Nelle scatole dei giochi da tavolo sono racchiusi – oltre alle plance, ai segnaposti, ai dadi, alle carte, alle clessidre – notevoli pezzi di mondo. L’alea della finanza (si pensi a Monòpoli), l’agone della guerra (Risiko!), e poi il mimetismo dell’avventura, la vertigine della paura, conditi di esotico, fantastico e fantasy, cadenzati dalla sfida della decrittazione, sono messi in scena sul ripiano di un tavolo per innumerevoli partite e attualizzazioni.
Anche il mondo dell’arte interseca talvolta quello del gioco in scatola offrendo ambientazioni per giochi di strategia e di pianificazione a sfondo finanziario, dove i giocatori vestono i panni di mercanti, mecenati, galleristi: è il caso per esempio dello storico Masterpiece e del più recente The Gallerist, ideato dall’autore portoghese Vital Lacerda. L’arte può essere il terreno per giochi di detection, il cui scopo è indagare su furti di opere d’arte avvenuti in musei più o meno immaginari; o per giochi di competenza e memoria, in cui la sfida è rispondere correttamente a una serie di domande, nel genere del Trivial Pursuit. A volte dietro la progettazione di questi giochi destinati al pubblico adulto ci sono musei e fondazioni, case editrici d’arte e non di rado sono coinvolti artisti e illustratori di vaglia.
Per forza di cose, giochi di questo tipo si muovono – ognuno a suo modo – nello spazio di coesistenza e di scambio fra i discorsi e le figure, le immagini e le parole, invitando i giocatori a passare dalle une alle altre per raggiungere o eludere l’obiettivo.
Scelgo due esempi, fra i tanti, dove questo passaggio dalle figure (riproduzioni di opere celebri, dettagli, immagini d’autore) ai discorsi (nomi e cognomi, singole parole, micro-storie) emerge in modo consistente: nel primo esempio il giocatore è chiamato a “riconoscere” la figura di un artista inferendo il suo nome da un gruppo di indizi visivi disegnati su una carta; nel secondo esempio il giocatore è chiamato a “far riconoscere” un’immagine – sempre disegnata su una carta – alla maggior parte dei suoi compagni di partita (ma non a tutti), dando parola a delle immagini in modo non univoco, che lasci spazio ad ambiguità, equivoci, coesistenza di soluzioni. Nel primo caso, la lettura delle immagini conduce a un nome e solo a quello, passando per associazioni e conoscenze pregresse; nel secondo caso, la lettura delle immagini permette una pluralità di esiti, che dipendono dal confronto con immagini somiglianti, e includono anche il depistaggio, come vedremo fra poco, da parte degli stessi giocatori.
Riconoscere
Il primo gioco in questione si chiama Guess the Artist. The Art Quiz Game: è un gioco in scatola uscito nell’agosto del 2017 presso la casa editrice inglese Laurence King Publishing, specializzata in libri e giochi sulle arti figurative. Scritto da Robert Shore – che ne ha condotto le ricerche storico-artistiche – il gioco consiste di 60 carte, ognuna delle quali presenta tre disegni che alludono a un artista. Sessanta protagonisti, scelti dal Rinascimento all’attualità, dall’Oriente all’Occidente, bilanciando presenze femminili e maschili, sono condensati ciascuno nello spazio della carta (18x12 cm) attraverso tre “visual clues”, tre indizi visivi che devono condurre i giocatori a ripescare nella loro conoscenza dell’arte mondiale l’artista di cui si tratta.
La scatola dove sono raccolte le carte non contiene né foglietti con le regole né segnapunti, lasciando dunque liberi di allestire sfide competitive o personali di questo “entertaining after-dinner game”, come viene definito dal punto di vista merceologico e pubblicitario. Le sessioni di gioco consistono dunque principalmente in verifiche delle proprie nozioni e del proprio intuito nel collegare le immagini a ricordi o informazioni utili a decifrarle.
