Un teatro senza paraventi
Bestie di scena di Emma Dante fra privazione e iconicità
Stefania Rimini
English abstract
La trama è un trucco che serve a chi scrive romanzi.
Robert Bresson
Dopo il fragoroso debutto primaverile al Piccolo Teatro di Milano, Bestie di scena di Emma Dante vive un secondo movimento che pare compiersi nel segno della riconciliazione: il coro di critiche sferzanti che avevano scandito il primo ciclo di repliche sembra lasciar spazio a rigorosi giudizi di merito, accompagnati da interviste e presentazioni pubbliche, mentre il successo al botteghino non conosce battute d’arresto, confermando l’alto indice di gradimento da parte degli spettatori. Le convincenti prestazioni del Macbeth, la cavalcata di Odissea A/R e il felice esordio spoletano de La scortecata hanno forse contribuito a riallineare Bestie di scena nel fecondo alveo delle scritture registiche di Dante, stemperando i toni polemici e ricucendo lo strappo provocato da letture troppo affrettate, se non addirittura miopi.
Abituata alla bagarre e ostinatamente convinta delle proprie idee, la regista ha continuato a spingere sul pedale delle contaminazioni e ha già messo in cantiere il progetto del secondo film, tratto da Le sorelle Macaluso sempre in collaborazione con Giorgio Vasta, e l’esordio al Teatro Greco di Siracusa con l’Eracle di Euripide, previsto nel cartellone del LIV ciclo di spettacoli classici, in programma in primavera 2018.
Quello che era apparso come un punto cieco – lo “spettacolo più libero e allo stesso tempo più fragile” (Dante 2017a) – è invece diventato un’opera antologica, capace di riassumere alcune figure cardine della sua carriera e contemporaneamente di rifondare il suo sguardo, in una sorta di grado zero della creazione:
Bestie di scena è prima di tutto per me: è prima del teatro, è prima della definizione di uno spettacolo, è prima di un testo, è prima di una storia, è prima di un personaggio, di un costume… è prima! (Dante 2017b).
La perentorietà di tale affermazione assegna a questo atto senza parole, di ascendenza beckettiana (Manzella 2017), uno statuto speciale dentro il macrotesto registico di Dante, innanzitutto per il venir meno di ogni forma o principio di racconto: la tensione narrativa degli spettacoli precedenti qui lascia il posto alla pura fisicità di azioni incarnate, spasimi di un tempo “preistorico e presente” (Vasta 2017). La rinuncia all’ordine diegetico fa sì che i corpi che abitano la scena si muovano come fantasmi, come “nuclei senza struttura, senza trama, senza discorso” (Vasta 2017), inchiodati alla pena di un destino errante. Lavorando in un’ottica di sottrazione, posizionandosi nell’orizzonte del pre- (“prima del teatro […], prima di una storia, prima di un personaggio”), Dante esclude l’elemento verbale, concentrando l’attenzione sul peso delle figure, sulle traiettorie di movimento. Il dialetto, solitamente utilizzato come potente lingua di scena, regredisce e si contrae in suoni disarticolati, balbettii e poche frasi, a marcare l’ontologica ‘imbecillità’ (Dante 2017a) dei protagonisti, immersi in un’oralità primordiale. L’esclusione della dimensione propriamente testuale porta in primo piano la “messa in corpo” degli attori, la vettorializzazione dei loro desideri, secondo logiche compositive che richiamano le dinamiche di estensione e diversificazione della visibilità individuate da Bernard (Bernard 1986).
Tutto quel che accade si polarizza intorno a due assi principali – la nudità e il mascheramento – che agiscono secondo un audace principio di inversione: la curva di senso dello spettacolo procede infatti dall’atto di denudamento iniziale, che comporta in prima istanza un moto di vergogna da parte dei performer, alla scelta finale di non rivestirsi, che decreta lo strappo alla regola dell’obbedienza su cui è costruita la partitura del testo.
Il mascheramento in questo caso non è una marca sovrastrutturale, un’opzione falsificante ma un meccanismo di difesa rispetto all’oltranza del corpo. In certi passaggi assurge perfino a “formula di pathos” grazie all’insistenza con cui gli attori cercano di coprirsi le parti intime, mimando il gestus ritratto da Masaccio ne La cacciata di Adamo ed Eva.
L’eco performata di Masaccio agisce come specchio e come soglia sensibile, rivelando la finitezza della condizione degli attanti (anch’essi al pari di Adamo ed Eva cacciati dal giardino dell’Eden) e marcando altresì la loro disposizione emotiva, orientata per il primo lungo tratto dello spettacolo verso una sorta di imbarazzo ‘tragico’, con rare aperture giocose. Il pudore definisce le pose dei performer, li costringe a straniate manovre di ‘mascheramento’ e soprattutto invade la platea, creando un effetto percettivo sicuramente inusuale. Il processo di ideazione dello spettacolo si fonda del resto proprio sul rapporto assiale fra oggetti e soggetti dello sguardo, secondo un’inclinazione precisa che riguarda l’insopportabilità dell’osceno, ovvero di ciò che solitamente non si mostra. Grazie alla sensibilità di Dante il teatro torna a fare i conti con la radice etimologica della sua essenza, con l’urgenza della opsis, dentro cui si attiva la relazione fra attori e spettatori.
