Across the growing pattern Jupiter
Varied and multiplied
His amorous transformations […].
The lap of Danaë opened
Only to a shower gold […].
In each of these Arachne
Gave Jove rich new life.
Ted Hughes
In un’indagine volta a identificare con maggior precisione il soggetto della Allegoria della Castità di Lorenzo Lotto conservata alla National Gallery of Art di Washington [Fig. 1], Enrico Maria Dal Pozzolo ha intravisto nel modulo rappresentativo della ‘ninfa dormiente’ il correttivo necessario per infondere maggior compostezza ed eleganza a quella che per molti è il primigenio e principale modello testuale di riferimento del dipinto, ossia l’iconografia poetica della Laura di Chiare, fresche e dolci acque (Rvf 126). Come correttamente sottolinea Dal Pozzolo, il soggetto petrarchesco risulta palmare soprattutto se si circoscrive l’analisi alla zona mediana del quadro. La figura femminile al centro della scena, adagiata a un tronco di lauro e irrorata da una pioggia di fiori che un putto alato cosparge dall’alto, non è però sola, dal momento che accanto a lei vediamo un satiro, coricato a destra in primo piano e spiato da una satira, nascosta dietro a un albero, “curiosa e attratta” (Dal Pozzolo 1992, 103). Con il diaframma del nostro obiettivo più aperto, la scena potrebbe essere letta, nel suo insieme, come la tematizzazione figurativa di quello sguardo desiderante che sembra caratterizzare tutti i personaggi dell'immagine; e in tale configurazione complessiva potrebbe recarci alla memoria anche la relazione scopica dispiegata in un altro fragmentum petrarchesco, il primo madrigale del Canzoniere (Rvf 52):
Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,
ch’a me la pastorella alpestra et cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch’a l’aura il vago e biondo capel chiuda,
tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,
tutto tremar d’un amoroso gielo.
Il testo ci propone una variazione petrarchesca sul racconto ovidiano del tragico incontro tra Diana e Atteone, e presenta più di un punto di contatto tematico-stilistico con la stanza conclusiva della “canzone delle trasformazioni”, dove l’io lirico petrarchesco conosce la stessa triste fine del personaggio ovidiano (Rvf 23, 141-160). Il madrigale si articola in una geometria strutturale che esalta precisi parallelismi formali e semantici tra i suoi elementi, e rende ben perspicuo il processo dialettico che conduce il racconto dell’io lirico a riflettersi, con implicazioni antropologico-esistenziali, nell’episodio mitico-letterario delle Metamorphoses, portando la vitale esperienza soggettiva della poesia lirica ad alimentare il piano sovraindividuale dell’exemplum (cfr. Vanossi 1986 e Vecce 2006). I versi delle due terzine (rispettivamente comparatum e comparandum, secondo la codificazione arsnovistica della forma madrigale) si rispecchiano infatti puntualmente secondo la posizione, e riverberano nelle tre proposizioni in cui si articola il conclusivo distico di sintesi. Dopo l’ostensione del soggetto lirico realizzata nel gruppo dei primi versi, e la rappresentazione dell’oggetto del desiderio nel gruppo dei secondi, si dichiara infatti nel distico finale la natura visiva della relazione attivata tra i due personaggi, e l’effetto irrazionale e destabilizzante che tale rapporto genera (cfr. più nel dettaglio in Torre 2012, 111-124).
Una progressiva attenuazione caratterizza la tensione narrativa dell’episodio ovidiano nel passaggio dal poema latino (dove viene rappresentata la feroce punizione spettante a chi ha avuto l’incontinenza di svelare il sacro) alla stanza della canzone “delle trasformazioni” (dove la visione tragica s’interrompe sulla metamorfosi disumanizzante di un poeta-amante destinato a un perenne e dolente canto solitario: cfr. Rvf 23, 157-160 “ch’i’ senti’ trarmi de la propria imago, | e in un cervo solitario e vago | di selva in selva ratto mi trasformo: | e ancor de’ miei can’ fuggo lo stormo”), fino ai versi del madrigale 52 (dove non v’è traccia del violento epilogo). L’attenuazione non implica però necessariamente un integrale ripiegamento sulla tradizionale levitas del metro, permanendo in tutta la sua essenziale drammaticità il nucleo tragico dell’appropriazione petrarchesca del motivo mitologico, ossia la perdita di una piena coscienza di sé da parte dell’individuo amante. Al netto dell’epilogo tragico proprio del sottotesto ovidiano, il madrigale si focalizza dunque sul momento dello sguardo desiderante, e in tal senso potrebbe costituire un’attendibile, seppur parziale, didascalia del dipinto di Lotto.
Mettiamo ora da parte quanto di esso ci ha mostrato il fragmentum 52 e torniamo all’analisi di Dal Pozzolo, nonché ai referenti iconografici e letterari lì rinvenuti, a commento soprattutto del dettaglio centrale della figura femminile. Seppur presentando sveglia la fanciulla, l’iconografia dispiegata sembra effettivamente rinviare al motivo archetipico e archeologico della cosiddetta Ninfa delle acque (forse rappresentante Arianna svelata da un satiro); motivo che in età moderna, oltre alla famosa Venere di Giorgione (per cui cfr. Szépe 1996), trova una tra le sue più celebri elaborazioni nella xilografia dedicata a Venere “genitrice di tutte le cose”, rinvenibile entro l’apparato illustrativo dell’Hypnerotomachia Poliphili e verosimilmente derivata da un bassorilievo posto a ornamento di una fontana [Fig. 2]:
La quale bellissima nympha dormendo giacea commodamente sopra uno explicato panno. Et sotto il capo suo bellamente intomentato et complicato in puvinario grumo era. Et una parte poscia del dicto aptissimamente fue conducta ad coprire quello che conveniente debi stare caelato. Cubendo et sopra il fianco dextro ritracto il subiecto brachio cum la soluta mano sotto la guancia il capo ociosamente appodiava. Et l’altro brachio libero et sencia officio distendevasi sopra il lumbo sinistro derivando aperta al medio dilla polposa coxa (Colonna, Hypn. Pol. I, 71).
