Cronaca, documento, rievocazione di un mistero italiano
Il caso Mattei di Francesco Rosi
Marina Pellanda
English abstract
Capita di rado ma, a volte, le intuizioni geniali di chi con esse ha contribuito al riassetto delle modalità della visione e della narrazione, superando i confini dell’opera, si riflettono sulla persona che l’ha creata. E così, il tessuto di sguardi con cui Francesco Rosi nel suo fare cinema dà forma alla realtà, è riconoscibile, senza temere i soprassalti dei diffidenti rispetto al dato biografico come operatore di analisi, anche nella sua fisicità. Infatti, se coloro che l’hanno conosciuto lo descrivono quasi con una sineddoche ricordandone di preferenza le grandi mani e lo sguardo fiero, come mostreremo analizzando Il caso Mattei (1972), nell’importanza del gesto all’origine del film il ruolo di questi accidenti biografico-descrittivi è fondamentale.
In effetti, visto oggi, il film di Rosi su Mattei non sembrerebbe nemmeno più fuori dagli schemi. Tuttavia nessuna parola può restituire la sensazione tattile lasciata negli occhi da queste immagini che, cercando una risposta al mistero della morte del presidente dell’Eni, segnando la nascita di un nuovo modo di raccontare documentando, originano quella che Focillon, in polemica contro ogni mano “paralizzata” in atti puramente formali e astratti, prigioniera di idées reçues e formule sclerotiche, chiama “poesia dell’azione” (Focillon [1934] 1990). Ed è, quella di Rosi, una poetica che, proprio combinando occhio e mano – non sarà un caso che l’occhio, nel seguire la forma delle cose e valutarne la densità relativa compia lo stesso gesto della mano – partendo dalla cronaca della realtà scelta come campo di indagine, scomponendo la cronologia dei fatti in una serie di episodi ritenuti salienti, arrivi infine a riorganizzarne i diversi nodi per illuminarla con un significato nuovo.
La ricerca della verità diventa dunque la ragione di ordine teorico che, fondando in termini di linguaggio la specificità del cinema di Francesco Rosi e fatta salva la funzione di Enrico Mattei come personaggio rivelatore della complessità storica e politica di una certa situazione, ci permette di immaginarlo passare con occhi e mani alacri da un medium all’altro con l’intenzione di rendere tangibile una speculazione astratta. A renderla autentica una regia che, operatore dello stile rispetto alle immagini che sceglie di intersecare, origina una concretezza che sembra favorita anche dall’anno di nascita del film, quel 1972 in cui ancora pulsa nell’imperfezione tattile della pellicola la preistoria di quelli che un tempo si chiamavano teneramente ‘audiovisivi’.
Enrico Mattei raccontato da Rosi, e reso evidente dalla forza della presenza che sullo schermo ha sempre Gian Maria Volonté in questo caso interprete del ruolo eponimo della vicenda, pur se la finzione vera e propria è quantitativamente preponderante, ha bisogno ‒ introduzione alla sua ambizione di esistere ‒ della ricostruzione di taglio giornalistico dell’inchiesta seguita all’incidente aereo nel quale Mattei morì, di materiale originale di repertorio che si combina con la messa in scena, degli interventi in cui è addirittura il regista stesso a esibire il lavoro preparatorio per il film. È un tipo di lavoro che, obbediente alla dittatura della verità, segna quel filone dalla critica denominato film-inchiesta con cui Rosi, e ancora una volta dopo Salvatore Giuliano (1962), per la creazione dell’immagine di Mattei, si concentra nella fissazione – chiave di volta rispetto al materiale eterogeneo di cui il film è composto – della dispersione cui il protagonista di un racconto, come quello de Il caso Mattei strutturato ‘a mosaico’, sembrerebbe irrimediabilmente destinato.
Meno lirico, meno dolorosamente e orgogliosamente ‘cinema’, Il caso Mattei imbroglia le carte in modo splendidamente wellesiano (F for fake, 1973) tanto è vero che, secondo Morando Morandini, e non sarà un caso,
[...] il modello lontano di Giuliano, ma anche di Il caso Mattei e Lucky Luciano, è Citizen Kane (Quarto potere) [di Orson Welles], arricchito del neorealismo e delle ricerche linguistiche che nel cinema europeo contraddistinsero gli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60 (Morandini 2012).