Per un tempo lungo delle prove ci siamo concentrati sullo sguardo, siamo stati ore a guardarci io e gli attori, loro guardavano me e io li guardavo, senza parlare, senza giudicare. All’inizio erano vestiti, poi in mutande e alla fine nudi. Si sono spogliati piano piano, ognuno col tempo che serviva. Poi, ottenuto ciò che volevo, io spettatrice, colei che se ne sta seduta sulla sedia e guarda, ho cominciato a sentire la pena del mio sguardo, provando uno strano senso di colpa di fronte alla scena nuda e ai corpi nudi. Allora ho chiesto loro di coprirsi occhi, seni e genitali per liberarmi da questo peso. E ho capito che il peccato stava nel mio sguardo, nel mio fissare quei corpi, quelle facce, che faceva del male soprattutto a me (Dante 2017a).
Bestie di scena è quindi innanzitutto una densa interrogazione sul tema della visione, sulla condizione dell’essere per l’altro, sulla reciprocità di desideri e affanni, e non è un caso che le note di regia si aprano nel segno di Pirandello, richiamando il giro a vuoto dei Giganti della montagna:
Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede, ma nell’anima che parla chi sa da dove, nessuno può saperlo: apparenza tra apparenza...
La consistenza diafana dei fantasmi pirandelliani si sovrappone alla carnalità delle figure di Dante; tale remix produce una frizione fra “presenza e vergogna, più esattamente tra coscienza della propria presenza e conseguente coscienza della propria vergogna” (Vasta 2017b). I corpi dei performer esposti allo sguardo degli spettatori sono una feconda anomalia, un elemento perturbante che inquieta e interroga, non tanto – come sarebbe facile pensare – per possibili complicazioni erotiche, quanto invece per la vibrazione segreta dell’anima che si agita e respira a ogni contrazione muscolare, a ogni balzo. Rinunciando alla esibizione di sé, al gioco di apparenze tipico di certo teatro, ognuno di loro mette in scena le pulsioni più autentiche, raccontando il progressivo avvicinamento allo stadio “in cui è il corpo a pensare” (Dante 2017a).
I quadri dello spettacolo declinano la “vita nuda” (Agamben [1995] 2005), la regressione a un (in)felice stato di natura in cui tutte le insegne sono cadute (il palcoscenico è vuoto) ma qualcosa continua ad accadere. Le micro-storie che si addensano nello spazio sono provocate da una pioggia di oggetti (scope, bacinelle, strofinacci, petardi, noccioline) che portano gli attori e le attrici a immaginare relazioni con tali significanti, in un fluire di gesti, posizioni e ritmi senza soluzione di continuità.
L’opzione registica adottata da Dante in quest’opera può dirsi, in scia con Robert Bresson, un teatro senza “paraventi”, cioè libero da “quegli artifici finalizzati a ottenere il coinvolgimento emotivo dello spettatore – la trama, la recitazione, […] la musica” (Schrader 2002). Per esaltare il “dramma interiore” (Douchet 1951) il regista francese ricusa “i piaceri facili della bellezza fisica per un piacere più duraturo, più esemplare, più sincero” (Sontag [1964] 1966, 280); allo stesso modo Dante riduce al minimo i segni della scena, concentrando l’attenzione sulla geometria delle forme, al fine di spingere i suoi attori verso l’essenzialità di una “fisiognomica esistenziale” (Bazin [1951] 1997, 130). Il richiamo all’estetica bressoniana potrebbe sembrare fuorviante, innanzitutto per l’intrinseca diversità del medium, ma la lezione del regista agisce in profondità dentro il tessuto compositivo dello spettacolo perché – come ha dichiarato Dante – lo sguardo delle sue ‘bestie di scena’ è modellato sulla dolente espressività dell’asino protagonista di Au hasard Balthazar (Francia, 1966).
A guardar bene è facile riconoscere nelle orbite cave dei performer il riverbero di una sofferenza senza nome, “una preghiera animale, assoluta” (Vasta 2017b) che crea un forte effetto di risonanza con la parabola sacrificale di Balthazar. Altro indizio della prossimità fra la maniera bressoniana e la sensibilità di Bestie di scena è la dialettica tra pietà e ferocia che scandisce l’alternanza dei quadri. La condizione di imprigionamento in cui versano i personaggi non esclude la tenerezza, il mutuo soccorso anche se poi sembra prevalere lo scontro fisico, l’aggressione (in)volontaria, l’abbraccio soffocante. Come nell’universo filmico di Bresson, il tempo ordinario si dilata, assorbe la fatica dei giorni e a tratti si lascia attraversare dall’ombra lunga della Grazia: l’illusione però dura poco, il nero divora l’innocenza e spegne ogni incanto.
