Danae, Perseo e Acrisio tra gli Etruschi di Spina
Mario Cesarano
A Mario, per ieri, per oggi, per domani
English abstract
Kylix a figure rosse; nel medaglione: a destra
uomo barbato vestito con lungo manto che sembra
parlare a una donna la quale regge sulle ginocchia
un bambino in fasce. La donna sembra essere
dentro ad una casa o in un altare poiché è dentro
a una costruzione che termina con una colonnetta
scanalata sormontata da capitello a volute.
Salvatore Aurigemma, Diario di scavo, 2 giugno 1924
Introduzione
Nell’aprile del 1922 prendono avvio gli scavi delle necropoli di Spina, città di fondazione etrusca alla foce di quel fiume Po, che col nome di Eridano si era guadagnato un posto nell’immaginario mitico dei Greci come luogo di vicende accadute nell’indefinito tempo del mito, quando Fetonte, preso il carro del Sole, all’insaputa di suo padre Febo, dopo aver incendiato la volta celeste, per l’intervento necessario di Zeus, aveva terminato rovinosamente la sua corsa e la sua vita nelle acque marginate dalle sponde sulle quali le sue sorelle, le Eliadi, forte il dolore per la perdita del fratello, affondarono le radici, assumendo le sembianze di pioppi, mentre le loro lacrime si mutavano in ambra (Ov. Metam. 1, 750-779; 2, 1-366).
Se nel racconto mitico si trasfigura la realtà di uno scambievole contatto tra la Grecia protostorica, coi naviganti che forniscono ai suoi aedi materiale per tessere trame, e le genti di un paesaggio lagunare ancora nel pieno della sua evoluzione fisica, l’evidenza dei rinvenimenti ceramici databili a partire dal VII sec. a.C. consente di seguire le tappe del progressivo farsi dello Ἰόνιος κόλπος, a ragione della sempre più assidua e significativa presenza di Egineti, Corinzii e poi Ateniesi in quelle acque e sulle sponde che un giorno sarebbero state quelle del Mar Adriatico (Bruni 2004, 77-116; Bermond Montanari 2006, 111-116; Sassatelli 2010, 153-171). È nel quadro di un vivace mondo di scambi e traffici non solo commerciali, che cadono le scelte di fondare Adria, emporio greco-etrusco, e poco più a sud, Spina, fondazione etrusca che in breve si guadagna la fama di polis hellenis, tanto da condividere con l’etrusca Caere, sola tra le città anelleniche d’Italia, il privilegio di avere un proprio thesauros a Delfi, il più importante santuario religioso e politico della Grecia, ovvero di sedere al tavolo di chi conta nel Mediterraneo di età classica (Alfieri 1988, 283-288; Naso 2013, 1013-1019).
Se la spoliazione dei sepolcreti di Adria avviene già nel XVI e nel XVII secolo, con l’immissione sul mercato antiquario di una gran quantità di vasi attici figurati, prelevati dalle tombe, senza che il loro scavo si accompagni a una documentazione utile a fini scientifici (Favaretto 1984, 168-173), le necropoli spineti, pur a fronte di scavi, spesso clandestini, precedenti la loro scoperta ufficiale (al 1668 risale la scoperta di un candelabro di bronzo che Castagnoli 1943, 184-185 riporta come “il primo scavo documentato della necropoli di Spina. Ma su più antichi rinvenimenti cfr. Sassatelli 1987, 61-66) vengono trovate pressoché intatte, al di sotto dei melmosi fondali delle acque delle valli fatte oggetto di bonifica prima nel grande progetto dell’Italia fascista di guadagnare all’agricoltura quante più terre possibili e successivamente negli anni Sessanta del secolo scorso [Fig. 1].
Tra quegli inizi e le ricerche che si susseguono negli anni nel territorio del Comune di Comacchio, prima in Valle Trebba e poi in Valle Pega, si scavano oltre quattromilatrecento sepolture, collocabili lungo tutto l’arco di vita della città, tra la seconda metà del VI e il III sec. a.C., una vera e propria miniera di vasi attici figurati, per la quasi totalità a figure rosse, rinvenuti in contesti sepolcrali la cui integrità risulta compromessa esclusivamente (e solo in certi casi) dalle non favorevoli condizioni fisiche del territorio vallivo. Si tratta di una circostanza eccezionale, per la possibilità, vista l’epoca, di documentare con criteri sempre più scientifici ogni aspetto dello scavo, tenuto conto che le necropoli costituenti i più grandi giacimenti di ceramica attica figurata in Italia, prima in Campania (a Nola, a Capua e a Calvi Risorta) e poi in Etruria (a Cerveteri, a Vulci, a Chiusi e a Orvieto), sono state letteralmente prosciugate tra il XVIII e il XIX secolo dall’entusiasmo famelico, se non bulimico, di quell’etruscheria che ha gettato in un unico grande calderone etrusco tutta la produzione di vasellame figurato antico presente sulla penisola italica, a vantaggio delle biblioteche di nobili e intellettuali di tutta Europa (Cesarano 2020, 220-233), obbedienti al dictat di Thomas Coke, finanziatore tra il 1724 e il 1726 della prima edizione del De Etruria Regali scritto quasi un secolo prima dallo scozzese Thomas Dempster, che in una lettera al nonno paterno scrive che “una biblioteca ricercata è in fondo, per un gentleman e per la sua casata, un grandissimo decoro” (Hassel 1959, 249; Cristofani 1983, 15).
