Mantegna-Bellini. Una mostra per chi “sa vedere”
Recensione alla mostra “Mantegna and Bellini”, Londra, National Gallery (1.X.2018 – 27.I.2019)
Simona Dolari
English abstract
Alla fine di gennaio 2019 si è conclusa la sessione londinese della mostra Mantegna and Bellini aperta alla National Gallery il 1 ottobre 2018. Sarà infatti poi trasferita, con qualche modifica, alla Gemäldegalerie di Berlino (1 Marzo – 30 Giugno 2019). In sintonia con lo stile della prestigiosa istituzione inglese, la mostra è grandiosa, con quadri noti e bellissimi, molti già di proprietà del museo stesso, indubbiamente in grado di evocare nello spettatore l’unicità di due artisti che hanno fatto del Rinascimento italiano uno dei periodi più affascinanti e complessi della cultura europea.
Eppure si resta perplessi: il coraggioso intento dichiarato nelle presentazioni “the first-ever exhibition to explore the creative links between these artists”, e ancora “una storia d’arte, di famiglia, di rivalità, di personalità”, che puntava al confronto tra le due personalità e sull’intreccio delle loro relazioni con il contesto storico, si rivela purtroppo labile, e un po’deludente.
Certamente è un’occasione incredibile per vedere da vicino molti dei capolavori dei due maestri normalmente diffusi nel mondo, ma la mostra, come spesso accade purtroppo, non riesce a essere comunicativa verso lo spettatore medio – magari neofita di storia dell’arte – e sembra rivolgersi solo agli specialisti, a chi dunque ‘già sa’ e non ha bisogno di una introduzione, un accompagnamento verso l’argomento. I succinti pannelli che aprono le diverse sessioni: “gli albori”, “vicini eppure lontani”, “la pietà”, “devozione e ritratti”, “paesaggio”, “antichità”, raccontano in maniera troppo limitata il substrato necessario per catturare la portata di questi due ‘mostri sacri’ dell’arte.
Nelle didascalie dei singoli dipinti, la mancanza pressoché totale dei nomi dei committenti o del momento della creazione, tende a restituire le opere come oggetti decontestualizzati, a-storici. Dando per scontate informazioni necessarie a comprendere l’incredibile contesto culturale e storico in cui i quadri del padovano Mantegna e del veneziano Bellini furono realizzati, l’esibizione lascia solo a chi già conosce la possibilità di innescare collegamenti a committenti e situazioni, finendo per tradire il concept inizale.
Mi riferisco in particolare a dipinti come la fantasmagorica tela dipinta da Mantegna intorno al 1500 per lo studiolo di Isabella d’Este, signora di Mantova, in cui si rappresenta Minerva che caccia i vizi dal giardino delle virtù [Fig. 1].
Il dipinto avrebbe forse meritato una nota più dettagliata, per la natura del complesso soggetto mitologico e allegorico raffigurato, oltre che per l’affascinante storia celata dietro l’intero programma di decorazione degli ambienti privati della committente. Si tratta infatti dell’opera estremamente colta di un artista quasi alla fine della sua carriera, realizzata per una delle poche donne dell’epoca che poteva avere un proprio spazio dedicato all’arte; il dipinto viene terminato quando Mantegna ha più di settant’anni e da più di quaranta è attivo come pittore di corte per la potente famiglia Gonzaga di Mantova. La figura del pittore è affascinante: collezionista egli stesso di antichità, frequentava amici personalità di grande rilievo nel mondo politico e culturale del suo tempo: ma nella mostra non c’è accenno a tutto ciò, occorre ricorrere al catalogo.
Lo stesso commento si può fare per il Festino degli Dei di Giovanni Bellini [Fig. 2], opera assolutamente unica nella carriera dell’artista che si accinge, ormai ottantenne, ad affrontare uno dei suoi rarissimi dipinti di argomento mitologico: il soggetto è infatti tratto dai Fasti di Ovidio, ed è realizzato nel 1514 per il cosiddetto “camerino di alabastro” di Alfonso d’Este, fratello di Isabella, nel suo castello a Ferrara. Giovanni Bellini, pittore ufficiale della Serenissima e autorità indiscussa nella sua Venezia – nel 1506 Dürer lo aveva definito il più grande pittore di tutti i tempi – specializzato in dipinti a tema devozionale, sia pubblici sia privati (i dipinti storici rappresentano sicuramente una minoranza oltre a essere andati quasi tutti distrutti nel 1577 nell’incendio di Palazzo Ducale), con questo dipinto sembra quasi lanciare una sfida, a fine carriera, non solo agli artisti che lo avevano preceduto (Mantegna era morto nel 1506), ma anche alla schiera di pittori di nuova generazione, come Giorgione e Tiziano a Venezia, impegnati negli anni giovanili a realizzare pitture a tema allegorico e mitologico.
Come detto sopra, il proposito dei curatori – Caroline Campbell, Dagmar Korbacher e Neville Rowley – era mostrare il dialogo, le differenze e le reciproche influenze dei due artisti, legati inoltre da un legame di parentela – nel 1453 Mantegna aveva sposato Nicolosia, la figlia Bellini. Seguendo il percorso della mostra, tuttavia, le vicende della vita e della carriera dei due pittori diventano sempre più labili, con una evidente sproporzione verso la figura di Mantegna.