Nelle mani di Rosi, regista che non a caso e ancora wellesianamente è stato raccontato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia in un film, Citizen Rosi (Gnocchi, Rosi, 2019) dal titolo emblematico, il cosiddetto “cinema politico”, nato in Italia intorno al 1970, sembra a volte accogliere su di sé anche una connotazione che, centrandosi sul personaggio – accade con Enrico Mattei ma anche con Lucky Luciano e persino con Salvatore Giuliano – sembrerebbe risolversi in una tensione puramente individualista. Tuttavia, se stando a quanto afferma Giorgio Cremonini forse si tratta del “personale che trapela dietro al politico, inquinandolo, realizzando quella dicotomia tipica dell’individualismo borghese” (Cremonini 1976), per certo l’inchiesta incalzante con cui Rosi affronta la vicenda di Enrico Mattei come presidente dell’Eni, estendendo il sostrato politico a una situazione dialettica in cui vive sia le tesi dell’assassinio che quella dell’incidente, compie un atto politico indiretto.
E dunque, è proprio perché nel cinema di Rosi il filo del discorso, pur con accenti più o meno infuocati, non rinuncia all’aggancio emozionale che stimoli lo spettatore, a nostro avviso si può ritenerlo atto politico indiretto. In esso infatti domina soprattutto l’impegno civile e, come afferma Sandro Zambetti, se ‘civile’ tra le immagini di questo regista è da intendersi come contrario di ‘politico’, ecco che, nel trionfo della possibilità formale dell’epifania improvvisa di Enrico Mattei attraverso Gian Maria Volonté (Zambetti 1974, 9), il film che racconta il presidente dell’Eni, non è né finzione né simulazione ma, come ogni volta che una delle due o entrambe riescono, è incontro e contaminazione all’origine della quale va posta l’esposizione coordinata di elementi così vari e diversificati. Questa scelta forse non permette allo spettatore di calarsi totalmente nell’illusione cinematografica ostacolando così il meccanismo per cui chi guarda solitamente si identifica con il personaggio e, tuttavia, lo scarto che combinando immagini reali e di finzione Rosi crea, spingendo il pubblico al ragionamento autonomo rispetto a ciò che vede, gli permette di porsi a una distanza critica. Quindi Enrico Mattei, se originato dal binomio Francesco Rosi e Gian Maria Volonté, produce ‒ giocando col cinema come dispositivo ma anche col film come prodotto estetico che nasce passando altresì dalla recitazione dell’attore protagonista ‒ un ‘mostro’ da intendere nel senso etimologico del termine, collegato al latino monere (avvertire, ammonire). Ad impersonarlo concorrono con il gioco plastico, libero e scatenato che compete ad ognuno secondo il suo ruolo, sia la macchina da presa di Rosi che la performance d’attore di Gian Maria Volonté.
Nel messaggio del film, Rosi intreccia due motivi rendendo in primo luogo una testimonianza controcorrente che fa giustizia della sentenza del 31/3/1966 emessa dal giudice istruttore del Tribunale Civile e Penale di Pavia nella quale, tra le altre cose, si legge:
[...] esperiti tutti gli accertamenti necessari, ed utili ai fini della verità, appare subito chiaro che, non solo non è emerso alcun elemento atto a suffragare le formulate ipotesi delittuose, ma addirittura, per taluni fatti e circostanze di sapore indiziante, si è raggiunta la prova certa ed assoluta della loro insussistenza (Rosi, Scalfari 1972,169).
In secondo luogo, ed è proprio la progressione implacabile della costruzione narrativa dell’interpretazione di Gian Maria Volonté a fornire tra le altre anche questa chiave di lettura, un resoconto di quei misfatti che, sottesi all’incidente aereo in cui Mattei perse la vita, raccontando il fascino del potere ne denunciano ciò non di meno i suoi misfatti.
L’Enrico Mattei di Volonté, come qualche anno prima il sottotenente Ottolenghi di Uomini contro interpretato sempre per Rosi nel 1970, è appunto un ‘uomo contro’. Un uomo che, al di là delle nemesi storiche e delle fatalità metafisiche, ha dietro ogni sussulto individuale dell’imprenditore, poi diventato presidente dell’Eni, una seconda ben concreta linea di forze politiche a garantire che egli si muova nella ‘direzione giusta’ ovvero quella che gli è stata ‘comandata’. Gli ‘uomini dietro’ – coloro che alla fine della guerra lo nominano commissario liquidatore dell’Agip e rispetto ai quali di fatto tradì il mandato ricevuto trasformando la piccola compagnia italiana in un colosso capace di competere con le potenti compagnie straniere – e gli ‘uomini contro’ – i colossi dell’estero in campo petro-metanifero ma, anche, le resistenze politico mafiose che suscitò con i suoi progetti di industrializzazione del meridione – rendono il Mattei di Rosi e Volonté l’avvincente ritratto di un capo dal carattere audace e retto, dominato dal gusto della sfida, dal piacere per l’avventura e il rischio sullo sfondo di lotte implacabili che, senza sosta, investono i destini di un popolo.