Purtroppo alla prima edizione degli scavi compiuti in Valle Trebba tra il 1922 e il 1935 (Aurigemma 1960; Aurigemma 1965), solo di recente e prevalentemente solo per gli aspetti topografici comincia a seguire quella delle necropoli in Valle Pega (Desantis 2015, 171-196; Desantis 2017, 85-98), scavate nei successivi anni Sessanta, e i pur numerosi nuovi studi aventi a oggetto sepolture spineti o problematiche ad esse pertinenti hanno avuto piuttosto un valore episodico, prima dei recenti seri primi passi verso una ricerca programmata e organica (Gaucci 2015, 113-170; Gaucci, Mancuso 2016, 41-49; Govi 2017, 99-108; Romagnoli 2017, 109-119; Gaucci, Morpurgo, Pizzirani 2018, 653-692), col risultato di lasciare ancora per molti aspetti inespresso il potenziale scientifico di questa scoperta eccezionale (per lo stato della ricerca sull’abitato di Spina cfr. da ultimo Reusser 2017).
Il presente contributo muove dall’idea che la tomba sia un contesto unico e significante, risultato delle complesse relazioni associative di tutti gli elementi, materiali e immateriali che la compongono. Nell’insieme che raccoglie il corpo del defunto e il suo corredo personale il sepolcro fissa per sempre una visione, l’immagine significante che è stata costruita e osservata nei giorni della prothesis e che viene completata dall’atto del seppellimento, con l’eventuale consacrazione al defunto anche della suppellettile usata per la necessaria cerimonia, che chiude il rituale funerario. Ogni elemento di questo insieme, ogni frammento di questa immagine è il frutto di una selezione, che non trascura di definire il genere, ma lo tratta come mera classificazione biologica, mirando prioritariamente a presentare dell’individuo deposto la sua più completa fisionomia sociale e politica e la sua piena identità culturale; diventa, cioè, la cifra di un codice comunicativo unico e complesso, la cui comprensione da parte di quanti sono coinvolti nello scambio di informazioni è condizione necessaria al funzionamento dei meccanismi che regolano i rapporti tra le parti sociali, che ai diversi livelli costituiscono la comunità locale (per una riflessione sul valore e il significato dei corredi funerari cfr. Valenza Mele 1991, 149-174).
Posta tale premessa, si consideri quante informazioni si celano dietro la deposizione della gran quantità di vasi attici figurati nei sepolcri di Spina, in riferimento a un centro costiero, che sullo sfondo di una compagine etnica prevalentemente etrusca accoglie nel suo tessuto sociale numerosi elementi allogeni, per quel che riguarda: il valore metafunzionale di certe forme, che può essere metonimico dei rituali sociali nei quali vengono usate, primo tra tutti quello del banchetto, che sancisce l’appartenenza di chi vi è ammesso a un dato gruppo sociale; i meccanismi di ricezione dei temi figurativi che vi campeggiano, da quelli estratti dal mito a quelli ispirati al quotidiano esercizio del politico di matrice attica; il grado di assimilazione passiva di questi temi, assorbiti e interpretati nelle stesse forme e con gli stessi significati che gli sono assegnati ad Atene, o piuttosto il loro livello di rielaborazione attiva, talvolta personalizzata, nell’adattamento consapevole a un linguaggio non verbale accessibile e comprensibile in maniera immediata nei confini del dato spazio di interlocuzione sociale.
Un sempre più frequentato filone di studi, consapevolmente avviato da Bazant agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, propugna l’idea che la ceramica attica figurata assolva il compito di veicolare i termini dell’etica socio-politica di un’Atene, che tra VI e V sec. a.C. tende sempre più a presentarsi come paradigma ‘politico’ universale, definitosi nella transizione dalla polis aristocratica a quella democratica, passando per il suo necessario intermezzo tirannico, marcando i confini della propria identità culturale e facendone uno strumento di conquista e di potere (Bazant 1981; Bazant 1985; Bazant 1987, 33-40; Peschel 1987, 38; Scheffer 1992, 135; Cesarano 2017, 136-138). Lissarrague, invece, pur riconoscendo che l’immagine sul vaso “est prise dans une chaine qui fait intervenir le peintre et le specateur, le producteur et le recepteur de l’image”, conclude che l’interesse primario degli Etruschi, che fanno incetta di ceramica attica, non si debba al valore delle immagini, ma prevalentemente alle forme dei vasi (Lissarrague 1987, 261-269), a ragione delle funzioni con cui vengono utilizzati nei loro vari rituali (Lubtchansky 2014, 363). Nella pratica dei fatti non pochi studi sia precedenti che successivi, pur procedendo all’analisi iconografica delle figurazioni sulla ceramica attica delle sepolture spineti, non si inoltrano più di tanto nel più complesso sentiero dell’iconologia, ma cercano, comunque, una lettura alternativa a quella di Lissarrague, riconducendo a una precisa scelta della committenza locale l’uso di un repertorio di immagini attentamente e scientemente selezionato. Ne offre una chiara sintesi Massei concludendo che la tomba 53A di Valle Pega, “considerato il materiale da cui è costituita, rivela un carattere di esclusiva ‘atticità’; fatto, questo, che serve a illuminarci sulla vita culturale del centro, che come si sa, si fonda su due componenti essenziali: la componente etrusca, che fa da tessuto connettivo, e la componente greca che, innestandosi su quella etrusca, la arricchisce con il suo apporto culturale” (Massei 1977, 269).
