Il 14 ottobre 1965 la Olivetti presenta a New York la Programma 101, il primo personal computer della storia dell’elettronica. L’evento è epocale poiché negli anni Sessanta i ‘macinanumeri’ sono ancora macchine enormi, costosissime e inaccessibili, se non per l’intellighenzia militare e governativa. Occupano intere stanze e richiedono la collaborazione di diversi specialisti per la gestione e decodificazione dei dati. Nell’immaginario comune sono dispositivi sinistri, se non spaventosi, associati alla distuzione di massa, o nel migliore dei casi alla gestione fiscale. Potenti e spietati hanno ispirato numerosi film di fantascienza tra gli anni Sessanta e Settanta alimentando la paura di esserne spiati, sorvegliati. Improvvisamente, con la P101 l’immaginario si inverte e l’informatica passa attraverso l’imbuto che le darà forma e dimensioni non più di Stato, ma domestiche. Nei laboratori di Ivrea della Divisione Elettronica istituita da Adriano Olivetti, alla fine degli anni Cinquanta, si avvera il sogno della condensazione di decine di metri cubi, interi armadi di schede e transistor, in una macchina relativamente piccola, appena sei volte più grande delle macchine per scrivere portatili allora in commercio. Un miracolo alla Aldo Manuzio che, con le aldine, a fine Quattrocento anticipava le future edizioni tascabili. Progettata dall’ingegnere Pier Giorgio Perotto e disegnata da Mario Bellini, la P101 è relativamente leggera e relativamente semplice e, soprattutto, familiare, poiché appunto somiglia a una macchina per scrivere. I titoli delle principali testate mondiali riportano l’evento come qualcosa di straordinario, “il primo computer da tavolo del mondo” lo definisce il New York Times nel 1965.
La vittoria alla Olivetti è duplice, certo a trionfare è la macchina P101, ma a vincere è soprattutto quel ‘progresso’ che nei trent’anni di direzione di Adriano vuol dire innanzitutto centralità della persona, sviluppo di un nuovo Umanesimo, la rinnovata relazione tra industria e società. Primo personal computer significa allora avere stabilito un primo rapporto tra tecnologia e persona, abolendo il muro di diffidenza che li separava. A questo scopo i negozi Olivetti nel mondo si offrono come luoghi non solo di vendita, ma di formazione e assistenza continua. Se la marca Olivetti evoca in particolare una forte cura nel design è perché per Adriano il rapporto tra tecnica e persona si traduce nel rapporto tra tecnica e forma, quest’ultima chiamata ad addomesticare la tecnica alla persona. Allo stesso modo l’architettura e l’urbanistica hanno per lui il ruolo privilegiato di riscrivere il rapporto tra uomo e territorio, tra territorio e industria, tra industria e uomo. E la strana storia dell’industria Olivetti inizia con l’adozione di un territorio, il Canavese, e con la presa in custodia dei suoi abitanti.
La P101, così come molte delle precedenti macchine per il calcolo e la scrittura, è pubblicizzata da una elegante signorina che la usa al proprio tavolo con una certa disinvoltura a significare, da una parte, la relativa semplicità di utilizzo in una società in cui la scolarizzazione femminile è ancora impari rispetto a quella maschile. Dall’altra, invece, proprio a significare che per la Olivetti uomo o donna, nelle vesti di dipendente o di consumatore, sono solo due aspetti diversi del medesimo soggetto, centrale, la persona. A questa gli Olivetti riservano una tale quantità di iniziative di supporto individuale e famigliare da fare di questa fabbrica una sorta di felice società parastatale. Con la sua politica di prestiti agevolati, assegni familiari, maternità di nove mesi retribuita, servizi di supporto alla casa, servizi sportivi, formativi, sociali, assistenza sanitaria qualificata, asili nidi e scuole dell’infanzia all’avanguardia, la Olivetti negli anni si è spesso sostituita alla Pubblica Istruzione, alla Previdenza Sociale, al Servizio Sanitario Nazionale, distinguendosi per la sua straordinaria tutela del lavoratore. È la prima fabbrica in Italia a ridurre il carico orario dei suoi dipendenti, che godono tra l’altro di uno stipendio del 30% superiore rispetto ai colleghi in ambito nazionale.