Indiscutibilmente il grande ostacolo era l’impossibilità di portare nella sede londinese quelli che sono i capolavori assoluti del genio pittorico di Bellini: mi riferisco a opere come la Pala di San Giobbe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (1487 ca.), il Polittico dei Frari (1488) o la meravigliosa Pala di San Zaccaria (1505). Sono questi i dipinti in cui vediamo Giovanni Bellini al suo massimo, in cui l’artista esplora tutte le possibili variazioni della pittura tonale e raggiunge, attraverso l’utilizzo del colore a olio applicato a una composizione misurata, ma piena di umanità, quel particolare senso di perfezione che rende le sue opere eteree e quasi rilucenti di una luce sovrannaturale. Nell’esposizione londinese sono opere come La Vergine con il bambino con Santa Caterina e Maria Maddalena (1490 ca., Gallerie dell’Accademia di Venezia) o La Madonna del prato (1500 ca., National Gallery of London) o ancora La Pietà con due angeli (1470-1475 ca., Gemäldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin) che possono farci apprezzare e comprendere un po’ della grandezza di cui è capace il veneziano. È nel perfetto equilibrio delle figure principali (spesso collocate così vicine allo spettatore da dividere quasi lo stesso spazio – i noti “dramatic close-up devotion paintings” – di cui parlava Ringbom nel 1964) con lo spazio circostante naturale – reso con l’attenzione ai minimi dettagli di ispirazione nordica – che si può percepire quella sorta di presenza superiore rarefatta che rende questi dipinti eterni.
I quadri di Bellini, tuttavia, non raccontano storie come quelli di Mantegna, sono oggetti di fronte ai quali soffermarsi a pensare, immedesimarsi e pregare, parlano a una dimensione intima e metafisica.
Il risultato è che in questa mostra Mantegna, la cui provenienza dalla dotta città accademica di Padova lo aveva sicuramente influenzato in questa direzione, risulta spesso più audace, più inventivo e probabilmente anche più classicamente colto del più giovane cognato (la discussa data di nascita di Bellini è stata spostata in questa mostra intorno al 1435, mentre quella di Mantegna al 1431). Il pittore padovano sembra infatti sperimentare con composizioni, figure e generi diversi, costruendo le sue storie, sia religiose che profane, attraverso un’ardita struttura prospettica, dove i suoi personaggi sono resi con una dovizia di particolari incredibili e agiscono dando vita a una narrazione in cui si leggono chiaramente un inizio e una fine. Questi accorgimenti si possono apprezzare nella splendida Crocifissione del Louvre (1456-1459, una delle predelle dell’altare di San Zeno di Verona) [Fig. 3], in cui noi spettatori assistiamo a una delle più belle raffigurazioni della storia dell’arte italiana: i centurioni intenti a giocarsi ai dadi la veste del Messia, con il soldato che mostra il suo meraviglioso sandalo bucato. Oppure nelle roboanti tele con I Trionfi di Cesare, realizzate per Francesco Gonzaga (1486-1506, Royal National Trust, Property of Queen Elizabeth II), in cui il Mantegna letteralmente inventa una parata di trionfo costituita da nove imponenti tele in cui può dar sfoggio della sua conoscenza archeologica e letteraria.
Sono i preziosi disegni in cui Mantegna ‘scolpisce’ con il sottile tratto della penna singoli personaggi come il Cristo che scende al Limbo e dipinti come l’Orazione nell’Orto (circa 1455-1456, National Gallery, London) – di fronte a questo quadro è necessaria una pausa per l’obbligatorio ‘nota le differenze’ con il più tardo dipinto del medesimo soggetto del cognato (1458-1460 ca., National Gallery) – e ancora più la Presentazione di Gesù al Tempio datata 1454 (Gemäldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin) [Fig. 4], che mettono Mantegna nel ruolo, se non di mentore, certo di modello per alcuni dei dipinti più tardi eseguiti da Bellini. La Presentazione al Tempio di Giovanni Bellini realizzata tra il 1470 e il 1475 (il dipinto conservato presso il Museo della Fondazione Querini Stampalia di Venezia ha subito una retrodatazione dal 1460 agli anni ‘70 del XV secolo) [Fig. 5] è eseguita senza ombra di dubbio con i modelli utilizzati in precedenza da Mantegna per le figure di Maria, del bambino e di Simeone. Qui, oltre alla figura di Giuseppe, compaiono due figure di donne e due di uomini, mentre nel dipinto di Mantegna solo una figura femminile accompagna Maria, che alcuni identificano come Nicolosia, moglie del pittore, e un giovane uomo, forse lo stesso Mantegna. Non abbiamo nessun documento che attesti che i modelli di un pittore potessero passare da una bottega a un’altra, anche se i maestri erano legati da legami famigliari come nel nostro caso.
