha stabilito Monica Centanni esiste “l’analogia tra le vicende del mito e la biografia della Duchessa di Urbino, per cui Elisabetta sceglie Danae come sua figura emblematica […] come suo alter ego mitico” (Centanni 2013), allora, secondo noi potrebbe esistere anche una corrispondenza tra l’invenzione del mito di Giove / serpe e la biografia di Guidobaldo, e dunque è plausibile che dopo i sonetti XI e XII, ove nel Cupido che “iace” avrebbe potuto essere trasfigurata la soccombente cupiditas stessa del Duca, l’Aquilano crei un’immagine più aulica dove la serpe diviene presenza divina, da adorare insieme a “Madonna”. Il motivo della vipera legata a Cupido e quello dell’ipotetico rapimento di Cupido da parte di Giove tramutato in serpe, risultano per l’Aquilano prolifici: è questo il caso in cui l’opera materiale trasporta contenuti visuali innovativi e rivoluzionari nella poesia coeva.
Isabella, bramosa di antichità, si fa consegnare il Cupido dormiente da Cesare Borgia e finalmente scopre che l’opera è moderna. Guidobaldo ne richiede la restituzione
Come dicevamo, il Cupido dormiente di Michelangelo, spacciato per antico, si era camuffato così bene agli occhi di tanti colti uomini e collezionisti, dal Cardinale Raffaele Riario al conte della Mirandola, da Cesare Borgia a Isabella d’Este, che solo dopo il suo arrivo a Mantova la Marchesa lo riconosce per moderno.
Infatti Cesare Borgia nel 1502 durante l’assedio di Urbino si riprese la scultura (assieme a tutti i domini, i beni e i tesori ducali) e proprio in quel frangente il Cupido dormiente venne da lui ceduto a Isabella, in cambio dell’ospitalità da lei concessa a Mantova ai suoi cognati durante i saccheggi del loro palazzo. Anche Isabella, facendo esplicita richiesta di avere la scultura dal Duca di Romagna, parla del Cupido dormiente come di un’opera antica; citiamo a questo proposito la lettera scritta al fratello Cardinale Ippolito d’Este tramite il quale domanda la scultura:
Lo S. Duca de Urbino mio cognato haveva in casa soa una Venere antiqua de marmore picola ma molto bona secundo la fama soa et così un Cupido quale li donò altre volte lo Illmo S. Duca de Romagna. Son certa che questi insieme cum le altre cose siano pervenute in la mane de lo predicto S. Duca de Romagna in la mutatione de lo stato de Urbino. Io che ho posto gran cura in racogliere cose antique per honorare el mio studio desideraria grandemente haverle ne me pare inconveniente pensiere intendendo che la E. S. non ne delecto molto de antiquità et che per questo facilmente ne compiacerà altri […] (Lettera di Isabella Marchesa di Mantova al Cardinale da Este del 30 giugno 1502 in D’Arco 1859, 49).
Possiamo notare che Isabella insiste per avere queste due opere “de antiquità”, la Venere e il Cupido, senza sapere che il Cupido è di Michelangelo ma precisando che si tratta di quello che Borgia aveva in precedenza donato al Duca Guidobaldo. Orbene, non appena il Cupido giunge a Mantova nel 1502, la Marchesa sembra accorgersi dell’equivoco, riconoscendolo “cosa moderna”, scrivendo così al marito il 22 luglio:
Non scrivo de la bellezza della Venere perché credo che V.S. l’habbi veduta, ma il Cupido per cosa moderna non ha pari (Lettera di Isabella al Marchese Francesco del 22 luglio 1502, in D’Arco 1859, 7).
Isabella avrebbe potuto essere stata informata della modernità dell’opera dallo stesso cognato, che forse, ad un certo momento, si era reso consapevole della reale qualità del marmo, oppure da qualche atro intenditore. In ogni caso il Cupido dormiente, che portò certo fortuna al giovane scultore fiorentino che esordì nel 1496 sulla movimentata scena romana, si riappropria della modernità e della paternità nell’ambito della collezione gonzaghesca nel momento in cui anche Michelangelo rivela al pubblico il proprio genio, divenendo via via più celebre negli anni successivi. Sarà bene ricordare, infatti, che ancora nel 1502 Buonarroti era uno scultore senza notorietà, sebbene si fosse fatto conoscere in taluni ambienti romani e avesse già lavorato per prestigiosi committenti. Solo nell’Inventario Stivini, stilato dopo la morte della Marchesa nel 1542, leggeremo il nome di Michelangelo (Campbell 2004, 92).