Camillo Olivetti, nel fondare la sua fabbrica nel 1908, aveva abbandonato Milano e aveva scelto la piccola Ivrea e il suo comprensorio agricolo con la prospettiva di dare vita a un’industria che potesse crescere insieme a quel territorio e ai suoi ritmi naturali (Olmo 2001). Con gli anni la Olivetti assorbirà molti braccianti locali, offrendo loro assistenza e formazione in cambio di lavoro. Adriano nel 1955, in occasione dell’inaugurazione della fabbrica realizzata da Luigi Cosenza a Pozzuoli ricorderà che
[...] la fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all'elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare [...] fu quindi concepita alla misura dell'uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza (Olivetti [1955] 2012, 29-31).
Anche la catena di montaggio sarà rivista dagli psicologi dell’apposito Laboratorio Psicotecnico istituito da Adriano per mitigare gli effetti dell’automatismo industriale sul lavoratore. La divisione dei dipendenti in gruppi responsabili di interi processi di produzione fino al collaudo mira a restituire dignità attraverso la progressiva responsabilizzazione. Il progetto di Adriano è formare una “comunità di apprendimento” (De Giorgi, Morteo 2008, 100) nella quale a ogni dipendente sia aperto l’avanzamento professionale all’interno dell’azienda grazie a una vasta offerta formativa messa a disposizione dei lavoratori grazie ad apposite riduzioni di orario per consentirne la frequenza. L’idea, mutuata da Paul De Man è che, se l’operaio non si sente condannato a restare per tutta la vita proletario, il suo atteggiamento nei confronti del suo compito ne sarà del tutto trasformato e non alimenterà quel rancore che suscita nell’uomo il sentimento di essere invece definitivamente relegato a una classe inferiore. L’insieme di queste politiche risparmierà Ivrea dalla violenza delle contestazioni operaie degli anni di piombo.
Importanti, in particolare, alcuni aspetti dell’attività di Adriano: l’importazione a Ivrea del dibattito culturale internazionale da offrire ai dipendenti con l’idea di incrementare la loro consapevolezza critica, e dunque il loro grado di libertà personale; l’esportazione del modello Olivetti nel mondo, ovvero l’educazione alla dignità dei lavoratori, attraverso la costruzione di nuove sedi; l’istruzione dei clienti attraverso gli appositi spazi di formazione all’interno degli showroom.
L’idea di “educazione permanente” spinge Adriano a elaborare un programma scolastico e di iniziative culturali che in pochi anni porteranno a Ivrea architetti, fotografi, scrittori, artisti, scienziati da tutto il mondo. Nel 1935 fonda il Centro Formazione Meccanici che diverrà negli anni Cinquanta una scuola di eccellenza, presa a modello dalla regione Piemonte. Allo stesso modo l’Istituto Tecnico Industriale Olivetti, fondato nel 1943 e inizialmente destinato ai figli più meritevoli dei dipendenti, finirà con l’essere aperto a tutti, tramite concorso, proprio in virtù delle numerose richieste. Con l’avvio dell’elettronica, la Olivetti apre l’Istituto Tecnologico, per il quale chiama docenti dalle migliori università del mondo, ad esempio da Stanford e da MIT. Nel 1955 Adriano inaugura a Firenze il Centro Istruzione e Specializzazione Vendite, la prima scuola di marketing italiana, dove si studiano caratteristiche e capacità di adattamento dei prodotti.
