"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

155 | aprile 2018

9788894840339

Il riuso delle chiese chiuse: un problema, un‘opportunità

Don Gianmatteo Caputo

English abstract

San Fantin, progetto fotografico Chiese Chiuse, Sissi Cesira Roselli, Venezia 2015.

Uso e riuso dei luoghi di culto: questo tema può essere oggetto di diversi approcci. La scelta di affrontare la questione in modo pragmatico e non sistematico è data dal voler offrire più rispetto ai temi fondamentali della cultura del recupero, partendo da un approccio metodologico molto diverso, più discorsivo-narrativo. Il tema del riuso della chiese ha infatti implicazioni enormi dal punto di vista culturale, conservativo, giuridico, sociale, e ogni singolo aspetto richiederebbe una trattazione a sé. Anche solo le implicazioni derivanti dal regime proprietario delle chiese rispetto alla destinazione originaria che ne vincola la facoltà di utilizzo alla Chiesa come istituzione, apre già una serie di scenari e considerazioni che possiamo solo suggerire ma non affrontare approfonditamente. L’analisi del tema parte quindi dallo specifico ‘caso Venezia’ che è quello nel quale mi trovo ad operare più direttamente in qualità di delegato del Patriarca per il patrimonio ecclesiastico e per tutto ciò che implica la conservazione del patrimonio delle chiese della nostra diocesi. Tenterò quindi una sintesi rispetto a casi storici di trasformazione e una illustrazione del processo avviato negli ultimi anni che porterà anche a un uso differente di alcune chiese.

La prima considerazione è che questo non è un problema recente e neppure esclusivamente italiano, tanto da essere stato oggetto di studio durante l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nel maggio del 1989, con una sessione in cui si indicarono i luoghi di culto come i luoghi dove sono più palesi testimonianze e principi fondatori del patrimonio culturale comune degli Stati membri della Comunità Europea. Si invitavano inoltre tutti coloro che avessero interesse a cooperare per la salvaguardia di questi edifici e per la promozione di progetti e anche per un uso a loro compatibile. Chiaramente l’intervento della Comunità Europea non era di tipo confessionale e interessava i luoghi di tutte le espressioni e le realtà religiose presenti in Europa. La collaborazione doveva mirare a una condivisione delle modalità partecipative dei diversi Stati e soggetti istituzionali, non solo in termini economici, per evitare in ogni modo la dispersione di questo patrimonio culturale delle diverse fedi. In Italia il problema della conservazione e della tutela era stato posto già prima, nel 1984, quando in sede di Concordato si riconobbe il valore civile dei luoghi di culto e si sottolineò quindi la necessità oltre che di salvaguardarli anche di favorirne la tutela con un uso e una fruizione pubblica che ne evitasse il degrado e l’abbandono, che sarebbero un danno per la stessa comunità civile.

Quando parliamo di luoghi di culto non va dimenticato che oltre al patrimonio artistico-architettonico ci si riferisce anche all’orizzonte dei beni immateriali, che la stessa UE ha in diverse circostanze riconosciuto. Valutare quindi il contesto, le azioni (i riti) e i tempi (festività e tradizioni) non è quindi un’opzione ma una necessità concreta per definire e riconoscere il bene culturale in quanto tale, in relazione al suo contesto. Definire cosa sia un luogo di culto ed il complesso del suo contesto simbolico rituale non è quindi operazione inutile per definire cosa dovrà essere oggetto di conservazione. Nella coscienza comune, spesso anche di molti credenti, il luogo di culto non è ancora compreso come lo spazio che ‘performa’ la liturgia. Fondamentalmente le chiese cristiane cattoliche sono uno spazio ‘agìto’, nato per la liturgia ed in funzione di essa e da essa stessa ‘formate’. Dovendoci occupare di chiese non più usate per il culto (per le più diverse ragioni) tale premessa dovrà essere sempre tenuta presente. Essere messa da parte. Queste sono le chiese delle quali intendo parlare nell’ambito della situazione veneziana, chiese che quindi hanno perso la loro raison d’être, cioè il culto. La prova che non si capisca che la liturgia è l’elemento fondante delle chiese si può cogliere nel numero esiguo di adeguamenti liturgici delle chiese antiche dopo la riforma liturgica del Vaticano II, cioè da cinquant’anni in qua.