Nel panorama, pur se fino ad allora non particolarmente corposo, di edizioni di singoli vasi presentati per il loro valore ‘artistico’ (Massei 1977, 257 nota 1), il merito di Massei è quello di guardare al corredo funebre come a un insieme unico senza distruggerne il tessuto connettivo estrapolandone la ceramica attica figurata e trattandola come una semplice ma preziosa ‘opera d’arte’, ma riannodando i fili con l’episodio fino ad allora rimasto isolato della pubblicazione della tomba 136 di Valle Pega, fatta dal suo maestro Arias (Arias 1955, 95-178), che, affascinato da un piccolo gruppo scolpito in osso raffigurante una coppia con uomo e donna, che egli propone di assegnare a un thymiaterion, piuttosto che a un candelabro, con la pubblicazione nel 1977 del corredo completo della tomba 614 di Valle Trebba, intende celebrare ancora una volta i tratti caratterizzanti di “civiltà figurativa di una certa importanza” attestata nell’area padana, sottolineando, però, che a differenza di Felsina e di Marzabotto, le altre due città etrusche nella regione, sulla base di quel che si conosce dalle evidenze restituite dalle necropoli:
Spina manca di un artigianato valido locale e sembra essere soltanto un punto di incontro, sotto l’aspetto artistico, di correnti d’arte differenti; da quelle attiche, rappresentate dai vasi, alle italiote, alle venete, alle felsinee e, perfino, alle picene. Non parliamo, poi, delle oreficerie, che pur nella loro cronologia tarda, rivelano forti richiami agli influssi dell’artigianato italiota diffuso, come tutti sanno, nel IV e III secolo, nell’Etruria centrale (Arias 1977, 25).
La necessità di volgersi allo studio di Spina e degli Etruschi padani rintracciandone la complessità culturale viene significativamente sottolineata dalla scelta di Sassatelli di presentare uno studio sugli “aspetti ellenizzanti nella cultura dell’Etruria Padana”, muovendo da una proposta di lettura del soggetto della cimasa di bronzo di un candelabro etrusco da Spina, nella quale propone di riconoscere la coppia Enea-Anchise secondo un modello iconografico propriamente attico, nell’ambito di un incontro scientifico che si tiene a Bologna nel 1985 col titolo di Celti ed Etruschi nell'Italia centro-settentrionale dal V secolo a.C. alla romanizzazione (Sassatelli 1987, 61-83).
A partire dagli anni ’90 del secolo scorso storia culturale e archeologia si fondono e si confondono e l’attenzione degli archeologi si volge alla comprensione delle dinamiche culturali che giustificano l’identificazione di Spina che danno lo Pseudo-Scilace (Ps-Sc, Periplo, § 17) e Strabone (Strab. 5, 1, 7) come di una polis hellenis. Marinari apre suggestivamente con la constatazione di Dionigi di Alicarnasso che “è possibile che certi barbari osservino nei sacrifici e nelle feste certe usanze tipiche dei Greci, ma sarebbe difficile credere che essi si comportino in tutto nello stesso modo” (Dion. Alic. 7, 72, 18), per introdurre lo studio in cui individua un indizio di ellenizzazione nella composizione dei corredi vascolari tombali di Spina improntati al servizio da banchetto (Marinari 1999, 267-277).
A fronte dell’infittirsi dei confronti scientifici e delle pubblicazioni di altri contesti tombali, la svolta negli studi iconologici sulla ceramica attica di Spina ritengo debba riscontrarsi nello studio con cui nel 2001 Zaccagnino entra nel cuore del codice semantico del programma figurativo del cratere a volute attico a figure rosse, attribuito al Pittore di Bologna 279, proveniente dalla tomba 579 di Valle Trebba, riconoscendovi “un programma unitario, che riflette assai da vicino tanto la temperie politica quanto quella culturale dell’Atene contemporanea, tanto da denotarsi come un vero e proprio manifesto propagandistico” della politica antipersiana di Cimone (Zaccagnino 2007, 97). Nello stesso consesso scientifico Menichetti presenta il cratere attico a figure rosse di Polion, proveniente dalla necropoli di Valle Trebba, come “una sorta di ulteriore manifesto dell’ottica cimoniana” (Menichetti 2007, 120).
Proprio concentrandosi sulla vicenda spinete giunge con un’interessante invito a valutare il grado di manipolazione del repertorio figurativo attico da parte delle élites locali Cornelia Kerenyi, che supera definitivamente la posizione di Lissarrague e ammette che i gruppi elitari della città etrusco-padana si servono del repertorio figurativo della ceramica attica con intento comunicativo in chiave autorappresentativa, ma definisce il corredo della tomba 128 di Valle Trebba “un paradoxe”, perché testimonianza del fatto “que deux sistemes culturels differents peuvent exprimer par la meme institution et par la meme formule iconographique des valeurs tout a fait opposees: traditionnalistes et aristocratiques chez les Etrusques, egalitaires chez les Atheniens du Ve siecle” (Isler Kerenyi 2003, 47-48).
La strada è ormai tracciata. In un convegno del 2007 Haack passa in rassegna le attestazioni funerarie epigrafiche in greco e in etrusco, al fine di quantificare il rapporto numerico tra le due componenti etniche delle città di Adria e di Spina, ma chiarisce in premessa che lo studio
[...] s’intéressera à la façon dont le mobilier funéraire de Spinètes et d’Adriates qui ne s’expriment pas en grec dans des inscriptions funéraires révèle qu’ils ont voulu vivre et mourir à la grecque. Enfin, on verra comment ces Spinètes et ces Adriates ont développé un imaginaire grec de l’art de vivre et de mourir qui s’écarte des normes grecques (Haack 2009, 46).