Il progetto educativo olivettiano è rivolto tanto al dipendente quanto al consumatore, affinché il primo arrivi a coincidere con il secondo, aumentando il potere di acquisto degli operai e il loro grado di istruzione. Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia definisce
[...] la Olivetti di Ivrea il caso più notevole esistente al mondo […] un certo estetismo industriale, una preziosità è nell’architettura, negli uffici, persino nei capannoni delle macchine […] in Adriano Olivetti una mescolanza di spirito evangelico ed industrialismo (De Giorgi, Morteo 2008, 34).
Fotografi come Henri Cartier-Bresson, Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin si aggirano per i capannoni immortalando questo strano corpo operaio olivettiano. Dal 1950 Adriano istituisce anche un calendario culturale che porta a Ivrea mostre dei maggiori artisti viventi (George Braque, Pablo Picasso, Marc Chagall, Carlo Carrà, etc.) alcuni dei quali saranno presenti alle inaugurazioni. Allo stesso modo, grazie a cicli di conferenze annuali, in città passano pensatori del calibro di Norberto Bobbio, Károly Kerényi, Gillo Dorfes, Giorgio Caproni, Eugenio Montale, Michel Foucault e Roland Barthes, solo per fare alcuni nomi. Il progetto ‘Comunità’, anticipatore della casa editrice omonima, fissa i principi teorici di questo obiettivo, raccogliendo gli autori la cui visione meglio si presta all’avvio di un possibile Umanesimo industriale. Così Adriano diviene il veicolo per l’entrata in Italia di testi allora sconosciuti, costruendo una nuova prospettiva critica sulla situazione operaia, più cristiana e insieme anarchica, che fa da sponda alla letteratura marxista, in una Torino antifascista e in fermento per una nuova umanità, con l’editoria di Luigi Einaudi e Piero Gobetti. Fa tradurre tutti i principali testi di Simone Weil, dalla cui spiritualità per la condizione operaia mutua l’idea fondamentale che “la fabbrica dovrebbe essere un luogo di gioia, dove se anche è inevitabile che il corpo e l’anima soffrano, tuttavia l’anima possa gustare la gioia, nutrirsi di gioia” (Weil 1952, 268). Fa tradurre anche gli scritti di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain sulla dimensione plurale, spirituale, comunitaria della persona, contro ogni potere imposto, gli scritti di Nikolaj Berdjaev per riflettere su una rinnovata dimensione cristiana dell’uomo nell’era dei totalitarismi politici e economici.
A Ivrea la comunità diviene l’unica forma possibile per una crescita collettiva e singolare, in una fabbrica che è in realtà una città intera e il suo territorio, che non sono mai esclusi dai capannoni. Adriano promuove sempre la massima permeabilità tra l’ambiente di produzione e la natura all’esterno, in modo che le ore lavorative non siano sospensioni sottratte alla vita. Per questo le variazioni orarie di luce devono essere percepibili negli spazi di lavoro. Le testimonianze degli architetti che hanno lavorato a Ivrea riferiscono la totale libertà concessa da Adriano e allo stesso tempo l’assoluto vincolo progettuale, sempre nell’intervallo tra il luogo e la persona. L’architettura olivettiana, in particolare quella razionalista del periodo che precede la guerra, deve offrirsi come un connettivo quasi invisibile tra natura, uomo e industria. Il ‘Movimento Comunità’ ha lo scopo di fissare le regole non scritte di questa architettura, creando una certa continuità, dagli interventi di Ivrea a quelli di Pozzuoli, e poi nel mondo (Berta 1980).
Dopo la scomparsa di Adriano, il disegno prosegue con i progetti di James Stirling, Louis Kahn e Kenzo Tange chiamati, nonostante la loro notorietà, a operare in zone disabitate dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, del Giappone, fuori dalla luce dei riflettori (Olmo 2001): a ciascuno di loro è richiesto di rinnovare il rapporto luogo-persona-fabbrica nel proprio paese. Gli architetti chiamati a realizzare le sedi produttive sono preferibilmente locali proprio per l’accento posto sulla natura del luogo. Fa eccezione l’italiano Marco Zanuso con mandato per le sedi di Brasile e Argentina, ma è anche vero che all’epoca Zanuso era uno ‘sradicato’, una sorta di esploratore, reduce da quattro anni di navigazione nella marina militare.
