*Marco Biraghi, professore ordinario di Storia dell’Architettura Contemporanea al Politecnico di Milano. Ha da poco pubblicato L'architetto come intellettuale (Torino 2019).
Si potrebbe osservare come da un certo punto di vista sia proprio l’assenza – e finanche il deserto – di comunità ad indicarne l’esigenza come ciò che ci manca, e anzi come la nostra stessa mancanza.
Roberto Esposito, Communitas
A varie riprese, negli ultimi trent’anni, il pensiero filosofico si è interrogato sul senso – oltreché sulla sostanza stessa – della ‘comunità’. Termine scivoloso, per le risonanze che esso porta con sé, “cristiano-personaliste e conservatrici, o addirittura fasciste e fascistizzanti”, secondo Jean-Luc Nancy (Nancy 1992, 7-8).
Sicuramente, come ha notato lo stesso Nancy, “comunità non è una parola della sinistra”. Ma altrettanto sicuramente è una parola che ha mobilitato le menti migliori della cultura del tardo Novecento alla ricerca delle ragioni della rottura apparentemente irreparabile in cui essa si è trovata coinvolta, al punto da rendere difficile – se non addirittura impossibile – oggi parlare ancora di comunità.
Per il mondo degli architetti e degli urbanisti, invece, il termine comunità vive al riparo da qualsiasi problema, rimandando inequivocabilmente alla ‘Comunità’ olivettiana. Anzi, per essi (non solo, ma in modo prevalente), l’esistenza della Comunità olivettiana è la dimostrazione – o il perpetuarsi dell’illusione – della possibilità della sopravvivenza della comunità: non foss’altro che quella costituita dal gruppo di architetti (in verità alquanto difformi tra loro sotto molteplici aspetti) che a diverso titolo e in diversi momenti, già prima della guerra e poi ancora in seguito, sono stati coinvolti a Ivrea, a Pozzuoli e in tutti gli altri scenari delle imprese olivettiane: Luigi Figini e Gino Pollini, Studio BBPR, Eduardo Vittoria, Marcello Nizzoli, Gian Mario Oliveri, Gian Antonio Bernasconi, Annibale Fiocchi, Luigi Cosenza, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Gino Valle, Iginio Cappai e Pietro Mainardis, per ricordare solo i principali tra quelli italiani (su Olivetti e l’architettura, v., fra gli altri, Labò 1957; Olmo 2001; Astarita 2000; Bonifazio Scrivano 2001; Cosenza 2006).
Se dunque Olivetti, da questo punto di vista, ha avuto un ruolo essenziale e innegabilmente reale, concreto, fattivo, nel campo della committenza del secondo dopoguerra, la sua Comunità ha avuto invece il potere di imporsi soprattutto come ‘mito’: ovvero, non tanto come qualcosa di leggendario o d’irreale, quanto piuttosto come qualcosa di non pensato sino in fondo, qualcosa i cui presupposti – prima ancora che le sue conseguenze – sono rimasti celati proprio a chi avrebbe dovuto (o voluto) occuparsene. Ed è proprio il carattere di ‘sacralità laica’ di cui la Comunità olivettiana è sempre stata ammantata ad aver rappresentato l’ostacolo principale alla possibilità di concepirla nella sua effettività, come ‘principio speranza’, piuttosto che come realtà. Non a caso, in L’ordine politico delle Comunità, la trattazione organica del suo pensiero in materia di organizzazione statuale, Olivetti postula una “società umana, solidarista, personalista”, ovvero una “società socialista-comunista e cristiana” (Olivetti [1945] 2014, 16; v. anche Olivetti 1952; Olivetti [1956] 2013). Di tale società la Comunità non costituisce l’esito bensì l’indiscusso fondamento: “La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà” (Olivetti [1945] 2014, 24). “Creando un superiore interesse concreto”, afferma Olivetti, la Comunità tende a “comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini” (Olivetti [1945] 2014, 24).
Nella realtà, la perdita della comunità risale a ben prima di quando il movimento di Adriano Olivetti non abbia provato a riformulare il problema, ponendosi al tempo stesso come sua soluzione. La coscienza della perdita – e il conseguente rimpianto per essa – compare già in Jean-Jacques Rousseau, alla metà del Settecento. Lungi dall’esserne il momento genealogico, però, l’analisi del pensatore francese proietta all’indietro quella stessa coscienza, coinvolgendovi ogni evento passato:
Tutta la storia umana, per Rousseau, porta dentro tale ferita che dall’interno la corrode e la svuota. Essa non è interpretabile che in ragione di questo “impossibile” – di ciò che essa non è, né potrà mai essere – da cui, tuttavia, si origina in forma di necessario tradimento (Esposito 2006, 30).
Da ciò discende che
In ogni momento della sua storia [...] l’Occidente è già sempre consegnato alla nostalgia di una comunità più arcaica e ormai scomparsa, al rimpianto di una familiarità, di una fraternità e di una convivialità perdute (Nancy 1992, 34).
Non vi sarebbe dunque alcun tempo nel quale la comunità si sia affermata positivamente, come entità capace di unire armoniosamente i suoi membri sulla base di caratteri o elementi comuni. La comunità in questi termini è già sempre una proiezione mitica, un ideale da inseguire vanamente più che un obiettivo concretamente raggiungibile o raggiunto.