Un significativo contributo alla comprensione dei meccanismi di acquisizione e rielaborazione del repertorio iconografico attico nell’Etruria padana, fondato in gran parte proprio sullo studio della ceramica proveniente da Spina, si deve alle ricerche di Pizzirani relative in special modo alla diffusione tra le genti etrusche del dionisismo (Pizzirani 2009, 37-49; Pizzirani 2010, 29-35; Pizzirani 2017a, 105-126; Pizzirani 2017b, 121-126).
Dal canto mio appena tre anni fa, nel 2017, nella giornata di studi dedicata a Mario Torelli per il suo ottantesimo compleanno, ho scelto di rendergli omaggio con uno studio sulla ricezione del repertorio iconografico attico a Spina per il contributo da lui dato allo studio del centro etrusco-padano (Torelli 1993, 52-69) e per il posto di primo piano che ha ricoperto nel trasferire gli insegnamenti di Aby Warburg e di Erwin Panofsky agli studi di archeologia classica, in ispecie nell’analisi delle dinamiche politiche e sociali del mondo etrusco e di quello romano, lasciando un segno indelebile nella comprensione delle numerose e complesse forme della comunicazione non verbale, usate con successo dai tanti interlocutori abitanti un Mediterraneo multiculturale ancor più che multietnico. Ho proposto di riconoscere nella sequenza di immagini sul cratere della tomba 6C di Valle Pega una sintesi delle istanze politico-egemoniche di Atene trasfigurate dalle vicende finali della saga tragica degli Atridi con l’uccisione di Clitennestra da parte di suo figlio Oreste, che trova salvezza dalla sua colpa di matricidio nel giudizio dell’Aeropago ateniese, al cospetto delle Erinni mutatesi in Eumenidi e sotto la protezione necessaria di Apollo, e ne ho ricondotto la presenza nel contesto tombale di appartenenza alla chiara volontà della committenza di dichiarare la propria membership a un gruppo locale vicino alla politica della metropoli attica, con il chiaro intento di assumere un ruolo rilevante nello scenario politico e commerciale tra l’Italia e l’Egeo.
Oggi, a distanza di pochi giorni (già troppi!) dalla scomparsa di Mario Torelli, nel rispetto delle linee programmatiche della rivista Engramma, che ne ha goduto come autore e come membro del comitato scientifico, torno a sottoporre al suo giudizio il presente studio, che si propone di decifrare quanto più plausibilmente possibile il messaggio affidato al contesto funebre della tomba 503 di Valle Trebba, concentrando in particolar modo l’attenzione sul valore metafunzionale della presenza tra la suppellettile del corredo funebre della kylix attica a figure rosse decorata sul fondo interno dall’episodio mitico di Danae e del neonato Perseo chiusi in una cassa di legno e gettati in balia delle onde del mare (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale inv. 818; BAPD 202201).
La kylix attica a figure rosse della tomba 503 di Valle Trebba e il lessico iconografico di Danae e Perseo nella ceramografia attica
La coppa da Spina [Fig. 2], attribuita al Pittore di Eucharides e datata al 490-480 a.C., non reca decorazioni sulle pareti esterne. La scena sul fondo interno, chiusa in una cornice circolare con motivo a meandro, ritrae, partendo dalla sinistra dell’osservatore, una figura femminile di profilo verso destra, la cui condizione di donna libera è riconoscibile dai capelli raccolti, cinta la fronte di un diadema, che emerge per la parte superiore del corpo da una cassa, tenendo tra le braccia un neonato avvolto in fasce. Di fronte a lei, stante tra due colonne ioniche sormontate da un architrave, un uomo adulto, barbuto, vestito di chitone e di himation, impugna un bastone di legno bugnato nella mano sinistra, assimilabile a uno scettro, mentre leva in alto l’avambraccio destro tenendo aperto il palmo della mano.
Fino ad oggi non sono state rilevate tracce di iscrizioni onomastiche associate ai personaggi, che, invero, non di rado possono ritrovarsi sovraddipinte sulla ceramica greca figurata, per giungerne a una identificazione certa e fornire una lettura corretta della scena riprodotta. Ma Pausania chiarisce bene che la diffusa conoscenza del mito non consente in casi del genere di commettere errori: nel descrivere l’arca di Cipselo, sottolinea che “poiché Eracle è riconoscibile sia per l’impresa che sta compiendo sia per l’atteggiamento della figura, a lui non è ascritto il nome” (Paus. V 17.11), e che “chi sia l’uomo che impugna la spada e si dirige verso Atlante, non è specificato da nessuna scritta a lui apposta, ma è chiaro a tutti che si tratta di Eracle” (Paus. V 18.4). E ciò non solo per quelle figure tanto note e diffuse come quella dell’Alcide, ma anche nel caso di altre più evanescenti nella loro definizione:
V’è rappresentata una donna che regge con la mano destra un fanciullo bianco che dorme e con l’altra mano tiene un fanciullo nero, simile a quello che dorme, con i piedi contrapposti l’uno all’altro. Le iscrizioni lo dicono esplicitamente, ma lo si può capire anche senza le iscrizioni, che si tratta di Thanatos e Hypnos e che a entrambi è nutrice la Notte (Paus. V 18.1).