Adriano chiama a Ivrea i progettisti più celebri del tempo, Ignazio Gardella, Luigi Figini e Gino Pollini, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Marcello Nizzoli, e affida loro, tramite numerosi incarichi diretti, la costruzione della nuova città di Ivrea, sulla sponda della Dora opposta al centro storico, al castello. Costruisce la grande dimora di un’intera comunità. Gardella definirà l’Ivrea degli anni Quaranta-Sessanta come “la Mecca dell’architettura moderna” (De Giorgi, Morteo 2008, 25). Giovanni Pintori dirà di Adriano che “non solo sceglieva gli uomini, ma dava suggerimenti e spunti critici fin sui particolari ultimi dell’opera” (Labò 1955).
Altro tema sono i negozi Olivetti nel mondo, per i quali Adriano chiama rigorosamente architetti italiani. Il tema non riguarda più il rapporto tra la natura del luogo e la comunità, ma la rappresentazione della comunità di Ivrea nel mondo. Quello che sta dietro le vetrine dei suoi negozi infatti non è solo il prodotto, ma in vendita c’è un sistema di pensiero, un modus vivendi che si trasmette attraverso l’utilizzo di questi strumenti, studiati appositamente per stabilire un particolare rapporto dell’utilizzatore con la quotidianità. Un rapporto intimo, fino ad allora sconosciuto alla tecnologia. Il destino della Lettera 22, tutta in alluminio, leggerissima e insieme elegantissima, disegnata da Nizzoli nel 1950, è di divenire un oggetto-simbolo, protagonista di sfondi di film e interviste, al punto da essere esposta in modo permanente al MoMA tra gli oggetti-feticcio del Novecento. Adriano anticipa di quasi mezzo secolo le strategie della Apple di Steve Jobs, dal disegno del prodotto fino al concetto di ‘comunità’, che la Apple rilancerà anche come slogan commerciale, la comunione nella condivisione degli stessi oggetti-icone. Il negozio di Manhattan al 584 di Fifth Avenue, nel cuore del Diamond District, è forse la testimonianza più evidente.
Il terzo showroom americano – che segue i negozi di Chicago e San Francisco a opera di Leo Lionni – è inaugurato nel 1954, al piano terra della World Diamond Tower, in un locale di 23 m di profondità per 5 m di altezza e 8 m di larghezza, uno spazio destinato a ricodificare le regole del mercato e della comunicazione. Adriano affida l’incarico al gruppo milanese BBPR che nel 1951 si era distinto per un allestimento vivace e insieme elegante alla Triennale di Milano, proprio in relazione al tema de La forma dell’utile, che vedeva vecchi e nuovi oggetti di uso in relazione all’evoluzione culturale (Maffioletti 1998). Il risultato dei BBPR è uno spazio che trascende la funzione commerciale e, in breve, diviene un luogo in cui di giorno vale la pena passare il tempo, sperimentando le macchine esposte, messe liberamente a disposizione. Di notte una vetrina delle meraviglie, densa di materia e colore, da cui ammirare la ruota che gira portando in giostra i diversi modelli di macchine per la scrittura e il calcolo. Uno spazio coloratissimo, in un mondo che ricominciava appena a uscire dal bianco e nero. Il volume è lasciato quasi completamente vuoto, solo un soppalco in marmo rosa fa da quinta di fondo, e lo spazio è organizzato con leggerezza gioiosa. La vetrina, arretrata rispetto alla linea del marciapiede, crea uno spazio coperto, un’anticamera intima. Il pavimento è un manto di marmo verde valdostano che dal marciapiede si estende fino all’interno, dove idealmente si inarca sollevando sinuose stalagmiti sulle quali sono esposte le singole macchine.