Ricordiamo, con Salvatore Settis, che proprio l’Hypnerotomachia costituisce il passo decisivo per l’ingresso dell’antica fabula di Danae “nell’iconografia profana”:
Il Triumphus tertius, reinscenando l’imagerie petrarchesca, presenta Danae situ sublimata sopra un carro tirato da unicorni: quasi un nuovo ‘trionfo di Castità’, che in ogni caso deve assai più alla già ben stabilita tradizione iconografica che al testo del Petrarca, e però in bilico fra l’omaggio alla pudicizia di Danae (consacrato dal suo ‘habito subtile di puelitia politura’ e dagli unicorni ‘alla gelida Diana riverenti’), e la celebrazione degli amori di Giove (i due trionfi precedenti rappresentano infatti Europa sul toro, Leda e il cigno) (Settis 1985, 213)
Sulla doppia interpretazione di Danae, quale imago voluptatis o imago pudicitiae, ritorna anche, con nuove proposte esegetiche e testimonianze documentarie, Centanni 2013.
A testimonianza della vischiosità delle attestazioni figurative e letterarie del motivo si potrebbe allegare al dossier proposto da Dal Pozzolo anche un passaggio della prima novella della quinta giornata del Decameron, quella in cui il rozzo Cimone si innamora scorgendo una fanciulla dormire in un boschetto e “amando divien savio”:
Andatosene adunque Cimone alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne che un giorno, passato già il mezzo dì, passando egli da una possessione ad un’altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e, per ciò che del mese di maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andando s’avvenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento in dosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, ed era solamente dalla cintura in giù coperta d’una coltre bianchissima e sottile; e a’ piè di lei similmente dormivano due femine e uno uomo, servi di questa giovane. La quale come Cimone vide, non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazione grandissima la incominciò intentissimo a riguardare” (Dec. 5, 1, §§ 6-8, corsivi miei).
Il passaggio boccacciano è interessante anche perché conosce una traduzione visiva che presenta un impianto assai prossimo a quello dell’immagine dell’Hypnerotomachia. Come ha perfettamente mostrato Vittore Branca, Boccaccio volle “integrare nel suo capolavoro l’impegno di narratore in parole con quello di narratore in figure e la gestualità descritta con quella rappresentata”, e ciò è ben visibile nei “disegni a tre colori coi quali verso il 1360-65 volle arricchire e rafforzare la narratività della redazione giovanile del Decameron”, quella risalente al 1349-1351 e ora conservata nel codice It. 482 della Bibliothèque Nationale di Parigi (Branca 1999, I, 5). I disegni si riferiscono quasi sempre alla prima novella delle varie giornate e ciò fa sì che proprio le vicende di Cimone, e anche il momento dell’incontro (visivo) con Efigenia, siano illustrati nel manoscritto [Fig. 3].
Oltre a esplicitare i riscontri testuali transcodificati da Lotto e a ricostruire il contesto culturale trevigiano che ha visto nascere il dipinto, Dal Pozzolo rinviene anche alcune soluzioni stilistiche e strutturali, adottate dal pittore veneto per superare le difficoltà insite nella trasposizione visiva del testo letterario, in una delle più interessanti esperienze di visualizzazione estesa della poesia petrarchesca (Dal Pozzolo 1992, 113). Mi riferisco all’incunabolo G.V.15 della Biblioteca Queriniana di Brescia (IGI 7517), un esemplare della stampa veneziana (Vindelin da Spira, 1490) del Canzoniere commentato e illustrato da Antonio Grifo (su cui cfr. Frasso, Mariani Canova, Sandal 1990; Gibellini 2000; Zaganelli 2000; Cossutta 2004). Di origini veneziane e formatosi presso lo studio patavino, Antonio Grifo visse tra il tardo Quattrocento e il primo Cinquecento, e fu particolarmente attivo come poeta e uomo di corte a Milano al servizio di Galeazzo Sanseverino, Gian Galeazzo Sforza e soprattutto di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este (cfr. Marcozzi 2002a). La sua produzione poetica ci è giunta grazie al ms. autografo Ital. Z 64 [=4824] della Biblioteca Marciana di Venezia, che presenta interventi grafici affini non solo a quelli dell’incunabolo Queriniano ma anche a quelli che alimentano il commento verbovisivo alla Commedia dantesca nell’esemplare dell’incunabolo stampato a Venezia il 18 novembre 1491 da Pietro de Piasi Cremonese e tuttora conservato presso la Casa di Dante in Roma (con segnatura C 23; IGI 364; e su cui cfr. Marcozzi 2015). In entrambi gli incunaboli il corredo iconografico accompagna l’intero testo, traducendo visivamente i contenuti dei versi poetici, e condividendo con esso responsabilità narrative e semantico-linguistiche (cfr. Zaganelli 2005-2006). Sfogliandone le carte, incontriamo differenti gradi di interazione tra i codici: talora una piana trasposizione visiva della poesia di Dante e di Petrarca, talora una sua più o meno originale esegesi (in controcanto, a volte dissonante, con il dettato dei canonici commenti testuali), talora una sua più tendenziosa riscrittura organizzata intorno a immagini segnate da differenti investiture simboliche. È interessante notare che per ognuna di queste modalità di trattazione visiva dei testi poetici è possibile rinvenire un’elaborazione proprio del motivo iconografico di Danae.
