L’Arianna addormentata dei Musei Vaticani, già Cleopatra in Belvedere*
Claudia Valeri
English abstract
Giulio Cesare bruciò d’amore per me quando vivevo;
il secondo Giulio ora mi ama ed io mutata in pietra
devo servirlo come ninfa di sorgente.
Fausto Capodiferro
Allo scorcio del XVIII secolo Ennio Quirino Visconti chiariva finalmente la reale identità della Cleopatra Vaticana. Attraverso una perspicace analisi dell’abbigliamento della figura e confortato dal confronto iconografico con un rilievo, lo studioso riconosceva una rappresentazione della principessa cretese Arianna che, abbandonata da Teseo sulle spiagge della petrosa isola di Nasso, attende in estatico torpore l’epifania di Dioniso. Il rilievo, ritrovato da Giovanni Volpato nel corso di scavi eseguiti nella tenuta dei Duchi Strozzi a Lunghezza (provincia di Roma) e pubblicato dal Visconti, raffigurava Dioniso accanto a una figura femminile sdraiata e addormentata nella posa della scultura vaticana; un erote la disvela al dio sollevandole il mantello, mentre una menade danza al suono dei cembali (Visconti 1782, 89-92, tav. XLIV).
Già J.J. Winckelmann, che non apprezzava in modo particolare la scultura, aveva abbandonato la tradizionale interpretazione con Cleopatra e pensava piuttosto a una ninfa. E molto probabilmente, proprio come Ninfa, la statua presiedeva il vivace cenacolo culturale dei fratelli Maffei nel palazzo di famiglia in via de’ Cestari all’Arco della Ciambella in Campo Marzio; è noto come nell’immaginario del primo Rinascimento una figura femminile distesa e dormiente, evocasse la ninfa alla sorgente, locus amoenus per eccellenza (sull’argomento esiste una nutrita e trasversale tradizione di studi, basti qui citare Baert 2016; ead. 2018 con esaustiva citazione della bibliografia precedente). Le ninfe sono protettrici delle fonti e il loro sonno non va disturbato, come recita un celebre epigramma quattrocentesco composto nell’ambito dell’Accademia di Pomponio Leto e attribuito all’umanista Giannantonio Campano (CIL, VI, 5,3; cfr. Christian 2010, 134-136). Nei decenni finali del XV secolo, Benedetto e Agostino Maffei, strettamente legati alla curia pontificia, si distinguono a Roma come mecenati di umanisti ed eruditi; oltre a possedere una ricca raccolta di manoscritti, essi furono anche promotori di attività editoriali e raffinati collezionisti di statue, busti, rilievi, monete, medaglie e, soprattutto, epigrafi (basti qui citare Minasi 2007; Christian 2010, 326-330).
Nel Prospectivo Melanese, composto tra il 1496 e il 1497 (cfr. Anguissola, Villani 2002; Agosti, Isella 2004), la scultura vaticana non viene menzionata tra quelle della collezione Maffei, d’altra parte ancora in casa Maffei la nostra statua fu vista e studiata da Amico Aspertini, come attesta un disegno eseguito tra il 1496 e il 1503 [Fig. 1] (Nesselrath 1998, 5-6, fig. 8 con bibliografia precedente). Lo stesso Raffaello ne cita postura e abbigliamento per raffigurare la Musa Calliope, seduta su una roccia alla destra di Apollo, sopra la fonte Castalia, nel Parnaso della Stanza della Segnatura in Vaticano, eseguito nel 1509 (vedi da ultimo Gnann 2017).