Il teatro visivo di Dante lavora dunque su più livelli, disarticola lo spazio e frammenta i corpi, senza concedere appigli. La dinamica della performance segue un principio sensoriale e cinestetico, obbedendo per lo più a una “logica della sensazione” (Deleuze 1996) che coinvolge lo spettatore in un’esperienza “energetica” (Lyotard [1971] 1988). Sono soprattutto l’assolo e il tableau a dare ritmo al racconto, a definire gli intervalli fra respiri e cadute ma la figura cardine di questa cerimonia crudele resta la schiera, misura par excellance della scrittura scenica di Dante. Disporsi su un'unica linea significa per i performer condividere lo stesso destino, mantenersi in equilibrio instabile fra condanna e redenzione: la schiera è una ferita aperta, il margine di un’umanità che geme.
La drammaturgia dello spazio è resa ancora più eloquente dalla nudità di attori e attrici che, lungi dall’essere sadica emanazione di una regia demiurgica e fredda, rappresenta un segno vivo, una materia espressiva che si plasma grazie a calibrati tagli di luce. Nel chiuso perimetro del palco, grazie al disegno di Cristian Zucaro, si alternano stacchi di buio e brevi epifanie luminose: l’effetto è una giostra di chiaroscuri di toccante intensità, che ora accentua le superfici corporee degli attori, scolpendo i profili e le torniture muscolari con precisione barocca, ora invece tende a dissolvere i volumi, incidendo il vuoto con fulminanti impressioni cronofotografiche.
Nelle tenebre di questa caverna-mondo può succedere che esploda improvvisamente una musica ballabile e così di colpo la circospezione lascia il posto a una leggerezza che scioglie i muscoli. È l’unico segmento dello spettacolo in cui il silenzio si colora di suoni e le pareti si rischiarano; la melodia di Only you di The Platters trascina i corpi in una danza che vale come momentanea promessa di felicità. Le note vibrate del quintetto americano squarciano il velo di un’eternità spietata e stendono un tappeto nostalgico sulle assi del palco: prima che tutto precipiti nell’“absolutely nothing” della catastrofe, abbiamo il tempo di vagheggiare la possibile metamorfosi dei performer in “bestie di gioia” (Gualtieri 2010, 51):
Un sogno questo essere qui. Un battaglia
lieta, a volte con inciampo e bastonate.
[…]
Questo tremare dentro. Premere il pistone
centrale per un presagio di perdita –
cadere fra macerie così nostre
un presagio che distacca dallo scenario
la figura nostra e la pianta lateralmente
nelle solitudini. Nello zero.
Questo essere qui ha tutta l’aria
d’un nascondimento così perfetto
che si stacca dai cinque sensi
e scappa fuori dagli assi.
E quel tacere dei morti che non smette.
Bibliografia
Agamben [1995] 2005
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino [1995] 2005.
Bazin [1951] 1997
A. Bazin, La stilistica di Robert Bresson, in Antologia del pensiero critico, a cura di E. Bruno, Roma 1997.
Bernard 1986
M. Bernard, Quelques réflexions sur le jeu de l’acteur contemporain, “Bulletin de psychologie”, XXXVII (370), 1986.
Dante 2017a
E. Dante, Bestie di scena. Note di regia, Milano 2017.
Dante 2017b
Incontro con Emma Dante, a cura di A. Billò, S. Rimini, M. Sciotto, “Arabeschi”, 5 (10), luglio-dicembre 2017.
Deleuze 1996
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata 1996.
Douchet 1951
J. Douchet, Bresson on Location, in “Sequence”, 13, 1951, 8.
Gualtieri 2010
M. Gualtieri, Bestie di gioia, Torino 2010.
Lyotard [1971] 1988
J-F. Lyotard, Discorso, figura, [Paris 1971] Milano 1988.
Manzella 2017
G. Manzella, Quegli animali da palcoscenico che non se ne vogliono andare, “Il Manifesto”, 4 marzo 2017.
Schrader 2002
P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dryer, a cura di G. Pedullà, trad. it. di C. Raimo, Roma 2002, 54.
Sontag [1966] 1998
S. Sontag, Stile spirituale nei film di Bresson, in Ead., Contro l’interpretazione, Milano [1966] 1998, 259-284.
Vasta 2017a
G. Vasta, Bestie di scena. Conversazione con Emma Dante, “minima&moralia”, 1 marzo 2017.
Vasta 2017b
G. Vasta, Bestie di scena di Emma Dante: il discorso dello sguardo, “minima&moralia”, 18 ottobre 2017.
English abstract
Emma Dante is one of the most radical stage directors of the Italian contemporary theatre scene. With Bestie di Scena, which does not follow the traditional rules of staging, she has provoked ambiguous reactions among critics. This essay focuses on the theme of nudity as an expressive value and tries to identify the most evident links with painting and cinema.
keywords | Emma Dante; Contemporary theatre; Theatre; Bestie di Scena.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Rimini, Un teatro senza paraventi. Bestie di scena di Emma Dante fra privazione e iconicità, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 369-377 | PDF