Matteo Brega
Simbolo e desiderio: tecniche di attrazione
Riflessioni sulla dialettica tra simbolo e desiderio nell'immaginario postmoderno
Ancora una volta è il tempo a rivelarsi il fattore determinante. Non soltanto per ciò che attiene il suo ricorso obbligato verso il quale siamo condotti per poter scandire, ricordare, programmare i fatti dell'esistenza, ma specialmente in forza della sua natura di strumento, strumento per eccellenza della conoscenza umana. L'"essere immersi nel Tempo" di cui parlava Proust, la costante sensazione di oscillare e di esistere nell'oscillazione in funzione di un prima e di un dopo, conferisce al tempo la dignità divina che dai tempi dei Greci non ha mai abbandonato quel riposto luogo del nostro inconscio nel quale Crono da sempre trae nutrimento archetipico. Tempo dunque come 'casa dell'essere', ma non potendo spingerci troppo oltre nella sua indagine, come ammoniva Agostino, ci siamo accontentati di andare alla ricerca di altre case, più accessibili, più abitabili, che fungessero maggiormente da 'tetto sulla testa' anche a costo di imbattersi in luoghi difficilmente arredabili quali la poesia o in genere l'arte. Fare altresì del linguaggio la 'casa dell'essere' significa identificare l’ermeneutica della realtà con la realtà stessa e, al contempo, professare quel disperato ottimismo sospinto ogni minuto dalla constatazione che alla base del pensiero esista un idem sentire. Sensismo ed empirismo, dunque, come condizioni minime del razionalismo, questo sembra oggi l'approdo spurio di un'estetica che voglia tentare l'impresa di confrontarsi con ciò che appare, con la superficie, con l’insieme di forme che sottostanno a quella particolare postmoderna eterogenesi dei fini che le costringe, seppur nate sotto auspici concettuali o razionali o estetizzanti, ad assumere agli occhi del fruitore, sempre più accidentale e sempre più accidente nei confronti dell'opera, una sovrabbondanza simbolica che, nell'enormità crittografica dell'ipertesto nel quale la postmodernità ci immerge, tutto rende al contempo leggibile ed illeggibile in relazione a contesti simbolici che si specificano sempre di più approfondendosi via via in sottoinsiemi, rimandi, gerghi che un tempo erano lingue e lingue che inevitabilmente nacquero come gerghi, a sottoscrivere una certezza di significato tanto più incrollabile quanto legata al tempo di durata in vita dei simboli che la compongono.
La serie di problemi impliciti, risolti attraverso la censura o la deliberata scelta di non affrontarli per non dar loro dignità di esistenza, ha non di rado contrassegnato le dinamiche simboliche di massa dal dopoguerra in poi. Il doppio movimento di avvicinamento tra le modalità di produzione di massa da una parte, e le masse potenzialmente già trasformate in consumatori ha conosciuto con la Seconda guerra mondiale una battuta d’arresto, presto tramutata dalla saggezza dei sistemi di produzione in condizione propulsiva per la successiva acquisizione di massa del desiderio, e per la sua conseguente simbolizzazione. Se le analisi francofortesi si fossero rivelate predittive la questione della simbolizzazione del desiderio si sarebbe progressivamente trasformata in un nucleo problematico sempre più limitato all’interno del più grande sistema storico-economico. In realtà non è il simbolo a dirigere il desiderio così come non è il desiderio a orientare il simbolo. Si tratta invece di un difficile dialogo tra stranieri, probabilmente basato su usi reciproci e mutue gratificazioni, che si fa strada tra fallimenti, scarsa efficacia e miracolose e sontuose intuizioni, per giungere a dare forma a singolari formazioni sedimentali. Interessante notare come il simbolo, una volta entrato nell’immaginario e cioè una volta entrato nell’incessante processo di decodificazione, cessi di derivare dall’idea primaria che lo ha generato e inizi a dileguarsi attraverso le prospettive multiple delle categorie interpretative delle culture che lo ospitano. Come un microrganismo ospitato in un organismo linguistico ospitante che tenta di adattare i propri recettori a formazioni nuove, attraverso una continua superfetazione di significati. Il significato approda al suo destino dileguandosi nel grado zero dell’interpretazione che, ben lungi dall’essere l’insignificante, è l’eterogenesi dei fini significanti che porta embricati in sé sin dalla sua genesi. È la sede dell’Istituto di Cultura italiano a Tokyo, nato e pensato per essere massimo simbolo del massimo del simbolizzabile (la cultura) in terra straniera – forse la più straniera delle terre straniere: la capitale pseudoccidentalizzata dell’Estremo Oriente – ma letto come un inaccettabile orribile insulto a causa del suo colore rosso. Qui il simbolo non viene frainteso in base ad una errata traduzione – come potrebbe avvenire in un dibattimento processuale con uno straniero, ad esempio – è l’essenza stessa dell’uso del colore che sfugge al progetto e che si innesca automaticamente nel sistema autonomo dei significati una volta trasportato dalla carta millimetrata italiana alle piastrelle giapponesi, dall’idea all’eidetico. Intersezioni esplicabili solo a posteriori, con discorsi a valle dell’accaduto: Foucault ipotizzò, tra le altre, le due categorie dell’arcaico e dell’attuale per rendere ragione delle intersezioni significanti. Rimangono suggestive ancora oggi sia per la loro capacità di alludere a un altrove (l’arcaico è altrove par excellence mentre l’attuale è comunque inafferrabile) sia per rimandare ancora una volta la dimensione del simbolo a quella imprescindibile del tempo; tempo di comprensione, tempo di acquisizione, tempo di produzione e durata. Forse proprio quest’ultima si rivela il fattore determinante per valutare oggi l’efficacia dell’azione di un simbolo all’interno dello spettro ricettivo del pubblico.
Nella delicata e complessa dialettica che occupava gli antichi culti religiosi e che rendeva le divinità simulacri – cioè "più vere del vero" (cfr. Baudrillard 2008) – e ritualizzava ogni aspetto della vita quotidiana in funzione del corretto atteggiamento tra singolo individuo e parte del cosmo impersonata dalla divinità, anche allora la ricezione, e la sua durata, stabilivano l'incisività, la vita e la morte degli olimpici immortali. È lo stesso Nietzsche a metterci in guardia, ne La genealogia della morale, sul fatto che gli dei antichi non morirono né vennero uccisi (a differenza di Dio), semplicemente andarono incontro al proprio crepuscolo nel momento in cui non vi fu più nessuno che credeva in loro, nessuno più che sacrificava, nessuno che rivolgeva loro attenzione in quanto simulacri. Non è forse il caso paradigmatico di preponderanza della durata nei confronti del simbolo?
"Ragione e immaginazione non si accordano che all'interno di una tensione, di una contraddizione, di una dolorosa lacerazione. Vi è sì accordo, ma accordo discordante, armonia nel dolore. È soltanto il dolore che rende possibile un piacere" (Deleuze 2000, p. 34). Alla base della questione del gusto non stanno semplicemente i criteri di definizione o i rapporti tra codici culturali e modalità di comprensione concettuale; alla base di una delle questioni fondamentali dell'estetica sta la consapevolezza che la facoltà di giudizio non si basa sulla staticità di un criterio ma sull'inafferrabilità di una dinamica. E sarebbe suggestivo pensare alla storia dell'arte come a un continuo tentativo di soddisfare il punto d'equilibrio di questa dinamica. Anche quando si usa un simbolo per significare un oggetto non è consentito, purtroppo, la schematizzazione secondo la quale vi sarebbe una parte fissa, l'oggetto, ed una variabile, il simbolo, completamente tesa a significare e incurante delle ricadute accidentali della propria significazione. Ecco spiegato il costante ricorso alla tecnica, o meglio alle tecniche, che anche uno strumento che dovrebbe rappresentare l'esito ultimo di una sublimazione strumentale quale il simbolo deve costantemente far ricorso. Ciò a maggior ragione se i contesti fruitivi, culturali, semiotici rinunciano alla koiné e si addentrano nell'autonomia postmoderna. Quando il simbolo incontra un livello irriducibile di strumentalizzazione, quando rinuncia a essere significante per approdare, in tre momenti distinti, alla provocazione, all'insignificanza, all'irrilevanza, si ha quella che Deleuze definì “crisi dell'immaginazione” identificandola sostanzialmente con la ripetizione. A questo proposito sarebbe interessante poter approfondire l'attuale ambivalenza del termine “ripetizione”: esso scorre su un binario che vede a un suo estremo la ripetizione legata alla classicità, una classicità intesa propriamente come 'non timore della ripetizione', e all'altro estremo il concetto postmoderno di ripetizione, diretta filiazione della ripetizione barocca, che oggi diviene tutt'uno con l'infinito digitale. Un'immaginazione che entra in crisi è una facoltà che si prosciuga e che inaridisce tutto ciò che lambisce. Ma l'immaginario che consegue, per sua stessa natura insieme di simboli, è testimone a sua volta di una ulteriore forma di ripetizione, una sorta di 'cristallizzazione simbolica della ripetizione' che rappresenta al tempo stesso la certificazione dell'inaridimento ed una possibilità di fuoriuscita dallo stesso.