Gli allestimenti della statua in Vaticano
Non sono note le circostanze del ritrovamento della statua vaticana, anche se alcune congetture possono essere avanzate come si vedrà più avanti, ma è stato giustamente ipotizzato che in casa Maffei la monumentale scultura non dovette sostare a lungo. Infatti, nel febbraio del 1512 questa veniva trasferita in Belvedere per volontà di papa Giulio II, che l’aveva acquistata dietro un compenso esorbitante, per lungo tempo reclamato dagli eredi Maffei. Nella celebre lettera a Isabella d’Este, il Grossino parla di una “Chleopatra qual è una bella statua”, esplicitando con chiarezza per la prima volta l’identificazione della scultura con l’ultima regina d’Egitto. Probabilmente l’enorme fortuna iconografica e l’universale celebrità che hanno accompagnato la statua vaticana si devono anche a questo “forzato” riconoscimento, dal momento che Cleopatra, il cui mito nasce fin dalla propaganda augustea, subisce già in epoca medioevale una riduzione ad exemplum (Urbini 1993). L’identificazione con una Cleopatra morente, per il particolare dell’armilla a forma di serpente che cinge il braccio sinistro, era funzionale al programma decorativo del Belvedere e fu indirizzata dallo stesso pontefice, o da chi per lui selezionava le sculture da collocare nel Cortile delle Statue, forse lo stesso Bramante, che ne curava anche gli allestimenti (Bruschi 1969; Nesselrath 1998; Buranelli 2006). Una ormai consolidata tradizione di studi ha ben dimostrato come la raccolta antiquaria di Giulio II in Vaticano si dipani attorno ai temi virgiliani e cesariani. Il Belvedere diventò il “teatro di marmo” nel quale papa Giulio metteva in scena la propria autocelebrazione in quanto novello Enea e nuovo Cesare, poiché rifondatore della Roma Cristiana, strenuo difensore dei valori della Chiesa e dei suoi confini territoriali, fondatore di un nuovo ordine pacificato, di una nuova età dell’oro (la bibliografia sul tema è molto amplia, basti qui citare, oltre al classico Brummer 1970, i vari contributi contenuti in Winner, Andreae, Pietrangeli 1998, in particolare quello Nesselrath 1998; ma anche Frommel 2000).
L’affermarsi dell’interpretazione della statua come Cleopatra morente è immediata, lo dimostra un poemetto celebrativo dell’umanista Aurelio Serena da Monopoli, stampato nel marzo del 1512 e di recente “riscoperto” e giustamente valorizzato come “documento significativo per saggiare l’immediata diffusione del programma politico sotteso al progetto antiquario del papa” (Miletti, Tuccinardi 2017). Nell’epigramma, secondo la tradizione della statua loquens, è la stessa Cleopatra a narrare le proprie vicende: l’iniziale odio per Roma che l’ha condotta al suicidio è ora superato, anzi, con animo pacificato può ora contemplare la città eterna che le è amica: “Tempore post longo verum sub principe Iulo, nunc urbem video, facta et amica colo”.
Nel poemetto, tutto concentrato sul tono celebrativo dell’assimilazione di Giulio II al divus Iulius, non si fa cenno al particolare allestimento a fontana che, comunque, dovette essere subito approntato all’arrivo della scultura in Belvedere. Pico della Mirandola, nell’estate dello stesso anno, vede la fontana “a man manca dell’Antinoo” (lettera a Lelio Gregorio Girali del 31 luglio 1512), così come è confermato da Andrea Fulvio negli Antiquaria del 1513. La nicchia nell’angolo nord orientale del Cortile viene ben descritta dal Fichard nel 1536 e finalmente disegnata da Francisco de Hollanda (1538-39) [Fig. 2], che mostra la statua molto girata sul suo fianco sinistro, fortemente rivolta a favorire lo sguardo dello spettatore, falsando l’originario punto di vista della statua in antico. Tale forzata posizione è comprensibile nell’ottica di dover fare emergere scenograficamente la “Cleopatra” dalla cornice della nicchia, che, come è stato notato da alcuni, non è completata nella sua parte superiore; nella medesima nicchia, intorno alla metà del XVI, anche Ulisse Aldrovandi descrive “la statua di Cleopatra che giace col braccio destro sul capo, e pare che tramortisca a venga meno”.