Ancor più l’assunto di Pausania è valido se allo spettatore si offre la vista non di figure composte in una scena, ma di un antichissimo xoanon a Larissa, palesemente raffigurante Zeus Erkeios (per la natura e l’iconografia di Zeus Erkeios cfr. Howe 1955, 287-301), perché:
ha due occhi dove gli abbiamo ancor noi, ed un terzo sulla fronte...Perché poi abbia tre occhi si può immaginare da questo: che Giove regni nel cielo è comune sentimento di tutti gli uomini; ma vi è un verso di Omero, che chiama Giove ancora quello, che dicono dominar sotto terra: il sotterrano Giove, e la laudabile Proserpina. Eschilo poi figlio di Euforione chiama Giove ancora quello del mare; che guarda con tre occhi adunque lo finse, chiunque ne sia l’autore, come colui che ne’ tre descritti elementi faccia dominare lo stesso Nume (Paus. II 24.3).
Come, dunque, ben osserva Friis Johansen, quasi riecheggiando Pausania, “it was not the names in themselves, but rather their correct combination, and frequently also particular features in the representations” (Friis Johansen 1967, 70) a dichiarare l’identità dei personaggi e a rivelare la situazione nella quale stanno agendo.
Proprio la buona conoscenza del mito greco, acquisita attraverso la tradizione letteraria, ha suggerito fin da subito l’identificazione della donna e del neonato con Danae e suo figlio Perseo rinchiusi nella cassa di legno, dalla quale appaiono emergere, con la quale vengono gettati in mare su ordine di Acrisio, re di Argo e padre della donna, che ha appreso dall’oracolo di Delfi che il figlio nato dal suo seme gli sarà fatale, nei racconti intrecciati del Catalogo delle donne di Esiodo (Merkelbach, West 1967, 65; Sforza 2013, 214 nota 13), del celebre threnos di Simonide della metà del VI sec. a.C., noto anche come “lamento di Danae” (Simonide, 543.38 PMG), di un frammento di Ferecide (FGrHist 3 F 10), di quel che ci è giunto del dramma satiresco Diktyoulkoi di Eschilo (Setti 1948, 1-36), dell’Acrisio e del coro dell’Antigone di Sofocle, della Danae di Euripide, della Pitica XII di Pindaro, dell’opera dello pseudo-Apollodoro (Biblioteca, II 4.1), della Fabula 63 di Igino. Meno certa l’identificazione dell’uomo, che oscilla tra Acrisio e Polidette, il re dell’isola di Serifo, che accoglie i due sventurati, pescati dal mare da suo fratello, il piscator Diktys di Igino. In realtà in Ecateo di Mileto in una cassa di legno gettata in mare per volontà di Aleo, re di Tegea, vengono rinchiusi anche sua figlia Auge e il neonato nipote Telefo, che approdano in Misia, dove vengono accolti dal re Teutrante (Hecat. FGrHist 1 F 29a = Paus. VIII 4.9), ma questo mito non trova spazio nella ceramografia attica.
Al contrario alcuni vasi ateniesi a figure rosse, pur se non numerosi, attestano che la vicenda di Danae e Perseo è tra i soggetti degli artigiani del Ceramico, nelle cui botteghe i ceramografi definiscono la grammatica e il lessico visivi propri del racconto in questione, creando schemi iconografici predefiniti, non diversamente da come fanno i cantori e gli scrittori con certe formule espressive, che indirizzano a un’immediata familiarità con la narrazione e alla comprensione della sua logica compositiva, ratificandoli talvolta proprio con le iscrizioni onomastiche, che sono state rilevate in due delle dieci attestazioni dello stesso soggetto, dove all’uomo stante di fronte a Danae nella cassa è associato sempre il nome di Acrisio (CAVI: 5614; 7352). La narrazione figurata mette sempre in scena più personaggi di quanti ne siano presenti sulla kylix di Spina.
Oltre a Danae, Perseo e Acrisio è presente il falegname, che rifinisce la cassa con un arnese che può variare dal martello al trapano o a un’asta, su: una pelike a figure rosse di incerta provenienza, datata al 510-490 a.C. e attribuita al Pittore di Geras (Malibu, The J.-Paul Getty Museum, 86.AE.199; BAPD 195); un cratere a calice a figure rosse proveniente da Cerveteri (St. Petersburg, State Hermitage Museum 637; BAPD 203792) [Fig. 3], datato alla prima metà del V sec. a.C. e attribuito al Pittore di Trittolemo; una hydria a figure rosse data come proveniente dall’Italia (Boston, Museum of Fine Arts 13.200; BAPD 202466) [Fig. 4], anch’essa collocata nella prima metà del V sec. a.C., ma attribuita al Pittore di Gallatin; uno stamnos a figure rosse da Cerveteri (St. Petersburg, State Hermitage Museum 642; BAPD 202231) [Fig. 5], con stessa datazione dei due precedenti vasi, attribuito allo stesso pittore di Eucharides al quale è assegnata la kylix da Spina.
La stessa iconografia è riconoscibile anche su un frammento, forse, di cratere a campana assegnato al Pittore del Dinos di Atene, del 450-400 a.C., di incerta provenienza (Bonn, Akademisches Kunstmuseum: 1216.53; BAPD 215646).
Su una grossa kylix a figure rosse di Douris di circa il 480 a.C. [Fig. 6], proveniente dal tumulo 2 della necropoli di Guadocinto di Tuscania (Tuscania, Museo Archeologico Nazionale; BAPD 9024930), gli artigiani che lavorano alla cassa sono due, uno munito di martello e l’altro di trapano a corda.