Probabilmente l'arte contemporanea è l’unico luogo dove il reciproco cercarsi di simbolo e desiderio avviene indipendentemente dalle tecniche e dalle strumentazioni. Interessante notare come Foucault, parlando di arte contemporanea, si rifacesse implicitamente all'eterno ritorno nietzscheano senza, stranamente, portare alle estreme conseguenze il suo discorso. A proposito di Warhol, e in maniera più accennata di quanto farà dopo Baudrillard, leggiamo in Theatrum Philosophicum: "[…] Qui o altrove, sempre la stessa cosa; che importa la variazione di qualche colore, una luce più o meno forte; come è stupida la vita, la donna, la morte. Come è stupida la stupidità. Ma se si contempla bene in volto questa monotonia senza limiti, ciò che di colpo si illumina è la molteplicità stessa, senza nulla in cima, al centro o al di là, crepitio di luce che corre ancora più rapida dello sguardo e volta a volta illumina queste etichette mobili, queste istantanee imprigionate che ormai per sempre, senza nulla formulare, si fanno segno: tutt’a un tratto, sullo sfondo di questa inerzia equivalente, la zebratura dell'evento squarcia l'oscurità e il fantasma eterno parla in questa scatola, in questo volto singolare, senza spessore" (Foucault 1997). Anche in questo caso il simbolo dispiega la propria azione significante in virtù di un desiderio e di una tecnica di attrazione, entrambi magnetizzati dal centro vuoto dell'arte contemporanea e del suo immaginario; un vuoto non nichilistico: il vuoto della maschera non indossata, il vuoto 'botanico' del centro di Tokio. Giungiamo dunque a individuare nell'arte contemporanea un grande momento di servizio alla comunicazione. E ciò deriverebbe dal suo essere essenzialmente la forma più avanzata di comunicazione, e come tale in grado di indicare in maniera più netta i limiti e le potenzialità delle tecniche di simbolizzazione basate sul desiderio. In ciò che fu maestro Warhol possiamo scorgere, oggi, una riappropriazione postmoderna della presa di distanza del soggetto nei confronti della sua stessa serialità. Gli oggetti che Warhol indicava come seriali, con ciò alludendo alla serialità dei soggetti che li guardano, sono oggi sostituiti dalla percezione massiva che si ha degli stessi, ovunque e contemporaneamente nella globalità. La Biennale di Venezia e la relativa “Biennale Telematica” dei pirati svedesi non interloquiscono nemmeno più sulla base di una differenza istituzionale e reale (uffici, ministeri, padiglioni, opere d'arte, giardini, bookshop, ecc. contro server, reti, nodi, domini, protocolli, ecc.) ma cercano di coesistere, la seconda a dispetto della prima, e la prima inibente la seconda. Nella nuova forma di accumulazione, di ripetizione del multimediale digitale il paradigma gnoseologico è quello dell’hard disk anche per l'arte; anche per l'arte e per le sue ritualità occorre esistere indipendentemente dalle opere o dalle loro più o meno autorizzate riproduzioni.