Le chiese sono gli edifici più trasformati nell’arco della loro storia proprio perché la vita liturgica delle comunità le ha modificate, adattate e adeguate costantemente, rendendole palinsesti di stili e di tecniche: ma nel post Concilio (Vaticano II) queste trasformazioni, come l’altare girato verso l’assemblea (coram populo) sono state rarissime per le chiese veneziane, con inserimenti temporanei di arredo e non con interventi strutturali. Si è spostata la cattedra, spostato l’altare, aggiunto un leggio che fa da ambone: solo interventi minimali. Raramente è stato elaborato un progetto, segno che la chiesa è concepita come uno spazio già definito e statico, arredato riccamente. Persino la visita artistica delle nostre chiese viene vissuta con questa prospettiva quasi museale: vengono cioè visitate e fruite solo esteticamente e, in un certo senso, potremmo definire questo un primo riuso ‘scorretto’ dei nostri luoghi di culto, poiché fuori dall’azione liturgica esso rappresenta una sorta di primo abuso che se ne fa. Spesso, infatti, ci si riferisce alle chiese con un concetto molto generico di sacro, mentre in realtà la domus ecclesiae (che già nel nome ricorda di essere adattamento di un luogo precedente con altro significato e valore) sorge in funzione dell’azione liturgica; non sono quindi riferimenti in qualche modo devozionali, spiritualistici, che devono essere cercati all’interno delle sue pareti, ma ciò che connota lo spazio in funzione dell’azione liturgica. Le chiese quindi, anche quelle non più destinate al culto, hanno sempre la capacità di esprimere il loro genius loci proprio perché sono uno spazio caratterizzato da un’azione, uno spazio performato, creato per quella performance che è l’azione celebrativa. Pertanto questo spazio ha anche una valenza evocativa dell’azione liturgica anche quando essa si è conclusa o non è in atto. Diverso è collocare nelle chiese nuove un leggio per la proclamazione del Vangelo, che con la sua forma potrebbe far pensare a diverse funzioni, oppure realizzare un ambone, che non è un semplice arredo di supporto di lettura ma un luogo, uno spazio che simbolicamente rappresenta e ricorda l’annuncio del Vangelo che è memoria della resurrezione. Per questo gli amboni sono elementi monumentali che in gran parte ricordano il sepolcro vuoto, lo spazio della novità della tomba vuota.

Simbologia e funzionalità si intrecciano nelle chiese ed è per questo che obliterare o cancellare la loro funzione liturgica rischia di far perdere il loro valore culturale insieme a quello cultuale. In passato nelle chiese si entrava solo per le celebrazioni, non c’era l’idea della visita, casomai quella del pellegrinaggio attraverso luoghi che portavano a una meta. Ora, a causa del turismo di massa, le chiese hanno assunto un modello di visita proprio dei musei. Fruite spesso come pseudo-musei, le chiese vengono assimilate ad essi anche quando pensiamo al loro riuso o al nuovo, con il rischio di salvaguardarne l’aspetto artistico estetico, non la valenza cultuale, che rappresenta la loro bellezza che risiede proprio nel rapporto tra forma, contenuto e azione; non a caso si parla di ars celebrandi, cioè l’arte del celebrare. È la celebrazione, il rito il primo elemento artistico di una chiesa, prima ancora dell’arte che sta all’interno. E il dialogo tra arte, spazio e azione diventa fondamentale, tanto che mi piace definire le chiese spazi agìti, uscendo da quella logica di sacro e profano che talvolta ci costringe a usare questi termini in maniera impropria.