Dal Pozzolo ricorre soltanto all’incunabolo bresciano, soffermando l’attenzione sulle strette tangenze dell’iconografia di due vignette con il dipinto della National Gallery, tangenze difficilmente riconducibili alla effettiva conoscenza di questo volume da parte di Lotto, bensì alla mediazione di uno o più prototipi comuni. La postura della “Laura” lottesca sottoposta a una danaea pioggia dorata è, ad esempio, analoga a quella in cui Grifo ritrae Petrarca, in margine al fragmentum 66, coricato a terra sul fianco, appoggiato di schiena a un albero e col braccio sinistro adagiato sulla coscia, ossia secondo un’iconografia che doppia quella del dipinto quale espressione di voluttà, soprattutto “grazie al doppio senso evocato dal serpente che, abbondantemente utilizzato in altri luoghi del testo in segno di lussuria, qui indica fuori da ogni equivoco il sesso maschile” (Dal Pozzolo 1992, 112) [Fig. 4].
Si noti a questo proposito che tra le più singolari invenzioni visive di Grifo va senz’altro rubricata la particolare configurazione simbolica attraverso cui, lungo quasi l’intero percorso lirico, viene ritratto il protagonista. Il Petrarca-agens assume infatti solitamente le fattezze di un libro trafitto da una freccia e avvolto nelle spire di un serpentello, tradizionale simbolo del traviamento erotico: proposta nella versione emblematica del libro o, come qui, con l’agens in forma umana, questo modulo iconografico intende comunque offrire un ritratto morale, interiore, del poeta ferito dallo strale amoroso e continuamente tentato dalla lussuria, nonché una chiave di lettura della vicenda narrata lungo il Canzoniere: quella di un individuo consapevole dell’errore che segna la sua esistenza, e che è intenzionato a seguire un percorso di salvazione morale e spirituale (cfr. Cossutta 1998, 425). Integrando ulteriormente le considerazioni di Dal Pozzolo, è opportuno anche sottolineare che la sestina 66 presenta tra le sue sei costitutive parole-rima proprio il termine “pioggia”, dispiegato nelle prime due strofe in locuzioni tutt’altro che neutre, se lette in relazione all’iconografia del dipinto di Washington e al motivo mitologico che esso sottende, nonché alla dinamica metamorfica e all’effetto di rallentamento estatico, comuni tanto alla scena pittorica quanto all’episodio ovidiano: “tosto conven che si converta in pioggia” (v. 3) e “quando cade dal ciel più lenta pioggia” (v. 12).
Proprio il dettaglio della pioggia è invece l’elemento determinante che induce Dal Pozzolo ad accostare il dipinto di Lotto e la vignetta con cui Grifo commenta figurativamente la canzone 126 [Fig. 5], laddove Petrarca ritrae le “belle membra” di Laura, accanto a “Chiare, fresche et dolci acque” e sotto una pioggia di fiori, nelle fattezze di una novella Danae, sì, ma anche stratificando in lei la figura evangelica di Maria – (Lc 1.35: “et virtus Altissimi obumbravit tibi”) secondo un’interpretatio christiana della figura di Danae e una lettura figurale che si rinvengono, come ha mostrato Settis (1985), anche nell’Ovidius moralizatus (IV, 13) di Pierre Bersuire (“Acrisius rex cum Danaën filiam pulcherrimam haberet timens adulteros ipsam in turri aenea inclusit. Iupiter vero se in pluviam auream mutavit et per tegulas domus in gremium virginis distillavit: & sic ipsam in specie auri impraegnavit et in ea Perseum generavit. (...): ibi a Iove id est a spiritu sancto exstitit impraegnata & descendente pluvia aurea id est dei filio in gremium uteri virginalis Perseum id est christum deum & hominem concepit”) – e quella dell’epifania di Beatrice nel Paradiso terrestre (Purg. XXX, 28-32: “così dentro una nuvola di fiori […] donna m’apparve”, su cui cfr. Cipollone 1998, 29-46, dove si mostrano le affinità tra il congedo di Rvf 23 e Purg. 32, 109-117, in nome della convergenza tematica tra l’allusione petrarchesca a Danae stuprata da Giove e la sequenza del carro violato, della puttana e del gigante nel Paradiso terrestre dantesco): ancora un emblema di voluttà, quindi, ricordato e al contempo negato attraverso l’evocazione memoriale di preclari exempla castitatis. Come lucidamente dimostrato da Fenzi 2003, del resto, l’intero cruciale momento della visione di Laura disvelata, messo in scena nella canzone 126, è oggetto di un analogo, ossimorico, movimento congiunto di memoria e di oblio: si tratta di ricordare una visione che ha indotto oblio, ossia di muovere a ritroso nel passato per riattualizzare un evento estatico che fa avvertire i suoi effetti solo come nostalgica eco (vv. 56-60: “carco d’oblio […] e sì diviso | da l’imagine vera”), e attraverso questa spola memoriale ripristinare nel presente l’attesa di una nuova fuoriuscita dal tempo (v. 27: “Tempo verrà”). Drammatizzata in emblema, la stessa dinamica di senso presiede anche il sonetto 189, arcimboldesco autoritratto dell’io lirico, costruito attraverso un accumulo per symbola delle reazioni emotive e intellettive indotte dal ricordo dominante di Laura; un accumulo che paradossalmente “colma d’oblio” la mente del poeta, lo riempie di un sentimento del nulla, perché proprio l’assenza (di Laura) è l’unica res memoranda servata memoriter dal poeta (sulla questione rimane fondamentale Agosti 1993). La forza della parola petrarchesca sta infatti nel far percepire quasi inavvertibile, e straziante proprio in tale insignificanza, la distanza tra la presenza materiale di Laura, quale corpo, e la sua presenza memoriale, quale ricordo (cfr. Torre 2016). L’interpretazione visiva di Grifo, al netto del registro sensuale proprio della ricezione cortigiana della poesia di Petrarca, sembra contemplare tutte le sfumature testuali appena ricordate, soprattutto perché va a configurare la figura femminile ritratta come un puro oggetto del desiderio offerto a uno sguardo concupiscente (fisico o mentale), ma che a tale sguardo concupiscente non ha ancora ceduto.