Vi è tuttavia una condizione nella quale la comunità ha la capacità di compattarsi e di sussistere nella propria immanenza: e questa condizione è la morte. Storicamente, immolare la propria vita in guerra per la patria, sacrificarla per una ‘causa’, ma al limite anche semplicemente morire, da un punto di vista religioso, ha sempre sancito un’appartenenza, il far parte di una comunità: la comunità che si crea nella morte. L’essere mortali degli uomini, in questo senso, non si configura come un semplice ‘destino’, bensì come qualcosa che necessita di essere dimostrato attraverso l’atto stesso del morire. La comunità dei mortali è dunque l’unica che possa dirsi davvero tale: dove ciò che accomuna i suoi membri, ciò che li tiene letteralmente insieme, però, non si configura mai come opera collettiva o comune:
Una comunità non è il progetto di una fusione né in generale un progetto produttivo o operativo – essa non è affatto un progetto (Nancy 1992, 43-44).
L’unica comunione possibile per la comunità dei morti è qualcosa che si sottrae alla fattività della produzione, e per ciò stesso nulla che ciascuno dei suoi membri possa dire di possedere; piuttosto qualcosa che per tutti costituisce una privazione, un’assenza. Ciò sgombra il terreno dagli equivoci di cui l’ideologia comunitaria olivettiana è stata involontaria portatrice. Se “la morte è inseparabile dalla comunità, perché è attraverso la morte che la comunità si rivela” (Nancy 1992, 41), la Comunità di Olivetti – così positivamente animata dal progetto di uno spazio fisico, culturale e politico da condividere, uno spazio-in-comune tra i vivi – finisce con l’essere una parodia della comunità, o più semplicemente un’evocazione letteraria e idealizzata della stessa.
Ed è proprio a partire da questa coscienza che si può tornare ad accostarsi al concetto di comunità non più come “una ‘proprietà’ dei soggetti che accomuna” (Esposito 2006, VIII), quanto piuttosto come ciò che si istituisce su una fondante mancanza. Anche da un punto di vista etimologico, del resto, il termine communitas si riferisce esplicitamente al munus, ovvero al dono che si dà, non a quello che si riceve: “un onere, o addirittura una modalità difettiva” (Esposito 2006, XIII): un meno, piuttosto che un più. Ne risulta che la communitas è l’insieme delle persone unite da un dovere o da un debito. Pertanto
Nella comunità, i soggetti non trovano un principio di identificazione [...]. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi (Esposito 2006, XIV).
A questo concetto di communitas basata su qualcosa che manca a tutti i suoi componenti – sotto molti aspetti, una comunità impossibile – si affianca e contrappone polarmente il concetto di immunitas, epitome della condizione di separatezza moderno-contemporanea.
Non c’è bisogno di ipotizzare nessun idillio comunitario precedente, nessuna primitiva ‘società organica’ – esistente soltanto nella imagerie romantica ottocentesca – per rilevare come la modernità si affermi separandosi violentemente da un ordine i cui benefici non appaiono più bilanciare i rischi che essi comportano come le due facce indissolubilmente congiunte nel concetto bivalente di munus: dono e obbligo, beneficio e prestazione, congiunzione e minaccia. Gli individui moderni divengono davvero tali – e cioè perfettamente individui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che li isola e li protegge – solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione (Esposito 2006, XXI).
E tuttavia, l’immunizzazione dell’individuo moderno-contemporaneo dal ‘contagio’ comunitario non destituisce di senso quell’impossibile comunità che si afferma sottraendosi; anzi, in una certa misura la certifica.
La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è impossibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o addirittura inaccessibile, comunità (Nancy 1992, 78).
È tra l’individuazione che rifugge ogni implicazione vincolante con l’altro e l’impossibile-inaccessibile comunità che si muove la condizione attuale. Una condizione nella quale l’ossessivo affermarsi dell’individualità si staglia problematicamente sul vuoto vorace della comunità.
Bibliografia
- Astarita 2000
R. Astarita, Gli architetti di Olivetti. Una storia di committenza industriale, Milano 2000. - Bonifazio Scrivano 2001
P. Bonifazio, P. Scrivano, Olivetti costruisce. Architettura moderna a Ivrea, Milano 2001. - Cosenza 2006
L. Cosenza, La fabbrica Olivetti a Pozzuoli, Napoli 2006. - Esposito 2006
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 2006. - Labò 1957
M. Labò, L’aspetto estetico dell’opera sociale di Adriano Olivetti, Milano 1957. - Nancy 1992
J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Napoli 1992. - Olivetti [1945] 2014
A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità [1945], Roma-Ivrea 2014. - Olivetti 1952
A. Olivetti, Società, stato, comunità: per una economia e politica comunitaria, Milano 1952. - Olivetti [1956] 2013
A. Olivetti, Il cammino delle Comunità [1956], Roma-Ivrea 2013. - Olmo 2001
C. Olmo (a cura di), Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica, Torino 2001.
English abstract
Marco Biraghi focuses on the concept of community, its different ambiguous meanings, among which stands Olivetti’s idea of a concrete community. Biraghi addresses the concept of community conceived as the foundation of society, a positive project of a physical, cultural and political space that shares much with that which emerges from the reflections of Jean-Luc Nancy and Roberto Esposito: a community based on absence, on the emptiness that allows the affirmation of the absolute individual. Concluding that “the present is moving between an individuation that avoids any implication of boundedness with the other, and the impossible-inaccessible community”.
keywords | Community; Olivetti; Society; Individualism.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Biraghi, Comunità. In risposta a 11 domande su Olivetti, “La rivista di Engramma” n.166, giugno 2019, pp. 57-62 | PDF