La sacralità ha una dimensione assai più concreta e reale di quanto si pensa comunemente: se ci riferiamo all’esperienza, il visitatore che entra in una chiesa è attratto da elementi molto più sensibili e concreti di quanto solitamente pensiamo. La liturgia è fatta di parola, visione, profumo, gestualità, nutrimento. Nella logica dell’incarnazione, i cinque sensi sono tutti coinvolti in un’azione di cui il luogo è contenitore che partecipa attivamente trasformando e trasformandosi in funzione dell’azione stessa. È per questo motivo che sostengo che una chiesa andrebbe visitata durante l’azione liturgica, affermazione paradossale visto che quello è il momento in cui noi invitiamo i turisti a non entrare: ma credo sia opportuno ricordarlo perché se la celebrazione è la ragione d’essere della chiesa, quello è il momento epifanico del suo vero valore. Senza celebrazione e rito le chiese sono come stadi vuoti, dove mancando l’azione si perde gran parte del loro significato. E di conseguenza questo vuoto, rispetto al tema del nostro convegno, finisce con lo svuotare la vita di quello stesso luogo.

Ecco allora la vera domanda: che cosa vogliamo salvaguardare? Stiamo salvando soltanto un luogo o stiamo salvaguardando anche chi lo vive, lo partecipa, lo rende dinamico e in qualche modo significativo? La Conferenza Episcopale Italiana – per la quale ho svolto l’incarico di responsabile scientifico degli inventari informatizzati delle diocesi italiane – già nel documento “I beni culturali ecclesiastici in Italia. Orientamenti” del 1992 aveva posto la questione dei luoghi di culto in disuso come problema anche urbanistico; il destino dei singoli edifici, soprattutto nei centri storici o immersi nell’ambiente naturale, dipende da scelte che sono certamente pastorali ma anche amministrative e politiche e richiedono strumenti, come i piani regolatori, i comprensori ecc. Pur richiamando la possibilità di un “uso profano non indecoroso” come ricordato dal Codice di Diritto Canonico, il documento parla del mutamento di destinazione delle chiese come soluzione estrema, privilegiando l’uso continuativo in conformità alla destinazione originale. Questo non perché tradizione significa conservazione, ma perché tradizione significa trasmissione di quel patrimonio nel suo significato più vero e più autentico, che rischia di andare perduto quando vi sono cesure troppo forti rispetto al significato originario. La CEI parlava di cambiamento di destinazione d’uso anche rispetto all’ipotesi di offrire le chiese per altri culti.

A Venezia, stiamo già sperimentando forme di concessione a comunità linguistiche di tradizione Ortodossa: Sant’Andrea de la Zirada, San Beneto, sono fra le chiese offerte a comunità numericamente importanti nella nostra città, che richiedono anche un’attenzione ed un servizio pastorale che possono essere svolti dalle loro comunità d’origine. In questo senso quindi la continuazione dell’uso cambia il suo valore formale, ma rimane coerente rispetto alla destinazione originaria. La seconda possibilità di riuso delle chiese è nell’ambito culturale, come sedi di attività artistiche, di biblioteche, di archivi, di musei. La Chiesa veneziana ha operato molto in questo ambito favorendo una serie di proposte, di progetti anche temporanei, che io preferisco chiamare esperienze, piuttosto che esperimenti, perché realizzate avendo ben chiari mete e obiettivi. Fra le altre ricordo la scelta di trasformare una chiesa in una grande biblioteca/sala lettura che conteneva di libri di spiritualità e di libri d’arte legati a Venezia. Curioso notare come chi frequentava questo luogo fossero in prevalenza veneziani nella pausa pranzo del lavoro. È significativo perché dimostra come la città e i cittadini possano riappropriarsi di alcuni luoghi proprio in ragione di un uso differente ma utile e nuovo che viene loro proposto, in una città che sembra trasformarsi esclusivamente per fini turistici. Una chiesa monumentale (San Giovanni Novo) di Venezia è destinata ad archivio documentale, mentre un’altra a deposito di opere e arredi (Sant’Aponal), perché Venezia ha anche il problema di non avere grandi spazi per il ricovero di cose e di documenti. I documenti CEI che affrontano il tema del riuso accennano anche alle temporanee destinazioni d’uso, sempre preferibili, si dice, all’alienazione dell’edificio.