La memoria dell’archetipo mitologico-iconografico di Danae parrebbe dunque soggiacere a entrambi gli interventi illustrativi di Grifo appena analizzati: da una parte, il ricordo della postura voluttuosa di Danae, con quel grembo focalizzato quale luogo sessualmente ospitale, è reinterpretato, sul margine di Rvf 66, nella forma di un Petrarca-agens impregnato dalla propria pulsione erotica (che si sostanzia in una corporalità marcata per postura e attributi); dall’altra, l’ingegnosa soluzione della pioggia miracolosa, quale rapace contatto tra umano e divino, viene letteralmente rifunzionalizzata (passando da deflorazione a celebrazione floreale) a fianco di Rvf 126, per ritrarre la castità di una Laura tangibile solo da un desiderio purificato, quasi sacro (con i fiori che subentrano, appunto, alle monete). In tal senso, non risulta dettaglio secondario il ricorso della medesima “modella” che troviamo sui margini queriniani di Rvf 126 (uno dei tipi mediante cui è ritratta Laura lungo l’intero esemplare bresciano, come sottolinea Cossutta 2004, 67) anche per l’illustrazione della “Diana implicita” del madrigale 52 discusso in avvio [Fig. 6] e della “Diana esplicita” della canzone 23. Nell’incunabolo, la connessione ideale fra i tre testi viene dispiegata sintagmaticamente attraverso l’assunzione della medesima figura per la rappresentazione realistica di tre personaggi differenti (anche se allusivamente correlati via paragone).
L’esegesi figurativa compiuta da Antonio Grifo evidenzia dunque una triangolazione di senso tra i suddetti fragmenta, che anche di recente la critica ha ritenuto poter esser comprovata da salde persistenze d’ordine semantico-formale (come la condivisione di sintagmi, parole-rima e del “nome secreto” l’aura / Laura; cfr. Capovilla 1982-1983, 474). Ma soprattutto, essa mostra come attraverso l’apparato iconografico si vada qui dispiegando una “lettura attenta dei metri e delle parole (concetti, metafore, allusioni), non solo quelle contenute nel singolo carme, ma anche quelle che, in carmi diversi, vicini o lontani, possono essere ‘criticamente’ legate da un filo interpretativo” (Cossutta 2004, 66); come si vada insomma articolando una nuova narrazione visiva parallela al racconto poetico.
Se ci soffermiamo proprio sul commento visivo al fragmentum 23, non possiamo peraltro non notare la mancata visualizzazione dell’episodio di Giove e Danae evocato da Petrarca nel congedo. Generalmente attento a illustrare tutti gli ipotesti ovidiani della canzone, ritmandone la diegesi metamorfica con vignette referenziali, Grifo sceglie di disattendere l’allusione dei vv. 161-163 (“Canzon, i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro | che poi discese in prezïosa pioggia, | sì che ’l foco di Giove in parte spense”); e nel far ciò mostra forse la volontà di doppiare fedelmente il dettato testuale, laddove si nega l’identificazione dell’io lirico con l’infoiato Giove-“prezïosa pioggia” che scende dal cielo sulla terra per ingravidare Danae (“i’ non fu’ mai”), e viene invece accolta la similitudine con il Giove-“uccel che più per l’aere poggia”, vettore dell’amato Ganimede al cospetto degli dèi (“ma fui ben”). Si noti a questo proposito che nella canzone delle metamorfosi il referente mitologico cui Petrarca ricorre è sempre un soggetto che subisce passivamente gli effetti del proprio desiderio e mai un oggetto che si trasforma per imporre le proprie voglie su un oggetto del desiderio. In tal senso, il rifiuto della metamorfosi in pioggia d’oro risulta del tutto coerente e sigilla un testo in cui costantemente si nega la corporalizzazione del desiderio; desiderio che deve invece essere confinato entro l’impalpabile dimensione verbale del canto di lode o di lamento: “Ovid’s tales are manipulated in order to emphasize the woman’s chaste distance from sexual desire and the poet’s affirmation of a poetry which honors its subject and does not evoke a sexual context” (Bly 1995, 348). Ecco allora sulla c. 9v dell’incunabolo queriniano, ad accompagnare il testo, soltanto l’immagine di un’imponente aquila che reca nel becco un ramo di lauro (la Laura-Ganimede innalzata dal canto petrarchesco).
Ma la negazione testuale, così come la sua coerente rimozione illustrativa, comporta comunque la rievocazione memoriale dell’episodio ovidiano, insieme a tutta la sua allusiva licenziosità (cfr. ancora Bly 1995, 355-356; e anche Valori 1995, 28, dove si evidenzia un altro interessante locus petrarchesco: “Una forma privilegiata è quella della prima mutazione che è insieme l’alloro di Dafne, Laura e soprattutto il lauro poetico; fra i vari miti allusi spicca tuttavia anche quello di Danae, la cui negazione è in realtà esaltazione di un termine di riferimento sublime. Se il poeta non giunge ad esser ‘nuvol d’oro’ recupera almeno la ‘fiamma’ come parte di quel ‘foco’ amoroso che Danae-Egina accese in Giove placabile solo al mutarsi in pioggia d’oro, non molto diversa dalla feconda pioggia di versi che altrove il poeta attende da Dio: ‘Così sventura over colpa mi priva / d’ogni buon frutto, se l’etterno Giove / de la sua gratia sopra me non piove’ [CLXVI, vv. 12-14]”). E il solo ricordo del termine di paragone negato sopravvive forse nella figura femminile nuda del margine interno (Diana, sì, ma anche la Laura di Rvf 126, e per ciò un po’ pure Danae) verso cui si rivolge, col medesimo eccitato trasporto riscontrato nella vignetta di Rvf 66, il pittogramma alias dell’io lirico [Fig. 7].