Sarebbe stato proficuo poter ricostruire quale tipo di relazione personale i due artisti, così diversi ma così vicini almeno fino alla partenza di Mantegna per Mantova, avessero. È molto probabile che Andrea conoscesse bene i preziosi album di disegni (uno al Louvre di Parigi e l’altro al British Museum di Londra) di Jacopo Bellini, padre di Gentile e Giovanni e capostipite della vivace bottega veneziana e che a questi avesse fatto riferimento per alcune delle sue opere. Per il resto, data la carenza di documenti, possiamo solo ipotizzare scambi e collaborazioni, partendo dai loro grandi capolavori.
Un’ultima nota riguarda l’ottimo lavoro fatto dal team dei restauratori della National Gallery in occasione della mostra, che purtroppo passa anch’esso sottotono: peccato, per esempio, che non si faccia menzione al fatto che, dopo anni e anni, ora si è in grado di rivedere il falcetto nella testa del San Pietro Martire, strumento del suo martirio e suo attributo tradizionale, nel dipinto di Bellini che raffigura l’assassinio del santo (1505-1507 ca., National Gallery of London) [Fig. 6], precedentemente nascosto da spessi strati di ridipinture accumulate nei secoli. È però il sangue che delicatamente spilla da uno dei rami del boschetto nel retro, quasi a testimoniare la partecipazione della natura all’atroce scena di violenza in primo piano, che colpisce rammentando un punto molto importante: la pittura dei grandi artisti del Rinascimento va ‘letta’ a vari livelli.
A quello iniziale, in cui lo spettatore fruisce dell’immagine estetica grazie all’insieme dei colori, delle forme e dei personaggi, segue la scansione più dettagliata, in cui compaiono simboli e allegorie, a testimoniare un significato più profondo, al quale possono accedere solo alcuni, non tutti. Segue poi, quando possibile, il desiderio di collocare l’oggetto all’interno del suo tessuto storico e culturale, così che il dipinto cessi di essere solo un bellissimo quadro, per divenire un oggetto di devozione o riflessione filosofica. La vecchia lezione panofskiana – forse è addirittura con questa idea in mente che i curatori hanno lavorato a questa impresa – sembra ancora essere terribilmente attuale: dipinti meravigliosi per tutti, ma soprattutto per coloro che sanno vedere.
English abstract
It is difficult for those who are unfamiliar with the cultural and historical context behind the works of art of the two artists, Mantegna from Padua and Bellini from Venice, to get have a deeper understanding of some of the paintings and their histories. A very eloquent example is given by the extremely complex painting by Andrea Mantegna Minerva Expelling the Vices from the Garden of Virtue (1500, Musée du Louvre) realised for the studiolo of Isabella d’Este, Marchioness of Mantua, one of the most significant female patrons of arts of the Renaissance. The label next to the painting fails to highlight that this allegorical painting was realised by Mantegna, as a part of a special programme thought up by one of the humanists of the Gonzaga court. It is for many reasons a sort of will of the highly cultured painter who in 1460 had left the city of Padua and had started his career to become the court painter for Ludovico Gonzaga. The painting demonstrates his passion for the antique as well as a deep culture shaped by his friendship with important humanists. The same kind of observation can be made for the Feast of the Gods by Giovanni Bellini (1514, National Gallery of Washington). A comparison between the two paintings in the last rooms would also have been helpful to explore the intent of the exhibition as expressed by the curators Caroline Campbell, Dagmar Korbacher and Neville Rowley: “This is a rare opportunity to investigate a story of art, family rivalry, and personality”. A brave and interesting goal, where Mantegna with his audacious, composed pictures is considered next to his brother in law, Giovanni, (Mantegna married Nicolosia Bellini in 1453). The problem is that the impossibility of taking to London Bellini’s vast masterpieces such as The St Giobbe Altarpiece (1487, Galleria dell’Accademia, Venice), the polyptych in the Church of Santa Maria Gloriosa dei Frari (1488), and The St Zaccaria Altarpiece (1505), made it look as though Bellini was an inferior artist compared with Mantegna. The Paduan artist appeared as more inventive, more knowledgeable and more audacious in his works whereas Bellini surely comes out as a wonderful colourist, and the author of tender and moving works such as the Madonna of the Meadow (1500 ca., National Gallery of London) or The Madonna and Child with Saint Catherine and Saint Mary Magdalene (1490 ca., Galleria dell’Accademia, Venezia). The catalogue mentions and investigates many of the issues of great interest developed during the preparation of the exhibition. Of great relevance are the discoveries made during the restorations works, which highlighted new findings regarding the techniques used by the two artists but also, after decades, brought to light important details such as the bleeding tree or the little axe in the head of Saint Peter in Bellini’s painting, the Assassination of the Saint Peter Martyr (1505-1507, National Gallery of London).
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Per citare questo articolo: Simona Dolari, Mantegna-Bellini. Una mostra per chi “sa vedere”. Recensione alla mostra “Mantegna and Bellini”, Londra, National Gallery (1.X.2018 – 27.I.2019), “La Rivista di Engramma” n. 162, gennaio/febbraio 2019, pp. 175-181. | PDF dell’articolo