Come è noto, durante il pontificato di Giulio III (1550-1555) la Cleopatra venne trasferita nell’ambiente dell’ala orientale della palazzina di Innocenzo VIII, in capo al “Corridore di Bramante” o “di Belvedere”, che da quel momento prese il nome di “Stanza della Cleopatra”. L’incarico della decorazione venne dato a Daniele da Volterra, che lavorò con la collaborazione di Girolamo da Carpi (Brummer 1970, 254-264); lungo la parete settentrionale di questo vano (poi completamente modificato per la costruzione del Museo Clementino), la scultura fu inserita in una scenografica grotta e adagiata su rocailles dalle quali sgorgava una fonte, le cui acque venivano raccolte in una vasca sottostante che, inquadrata da due telamoni, era arricchita dalla presenza di un mascherone [Fig. 3]. Giorgio Vasari ascrive a sé il suggerimento di inserire la statua di Cleopatra e, nella Vita di Daniele Ricciarelli, ricorda anche l’aneddoto della “bocciatura” del progetto michelangiolesco il quale vi aveva immaginato un Mosè (Redig de Campos 1967, 136-137). Sotto il pontificato di Paolo V la statua rimase al suo posto, ma la decorazione della fontana venne modificata, senza comunque alterarne il carattere generale, con l’aggiunta del drago, emblema della famiglia Borghese, e di altri elementi ornamentali. Va probabilmente riferito a questo nuovo allestimento, l’intervento di Martino Foraboschi, stuccatore e soprastante alle fontane, per “il massiccio di stucco alla fontana di Cleopatra nel Palazzo Vaticano”, documentato da un pagamento databile tra il 1616 e il 1619 (A.S.V., Indici
La statua sarebbe rimasta in questa posizione fino all’intervento di Clemente XIV nel
Fin dagli inizi del Settecento era stata valutata la possibilità di rimuovere la statua dalla fontana in fondo al corridore di Bramante, sotto il pontificato di Clemente XI Albani si prendono alcuni provvedimenti di “tutela”, come testimoniato da un documento dove si legge che lo “scoglio dove sta colca la bella statua della Cleopatra” venne “risarcito” (cfr. A.S.V. Fondo Albani
Arianna abbandonata e addormentata
La figura di Arianna e le vicende del suo complesso mito hanno avuto una grande fortuna iconografica in epoca greca e romana, probabilmente per il carattere duplice che distingue il personaggio, nel quale natura mortale e immortale, aspetto umano e divino, si combinano in una sola figura. I momenti del mito maggiormente raffigurati, e con esordi anche precoci nei repertori ceramografici attici, si possono così sintetizzare: l’incontro con Teseo e le avventure cretesi del labirinto; la celebrazione della vittoria sul Minotauro e la consequenziale danza delle gru (gheranos); l’abbandono di Arianna da parte di Teseo sull’isola di Nasso; infine, l’incontro con Dioniso e il ruolo della principessa cretese, ormai dea, nell’ambito del thiasos bacchico.
Il momento del mito eternato dalla statua vaticana è quello dell’abbandono dell’eroina cretese sulla spiaggia della piccola e petrosa isola nell’arcipelago delle Cicladi, nel cuore del mar Egeo. Teseo, il leggendario uccisore del Minotauro – convinto dalla dea Atena, cui sta a cuore il compiersi del fatale destino dell’eroe – è già salpato con la sua nave per raggiungere le coste dell’Attica, lasciando la principessa cretese ancora addormentata sulla spiaggia. Al suo risveglio, Arianna corre alla vana ricerca dell’amato per poi accasciarsi nuovamente sul lido petroso affranta ed esausta, ma sta sopraggiungendo Dioniso che la farà sua sposa. Il tema dell’abbandono di Arianna, molto popolare nella tradizione ellenistico-romana, compare relativamente tardi nell’ambito della ceramografia attica, gli esemplari, comunque non numerosi, sono concentrati nell’ambito della produzione a figure rosse. Come alcuni hanno sottolineato, è comprensibile che si volesse evitare la narrazione di un episodio che, oggettivamente, appariva il più disdicevole nella vita dell’eroe ateniese (cfr. da ultimo Pala 2007). D’altra parte, la scena dell’abbandono di Arianna mostra variazioni nel tempo, non solo rispetto agli schemi iconografici adottati, ma anche riguardo l’aspetto della principessa cretese che, man mano, sembra cedere agli influssi dionisiaci fino ad essere raffigurata, soprattutto in età ellenistica, come una giovane donna distesa, con il busto nudo, almeno in parte, mostrando sembianze del tutto simili a quelle delle menadi estatiche.