Un esempio facile: un cipresso, un orecchio, una bottiglia verde con la scritta Absinthe sono ampiamente (universalmente, forse) riconducibili a Vincent van Gogh. Un esempio meno facile: un letto sfatto, una tenda, la scritta “Stuck, Stuck, Stuck” rimandano – per chi ne sappia qualcosa – all’artista britannica Tracey Emin, fra le cui opere spiccano My Bed (1998) e la tenda con i nomi di tutte le persone con cui ha condiviso il sonno (My Tent, nota come Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995).
In entrambi i casi, le icone si riferiscono a opere e a episodi più o meno celebri della vita dei due artisti, senza alcun riferimento al loro stile autografo, che sia pittorico o installativo. Tutti i 180 disegni delle carte infatti – il cipresso, la tenda, la bottiglia ecc. – recano il marchio molto evidente dei due illustratori che li hanno realizzati: Craig Redman e Karl Maier. Originari dell’Australia, hanno diffuso nell’editoria e nella grafica statunitense e inglese il loro stile peculiare, basato sull’idea della sintesi e della semplificazione: “We try to reduce things down to the most simplistic forms that we can. Take away all the unnecessary elements”.
I loro disegni sono piatti, sintetici e dal forte contorno in neretto, il colore di fondo è acceso e netto e le aree sono riempite da pattern a righe o a pois. A parte alcuni sporadici casi, come quello del pittore pop Roy Lichtenstein o della giapponese Yayoy Kusama, dove i puntini usati da Craig & Karl somigliano parzialmente al linguaggio dei due artisti trattati, per il resto lo stile dei due disegnatori riconduce tutte le figure a una dimensione e a una facies uniformi. Che si tratti di un dettaglio o di un intero, di un oggetto grande (un aereo, una montagna) o piccino (una lepre, una pillola), quello che vediamo sulla carta è un tris di figure coerenti, sagome di un dizionario visivo attuale, dove il rinoceronte di Albrecht Dürer convive – nella carta dedicata all’artista tedesco – fianco a fianco con la C cerchiata di copyright (che si riferisce alla disputa con Marcantonio Raimondi sulla riproducibilità delle sue stampe).
Il criterio con cui gli indizi sono scelti contempla sempre un soggetto ricorrente, un episodio biografico, un particolare. A volte, la figura va presa “in parola”: è il caso per esempio della carta dedicata a Andy Warhol dove – accanto a una scarpa rossa e a una sedia elettrica, iconografie tipiche dell’opera dell’artista – vediamo un edificio con la ciminiera fumante; se lo consideriamo alla stregua di un soggetto delle opere di Warhol andiamo fuori strada, ma se leggiamo la figura col suo nome (“factory”), l’indizio suggella la carta identitaria di Warhol, con riferimento al nome del suo studio newyorkese.
In piena ottica edutainment, ogni carta riporta poi nel verso la spiegazione delle tre figure scelte come indizi, i dati anagrafici del protagonista e un “extra fun fact”, un aneddoto curioso estratto da vicende biografiche e mondane, contenuto nel box “Did you know?”. E a mano a mano che si procede nella decifrazione delle carte, ci si accorge che la sintesi visiva dei disegni corrisponde a una analoga sintesi informativa, che riguarda la soglia fluttuante di informazioni storico-artistiche necessarie per godere di questo gioco, passando dalle tre figure stilizzate al nome che rende coerente, efficace e “parlante” la loro vicinanza.
Far (e non far) riconoscere
Un altro gioco che ha il suo fulcro nelle immagini – immagini che nel corso della partita devono essere tradotte in parole, racconto, segno non visivo – ha come titolo Dixit. Uno dei giochi da tavolo più versatili degli ultimi anni, usato anche in laboratori di psicoterapia e di narrazione, Dixit (prodotto in Francia da Libellud e distribuito in Italia da Asterion), è stato ideato nel 2008 dallo psichiatra infantile Jean-Louis Roubira, ha vinto nel 2010 il premio tedesco Spiel des Jahres ed è stato rilasciato da allora in molte lingue, aggiornato e arricchito.