Il Patriarca attuale, mons. Francesco Moraglia, già alcuni anni fa aveva indicato la necessità di pensare anche ad un uso caritatevole delle chiese dismesse. Al di là della giusta indicazione, che ricorda come la carità sia la modalità più efficace che la Chiesa ha per mostrare la sua immagine più autentica, è difficile pensare a chiese trasformate in mensa dei poveri o dormitorio per le complesse implicazioni conservative e per le necessità che derivano da tali usi: solo occasionalmente o estemporaneamente tali usi sono possibili a motivo di emergenza. Ma non vi è ancora una riflessione matura in proposito. Riguardo al riutilizzo per fini culturali, le chiese hanno visto una casistica assai più ricca e variegata, anche se non sempre accompagnata da una progettualità precisa. L’uso per concerti musicali non chiede interventi strutturali: la musica è nata in ambito liturgico rituale, e in qualche modo lì dovrebbe trovare il suo contesto più originario. Se però guardiamo ad alcuni concerti realizzati nelle chiese ci accorgiamo che possano apparire come abusi del luogo per la performance. Anche l’arte può entrare nelle chiese utilizzandole come meri contenitori, spesso con allestimenti inopportuni e banali. Ma gli usi diversi possono giungere a casi estremi, come quello di una chiesa tedesca trasformata in luogo per l’allenamento con gli skateboard, o teatri, banche, locali per la ristorazione.

Nelle varie possibilità e occasioni di riuso la stravaganza delle proposte oscilla fra la provocazione e la totale indifferenza rispetto all’uso originario. Spesso si ignora il contesto, quello che invece potrebbe guidare verso soluzioni che permettano di non smarrire il significato originale di questi luoghi. Nell’uso delle chiese per gli eventi collaterali della Biennale, abbiamo cercato di creare proposte che nascano come eventi site-specific, cioè con interventi nei quali il luogo continua a dire che cos’è. Personalmente rifiuto e respingo le richieste di eventi collaterali nelle chiese quando esse vengono obliterate o ignorate in funzione di un allestimento che le usa come un contenitore anonimo. Mentre cerco di far comprendere agli artisti con cui mi trovo a collaborare che il loro intervento artistico deve dialogare con la chiesa, andando ad aggiungerle un valore, così come la chiesa aggiunge significati e valori alle loro opere o allestimenti. Anche questo è un uso nel quale la chiesa può recuperare un nuovo valore e significato nuovo. Durante la Biennale alcune chiese come ‘Padiglioni Paralleli’ incrociano l’arte contemporanea che usa lo spazio introducendo tecniche e linguaggi che si inseriscono come parabola nell’originaria performance rituale che è di tipo poietico e liturgico insieme.

Negli anni abbiamo quindi ospitato diversi artisti che si sono lasciati ispirare e interrogare dalle nostre chiese: penso a Bill Viola con la mostra Ocean without a shore a San Gallo; Oxana Mas, con la quale abbiamo addirittura sfruttato il cantiere della chiesa di San Fantin per allestire la sua installazione ispirata alle uova della tradizione pasquale ortodossa; Lech Majewski e il suo film sulla passione ospitato a San Lio; Erik Mátrai, artista ungherese che ha costruito la sua opera con l’acqua e il suo valore creativo e liturgico; Anish Kapoor e il filo di fumo a San Giorgio; Ai Weiwei, esperienza di un allestimento a distanza per l’impossibilità dell’artista di lasciare il suo paese, che ha vissuto la chiesa come spazio libero per narrare la sua esperienza di recluso; Conversion, opera particolarissima di Recycle Group, artisti russi che hanno lavorato sulla dipendenza che oggi abbiamo da tutto ciò che è tecnologico tanto da vivere una sorta di nuova religione dove l’assoluto, la ‘sapienza’, in altre parole il divino è stato sostituito dalla cloud e il simbolo di Facebook è la nuova “croce” per la nuova religione che stiamo vivendo. Anche Patricia Cronin, con Shrine for girls, ha realizzato nel 2015 una installazione su un tema di estrema attualità, la violenza sulle donne, rileggendo lo spazio come luogo di meditazione e contemplazione nel quale riflettere sulla condizione femminile, poggiando sugli altari abiti di diversi contesti culturali appartenuti a donne che avevano subito violenza. A San Lio abbiamo offerto all’artista Silke von Gaza la possibilità di lavorare per quattro mesi all’interno della chiesa, dipingendo come gli artisti nel rinascimento, per realizzare un’opera informale sul senso del limite fra umano e divino.