Dall’alto, in corrispondenza, scendono invece lunghi lampadari di Venini in vetro di Murano, coloratissimi, che diffondono una luce morbida sul bassorilievo di sabbia e gesso che sagoma l’intera parete sinistra del locale dal forte sapore mediterraneo, opera di Costantino Nivola (Cosentino 2018). I materiali sono tutti rigorosamente italiani.
L’impressione che ne risulta è, più che di un negozio, di una accogliente sala di museo, con preziose opere esposte a parete, sulle colonnine di marmo verde, sulla lastra di marmo rosa di Candoglia, sulla ruota in continuo movimento. Thomas Watson della IBM confessò anni dopo di essere rimasto molto colpito dallo showroom di Fifth Avenue: tutte quelle macchine colorate che mettevano in mostra una Italia vivace e innovativa, mentre le IBM erano allora rigorosamente nere (Larizza 2018). Quello di New York è il decimo showroom importante dell’era di Adriano, come gli altri impostato secondo uno schema in cui architettura e avanguardia artistica sono chiamate a garantire per il prodotto, in un’epoca in cui la tecnologia ha bisogno di ancorarsi a linguaggi consolidati per legittimarsi come oggetto e poi come simbolo.
L’integrazione tra architettura e prodotto fin dai primi del Novecento in Italia ha esempi notevoli di negozi, come quello di Giuseppe Terragni per la Vitrum, la Parker di Edoardo Persico e Marcello Nizzoli, il negozio di ottica di Mario Asnago e Claudio Vender a Milano, i molti allestimenti e fiere dell’epoca (Scodeller 2007). Tra i primi negozi della lunga serie Olivetti c’è quello di Torino affidato nel 1935 a Xanti Schawinsky, che Adriano chiama come responsabile della pubblicità, e che provenendo dal Bauhaus ha lunga esperienza di grafica e visual design (Persico 1931). Di fatto il progetto che presenta non si concentra sugli arredi ma sulla combinazione di immagini e colori e sui reciproci accordi. L’attenzione è sul concetto più che sull’oggetto in sè, costruendo così il prototipo dei futuri concept-store. Edoardo Persico in “Domus” lo stesso anno riconosce nella purezza quasi incantata di quest’opera il particolare carattere metafisico che distingue il razionalismo italiano da quello europeo.
È questo il momento in cui anche Costantino Nivola e Giovanni Pintori entrano nel mondo della comunicazione grafica della Olivetti (Fioravanti et al. 1997). In quegli anni a Ivrea sono in pieno lavoro i cantieri di Figini e Pollini per l’ampliamento della sede storica e la costruzione del primo asilo di fabbrica; si avviano la realizzazione del servizio mensa e i servizi infermieristici e sociali. Il programma dei negozi è la proiezione di questo sogno lungo i marciapiedi delle città dove arriva.
A Milano l’effetto è tale infatti che, sotto la direzione di Pintori insieme ad Antonio Bernasconi, dal 1937 il negozio in galleria Vittorio Emanuele è organizzato in forma di apparizioni. Allestimenti temporanei continui, eventi, ciascuno che racconta una storia, un particolare da cui nascono le macchine Olivetti. Per la MP lo slogan di fondo recita “Per i viaggi, per le vacanze. Olivetti portatile” e una statua classica e le vele di una barca dicono la semplicità del trasporto al mare e in missioni di lavoro.