Il gioco originario ha il suo centro in un mazzo di carte da 8x12 cm., su cui sono riprodotte a colori scene oniriche, interroganti, misteriose, realizzate dall’illustratrice Marie Cardouat. Nata nel 1981, formatasi a Strasburgo e Parigi, nei suoi disegni si intravede la cultura visiva surrealista e la grande lezione di Folon, amalgamate e rielaborate per adattarsi al genere peculiare di un board-game, dove il modulo è costituito dalle singole carte e la plancia è un territorio fiabesco in cui si muovono - come segnaposti - dei coniglietti di Wonderland.
A turno, un giocatore svolge la funzione di 'narratore': dopo aver scelto una carta, ha il compito di descrivere – interpretandola liberamente – la scena rappresentata in essa, senza mostrarla. Gli altri giocatori, che hanno in mano 6 carte ciascuno, scelgono fra di esse quella che più si avvicina alla descrizione del narratore e gliela passano, anche loro senza mostrarla agli altri. Le carte vengono quindi mischiate e infine scoperte: è il momento per tutti di individuare quale era la carta descritta dal narratore all’inizio; a quale delle immagini disposte sul tavolo si attaglia la parola, la frase, la breve narrazione (talvolta, volendo, accompagnata da gesti e suoni) pronunciata dal narratore in esergo della partita.
Diciamo subito che il gradiente di soddisfazione del gioco è proprio nell’incertezza di questa attribuzione. E le istruzioni che accompagnano la scatola di Dixit (il cui sottotitolo e motto è “Un’immagine vale mille parole”) lo dicono subito, illustrando la regola che indirizza l’ekphrasis molto speciale che viene richiesta: “Se la frase del narratore descrive l’immagine in modo troppo preciso, gli altri giocatori indovineranno facilmente e lui non otterrà alcun punto. D’altra parte, se la frase ha poca attinenza all’immagine, è probabile che nessuno voti la sua carta e dunque potrebbe non ottenere punti lo stesso”.
Senza entrare nei tecnicismi del punteggio, chi ha giocato a Dixit sa quali conseguenze comporta questa regola paradossale: descrivere un’immagine in modo che la sua riconoscibilità possa lasciare adito a un’incertezza, inducendo i giocatori a oscillare – nella loro scelta – fra diverse immagini affini, imparentate per caso – lì e allora – da un elemento, un dettaglio, un colore, un’ambientazione.
La frase “cuore scuro” per esempio può riferirsi per il narratore alla carta con un orco gigante, ma se qualche altro giocatore in quella sessione ha avuto in sorte – e ha giocato – la carta con l’alchimista, ecco che la stessa frase può essere riferita a questa figura, connotata, nel disegno della Cardouat, da un piccolo cuore nero, che può sfuggire a un primo sguardo. La frase “mondi in miniatura” può descrivere in prima battuta la carta con minuscoli universi nelle gocce d’acqua, ma anche quella che mostra un pallottoliere con i pianeti al posto delle sfere. E così avanti, in innumerevoli combinazioni di carte, che si avvicinano e si allontanano a seconda della frase che viene pronunciata dal narratore all’inizio di ogni sessione di gioco e in virtù delle carte accostate sul tavolo dagli altri giocatori di volta in volta. Spesso chi gioca a Dixit non lo fa per raggiungere per primo il traguardo dei 30 punti, segnato sulla plancia, ma per il gusto del depistaggio e della dissimulazione, per il piacere di permanere nell’indecisione e poi per quello di ascoltare i motivi e le anamnesi delle descrizioni e delle scelte altrui.
Dixit ha avuto negli anni diverse “estensioni”, con nuove serie di carte realizzate da diversi illustratori; c’è perfino una serie dedicata a un classico del depistaggio, l’Odissea.