Su un altro stamnos a figure rosse, del Pittore di Deepdene, del secondo quarto del V sec. a.C., proveniente da Roma (New York, Metropolitan Museum, 17.230.37; BAPD 205587), la narrazione è distribuita su entrambi i suoi lati, sicché su quello principale [Fig. 7] campeggiano Danae e Perseo nella cassa e di fronte a loro l’uomo con scettro, mentre l’artigiano si riconosce nella figura maschile sull’altro lato [Fig. 8], abbigliata solo nella parte inferiore e a piedi nudi, munita di quello che potrebbe essere un martello, in piedi, dando le spalle a una donna, anch’essa stante e che regge una cassetta, e a un’altra donna seduta e dotata di uno scettro. L’identità di questi personaggi femminili solitamente non viene indicata, ma sullo stamnos di Roma, la donna in piedi a cui dà le spalle il falegname è indicata col nome di ΔΑΜΟΛΥΤΕ e sembra essere una serva, che porge alla sua padrona seduta una cassetta, che potrebbe contenere profumi utili a scacciare il cattivo odore proveniente evidentemente dall’artigiano a torso nudo, che ha sudato dopo aver costruito la cassa per Danae, come indicherebbe il gesto della donna di pizzicarsi il naso con le dita della mano sinistra e quello della padrona che porta le dita alla bocca: il senso di ribrezzo varrebbe metaforicamente un sentimento di sgomento di fronte alla vicenda rappresentata sull’altro lato del vaso (Mitchell 2009, 71).
La donna seduta, impugnante uno scettro, con i capelli raccolti in una cuffia, non reca il nome, ma potrebbe identificarsi con la regina Euridice, moglie di Acrisio e madre di Danae, riconoscibile anche nella donna che assiste alla scena principale sullo stamnos da Cerveteri [Fig. 5], su una hydria di incerta provenienza conservata a Boston, databile tra il 475 e il 425 a.C. e attribuita al Pittore di Danae (Boston, Museum of Fine Arts: 03.792; BAPD 214470) [Fig. 9], dove compare subito dopo Acrisio, seguita da un’altra donna, per la quale i capelli sciolti e le dimensioni inferiori rispetto a quelle degli altri personaggi potrebbero definirne lo stato di serva, la cui presenza, insieme a quella della nutrice del piccolo Perseo, che compare col neonato in braccio sullo stamnos da Cerveteri del Pittore di Eucharides [Fig. 5] e sull’hydria del Pittore di Gallatin [Fig. 4], ha una funzione essenzialmente attributiva, utile a sottolineare l’elevato rango sociale dei protagonisti della scena (Ghisellini 2012, 35).
Mutano i personaggi su quattro diversi vasi attici a figure rosse, sui quali la scena è quella del recupero della cassa con Danae e Perseo sulla spiaggia di Serifo: su un cratere a campana da Camarina (Siracusa, Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi 23910; BAPD 6721) [Fig. 10], in Sicilia, Danae e Perseo escono dalla cassa al cospetto di due personaggi maschili vestiti di chitoniskoi e coperti il capo di piloi, nei quali devono riconoscersi i pescatori che nel dramma satiresco di Eschilo traggono dal mare la cassa, uno dei quali potrebbe essere il già citato Diktys, fratello di Polidette, re dell’isola di Serifo; su una pisside della Clairmont Collection (New Haven, Clairmont; BAPD 211249) [Fig. 11] del Pittore di Wedding la donna, riccamente vestita e con diadema alla fronte, e suo figlio, già di pochi anni, sono già usciti dalla cassa, seguono Diktys, imberbe, con indosso un chitoniskos e in mano il suo berretto, mentre due dei pescatori, nel loro solito abbigliamento, stanno disincagliando dalla rete la cassa, mentre un altro di loro vi sbircia dentro; sul frammento di un vaso del Pittore di Carlsruhe (Tubingen, Eberhard-Karls-Univ., Arch. Inst. S101561; BAPD 209112), la cui forma non è identificabile, il volto di Danae si riconosce di fronte a quello di un uomo barbuto, con berretto e chitoniskos, forse Ditti; sul frammento di una lekythos del Pittore di Villa Giulia (oggi disperso, ma precedentemente nella collezione Lullies: Oakley 1982, 114, fig. 5; BAPD 207232), potrebbe essere di Diktis, col caratteristico berretto da pescatore, il volto dell’unico personaggio superstite. Lo stesso personaggio potrebbe essere quello sul frammento di cratere del Pittore del Dinos di Atene, in considerazione della corta veste indossata, ove non se ne confermi l’identificazione col falegname. Diktis, nell’atto di aprire la cassa, al cospetto di Polidette, che assiste in piedi, lo scettro in pugno ben piantato in terra, sarebbe a parer di Oakley (Oakley 1982, 111-115, fig. 1), anche sul frammento di un cratere a campana proveniente dall’agorà di Atene (Athens, Agora Museum P 29612; BAPD 6686) [Fig. 12], dove in realtà lo schema dei personaggi sembrerebbe richiamare più da vicino quello del falegname e di Acrisio.