Assente nel corredo illustrativo dell’incunabolo queriniano del Canzoniere, un’esplicita, compiuta e canonica rappresentazione di Danae si può invece rinvenire nell’altra illustre esperienza di esegesi verbovisiva prodotta da Grifo, l’esemplare quattrocentesco della Commedia conservato presso la Casa di Dante in Roma [Fig. 8]. La parte superiore del margine esterno della c. 283r è infatti occupata da una fedele rappresentazione del’episodio mitologico di Danae e Giove, che vale quale marca mnemonica connotante la divinità a cui è intitolato il cielo ove sono ambientati gli eventi del XIX canto del Paradiso: a tale funzione semantica possono ricondursi anche la vignetta raffigurante l’accoppiamento di Leda e il cigno (all’inizio del canto XX) e, appena prima, quella sulla rete di Vulcano (ad apertura del canto XV, in corrispondenza del cielo di Marte). Un indubbio edonismo di matrice cortigiana traspare da questi, e altri analoghi, interventi figurativi, attraverso cui Grifo pare livellare, in nome di un’umanistica continuità tra paganesimo classico e messaggio cristiano, la progressione verticale, di materia e di stile, perseguita da Dante. Nel caso specifico dell’illustrazione del mito di Danae, possiamo notare che, in un certo senso, essa dialoga con la pagina miniata di Rvf 23 (e con le altre, appena analizzate, ‘occorrenze’ di Danae dell’incunabolo queriniano) nel suo voler accostare due complementari configurazioni di Giove: l’autoritaria guida degli dèi pagani, simbolo di ogni temporale sovranità (l’aquila), e l’incontinente soggetto desiderante il cui corpo metamorfico diviene un unico grande organo sessuale, simbolo di una divinità che non ha nulla a che vedere con quella cristiana (la pioggia).
Anche il contestuale attributo dell’oro contribuisce a marcare l’episodio mitologico nella direzione di una sua rifunzionalizzazione morale. Ne possiamo rinvenire traccia già in Orazio, Ode III, 16, risoluto attacco del poeta contro i danni collaterali della ricchezza, posto fin dall’inizio sotto l’insegna dell’esemplare vicenda della figlia del re di Argo:
Inclusam Danaëm turris aenea | robustaeque fores et vigilum canum | tristes excubiae munierant satis | nocturnis ab adulteris, | si non Acrisium virginis abditae | custodem pavidum Iuppiter et Venus | risissent: fore enim tutum iter et patens | converso in pretium deo. | Aurum per medios ire satellites | et perrumpere amat saxa potentius | ictu fulmineo… (vv. 1-11).
Proprio in ragione della sua emblematica immagine mitologica d’apertura il testo oraziano è rubricato in quel ritratto poetico dell’autore latino che Petrarca ci offre in una delle epistole del XXIV libro delle Familiares dirette ai suoi auctores peculiares: “Dum Dane pluvia fallitur aura” (Fam. 24, 10, v. 107). Nel dodicesimo dialogo del secondo libro del De remediis utriusque fortune (De amissa pecunia) i versi 9-11 dell’ode oraziana vengono invece direttamente citati da Petrarca nel contesto della lunga tirata della Ratio vòlta a deplorare il vano lamento del Dolor per la perdita di ricchezze materiali: “Nonne ‘aurum per medios ire satellites et perrumpere […] saxa potentius ictu fulmineo’ atque hinc pudicitie simul ac vite insidias provenire? Imbre aureo Danaës expugnata virginitas […] probat” (Rem. 2, 12, 12).
Nel quadro di un’analisi che si sta continuamente muovendo tra testi letterari e testi visivi dobbiamo qui incidentalmente ricordare che proprio il De remediis conosce un’interessante esperienza di visualizzazione nella sua prima traduzione tedesca pubblicata ad Augsburg nel 1532 per i tipi di Steyner (su cui, anche per rinvio alla bibliografia pregressa, si veda Enenkel 2006). Questa edizione è dotata di un ricco apparato illustrativo, di configurazione emblematica e di valenza mnemonica; un apparato costituito da 261 xilografie, una per ogni dialogo dell’opera. A introdurre il capitolo in questione troviamo la rappresentazione di una baruffa per il possesso di sacchi pieni di monete [Fig. 9]. Indipendentemente dal fatto che l’immagine costituisca una probabile visualizzazione dell’aneddoto che occupa la parte conclusiva del testo o una generica resa dei conflitti indotti dalla bramosia di ricchezza, credo che vada evidenziato il dettaglio posto al centro della xilografia: quella pioggia di monete che fuoriesce dal sacco e si disperde sul terreno, vera e propria allusione visiva all’episodio di Danae evocato ad avvio di dialogo. Un’analoga elaborazione del medesimo dettaglio ci è peraltro offerta da una successiva testimonianza figurativa del mito di Danae, prodotta anch’essa nel contesto del puritanesimo nordeuropeo per mano di Joachim Wtewael. Il pittore di Utrecht è infatti autore di un disegno, conservato alla Graphisce Sammlung di Monaco di Baviera, in cui Giove fa cadere su Danae una pioggia di monete d’oro, schiacciando una sacca che, nelle sue mani, assume l’ambigua forma di un fallo con testicoli, chiara allusione alla divina fecondazione pecuniaria della principessa di Argo [Fig. 10].