È interessante notare che quando Guidobaldo da Montefeltro venne reintegrato nel suo Ducato, cercò di recuperare le opere disperse da Borgia e dunque domandò a Isabella d’Este la restituzione del Cupido. L’8 dicembre 1503 Giovanni Lucido Cattanei chiese esplicitamente a Isabella la restituzione del Cupido dormiente ma la nobildonna rifiutò, scrivendo una lettera in cui si faceva forte del consentimento al dono accordato dallo stesso Duca di Urbino (Luzio-Reiner 1893, 171).
Il Cupido dormiente di Michelangelo “parea che fosse morto”
Così, nel 1502, Isabella d’Este si fece recapitare da Urbino il Cupido dormiente conoscendone certo la qualità e la bellezza, ma ignorando che fosse del Buonarroti. Ricordiamo che proprio Isabella, nel 1496, aveva rinunciato ad acquistare quello stesso Cupido quando aveva saputo da Antonio Pico della Mirandola, suo agente a Roma, che si trattava di scultura di un certo autore moderno, e lei stessa, nel 1502, aveva insistito per ottenerlo da Cesare Borgia pensando fosse una scultura antica: evidentemente Isabella ignorava che si trattava dello stesso Cupido dormiente di autore moderno (Michelangelo) visto dal suo agente a Roma, agente che ad un certo punto l’aveva avvertita del fatto che si trattava di un pezzo non antico. Dunque la Marchesa, avendo avuto occasione di apprezzare, direttamente e attraverso le testimonianze letterarie, la celebre scultura che si trovava ad Urbino dai parenti, desiderava acquisirlo per la propria collezione. È questo uno dei casi in cui la fama dell’opera che circola tra le corti vince quella del suo stesso artefice, rimasto nell’anonimato per tutto quel torno d'anni.
A conclusione di questo saggio, desideriamo citare almeno due documenti di ambito mantovano che parlano del Cupido dormiente di Michelangelo con le caratteristiche mortuarie sue proprie, peculiarità già emersa nei versi dell’Aquilano. Il primo è una lirica del 1502 del poeta mantovano Paride da Ceresara (1466-1532), ideatore dei temi mitologici e allegorici per i dipinti destinati al celebre Studiolo isabelliano. Paride scrisse componimenti erotici, e in particolare un sonetto, i cui versi risultano assai preziosi, pare ispirato al Cupido dormiente di Michelangelo:
Trovai un giorno Amor chera si lasso
Che dormento parea che fosse morto.
Et io col stral pian pian timido e smorto
Larcho gli furo: e il spezzo i’ cima a un sasso.
Col pianto, e coi suspiri, poi che nel basso
D'il cuor e gli occhi amaramente i porto
A spenachiar costui chino m'abasso.
Ma dal dolor svegliossi e ritrovando
L'armi sue rotte, a tanta offesa, e perse
Si volse al ciel di rabbia lachrymando
E da sue luce rigide e perverse
Si trasse il velo, et a me corse e quando
Con quel mi strinse, alhor lui gli occhi aperse.
Paride da Ceresara, Sonetto LIV, pubblicato in Campbell 2004, 330
Il poeta mantovano impernia la lirica sul carattere mortuario del Cupido abbandonato al sonno. Questa immagine va accostata a una seconda testimonianza di molto posteriore, quella di Fra Leandro Alberti che nel 1550 visita la Grotta di Isabella, dove il Cupido dormiente di Michelangelo è collocato di fronte al Cupido dormiente di Prassitele, acquisito nel 1506 (l’allora segretario di Isabella, Mario Equicola, nel suo libro Sulla natura dell’Amore lo descriveva come l’“Eros tespiense dono per Frine”): i due Eroti formavano una coppia ed erano collocati ai due lati della finestra, come descrive l’Inventario Stivini nel 1542 stilato alla morte della Marchesa. Leandro Alberti, confrontando le due sculture, descrive il Cupido di Michelangelo come “animal morto”:
Nel superbo Palagio dei signori si scorge quel nobile luogo nominato la Grotta, pieno di preciosissime cosa della signora Isabella, consorte già del marchese Francesco ultimo. Quivi sono molte cose antique et rare da far meravigliare ogni grande ingegno, et tra l’altri due Cupidini, uno antico et l’altro moderno. Questo prima vedendolo pare cosa maravegliosa, ma paragonandolo al primo, tanto par mancare di riputatione quanto manca un animal morto da un vivo (Alberti Descrittione di tutta Italia, il documento è pubblicato in Schizzerotto 1981, 91).
La descrizione di Alberti conferma quanto Michelangelo si sia allontanato dal modello classico e in particolare dal Cupido dormiente prassitelico che, descritto dalle fonti come dolce e libero sonno, doveva ispirare serenità per alleggerire gli affanni dell’animo umano (Söldner 2014, 142-143, 207-209). D’altronde il Cupido di Michelangelo è il daimon che ha perso i sensi, pur restando minaccioso e scostante, poiché le serpi divengono metafora dell’inavvicinabilità del puer divino, ispirando reticenza e pudore. Per questa ragione anche Alessandro Lamo, nel 1584 vedendo il Cupido con serpi alla corte gonzaghesca di Sabbioneta ne elogerà la bellezza ma non parlerà affatto delle vipere che disorientano l’osservatore, poiché, come inusuali attributi di Eros, creano un’ambiguità e un paradosso, accrescendo il mistero dell’immagine, instillando ancora oggi un sentimento di mestizia commisto a una profonda sorpresa.