Lo stesso re di Argo è da riconoscere su un frammento di cratere a campana del Pittore della Phiale (Oxford, Ashmolean Museum: 1917.62; BAPD 214253) nel personaggio del quale si intravede la parte inferiore con scettro, stante di fronte a Danae e Perseo nella cassa, nello stesso schema che si riscontra anche sul frammento di cratere a campana attribuito al Gruppo di Polygnotos, sul quale rimangono soltanto i volti di una donna e di un fanciullo, da identificarsi con Danae e Perseo (Athens, Agora Museum P 22139; BAPD 18974), e nella figura maschile riccamente abbigliata su un frammento, forse, di skyphos dal Ceramico di Atene (Athens, Ceramicus 5846A-D; BAPD 9022283). L’approdo a Serifo, infine, potrebbe essere raffigurato anche su uno skyphos apulo a figure rosse proveniente da Nola (Napoli, Museo Archeologico Nazionale H 3140) [Fig. 13], attribuito al Pittore della Danzatrice, che produce vasi dal carattere “fortemente atticizzante” (Mugione 2005, 182), su una cui parete la scena si riduce ai soli Danae e Perseo in piedi nella cassa, il secondo raffigurato nelle sembianze di un fanciullo e non di un neonato.
In quasi tutte le attestazioni su ceramica l’episodio mitico mette in campo uno o più personaggi oltre a Danae e Perseo, a prescindere dalle dimensioni del vaso, che costringono, invece, a un comprensibile taglio nel caso di una piccola lekythos a figure rosse proveniente dalla Grecia (Providence, Rhode Island School of Design 25.084; BAPD 208348) [Fig. 14], databile tra il 475 e il 425 a.C. e attribuita al Pittore di Icaro, sulla cui fronte sono i soli Danae e Perseo nella cassa, il cui coperchio è internamente decorato dal disegno di uccelli in volo, molto probabilmente a significare l’ambientazione per mare, e nel caso di una piccola lekythos a figure rosse di incerta provenienza, attribuita al Pittore di Providence, della prima metà del V sec. a.C. [Fig. 15], sulla cui fronte sono Acrisio e Danae, riccamente abbigliati, il primo con scettro l’altra con in mano un alabastron, entrambi in piedi a ciascun lato della cassa contenente il piccolo Perseo, che tende la mano destra verso la madre (Toledo, Museum of Art: 69.369; BAPD 694). A questi soli tre personaggi si riduce anche la scena sul fondo della kylix di Spina [Fig. 2], che per le ridotte dimensioni dello spazio di appena dieci centimetri di diametro riservato alla decorazione, sembra essere il risultato del taglio di un quadro figurato più grande e più affollato, che ha, ovviamente, prediletto i personaggi principali, sacrificando quelli accessori.
Il “lamento di Danae” fuori dalla Grecia
Poste le dovute riserve per quella che è la frammentarietà con cui è giunta fino a noi l’eredità dell’evidenza materiale antica, è un dato che dei vasi decorati con l’episodio mitico di Danae, Perseo e Acrisio soltanto la lekythos di Providence e i frammenti da Atene, uno del cratere dall’agorà e l’altro del probabile skyphos dal Ceramico, provengono con certezza dalla Grecia, mentre dalla Sicilia greca proviene il cratere a campana da Camarina. Per sette altri vasi è certa la provenienza dall’Italia (uno da località non segnalata, due da Cerveteri, uno dal territorio di Tuscania, uno da Spina, uno da Roma, uno da Nola), non escludibile anche negli otto casi incerti, provenienti da scavi effettuati nei secoli della ricerca antiquaria. Quella rappresentata è l’unica immagine diffusa sulla ceramografia attica presente su suolo italico di Danae, che ad Atene con l’attributo caratterizzante di una cassetta, molto probabilmente chiaro e connotante riferimento alla sua peripezia per mare (è probabile che sia Danae la donna seduta innanzi a una cassa cesellata su una squat lekythos attica a figure rosse del 450-400 a.C., conservata a Parigi, Musée du Louvre, ED253, per cui cfr. Böhr, Martini, von Zabern, 1986, pl. 11.4), compare anche su una pyxis a figure rosse (London, British Museum E773; BAPD 209970) [Fig. 16], databile al 475-425 a.C., attribuita a un seguace del pittore Douris, in una sequenza che la associa a Elena, a Clitennestra, a Ifigenia, a Cassandra e a un’altra donna, l’unica priva dell’iscrizione onomastica, ciascuna con un attributo. Su suolo greco trova spazio anche la scena di Danae ingravidata da Zeus, mutatosi in pioggia d’oro, che in Etruria ritroviamo soltanto sul cratere a calice da Cerveteri, sul lato opposto a quello con la scena della cassa [Fig. 17].