Quella del De remediis non è l’ultima testimonianza della figura di Danae che si incontra nel Petrarca latino. Per completare il repertorio delle occorrenze, vale la pena di ricordare anche quella in chiusa alla Familiares XX, 1, per l’analisi della quale però è necessario affrontare preliminarmente la sua probabile fonte: un passaggio del primo libro delle Confessiones. Qui Agostino si scaglia contro un’educazione fondata esclusivamente sulla letteratura profana della classicità, portando la propria esperienza a testimonianza e riflettendo di fatto sull’effettiva funzione morale di una lettura allegorica delle favole mitologiche:
Ita vero non cognosceremus verba haec, imbrem aureum et gremium et fucum et templa caeli et alia verba, quae in eo loco scripta sunt, nisi Iovem ad exemplum stupri, dum spectat tabulam quandam pictam in pariete, ubi inerat pictura haec Iovem quo pacto Danaë misisse aiunt in gremium quondam imbrem aureum, fucum factum mulieri? Et vide, quemadmodum se concitat ad libidinem quasi caelesti magisterio […] Non omnino, non omnino per hanc turpitudinem verba ista commodius discuntur, sed per haec verba turpitudo ista confidentius perpetratur […] et tamen ego, deus meus, libenter haec didici et eis delectabar miser” (Conf. 1, 16, 26).
Il passo agostiniano è di rilievo per più questioni trattate nel corso del presente saggio. Innazitutto la dialettica intus-extra propria del neoplatonismo cristiano, declinata qui attraverso la contrapposizione tra le dorate performances di una divinità metamorfica esaltata dai verba degli autori classici e il vero exemplum del Dio cristiano fondato sulle res della fede. L’appariscente materialità dell’oro si fa emblema di tale dialettica, e contribuisce a proiettarla anche sul piano etico, dove il rifiuto dei beni terreni è per il buon cristiano sicuro viatico verso la ricchezza spirituale. In tale senso va letta anche la derivata reprimenda di Petrarca, in Fam. XX, 1, 26-27, contro la subdola onnipotenza di Mammona, a suo avviso ben allegorizzata dallo stupro aureo perpetrato da Giove su Danae:
Postremo – invitus dicam sed veritas cogit – non modo potens sed omnipotens pene est aurum, et omnia que sub celo sunt, auro cedunt, auro serviunt; et pietas et pudicitia et fides, omnis denique virtus et gloria aurum supra se vident, inque ipsos animos celitus nobis datos – pudor! – feci terre et rutilanti imperium est metallo. Hoc reges ligat atque pontifices, hoc homines et ut aiunt, ipsos etiam Deos placat, nec quicquam inexpugnabile inaccessumque auro est. Quod sciens Iupiter, ut custodite mulieris pudicitiam rapturus ferreas portas effringeret, in imbrem aureum se se vertit; tali deo dignum opus. Deus autem noster, quicquid sui agant successores, ipse pudcitiam amat, aurum spernit, avaritiam detestatur (Fam. 20, 1, 26-27; dello stesso tenore è anche una postilla petrarchesca che compare sui margini del codice Par. Lat. 78801-2 [f. 135r] a fianco di Iliade XIV, 315, una delle più antiche attestazioni letterarie del mito di Giove e Danae: “Libidines Iovis multe. Pulcer deus insanorum miserorum”).
La focalizzazione moralistica dell’interpretazione del mito che Agostino ci offre implica ovviamente una riflessione sulle modalità di ricezione delle storie antiche, sul margine di autonomia interpretativa del lettore e sugli effetti in lui prodotti da tale esperienza di fruizione. Da questo punto di vista è interessante che Agostino affronti la questione ricorrendo a un esempio letterario (tratto dal terenziano Eunuchus, vv. 585-589) che tematizza la corruzione spirituale indotta in un giovane dall’eccitante contemplazione del soggetto erotico di una pittura che dobbiamo immaginare perturbante tanto per l’eccezionale bellezza della figura femminile ritratta, quanto per l’esplicita rappresentazione dell’atto erotico che la vede impotente protagonista. Passiva preda di una doppia violazione: quella del dio metamorfico, interna al quadro; e quella del giovane eccitato, esterna ad esso.
Lo statuto di rappresentazione artistica che Agostino riconosce al soggetto di Danae risulta peraltro pienamente coerente con la più estesa elaborazione classica di questo mito, quella che Ovidio ci offre in più punti delle Metamorphoses, e in particolare nel contesto dell’episodio di Aracne (VI, 113), dove la vicenda della figlia del re di Argo è uno degli amori degli dèi intessuto dalla ricamatrice lidia nella sfida con Minerva. Non poche sono peraltro le testimonianze che “rimandano esplicitamente a un’immagine di Danae con la pioggia d’oro, che viene data costantemente come un’immagine ‘dipinta’. Abbiamo già ricordato Terenzio, e Agostino che lo cita; si può aggiungere che Donato, commentando quel passo dell’Eunuchus, dichiara che quella di Danae è pictura apta domi meretricis. Anche Stazio menziona, fra altre immagini, una Danaë culpata sinus, e Marziale una Danaë picta, mentre Plinio il Vecchio ricorda una Danae del celebre pittore Nicia, ma senza dare né descrizione né notizie ulteriori” (Settis 1985, 224). La relazione scopica criticata da Agostino non è altro che la variazione di uno dei motivi più frequentati dalla rappresentazione (verbale e iconica) a soggetto erotico, quella da cui siamo partiti per il nostro percorso tra parole e immagini, e che vede un satiro osservare una ninfa addormentata. Si tratta di una situazione di visione che, tradizionalmente, mette in scena il contrasto tra l’aggressività intrusiva dello sguardo maschile e l’inconsapevole esibizione del corpo femminile. La variazione è interessante non solo perché comporta l’inversione dell’identità sessuale dell’oggetto dello sguardo desiderante, ma anche perché può rientrare in quella tipologia di scene voyeuristiche in cui il punto di vista del soggetto osservante si dispone, quasi inconsapevolmente, a venir assunto dal lettore/spettatore:
Nelle interpretazioni rinascimentali l’atto di scoprire e di spiare segretamente è frequentemente accentuato, in modo tale da sviluppare il tema dello sguardo proibito. Così un argomento talmente fondamentale al nostro discorso contemporaneo sulla sessualità, quale lo sguardo dello spettatore, riveste anche uno spazio privilegiato per l’analisi di molte stampe rinascimentali, dove per la prima volta venne ripreso dalla produzione antica (Talvacchia 2001, 206).