Il momento dell’abbandono dovette conoscere una rinnovata popolarità negli anni finali del V secolo a.C., a seguito dell’esecuzione del grande ciclo pittorico nel tempio di Dioniso ad Atene. Pausania (Guida della Grecia, I, 20, 3) lo descrive e, tra le altre pitture legate alle vicende del dio, cita “Arianna che dorme, Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapire Arianna”; l’abbandono di Teseo e l’apparizione di Dioniso sembrano essere trattati come elementi di una scena unica. In tale contesto il riprovevole comportamento di Teseo appariva necessario e ampiamente giustificato dall’apoteosi che attendeva Arianna, destinata alle nozze con Dioniso. Teseo, dunque, non aveva abbandonato l’amata, ma era stato piuttosto soppiantato da un dio! Echi, seppur pallidi, di questa celebre megalografia, e delle successive riprese, possono essere riconosciute nella pittura pompeiana, dove il tema di Arianna abbandonata è molto diffuso. In una serie di affreschi, tutti riconducibili al III e al IV stile, e dunque databili tra l’età augustea e poco dopo la metà del I secolo d.C., viene infatti raffigurata la partenza di Teseo, mentre Arianna giace ancora addormentata (per una efficace selezione si veda Gallo 1988, ma anche le schede degli esemplari raccolti in occasione della recente mostra dedicata a Ovidio; Colpo 2011; Ghedini 2018, 270-271).
L’Arianna Vaticana e le sue “sorelle”: copie romane da un prototipo ellenistico di orizzonte microasiatico
È forse nella scultura a tutto tondo che l’abbandono di Arianna trova la trasposizione figurativa di maggiore impatto emotivo. Tra le statue raffiguranti la principessa cretese addormentata sulle spiagge di Nasso emerge il monumentale esemplare vaticano, eseguito in un solo blocco di marmo docimeno (alt.
Minime sono le integrazioni post-antiche: entrambi i piedi, che risalgono all’intervento cinquecentesco [Fig. 7], la mano destra, il dito mignolo e l’anulare della mano sinistra, il naso e le labbra che, con numerose piccole porzioni del panneggio, sono per lo più ascrivibili al restauro settecentesco di Gaspare Sibilla. Questi aveva realizzato ex novo, per la sistemazione della statua nel Museo Clementino, una serie di rocce in marmo che dovevano contenerla [Fig. 8]. Durante il recente restauro è stato possibile appurare che nel trasferimento a Parigi, questo ‘letto’ di rocce, appositamente creato dal Sibilla, fu lasciato a Roma. Se ne era persa traccia, ma nel corso di ricerche mirate nei magazzini vaticani è stato possibile recuperare alcune di quelle integrazioni, che hanno fornito interessanti dettagli sulle modalità dell’intervento settecentesco, ma su questo argomento si tornerà in altra sede. Dunque, al rientro della statua da Parigi fu deciso di realizzare in stucco ciò che Sibilla aveva eseguito in marmo, allestimento che vige tuttora.