Per la Studio 42 Pintori e Bernasconi puntano sulla velocità di battitura associandola alla velocità del parlato di una donna al telefono tra cavi e caratteri tipografici; in un ulteriore allestimento la macchina per scrivere è paragonata al gioiello da regalare alla propria amata. Poi c’è la serie ideata da Pintori che vede le diverse macchine scomposte nei loro elementi costitutivi e nelle diverse composizioni si mostra la qualità dei singoli componenti, il loro potere seduttivo e insieme l’alta precisione tecnica. Si tratta dei primi oggetti così personali e, allo stesso tempo, così complessi e inaccessibili da non potere nemmeno essere aperti e riparati dai propri proprietari, come accadeva invece per qualsiasi precedente strumento di lavoro o di svago. Così come è iniziata l’era della tecnologia al servizio dell’individuo, allo stesso tempo inizia l’era dell’autonomia degli oggetti rispetto all’uomo. Con orgoglio Adriano ripete della Lettera 22 che “Questa macchina viene da Agliè” (Berta 2011); da una zona apparentemente al grado zero della ricerca tecnica, la macchina per scrivere più celebre del mercato internazionale.
Per lo showroom di Roma Adriano cerca il sapore forte del contrasto tra il purismo di Ugo Sissa e il realismo vivace di Renato Guttuso al quale, inaspettatamente, affida l’intera parete laterale, su cui l’artista dipingerà la celebre tela Boogie Woogie. Il murale accende lo spazio diafano di Sissa, composto di tre piani collegati da una scala leggerissima in cui persino le alzate spariscono per conferire all’interno una atmosfera sospesa. Il risultato sarebbe stato troppo milanese per Roma. Paolo Portoghesi ricorda come Sissa avrebbe desiderato per la sua parete un artista astratto, ma con un colpo di genio Adriano all’ultimo assesta il colpo e il progetto è raffinatissimo e, allo stesso tempo, perfettamente romano, rinnovata testimonianza della sua attenzione ai luoghi, come già dimostrato nel progetto per Matera con Ludovico Quaroni, nel PRG della Valle d’Aosta e, primo tra tutti, nel territorio Canavese. Lo stesso ingegno con cui, quando aveva fatto svolgere l’indagine di mercato in preparazione della Lettera 22, al desiderio diffuso di una macchina “solida e robusta” aveva risposto con una macchina leggerissima e aerodinamica (D’Orrico 2013).
Il sistema di scale all’interno del negozio di Roma diviene la cifra dei successivi showroom e risponde alla necessità di offrire al pubblico un punto vendita che è anche un luogo di consulenza sull’utilizzo dei prodotti, di manutenzione e, in particolare, di apprendimento delle tecniche di dattilografia. I corsi di dattilografia costituiscono una diversa declinazione della “formazione permanente” cara a Adriano.
I molteplici programmi educativi si legano intimamente al prodotto Olivetti: non automobili per classi ricche, ma macchine per scrivere, strumenti di cultura destinati a tutti. La lezione di Simone Weil sembra riecheggiare oltre che negli stabilimenti anche nella organizzazione dei punti vendita: bellezza degli spazi e massima libertà di movimento sono alla base, oltre che della strategia di vendita, di quella più vasta idea di amore che è il motore intimo dell’industria di Adriano Olivetti.
Due macchine in particolare forse sono simboliche della dimensione intima e insieme trasgressiva tra individuo e tecnologia, la macchina per scrivere Valentine disegnata da Ettore Sottsass e la calcolatrice Divisumma 18 di Mario Bellini, ambedue in mostra permanente al MoMA. La Valentine, in plastica rossa, più che uno strumento di lavoro pare un grande giocattolo, un oggetto pop, molto allegro e insieme molto serio, che non ha bisogno di valige perché è già dotata di maniglia essa stessa e le basta entrare e uscire dal suo apposito guscio rosso. La grafica pubblicitaria che accompagna la sua uscita è condotta su toni scherzosi e giovani. È l’anno successivo al Sessantotto, l’anno del primo uomo sulla Luna. La Valentine costa poco e vuole raggiungere più persone possibile. L’altra è la Divisumma 18. Bellini ne fa un oggetto portatile, grande poco più di un grande portafogli. Morbido, persino soffice, un oggetto sensuale. I tasti, nella metafora di progetto, dovevano ricordare la consistenza di capezzoli e, allo scopo, erano ricoperti di una membrana continua di gomma morbida. Era il 1973, Adriano ormai mancava da oltre dieci anni, ma il significativo investimento che aveva fatto sul design del prodotto come mezzo per rendere accessibile l’alta tecnologia dei suoi contenuti a tutta la società in modo trasversale continuava a dare risultati sorprendenti.