Il caso Mattei restituisce il suo protagonista rendendo evidente la sua validità di ‘oggetto sociale’ ed è proprio questo particolare accento a consentire, forti anche del fatto che nel 1972 il film di Rosi vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes ex-aequo con La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, un paragone tra i protagonisti di questi due film.
La classe operaia va in paradiso, dopo A ciascuno il suo (1967) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), è il terzo titolo dovuto alla collaborazione del trio Petri – Pirro – Volonté e, esattamente come accadrà con l’Enrico Mattei di Rosi, anche Lulú Massa, che è appunto l’operaio protagonista del film di Petri, può considerarsi un ‘oggetto sociale’. Ad accomunarli è una riflessione che, pur mettendo in scena una inversione di situazioni – Lulú Massa ha addirittura un cognome concetto che, in concomitanza con lo sviluppo industriale derivato in Italia dal presunto miracolo economico, identifica l’operaio massa non specializzato, Enrico Mattei, invece, raddrizzatore di torti e profeta circondato da occulti nemici, ha tutti i requisiti degli eroi dei film epici – legge entrambe queste figure come emblemi. Essi, infatti, riassumono, nel primo caso, il senso sociale e sociologico del proletariato afflitto dalla malattia mentale del cottimo e, nel secondo, l’affresco di un’epoca in cui la giusta difesa degli interessi nazionali, se perpetrata da personaggi di prepotente vitalità, può diventare una politica aggressiva fino al punto di sconvolgere anche gli equilibri mondiali.
Nel 1972 il Festival di Cannes, intersecando con la Palma d’Oro i destini di Lulú Massa e Enrico Mattei, fa vincere al cinema italiano una scommessa: parlare della storia e di una delle situazioni politicamente e culturalmente paradossali vigenti in quegli anni in Italia, mescolando lo ‘scontro di civiltà’ al sorriso che, pur amaro, è sempre anche portatore di saggezza e di leggerezza. E, infatti, Gian Maria Volonté, nei panni di Lulú Massa e di Enrico Mattei, entra ed esce liberamente dagli schermi dei film di Petri e Rosi rivelando in questi due personaggi la potenza seduttiva di un’Italia che, agli inizi degli anni ’70 del Novecento, come Narciso nella mitologia, non si limita a mostrare la potenza seduttiva del farsi un nome da sé – Enrico Mattei – ma, anche, evidenzia il rischio che corre chi, come Lulú Massa, pensa di coincidere perfettamente con l’Io che crede di essere.
L’operaio massa di Petri e l’imprenditore di Rosi, entrambi naufraghi di quello che Lacan ha definito “il carattere profondamente suicidario del narcisismo umano” (Lacan [1973] 1979,106), nella perfetta simmetria dell’immagine cinematografica – nel 1972 è un’immagine ancora avvolta nel buio protettivo della sala poiché la Galassia Lumière, di cui parla Casetti (Casetti 2015) stabilendone l’origine quando l’avvento delle tecnologie digitali hanno trasformato lo statuto dell’immagine frammentandola, è ancora molto lontana – si rispondono quasi come un’eco. E, così, a Lulú Massa “la bestia umana”, al “suo essere classe operaia reale e non sublime” (Rossi 1979, 74-75), risponde, dal film di Rosi, il dirigente Enrico Mattei ovvero il ritratto dell’uomo che, prendendo corpo grazie alle mille tessere messe insieme dal montaggio di Ruggero Mastroianni, si svela come l’emblema dell’incredibile voglia italiana di riemergere con orgoglio dalle macerie della guerra.
A Enrico Mattei, che è in primo luogo un contrappunto tra le oscillazioni d’ira e di dolcezza che caratterizzano anche l’uomo Gian Maria Volonté, l’attore restituisce, con naturalezza attentamente ricercata, non solo l’aspetto fisico (i capelli bianchi, corti, pettinati all’indietro) ma, anche, i gesti e gli atteggiamenti studiati sul materiale fotografico fornitogli da Rosi, che, a questo proposito, ricorda:
Nel Caso Mattei c’è una scena in cui, mentre la giro, noto che Volonté cammina con i piedi piatti e mi chiedo perché. Improvvisamente ricordo che gli avevo fornito una fotografia di Mattei in cui teneva i piedi divaricati. Ecco, se n’era appropriato senza dirmi niente. Lavorava di scavo, elaborava e interiorizzava al massimo. E piano piano diventava Mattei, Levi, Luciano. Non è solo tecnica, è una straordinaria capacità di approfondimento. Il minimo gesto da imitare gli serviva per esprimere una personalità (D’Agostini 2004).