La caratteristica della statua vaticana che da sempre si rileva, rispetto alle altre versioni, è la posizione maggiormente sollevata del busto; altro aspetto che la distingue da tutte le altre è l’essere priva di un appoggio solidale, infatti l’alloggiamento della scultura sembra essere stato lavorato separatamente anche in antico. Difficile indicare il tipo di materiale di questo alloggiamento; per quello che è stato possibile vedere, la statua non sembra offrire superfici lavorate per accogliere completamenti marmorei perfettamente in connessione, d’altra parte i resti degli incassi sul retro della scultura sembrano tutti da riferirsi agli allestimenti in età moderna. Non si può comunque escludere che in antico l’alloggiamento fosse stato realizzato alla maniera del Sibilla, creando un “giaciglio” concavo messo in opera senza interferire con la scultura.
La mancanza di un preciso piano di posa della figura, che negli altri esemplari è costituito dal “letto” di pietre, ha originato, come è noto, soluzioni diverse per gli apprestamenti che hanno coinvolto la scultura nei secoli, ma questi hanno modificato soprattutto la rotazione della figura, che, in effetti, dobbiamo immaginare più girata verso il suo lato destro, mentre, la minore inclinazione all’indietro del busto, rispetto alle altre repliche, doveva caratterizzare l’aspetto della nostra Arianna anche in antico.
Il tipo della Arianna addormentata, da non confondere con quello della Ninfa dormiente (per cui si veda Fabricotti 1976; eadem 1980; per una discussione più aggiornata cfr. da ultimo Knoll, Vorster, Woelk 2011, n. 65, 381-383), ebbe nella scultura a tutto tondo di epoca romana una circoscritta diffusione. La prova di una tradizione copistica è data dalla presenza di almeno due sculture assolutamente confrontabili, l’esemplare vaticano e quello della collezione Medici ora a Firenze (amplissima la bibliografia, ci si limita qui a citare Laviosa 1958; Gasparri 1999, 168-170; Wolf 2002, 352-353; Ciatti 2004; Cecchi, Gasparri 2009, 296-297, n. 533). Sulla provenienza della Arianna Medici [Fig. 9], collezionistica o meno, ancora si discute; di certo nel 1588 la statua compariva nella Loggia della Cleopatra a Villa Medici sul Pincio, dove la ritrasse ancora Velázquez durante il suo viaggio in Italia tra il 1649 e il 1651. Come è noto, la statua medicea è molto integrata (si veda ora l’approfondita scheda a cura di F. Paolucci nel sito web della Galleria degli Uffizi), la porzione originale è solo quella centrale del corpo, che fu completato secondo lo schema della Arianna Vaticana, dunque tra il 1538-40 e il 1588.
È da sottolineare che analisi condotte sulla porzione antica della Arianna Medici hanno rilevato una provenienza docimena del marmo, come per l’esemplare in Vaticano. Anche le misure, che sono state verificate sulla porzione centrale di entrambe le sculture, corrispondono e la minore lunghezza della statua vaticana (206 cm. contro i 226 cm. di quella medicea) è falsata dalla posizione della figura, piuttosto semidistesa che giacente, come prima si diceva.
Dovrebbe essere considerata una variante del tipo la Arianna addormentata conservata al Museo del Prado di Madrid [Fig. 10], già nella collezione di Cristina di Svezia e nota fin dal
Degna di nota è anche la statuetta ora conservata al San Antonio Museum (Wolf 2002, 354-355, n. 4), già a Wilton House fin dagli inizi del Settecento, che attesta la diffusione del tipo statuario anche in versione di ridotte dimensioni, da immaginare nell’arredo di residenze private e di giardini [Fig. 11]. In questo esemplare viene mantenuto il dettaglio del mantello che vela la testa, anche se questa sembra più scoperta, scompare invece il bracciale a forma di serpente e appaiono a rilievo sul “letto” di rocce animali acquatici (un’anatra, un airone) e di terra (lucertole e chiocciola).
Il recente ritrovamento di un coperchio di sarcofago [Fig. 12], durante lo scavo di una tomba a camera nella necropoli di Perge, ha in qualche modo scompaginato questo tradizionale assetto (la scultura si conserva ora nel Museo di Antalya, cfr. Özgan cds). Qui vi compare distesa una figura femminile in tutto simile alle Arianne sopra citate, attestando una precisa citazione del modello statuario in Asia Minore, luogo dove con tutta probabilità venne formulato l’originale da cui dipendono le repliche di età romana.