Esperienze artistiche come queste non rappresentano progetti strutturali di riuso delle chiese ma soluzioni temporanee condotte nel rispetto del contenuto e del valore simbolico originario. Un intervento strutturale invece che porterà al riuso della chiesa di San Fantin sarà realizzato dopo una attenta verifica con la Soprintendenza che consentirà di inserire un pavimento flottante riscaldante ed una illuminazione a led innovativa. Soluzioni tecnologiche che consentono di superare due ostacoli presenti nel riuso dei luoghi di culto, la climatizzazione e l’illuminazione. Anche al Tempio Votivo del Lido, edificio del Torres costruito alla fine della Prima Guerra Mondiale, è previsto un intervento che, nel portare a compimento il progetto iniziale mai concluso, consentirà di aprirlo a vantaggio della comunità locale che non vi ha mai potuto accedere.

Se ho voluto sottolineare i casi di riuso che non dimenticano la destinazione originaria del luogo di culto è perché penso che solo in questi casi si possa realmente parlare di riuso delle chiese: in tutti gli altri casi la dimensione cultuale è ignorata al punto tale che si può parlare di riuso degli spazi, non della chiesa. L’edificio non è tanto sconsacrato o desacralizzato quanto cancellato nella sua funzione simbolica che comunque continuerà ad emergere e che alla fine sarà necessario nascondere per affermare il nuovo uso. La funzione nuova sarà quindi indifferente al luogo e viceversa, come accade nel riuso di spazi di risulta. Lo spazio sacro con le sue caratteristiche evocative continua a parlare di culto anche quando il culto è assente; per questo motivo è sempre opportuno evitare cesure, cercare di trovare legami tra l’uso originario e quello nuovo, non limitandosi a salvaguardare il contenitore, ma anche la comunità che ad esso si riferisce. Talvolta il nuovo uso implica lo svuotamento da cose e persone, creando anche un ulteriore problema. Le opere rimosse perdono il loro contesto originario e così ci troviamo a dover risolvere un’altra questione, quella del contest-specific di queste opere, ovvero del contesto originario di quei cicli pittorici che nascono con una funzione altrettanto precisa, narrativa, o di pale d’altare che hanno le loro stesse cornici in altari marmorei. Qui si aprirebbe un ulteriore tema: quello della inamovibilità di alcune opere pertinenziali, che perdono la loro valenza culturale anche soltanto con la loro movimentazione.

Problema complesso quindi quello del riuso delle chiese, che apre a ventaglio una serie di questioni che vanno affrontate ancor prima di pensare a che cosa farne di questi luoghi fortemente simbolici e decisamente caratterizzati. Certamente la condizione attuale di alcune chiese chiede di avviare un processo che le tolga dallo stato di abbandono per farle rivivere come luogo di incontro. E se consideriamo che nella coscienza comune le chiese sono luoghi per l’incontro con Dio, forse dobbiamo pensare che tutti, credenti e non credenti, di quei luoghi dobbiamo salvaguardare quella ricerca di significato ulteriore del quale siamo tutti responsabili.

English abstract

The theme of the reuse of churches has enormous implications from a cultural, conservative, legal and social point of view. The dialogue between art, space and action becomes fundamental in the churches, which I define “acted spaces”, thus getting away from the logic of sacred and profane. The Venetian Church has worked extensively on this theme, favouring a series of proposals, of temporary projects, which are better expressed as experiences rather than experiments, because they are realized having clear goals and objectives.

keywords | churches, reuse, Venetian Church. 

Per citare questo articolo/ To cite this article: Don G. Caputo, Il riuso delle chiese chiuse: un problema, un’opportunità,  ”La rivista di Engramma” n.155, aprile 2018, pp. 51-60 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.155.0007