Il Mattei di Volonté, racchiuso da Rosi tra due rumori simili (quello dei geyser del metano e quello dell’incidente aereo che lo uccide), mette e toglie gli occhiali e, quando si accalora in una discussione, li fa volteggiare in aria; come tutti i manager ha spesso a che fare con la cornetta del telefono che tiene in modo singolare afferrandola appena con la punta di indice, medio e pollice. Le andature, invece, sono rapide e decise: se cammina a fianco di qualcuno inevitabilmente finisce per sopravanzarlo, costringendo l’interlocutore a rincorrerlo. Dice Francesco Rosi in un’intervista rilasciata a Corrado Augias:
I maggiori personaggi cinematografici di Volonté avevano un’identità facilitata dai loro tic e dal loro dialetto. Non voglio sminuire la sua bravura nelle parti precedenti ma solo dire che interpretando Mattei, Volonté si è messo per la prima volta nelle condizioni più difficili per un attore. Mattei veste di grigio, ha sempre il cappello in testa e la cravatta al collo, non ha inflessioni riconoscibili. Insomma ha l’aspetto esterno di un italiano qualsiasi. Eppure anche questa è, secondo me, un’interpretazione di grande efficacia (Augias 1971,12-13).
Con queste parole il regista avvalora ciò che l’occhio dello spettatore, forse in modo inconsapevole, coglie guardando Il caso Mattei: la ricerca del dettaglio come contributo dell’interprete all’impronta generale del film, attraverso il quale passa non solo il virtuosismo tecnico ma anche e soprattutto l’adesione ideologica al progetto. Tra le battute di dialogo e le indicazioni del regista, la recitazione di Volonté si lascia attraversare dagli impulsi violenti e contraddittori di chi è nella condizione di amministrare il potere. Enrico Mattei, così come Rosi e Volonté lo raccontano, crede in un rapporto con il potere tutto a suo favore. In lui scatta un meccanismo che legge la società come struttura verticale costruita attorno a una presenza forte, forse addirittura paterna. Enrico Mattei giganteggia nell’inquadratura, e la possibilità di seguire la recitazione in piani mediamente lunghi permette di notare come la ricerca del dettaglio – ad esempio l’uso degli occhiali – sia il contributo consapevole dell’interprete per sottolineare il coacervo di sentimenti che muove e caratterizza il presidente dell’Eni.
Volonté offre di Mattei, che pure, stando alle cronache, è un uomo ricordato come piuttosto chiuso e introverso, un ritratto forte, risoluto e orgoglioso rispetto al quale il giudizio più interessante, e tra l’altro quello che Francesco Rosi più amava citare, è non degli esperti del settore ma, invece, di Indro Montanelli:
Molti hanno detto che Mattei non era estroverso e logorroico come Volonté l’ha incarnato, era un uomo introverso, spavaldo solo in reazione alla propria timidezza, di scarsa comunicativa, a disagio nella conversazione. Ma l’infedeltà è solamente esteriore. Volonté ha fatto dire a Mattei ciò che Mattei non ha mai detto perché non sapeva dirlo ma che ha sempre pensato (D’Agostini 2004).
Nelle parole di Montanelli il corpo dell’attore, di Gian Maria Volonté, si fa scrittura e nella prospettiva di Rosi, che in questo film cerca una risposta al mistero della morte del presidente dell’Eni passando da un medium all’altro, un’osservazione di tal genere è preziosa. Si ritrova infatti in essa sia la tendenza del regista ad eroicizzare i suoi protagonisti – ed è una propensione spesso rilevata e motivata con le influenze esercitate sul regista dal cinema gangsteristico americano (Zambetti 1974, 101) – sia, nel delegare al personaggio di Mattei e quindi a Gian Maria Volonté che non a caso Rosi ha sempre definito un attore ‘creatore’ per il suo annullarsi trasformisticamente nei personaggi che impersona, ancora una volta la “poesia dell’azione” di cui parla Focillon nella sua breve riflessione sulla mano creatrice. E, dunque, l’Elogio della mano con cui abbiamo aperto questo saggio, accomuna sia Rosi che Volonté poiché al Caso Mattei, che programmaticamente si scompone e ricompone sia fluidamente – le fotografie e le diapositive diventano immagini in movimento e viceversa – sia in modo più marcato – tutti gli inserti extradiegetici non sono ‘trattati’ per confondersi con le immagini cinematografiche – l’intensità dell’adesione ‘lunga’ e il dispendio protratto dell’attenzione da Volonté sempre dedicati ai personaggi interpretati sono fondamentali. Si tratta, più precisamente, di una trasparenza che, se può forse sembrare un po’ allucinatoria, a ben guardare risulta poi, in verità, ulteriore semplice complicazione dell’ars combinatoria del vedere – ben oltre la fallace certezza dell’involucro immagine – la verità proiettata sullo schermo. Una verità che anche Volonté, così come Rosi, veicola intersecando occhio e mano ovvero privilegiando nelle situazioni drammaturgiche che lo vedono protagonista – basti pensare ai discorsi con cui il Mattei di Volonté si rivolge ai suoi interlocutori siano essi i giornalisti o i partecipanti alla cena al Motel Agip di Gela la sera prima dell’incidente aereo in cui Mattei morirà – la concretezza di uno sguardo o di un gesto.