E poi l’atlante in scatola
Non è un board-game, eppure è fatto di tavole e di carte con immagini riprodotte, raccolte in una scatola; non è un gioco di società, né tantomeno un gioco di ruolo, eppure viene attivato intorno a un tavolo da gruppi di studiosi in sessioni immersive, con la concentrazione di chi – come si legge nel libro di Vannoni, La stanza profonda in riferimento ai giocatori – “sta tessendo un mondo che può esistere solo nel cloud, nello spazio mentale condiviso” (Vannoni 2017, 73). Il riferimento è al catalogo a schede delle mostre dedicate all’Atlante Mnemosyne di Warburg (in versione tedesca: Dölling und Galitz Verlag, 1994; e italiana: Artemide Edizioni, 1998) raccolte in un cofanetto cartonato telato blu con sovrimpressioni in rosso.
Le tavole sono riprodotte su fogli sciolti, “maneggevoli e produttivamente disordinabili”, così da rappresentare “il primo passo verso la riappropriazione da parte di studiosi, warburghiani e non, di uno strumento di ricerca potenzialmente eccezionale”. Le tavole estraibili dal contenitore una a una, in sequenze e combinazioni diverse, aggiungono al tavolo da lavoro la dimensione di un tavolo da gioco, nel senso profondo di un territorio effettivo di mosse, azioni e reazioni, successi e catastrofi che accadono fra le tavole e chi le posiziona, fra i temi delle immagini e le loro relazioni. Le singole sessioni di questa attività modificano l’assetto del gioco per gli altri partecipanti (remoti o vicini), chiudendo e aprendo a riconoscimenti e a connessioni, attribuendo nomi e cognomi agli autori, descrivendo con margini di proficua incertezza le figure, lasciando che le immagini prendano la parola nello spazio mentale di chi accetta questo invito al tavolo e alle tavole.
Intanto, nel web, la descrizione a parole di immagini mostrate a giocatori distanti e che non si conoscono alimenta giochi che hanno scopi rilevanti per il riconoscimento automatico di forme, figure, sfumature, contesti. E questa è un’altra partita dell’incontro fra immagini e parole.
Bibliografia
- Bartezzaghi 2016
S. Bartezzaghi, La ludoteca di Babele, Utet, Torino - Caillois [1958] 1995
R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, tr. it. Bompiani, Milano - De Luca 2011
E. De Luca, Dizionario dei giochi da tavolo, Libellula edizioni, Tricase - Dossena 1984
G. Dossena, Giochi da tavolo, Mondadori, Milano - Dossena [1999] 2009
G. Dossena, Enciclopedia dei giochi, 2 voll. edizione ampliata e aggiornata a cura di Dario De Toffoli, Mondadori, Milano - Lyotard [1971] 2008
J.-F. Lyotard, Discorso e figura, tr. it. Mimesis, Milano - Santoni 2017
V. Santoni, La stanza profonda, Laterza, Roma-Bari
English abstract
Many board games deal with art, art history, famous painters and art images: they can be strategy games where players participate in auctions, negotiate to trade works of art and deal works through galleries; they can also be quiz games, where players have to answer questions or guess the names of artists by interpreting visual clues. Art images are involved also in games where description and story-telling are required. In every case, the “translations” of images in words is a pivotal activity. This article analyses two examples of recently released games, where the relationship between images and words is fundamental. The first one is Guess the Artist. The Art Quiz Game (Laurence King Publishing 2017) where the players have to guess 60 artists, “reading” and interpreting three visual clues sketched on cards by Craig Redman and Karl Maier. The second example is the French board game Dixit (Libellud 2008), designed by Jean-Louis Roubira. In this game, based on a set of visionary cards drawn by illustrator Marie Cardouat, the player acting as the storyteller gives a word or a sentence to describe one of the images. In order to succeed, the description has to be clear to most of the other players, but not to all of them, leaving a degree of uncertainty between the realm of the image and the realm of words.
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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Sbrilli, La parola all’immagine: facciamo il nostro gioco, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 399-406 | PDF