Anche le campagne pubblicitarie riflettevano il medesimo principio di integrazione di più discipline. Adriano aveva trasferito a Milano fin dal 1928 l’Ufficio Pubblicità, crocevia di grafici di diverse scuole, con lo scopo di addensare attorno ai suoi prodotti quante più suggestioni possibili. Si ricordano i manifesti di Milton Glaser per la Valentine, montata all’interno di un dettaglio del dipinto La morte di Procri di Piero di Cosimo, a fianco al cane, come a volere offrire anche a lui uno strumento, un linguaggio per esprimere il proprio dolore.
O, sempre la Valentine, riposta in un armadietto rinascimentale tra i poliedri e i geoidi delle tarsie lignee di Fra Giovanni da Verona, a creare un ponte tra antico e moderno per educare un nuovo Umanesimo che deve rigenerarsi alla luce della nascente rivoluzione del sapere.
L’angelo in gesso di Jenny Wiegmann Mucchi che scende in volo a prendersi una macchina da scrivere nella vetrina del negozio di Napoli disegnato da Piero Bottoni, Mario Pucci e Marcello Nizzoli nel 1937 si inserisce all’interno della lunga narrazione olivettiana di miti. Napoli, per questa immagine angelica è, di nuovo, perfettamente azzeccata (Pagano 1938; Montuono 2014).
Così come a Venezia, nel celebre “negozio non negozio” come lo aveva definito Adriano nell’affidare l’incarico a Carlo Scarpa, è l’immagine del grande volume di bronzo sospeso con leggerezza sull’acqua a inserirsi in modo fulmineo nel contesto lagunare. La scultura di Alberto Viani e lo specchio di acqua su cui poggia rafforzano la divisione a metà di uno spazio stretto e lungo di dimensioni simili a quelle dello showroom newyorkese dei BBPR. L’intervento, come noto, è una sintesi dei caratteri più intimamente veneziani. A cominciare dai materiali, legno, vetro di murano, pietra d’Istria, pietra d’Aurisina, oro, fino alle soluzioni formali, come il pavimento rialzato contro le alte maree, che conferisce una visione prospettica a questo interno, facendo dei pavimenti, lavorati cromaticamente a settori come in un dipinto di Paul Klee, i protagonisti dell’allestimento.
Sul fianco che affaccia sulla corte del Cavalletto, Scarpa incide nella pietra d’Istria grezza il logo Olivetti con caratteri perfettamente levigati, su una lastra grande come l’intera vetrina accanto, quasi una lastra sepolcrale di chiusura, ma che rimane sempre aperta. Perché questo non deve essere un negozio in effetti, ma “un biglietto da visita nella più bella piazza del mondo”, un monumento ad eterna memoria e Scarpa tratta questo spazio con la stessa attenzione e delicatezza espositiva usata per il museo di Castelvecchio (Ragghianti 1959; Lanzarini 2011). Esisteva già da vent’anni infatti, a pochi metri di distanza, in Bacino Orseolo, un punto vendita Olivetti progettato nel 1938 da Nizzoli, poi rinnovato da Bernasconi e Pintori, di nuovo su due livelli, anche qui con i colori della pittura veneziana, il rosso degli arredi, il bianco burro del marmo botticino, il nero del profilo delle scale e il verde acqua del murale. I toni di Giovanni Bellini, ma anche della darsena piena di gondole di fronte alla vetrina.