E tale situazione di visione conosce a sua volta una variante, anch’essa già esperita in contesto petrarchesco (coi fragmenta 23 e 52), nell’episodio ovidiano di Diana e Atteone, incentrato appunto sul caso di una divinità violata dal voyeurismo passionale e conoscitivo di un cacciatore; caso di voyeurismo che, secondo la suggestiva lettura di Leonard Barkan, si connota anch’esso narcisisticamente per il suo mettere in scena uno sguardo (Atteone) che riflette se stesso in un’immagine speculare (Diana) ove sono sintetizzate le due componenti (e i due tempi) della sua identità: predatore e preda, caccia e morte (cfr. Barkan 1986, 45: “Acteon and Diana are both hunters, and so, in perceiving the naked goddess, the young man is looking in a sort of mirror and seeing a transfigured, sacred form of his own identity. […] This equation – of Acteon with the holy form of himself as hunter – inexorably brings about the complementary equation, of Acteon with the beastly form of himself as hunter, the stag whom he has been hunting”; e si veda anche Vickers 1981). La reversibilità dei destini è ovviamente il dato differenziale rispetto alla vicenda di Giove e Danae.
In considerazione della capillare permeabilità dei miti ovidiani nella cultura rinascimentale e della vischiosità della situazione narrativa appena analizzata non può di certo sorprendere rinvenire un adattamento dell’exemplum agostiniano da parte di un petrarchista polivalente come Lodovico Dolce, molto attento alle modalità di rifunzionalizzazione della cultura classica entro la letteratura moderna (quella che costui contribuiva a definire tra i torchi delle stamperie veneziane) e al ruolo dell’immagine nelle dinamiche socio-culturali dell’epoca (sulla scorta del mentore Pietro Aretino). L’adattamento in questione compare in una lettera che, probabilmente nel 1555, Dolce invia ad Alessandro Contarini per descrivergli nel dettaglio il dipinto su Venere e Adone realizzato da Tiziano per Filippo II di Spagna. Ricordiamo che, per ammissione dello stesso Tiziano, il quadro doveva fare pendant con “la Danae, che io già mandai a Vostra Maestà, [la quale] si vedeva tutta dalla parte dinanzi; ho voluto in quest’altra poesia variare, e farla mostrare la contraria parte, acciocché riesca il camerino, dove hanno a stare, più grazioso alla vista” (Dolce, Aret., 80) [Fig. 11].
Esempio, fra i tanti, di lettera artistica incentrata sulla descrizione di un dipinto, il testo di Dolce sull’Adone tizianesco costituisce un’interessante riflessione sulla pluralità degli statuti e delle funzioni dell’immagine (in specie erotica) in quanto oggetto (il dipinto), in quanto testo (le ecfrasi che, quasi a gara, Dolce e Contarini si scambiano), e in quanto phantasma (l’immagine delineata nella mente del lettore dalle parole di Dolce). Fin dall’incipit Dolce sottolinea il carattere agonistico del proprio atto ecfrastico, la sfida con la descriptio poetica di Contarini implicando anche una sfida tra i due dipinti descritti (e tra i loro artefici), nonché una sfida tra potenzialità della pittura (antica o moderna) e potenzialità della parola (l’ecfrasi vincente sarebbe infatti superiore a tutte le immagini reali realizzate nel tempo sul medesimo soggetto):
Se io sapessi ora così ben ritrarre a vostra signoria con le mie parole l’Adone di Tiziano, come ella pochi dì sono dipinse a me con le sue il quadro di Rafaello da Urbino, io mi dò a credere indubitatamente che voi direste che non fu mai da dipintore antico né da moderno imaginata, né dipinta cosa di maggior perfezione. Pure quel tanto, che io ne saprò ombreggiare con questa penna, basterà, se io non m’inganno, a crear nel vostro bell’animo una maraviglia tale, quale alquanto a dietro produsse la mia lingua in quello del magnifico messer Pietro Gradenico, in guisa che sognandosi egli la notte una eccellenza incomparabile, il giorno che seguì, volendone certificar gli occhi suoi, andato a vederlo, trovò che l’effetto di gran lunga avanzava la sua imaginazione, et il mio abbozzamento (Dolce, Lettera su Venere e Adone, 67-68).
Dolce insiste soprattutto sulla reazione emotiva e cognitiva che l’opera d’arte, da sola o attraverso la mediazione di una descrizione testuale, può suscitare nei suoi fruitori. Una reazione all’immagine (e al suo doppio ecfrastico) che, come vediamo nella finale allusione all’aneddoto pliniano sulla Venere cnidia scolpita da Prassitele (Nat. hist. 36, 4, 21), può anche assumere i connotati di un sintomo fisico, riflesso incondizionato della stretta connessione tra piano sensoriale e piano immaginativo, tra corpo e psiche:
Vi giuro, signor mio, che non si trova uomo tanto acuto di vista e di giudizio, che veggendola non la creda viva: niuno così affreddato da gli anni, o sì duro di complessione, che non si senta riscaldare, intenerire, e commuoversi nelle vene tutto il sangue. Né è maraviglia che se una statua di marmo poté in modo, con gli stimoli della sua bellezza, penetrar ne le midolle d’un giovane, ch’ei vi lasciò la macchia […] (Dolce, Lettera su Venere e Adone, 70).