Il mito di Arianna è comprensibilmente molto evocato in ambito funerario, numerose sono le attestazioni iconografiche che ritraggono la principessa cretese sdraiata nella posa della statua vaticana, ma fino al ritrovamento di Perge erano note solo versioni bidimensionali a decorazione delle fronti di sarcofago. In questi esemplari la figura di Arianna, distesa e addormentata, assume per lo più le sembianze della defunta stessa, come spesso chiarisce il volto ritratto, mentre il contesto rimanda chiaramente al mondo dionisiaco, anche quando ella è raffigurata da sola. Più spesso il dio e il suo corteggio stanno sopraggiungendo, frequentemente utilizzato è anche il momento della hierogamia e la defunta/Arianna è ritratta in complice e amoroso “dialogo” con lo sposo, completamente avvolti dal thiasos (non è questa la sede per elencare i numerosi sarcofagi decorati dal mito dionisiaco di Arianna; per una recente sintesi si veda Zanker, Ewald 2008, 135-167; riguardo all’iconografia di Dioniso trionfante si veda da ultimo Buccino 2013). La novità della Arianna di Perge consiste nell’aver conferito alla defunta distesa e dormiente, tipologia molto nota nei sarcofagi a kline di età romana, proprio le sembianze di Arianna, attraverso la precisa citazione dell’opus nobile ellenistico.
La critica archeologica da tempo si cimenta nel tentativo di isolare le comuni caratteristiche formali di queste repliche per risalire al prototipo originale (si vedano da ultimi Stähli 2001, Wolf 2002). Per ragioni legate all’impostazione iconografica, convalidate da precisi motivi stilistici e formali, il modello ispiratore delle Arianne addormentate a noi pervenute può essere ben situato nell’ambito delle creazioni del primo Ellenismo microasiatico, specificatamente pergameno, da collocare cronologicamente tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. Per il rendimento delle giunoniche forme anatomiche e per il trattamento voluminoso dei panneggi, la scultura di Arianna può essere confrontata, tra l’altro, con alcune statue femminili ritrovate a Pergamo, sulla terrazza che ospitava il grande altare, o comunque con esemplari scultorei attribuibili alla scuola di Pergamo e databili tra la fine del III e il primo venticinquennio del II secolo a.C., si pensi alla moglie del galata del gruppo di Palazzo Altemps, replica del Grande Donario, o alla Igea di Nikeratos del Palazzo dei Conservatori.
Come aveva già intuito il Visconti, e di recente Paul Zanker è tornato sull’argomento con ulteriori e interessanti annotazioni (Zanker 2010), il tema principale che l’artista volle rappresentare è quello del sonno, tema caro alla plastica ellenistica (McNally 1985; Stafford 1993), che distingue altre celebri creazioni scultoree di orizzonte microasiatico, pensiamo al sonno ‘ebbro’ del Fauno Barberini ora a Monaco, a quello sensualissimo dell’Ermafrodito, la cui versione più celebre è quella Borghese oggi al Louvre, e infine al sonno innocente del tenero Eros in bronzo del Metropolitan Museum.