E se è pur vero che, comunque, alla fine tale verità non sarà sanzionata, la storia di Mattei nelle mani di Rosi, mediata dalla frenesia del ‘traffico visivo’ che la origina e in cui nasce – lo spettatore vede irrompere sulla scena persino il regista mentre discute con i suoi collaboratori, va a documentarsi e, anche, esplicitamente dice di star facendo un film su Mattei – rilancia la forma film. Infatti, perdendosi e riprendendosi in un attimo, le immagini de Il Caso Mattei passano oltre lo schermo del cinema e, rompendo la divisione con la cosiddetta realtà, battagliano con essa usando come arma il proprio immaginario.
Molto più che uno specchio, Il caso Mattei nel 1972 fu una sorta di metro apparso a misurare visivamente, in un continuo apparire e scomparire e nella continua intermittenza con cui le immagini si alternano al nero dello stacco, il mondo originato dagli interessi di cui Enrico Mattei fu epicentro.
Riferimenti bibliografici
- Augias 1971
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F. Casetti, La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano 2015. - Cremonini 1976
G. Cremonini, Tra il personale e il politico, Imola 1976. - D’Agostini 2004
P. D’Agostini, Gian Maria Volonté. Il suo metodo? La tensione morale, “La Repubblica”, 12 febbraio 2004. - Deriu 1997
F. Deriu, Gian Maria Volonté. Il lavoro d’attore, Roma 1997. - Focillon [1934] 1990
H. Focillon, Elogio della mano [Éloge de la maine, Paris 1934] ora in Vita delle forme seguito da Elogio della mano, Torino 1990. - Ghezzi 1996
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E. Ghezzi, stati di cinema festival ossessione, Milano 2002. - Lacan [1973] 1979
J. Lacan, Il seminario, libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi [Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris 1973], Torino 1979. - Morandini 2012
M. Morandini, La lezione di Rosi, “Rivista del Cinematografo” (settembre 2012). - Pellanda 2006
M. Pellanda, Gian Maria Volonté, Palermo 2006. - Rosi, Scalfari 1972
F. Rosi, E. Scalfari, Il caso Mattei. Un “corsaro” al servizio della Repubblica, Bologna 1972. - Rossi 1979
A. Rossi, Elio Petri, Firenze 1979. - Zambetti 1974
S. Zambetti, Francesco Rosi, Firenze 1974.
Filmografia
- A ciascuno il suo, di E. Petri, Italia 1967, 99’.
- Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di E. Petri, Italia 1970, 112’.
- La classe operaia va in Paradiso, di E. Petri, Italia 1971, 112’.
- Salvatore Giuliano, di F. Rosi, Italia 1962, 118’.
- Il caso Mattei, di F. Rosi, Italia 1972, 110’.
- Lucky Luciano, di F. Rosi, Italia, Francia, USA 1974, 106’.
- Citizen Rosi, di C. Rosi, D. Gnocchi, Italia 2019, 130’.
- Citizen Kane, di O. Welles, USA 1941, 119’; versione it. Quarto potere.
- F For Fake, di O. Welles, Francia, Iran, Germania Ovest 1973, 85’; versione it. F come falso.
English abstract
Il caso Mattei is a film by Francesco Rosi released in 1972 exactly ten years after the death of Eni's president Enrico Mattei. The essay investigates the original sobriety of style with which the director and Gian Maria Volenté the leading actor of this film, involved the audience in their analysis and intellectual inquiry into the event they are staging. It’s a process that makes them capable, through images, of a concrete analysis even if they start from abstract speculation.
keywords | Francesco Rosi; Gianmaria Volonté; Enrico Mattei.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Marina Pellanda, Cronaca, documento, rievocazione di un mistero italiano. Il caso Mattei di Francesco Rosi, “La Rivista di Engramma” n. 169, ottobre 2019, pp. 27-37 | PDF dell’articolo