Utilizzando una delle possibili dicotomie che in estetica sostengono da sempre le ipotesi teoriche, possiamo considerare come la dialettica tra simbolo e desiderio nella postmodernità altro non sia se non una continuazione del conflitto tra astrazione e rappresentazione, che ha attraversato tutto il Novecento. Non volendo percorrere la strada dell'appropriazione della categoria avversaria come simbolo della vittoria sulla stessa – appropriazione in base alla quale Worringer sovrapponeva astrazione a stile floreale o, più recentemente, sostenitori a oltranza del concettualismo trovano elementi di realismo anche nell'astrazione – ci limiteremo a constatare l'irriducibilità di determinati aspetti dell'arte attuale alla tecnica che la domina. Per comprendere oggi la funzione e, soprattutto, i limiti dell'utilizzo del simbolo nelle declinazioni delle tecniche occorre riflettere, anche in chiave genetica, su ciò che Hal Foster ha definito con il termine di “realismo traumatico” (Foster 2006, p. 135 sgg.) a proposito ancora una volta di Warhol. La realtà cui Warhol fa riferimento, e in seguito tutta la comunicazione 'commerciale' posteriore alle Campbell’s Soup Cans, non è vacua in quanto de-significata bensì mostrante un vuoto causato da un trauma e quindi – possiamo aggiungere noi a completamento e spiegazione della proverbiale aura warholiana che investe tutto ciò che Andy sfiorava, dai quadri, ai film, alla Factory, alle Polaroid, alle interviste – attonita. Ancora una volta l'arte contemporanea si propone come limite estremo della comunicazione nel senso più ampio, confermando sia l'analisi di Roland Barthes che, a proposito della Pop-art, ne individuava il senso nella sua capacità di "desimbolizzare l'oggetto" (Barthes 1989, p. 25 sgg.), sia la considerazione in base alla quale il manufatto, privo di simbolizzazione, libera chi lo produce facendola così finita con l'orizzonte delle 'intenzioni'.
Forse, oggi, per il simbolo non rimane che una speranza: cercare più o meno consapevolmente di imbattersi in qualche dinamica eterogenea, eterodiretta o eteroclita, che riesca in qualche modo a riprodurre un trauma stabilendo così, nel rumore di fondo continuo del multimediale digitale, una sorta di memoria involontaria al contrario, un rallentamento-intoppo della nostra Ram cerebrale, finalizzato a stabilire un incongruo collegamento tra significati e immagini disparate. Appare questa, oggi, la più convincente strategia di difesa nei confronti della massa globale di consumo.
Riferimenti bibliografici
Barthes 1989
R. Barthes, That old thing, art, in Paul Taylor (eds.), Post-pop, MIT Press, Cambridge 1989
Baudrillard 2008
J. Baudrillard, Simulacri e impostura, PGreco, Milano 2008
Deleuze 2000
G. Deleuze, La passione dell'immaginazione, Mimesis, Milano 2000
Foster 2006
H. Foster, Il ritorno del reale, Postmedia books, Milano 2006
Foucault 1997
M. Foucault, Theatrum Philosophicum, in “Aut-aut”, 277-279, 1997
Matteo Giovanni Brega, Docente di "Patrimoni dell’immagine" e di "Gestione della galleria e del museo II "nella Laurea Specialistica Arti, Patrimoni e Mercati presso l’Università IULM di Milano. Dirige l’Osservatorio sull’Immaginario della Cattedra Unesco “Cultural and comparative studies on imaginary” presso l’Università IULM di Milano. Scrive su varie testate tra cui "Nova – IlSole24Ore", "Art&Dossier", "Filosofia dell’arte", "Panoptikon." È critico d’arte e consulente di varie aziende nel settore pubblico e privato. Le pubblicazioni più recenti sono: Lo specchio attraversato. I media e la restituzione del simbolo (Franco Angeli, 2005), ha inoltre curato la riedizione di Jean Baudrillard, Simulacri e impostura (PGreco, 2008).