Nel capolavoro ellenistico il sonno che caratterizza Arianna non è quello profondo e quieto imposto da Hypnos, come appare in alcuni vasi attici, ma è piuttosto un sonno irrequieto e scomposto, la principessa cretese ha probabilmente già scoperto l’abbandono da parte dell’amato Teseo che ha cercato invano, percorrendo in lungo e in largo tutta la spiaggia e forse addirittura avventurandosi all’interno dell’isola, sfidandone la natura aspra e selvaggia. Finalmente, esausta, si è accasciata su un letto di pietre, sfinita dalla stanchezza e angosciata dal proprio destino, consapevole di non poter ritornare in patria dopo il tradimento di cui si è macchiata. Questo sembrano suggerire la posizione instabile delle braccia, come di chi non riesca a trovare una posizione ferma, e la particolare disposizione delle vesti: il chitone si è scomposto e slacciato per l’agitazione, aprendosi in modo tale da lasciare scoperto gran parte del petto. Questo dettaglio, insieme all’espressione del viso, con la bocca semiaperta [Fig. 13], evoca l’arrivo di Dioniso, sedotto dalla prorompente e discinta bellezza di Arianna, già in estasi come le Menadi del suo thíasos. Ciononostante, non si ritiene che la statua facesse parte di un gruppo con Dioniso e personaggi del suo corteggio, come da alcuni sostenuto. Dunque nell’originale scultoreo l’eroina era più probabilmente raffigurata da sola per meglio rappresentare e significare la particolare condizione psicologica del tormento interiore. In qualche modo la sola figura di Arianna condensa tutto il mito, si sta compiendo infatti una vera metamorfosi di salvazione, il cui segreto è custodito dalla stessa Arianna, immersa nell’atmosfera sospesa e rarefatta che precede un accadimento straordinario: l’epifania di Dioniso e la prodigiosa metamorfosi dalla donna mortale a vera e propria dea.
Non è improbabile che l’originale ellenistico, da cui dipendono le nostre Arianne, fosse collocato all’interno di un santuario dedicato a Dioniso, forse a Pergamo stessa, ma purtroppo non vi è alcun sostegno documentario in tal senso. L’autore dell’Arianna addormentata e l’occasione che la generò sono destinati a rimanere oscuri, come tanta parte degli artefici e delle imprese artistiche del primo ellenismo.
Come si diceva, la critica archeologica, pur non potendo individuare con certezza l’ambito artistico, da tempo riconosce nell’ellenismo microasiatico l’orizzonte entro il quale maturò l’originale scultoreo. In questo senso il ritrovamento di Perge assume un significato del tutto particolare, dando concretezza a una tradizione di trasmissione iconografica che avrebbe avuto il suo centro propulsore tra le botteghe scultoree microasiatiche di età imperiale.
Se consideriamo le quattro repliche del tipo Arianna addormentata, queste sembrano tutte collocabili in una forbice cronologica ben contenuta, che va dall’età adrianea (esemplari di Perge, Uffizi) fino alla metà del II secolo d.C., con una datazione più recente dell’esemplare ora al Prado, peraltro variante, rispetto a quello Vaticano, collocabile ancora tra la tarda età adrianea e la prima età antonina. Pur nella sua lacunosità, l’Arianna degli Uffizi sembra aderire con maggiore fedeltà al prototipo originale e mostra una maggiore qualità nell’esecuzione, con raffinate soluzioni nel rendimento dei panneggi e della loro diversificata materia. Questo dato potrebbe orientare verso una bottega copistica di orizzonte microasiatico, si ricordi anche l’utilizzo del marmo docimeno, operante in età adrianea; forse una delle tante che l’imperatore Adriano volle coinvolgere per gli arredi marmorei della sua magnifica residenza tiburtina e che, anche in seguito, dovette continuare a operare per la committenza imperiale, impiegata per la decorazione dei grandi monumenti pubblici urbani.
Quella di Perge è l’unica Arianna ad avere un preciso contesto di ritrovamento, per le altre possiamo solo ricostruire un percorso collezionistico, che per quella Medici risulta essere nemmeno troppo chiaro. Per quanto concerne il loro rinvenimento, si può ragionevolmente ipotizzare un contesto urbano, ma non si hanno, al momento, dati certi. La presenza della statua vaticana nel cortile di Palazzo Maffei all’Arco della Ciambella, fin dalla fine del Quattrocento, ha suggerito una possibile provenienza dal Campo Marzio, anche se la famiglia possedeva altri immobili e terreni. Comunque, nel rione Pigna i Maffei abitarono un primo palazzo prospiciente su via de’ Cestari al quale, nel 1491, se ne aggiunse un secondo contiguo a formare una grande residenza signorile che, ultimati i lavori di ristrutturazione, divenne il centro del mecenatismo di Agostino e di Benedetto Maffei (Bedon 1988; Stoppa 2003, 59 ss.).