Un’immagine – quella di Venere che abbraccia Adone – corporalmente vitale, e proprio per questo necessitante di uno sguardo che a sua volta si faccia corpo – come sottolinea Georges Didi-Huberman commentando proprio il passo dolciano –, di un corpo che le “risponda con il proprio sintomo o avvenimento, erotico e ‘figurale’ allo stesso tempo: circolazione esemplare dell’umore e del pigmento tra soggetto dipinto e soggetto-voyeur” (Didi-Huberman [1985] 2008, 62), ma anche – sviluppando ulteriormente la dinamica di mise en abîme dell’atto di visione – tra soggetto narrato e lettore-voyeur (per cui cfr. Zorach 2011, 129: “L’obscénité se définit non par un contenu ou même par un style, mais par ses effets, par le fait de brouiller les limites, entre la représentation et l’action, entre le spectateur et la chose vue, entre les catégories [humain, animal, objet]. C’est un effet de contamination: en regardant l’obscénité, on devient, soi-même, obscène”). Proprio ciò che Agostino comprendeva, e stigmatizzava.
La lettera a Contarini è però solo una delle esecuzioni dolciane del mito ovidiano di Adone. La variazione più compiuta sono le Stanze nella Favola d’Adone pubblicate nel 1545 insieme alla commedia Il Capitano. La rielaborazione del plot ovidiano è qui consistente e chiama in causa anche personaggi assenti nell’ipotesto, come Giunone e Giove. Proprio quest’ultimo è immortalato in una situazione del tutto analoga a quella dell’adulescens corrotto di Agostino, còlto in un momento di eccitazione a sèguito della visione, dall’alto, delle “bellezze estreme” di un Adone (che già gli “avevano tocco il core” a tal punto da oscurare in esso “la piacciuta beltà di Ganimede”) impegnato nell’amplesso con Venere (ott. 23-24):
Ma tornando al pratello, in che giacea
La bella diva al bel fanciullo in seno,
Ella di lui, et ei di lei, bevvea
Per le luci nel cor dolce veleno;
Giove nel cielo, ond’ambedue vedea,
D’amoroso desio scaldato e pieno
Mirava Adon: né più lo punge o fiede
La piacciuta beltà di Ganimede.
Dunque ne gli occhi suoi gli occhi lucenti
La dea fisava; e poi che mille volte
Le labbra impresse in quei coralli ardenti,
Ov’eran d’ambedue l’anime accolte,
Sciolse la lingua in sì söavi accenti
Che tai non fia giamai ch’orecchia ascolte.
S’aperse il cielo, e con chiaro baleno
Nembo di rose e fior’ lor cadde in seno (Dolce, Stanze nella Favola d’Adone, 83-84).
Ritratta durante questa perturbante esperienza scopica, la figura di Giove è idealmente accostabile, secondo Dolce, a quella di ogni osservatore del dipinto di Tiziano, e come tale non può non essersi sentita “riscaldare, intenerire, e commuoversi nelle vene tutto il sangue”; non può non aver provato davanti al bel garzone la stessa insopprimibile pulsione erotica suscitata, teste Plinio, nel giovane osservatore della Venere cnidia di Prassitele (cfr. Nat. hist. 36, 4, 21: “Nec minor ex quacumque parte admiratio est. Ferunt amore captum quendam, cum delituisset noctu, simulacro cohaesisse eiusque cupiditatis esse indicem maculam”). Il “sintomo […] erotico e ‘figurale’” sarebbe qui da riconoscere in quel “Nembo di rose e fior’” che dal “cielo […] cadde in seno” ai due amanti. Sotto un tale punto di vista l’immagine poetica parrebbe riproporre articolazioni strutturali (il motivo dello sguardo eccitato) e soluzioni espressive (la sublimazione del desiderio erotico) che abbiamo già incontrato, in avvio, nella narrazione visiva di Lotto. Essa recupera altresì quella variante lirica del motivo della pioggia d’oro attraverso cui Giove feconda Danae, autorizzata da Petrarca (Rvf 126, 40-45: “Da’ bei rami scendea | (dolce ne la memoria) | una pioggia di fior sovra ’l suo grembo; | ed ella si sedea | umìle in tanta gloria, | coverta già de l’amoroso nembo”) e prontamente sfruttata nell’illustrazione di Antonio Grifo. Nobilitazione idillica di un dono fastoso e perverso che – ricorda Jean Starobinski – “cade dall’alto verso il basso, come segno di una potenza arbitraria e sovrabbondante” (Starobinski 2003, 29; ma cfr. anche Starobinski 1995).
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Starting from the analysis of both the Allegory of Lorenzo Lotto (Washington, National Gallery of Art) and its connections with Petrarch’s Canzoniere, this essay aims to study some Petrarchan interpretations of the mythological episode of Danaë. Following the double thematic thread of the excited gaze and the sublimation of desire, this analysis matches literary and visual sources, focusing on the illustrative set of the “Incunabolo Queriniano” produced by Antonio Grifo as well as on the moralised elaboration of the figure of Danaë in some Latin texts by Petrarch, and finally on some poetic ekphraseis by the Venetian Renaissance author Lodovico Dolce.
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La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Le Danae di Petrarca (e non solo), a cura di A. Torre, “La Rivista di Engramma” n. 178, dicembre 2020/gennaio 2021, pp. 130-159 | PDF dell’articolo