Conclusione: il Cupido dormiente coronato di spine
Il Cupido di Michelangelo è in posizione supina e le vipere danno l’impressione di averlo colpito mortalmente, eppure è il dio dell’Amore che, abbandonato a un sonno estatico, ha vinto il morso dei pericolosi rettili. È infatti la presenza delle due serpi che fa della scultura un unicum nella storia degli Eroti dormienti, come avevamo rilevato ancora in occasione della nostra ipotesi attributiva (Pinotti 2005).
La studiosa Magdalene Söldner, nella sua immane e puntigliosa opera di catalogazione degli Eroti dormienti nell’arte ellenistica e romana, aveva d’altra parte collocato il Cupido con serpi tra gli “Eroti a parte” per la singolare iconografia con le serpi che, come la studiosa notava, “in antico non si spiegano come attributi di Eros”. Söldner in quell’occasione osservava che la coroncina di rose indossata da Cupido è sostanzialmente una coroncina di spine (Söldner 1986, 706-707).
Vogliamo dunque concludere questo saggio collegandoci a questa preziosa osservazione, poiché riteniamo che, in piena armonia con le ambiguità semantiche che caratterizzano l’opera michelangiolesca e con la polisemanticità dell’immagine delle vipere, anche la coroncina di rose celi un doloroso aspetto pungente e fatale. Si tratta di un Cupido ferito dalle spine nascoste dai folti e riccioluti capelli così finemente ornati da rose profumate, spine insanguinate che ci ricordano il doppio volto della bellezza, sorgente di letizia e beatitudine ma anche di dolore e sacrificio, conducendoci straordinariamente dall’ambito pagano a quello cristiano, ossia ricordando il casco di spine di Gesù, che si è sacrificato per Amore per l’umanità tutta, di cui Michelangelo verseggerà ampiamente nelle Rime spirituali.
Nessuno può incarnare l’altissimo Amore come Cristo e in tal senso nel Cupido dormiente può trasfigurarsi un Gesù bambino: il semidio svenuto con il capo reclinato può essere visto come una prefigurazione del Cristo morto della Pietà vaticana, realizzata due anni dopo, immerso nello stesso sonno divino [Fig. 19, Fig. 20].
D’altra parte il Cupido è successivo di qualche anno a quell’eccezionale esperienza giovanile di morte che Buonarroti fece votandosi allo studio dell’anatomia e sezionando cadaveri, ospite del priore agostiniano di Santo Spirito a Firenze, per il quale scolpì nel 1492 il Crocifisso ligneo.
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English Abstract
This essay addresses an underappreciated aspect of the history of Michelangelo’s Sleeping Cupid, now conserved in the Civic Museum of St. Sebastiano Palace in Mantua. It reveals the esoteric and mysterious meanings of the work in relation to Buonarroti’s universe. The paper examines the reasons why Cesare Borgia, after having bought the Sleeping Cupid in 1496 as an ancient marble, gave the sculpture to Duke Guidobaldo da Montefeltro, after which it remained in Urbino until 1502. In this neoplatonic and hermetic ambit, the literary description found of Michelangelo’s Cupid by Serafino Aquilano, poet at the court of Urbino, resonates: in Aquilano’s verses, the Sleeping Cupid suggests the reader not be surprised seeing Love with its hand on a divine snake. At the beginning of the 16th-century, when the famous marble arrived at the court of Mantua, Isabella d’Este realized that it was a modern work, and the sculpture is described with mortuary characteristics. The paper argues that Michelangelo’s ’queer’ Sleeping Cupid with two snakes, a platonic daimon with oracular, nightly, and hermetic attributes—a demigod go-between earth and sky, chaste hermaphroditus born of fusion of masculine and feminine principles—is a key work through which to discover the secret visual and poetic developments of Michelangelo’s universe. In this universe, Love is felt as poisonous strength, but is also the only celestial way of elevating the soul and caring for its earthly passions.
keywords | Michelangelo; Michelangelo Buonarroti; Sleeping Cupid; Serafino Aquilano.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Pinotti, “E se tal serpe ultra la usanza onoro”. Il Cupido dormiente di Michelangelo alla corte di Urbino. Nuove dinamiche storico artistiche riguardanti la scultura eseguita da Buonarroti a Firenze nel 1496 e appartenuta al Duca Guidobaldo da Montefeltro sino al 1502, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 259-288 | PDF