Questi sono solo alcuni dei negozi più significativi dell’era di Adriano, che seguì personalmente incarichi e programmi anche di quelli di Tokyo, Vienna e Le Havre commissionati a Bernasconi, di Zurigo affidato a Hans Roth nel 1954, di Londra e Caracas a Egidio Bonfante, di Parigi a Franco Albini e Franca Helg, di Düsseldorf a Ignazio Gardella, etc, Decine i punti vendita in Italia, luoghi per resistere contro il rischio neutralizzante degli automatismi dell’industria e del mercato. Una assistenza e formazione continue che proiettano anche in questi piccoli spazi di commercio il riflesso della comunità costruita a Ivrea. L’idea di fondo che fosse il capitalismo stesso a imporre alcune necessarie correzioni socialiste nel sistema sociale e economico del tempo.
Quando nell’ottobre del 1965 la Olivetti presenta a New York il primo personal computer della storia, la P101, in realtà lo stabilimento sta toccando il punto di arrivo più ambizioso di tutta la sua produzione, nonostante sia in forte recessione. Adriano morì nel 1960, come pure Mario Tchou, l’ingegnere che ha avviato la Olivetti all’elettronica, ambedue in circostanze mai chiarite. Il figlio Roberto, sotto forti pressioni economiche e politiche, dovette cedere nel 1964 la Divisione Elettronica alla General Electrics. Ma ad assemblare la P101 è proprio un gruppo di ingegneri transfughi che decidono di rientrare alla Olivetti e, sotto la direzione di Roberto Olivetti, mettono in piedi questo prodigio. La presentazione americana è un trionfo. Fra i primi a intuire le potenzialità di questa macchina sono gli scienziati della NASA, che ne acquistano quarantacinque esemplari per compilare le mappe lunari ed elaborare la traiettoria del viaggio della missione Apollo 11, che nel 1969 porterà per la prima volta l’umanità sulla luna.
Adriano, quell’uomo timido che “sembrava, nella folla, un mendicante e sembrava, nello stesso tempo, anche un re. Un re in esilio” (Ginzburg 1963, 164) e che fin da giovane amava accogliere sulla sua automobile anziani o malati che faticavano a rientrare a casa sui loro piedi, aveva accolto nel suo sogno umano e insieme titanico, un’intera regione di contadini, centinaia di ingegneri e migliaia di increduli. Con decenni di ricerca li ha portati, nel 1969, a sfiorare la Luna.
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English abstract
The name Olivetti has the vintage feel of the very first computers and typewriters, today cult objects. More than a brand, Olivetti seems to give geographic consistency to a population, the community that Camillo and Adriano Olivetti built around their industry in Ivrea. Olivetti instructed the best architects to build a new city: like a Renaissance prince, he aimed to make of Ivrea a “Mecca of modern architecture”, a place attracting the best artists, intellectuals, and scientists. Olivetti produces type-writers which are culture-writers, a product needing preparation and boosting new education. Olivetti asked his employees for work in exchange for social services, in particular, for training. Ivrea became a parallel state, organized according to the principles of a new humanism in the age of industry. The person is the center of research activity and the dimensional scale of all the programs carried by Olivetti. At Olivetti with Nizzoli, Sottsass, Bellini, etc., design creates a relationship between person and technology, contributing to creating the first personal computer in the world. Architecture (Figini-Pollini, Gardella, BBPR, Zanuso, Cosenza, etc) aims to reconnect land to industry in order to create a new relationship between industry and humanity. Architecture in Ivrea was asked to be an invisible connector of man to community; of community to industry; of industry to land. This article focuses on two specific actions produced by Olivetti: the import of world culture to Ivrea and the export of Ivrea’s cultural model to the world. Architectural showrooms built on the Ivrea model train not for the person-as-producer but the person-as-addressee.
keywords | Olivetti; Ivrea; Computers; Programma 101; Modern; Architecture; Technology; Industry.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Pisciella, Olivetti e Ivrea, l’altra faccia della Luna, ”La rivista di Engramma” n.166, giugno 2019, pp. 267-282 | PDF