Non si può escludere che proprio nel corso di questi lavori di ampliamento della residenza, i Maffei abbiano potuto ritrovare l’Arianna addormentata. Come è noto, le proprietà Maffei in Campo Marzio insistevano in gran parte sul complesso delle Terme di Agrippa, che dunque sono spesso comprensibilmente indicate come il possibile luogo dell’allestimento antico della scultura vaticana. Del resto l’antico Campo Marzio era caratterizzato dalla presenza di grandi complessi monumentali arricchiti da sontuosi arredi scultorei, ma non si può nemmeno escludere del tutto che l’Arianna non sia arrivata in casa Maffei per il tramite di qualche scambio tra antiquari e collezionisti. Forse solo studi archivistici mirati sulle proprietà dei Maffei, e sui vari legami che la famiglia intratteneva nella seconda metà del Quattrocento, potranno fornire qualche spiraglio per individuare con maggiore sicurezza la possibile provenienza di questo capolavoro della statuaria antica.
* La statua di Arianna, ora esposta nella Galleria delle Statue (inv. 548) del Museo Pio Clementino, è stata oggetto di un complesso intervento conservativo condotto da Stefano Spada del Laboratorio di Restauro dei Musei Vaticani, con la supervisione del Reparto di Antichità Greche e Romane. Il restauro, completato nell’aprile del 2013, ha fornito l’occasione per compiere una serie di ricerche e di studi. Questi ultimi sono stati presentati nel corso di un convegno svoltosi nel novembre 2015, i cui atti, a cura di chi scrive, sono in corso di stampa. Queste pagine vanno intese come una prima sintetica anticipazione di alcuni argomenti che saranno più ampiamente trattati nel citato volume. La bibliografia sulla scultura vaticana è molto ampia, ci si limita qui nel citare Wolf 2002, 351-352 (con bibliografia precedente); Zanker 2010; Valeri 2013, spec. 28-33. Il tema della fortuna della statua vaticana è stato ampiamente trattato, basti qui citare Brummer 1970, 155-184; Haskell, Penny [1981] 1984, 246-251; per una raccolta delle fonti grafiche e delle citazioni letterarie si veda anche Pray Bober, Rubinstein 1986. Altri essenziali riferimenti bibliografici si trovano nel testo.
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English abstract
At the end of the 15th century, the famous “Cleopatra” now housed in the Vatican Museums was located in Palazzo Maffei in the Campo Marzio, in Rome. In 1512, it was transferred to the “Cortile delle Statue” in the Belvedere Courtyard of the Vatican Palace by Pope Julius II. Only in 1782 was the statue rightly identified by Ennio Quirino Visconti as the Cretan princess Ariadne abandoned on Naxos. The iconography of the reclining figure of the sleeping Ariadne is very common in the art of the Greek and Roman world in multiple forms and postures, conveying different meanings at different times and in different places. However, comparisons can be made with significant, few, sculptures in the round. The Vatican statue combines the Medici Ariadne, the Ariadne now in the Prado Museum, and the Ariadne sleeping on the sarcophagus lid found in the necropolis of Perge in Turkey. The sculptures, all dating from the first half of the 2nd century AD, are copies of a Hellenistic original, dated between the end of the 3rd and the 2nd century BC, probably sited in Pergamon.
Keywords | Vatican Museums; Abandoned and Sleeping Ariadne; Hellenistic sculpture.
Per citare questo articolo: Claudia Valeri, L’Arianna addormentata dei Musei Vaticani, già Cleopatra in Belvedere, “La Rivista di Engramma” n. 163, marzo 2019, pp. 12-33 | PDF dell’articolo.