Diverso discorso per Perseo. Più di trenta le raffigurazioni dell’eroe in età adulta provenienti dall’Italia, prevalentemente dall’Etruria, distribuite su specchi di bronzo, ciste prenestine, vasi di produzione etrusca e di produzione attica: nell’atto di compiere l’impresa di decapitare Medusa; in fuga con il cruento bottino; in lotta contro Ketos per liberare Andromeda; nell’atto di presentare la testa della Gorgone a Zeus al cospetto degli altri déi o di usarla per pietrificare Polidette; intento a ricevere armi e doni dalle ninfe e da Atena; seduto su di una roccia tenendo l’harpe, la falce con cui decapita Medusa. Appare chiara la volontà di assumere Perseo per la sua connotazione di eroe, marcata dall’associazione con l’impresa di Eracle che lotta contro Gerione su un’anfora calcidica a figure nere, rinvenuta a Cerveteri (London, British Museum B 155), o dalla combinazione con Pegaso e Crysaore e ancora una volta con Ercole che uccide il leone Nemeo su un’anfora a figure nere dell’ultimo quarto del VI sec. a.C., di produzione etrusca, proveniente dalla necropoli di Tolle a Chianciano Terme (Paolucci 2002, 331-340); ma anche dall’attributo della falce (Pellizer 2013, 85-86), che gli viene donata da Atena su una situla di terracotta, di produzione apula, rinvenuta in Basilicata (London, British Museum F 83), e con cui si accompagna mentre siede su una roccia alla presenza di Turms/Hermes, su uno specchio di bronzo di produzione etrusca (Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung Fr 141), su una olpe attica a figure nere, rinvenuta a Vulci (London, British Museum B471; BAPD 310459), del Pittore Amasis, databile tra 575 e 525 a.C., e su uno skyphos attico a figure rosse, databile tra 475 e 425 a.C., che pur se non proveniente dall’Italia, ma dalle vicinanze della russa Kerch (Paris, Musee du Louvre: G558; BAPD 44470), colonia di Mileto sul Mar Nero, può valere a riaffermare l’immaginario prevalente con cui si diffondono il mito e la figura di Perseo lontano dalla Grecia vera e propria.
Insieme con Eracle, Perseo compie le sue imprese nel nome di Atena, espressione delle forze olimpie contro quelle primordiali della natura, che si manifestano nella forma di mostri (Howe 1955, 300). La loro è la vittoria dell’ordine sul caos. È la vittoria della polis. Di Atene. E allora è alla divinità olimpica che Perseo dona e consacra il gorgoneion, nel momento in cui il Pericle di Tucidide proclama che Atene è la scuola dell’Ellade, nella pienezza di quel paideusin che rimanda a un’azione che mai si esaurisce nel tempo (Thuc. II 41). Ben si comprende, in questo scenario, l’appropriazione di simili miti eroici di matrice greca da parte di quei gruppi emergenti delle comunità etrusche che rincorrono costantemente forme di autorappresentazione, che ne legittimino l’appartenenza a un hellenikon, che travalica i confini etnici e geografici e si configura come spazio culturale, che trae i suoi limiti proprio dallo spazio e dal tempo del mito, proclamando tradizioni di sungheneia e solidarietà di rango, sia nella tensione a sancire accordi con finalità commerciali e politico-militari sia a presentarsi ad avversari e nemici locali allo stesso modo che Atene pretende di mostrarsi ai mostri/βάρβαροι.
Nella vicenda, che ritrae Perseo neonato nella cassa per mare insieme a sua madre Danae, l’attenzione si sposta, invece, su un altro piano. È molto plausibile l’idea che già in essa sia prefigurato il destino eroico di Perseo, se si considera quale vero e proprio topos del mito la vicenda del neonato che, per una sua natura malefica o per la minaccia che può costituire per l’ordine sociale consolidato, viene rinchiuso in una cassa e gettato in mare, ma che, contro ogni umana aspettativa, riesce a salvarsi. Il fatto è assimilabile all’esposizione dell’eroe alla nascita, al suo allattamento da parte di un animale selvatico (Sforza 2013, 211) e anche al superare una prova di forza e coraggio come nel caso del neonato Eracle assalito dai serpenti quando è ancora nella culla. La reclusione nell’arca e le peripezie attraverso il mare sono necessarie a guadagnare al neonato una legittimazione in un mondo nel quale è arrivato fuori dalle regole. Per Esichio, che scrive nel V sec. d.C., ἐκ λάρνακος· νόθος, “colui che esce da un’arca è un bastardo” (Alganza Roldán 2010, 39).
L’emancipazione dallo status di νόθος, nel caso di Perseo, avviene anche per via della salvezza che gli viene da Zeus, invocata da Danae nel threnos di Simonide, quasi come un riconoscimento di paternità e di investitura eroica da parte del dio. Ma nel primo episodio mitico della vita di Perseo non vi è alcuna allusione a Medusa e alle Gorgoni, a Ketos e all’impresa con cui salverà Andromeda, allo scontro con Polidette, mutatosi in carceriere di Danae, che Perseo tramuterà in pietra servendosi del gorgoneion. L’accento non pare essere sull’eroe civilizzatore e uccisore di mostri, su colui che castiga i rei di hybris. Le figure principali della vicenda, scientemente salvate dal taglio che il ceramografo ha dovuto operare per contenerne il senso nel tondo della kylix da Spina, non possono considerarsi accessorie di Perseo. Anzitutto Danae, che vive la chiusura nella cassa e l’abbandono per il periglioso mare col figlio, e più del figlio, perché comprende il pericolo incombente. Più che la donna “sempre sotto la tutela di un uomo: il padre, Zeus, il pescatore Ditti, il crudele Polidette ed infine suo figlio” (Sforza 2013, 43), qui è anzitutto madre che protegge il figlio, che per farlo, pur nella forma della preghiera, pretende o semplicemente si aspetta da Zeus, come fa una donna da un uomo, che intervenga a salvare il frutto della loro unione, che stringe al petto dopo che lo ha nutrito in grembo, dopo che lo ha nascosto nel θάλαμος κατά γᾶς (Soph. Ant. 944-954), nel quale suo padre l’ha rinchiusa per tenerla lontana da ogni uomo, per evitare che generasse, e dove il dio l’ha raggiunta sotto forma di pioggia d’oro. La stessa cassa di legno, in prima istanza, si vale per lei di una funzione attributiva, se non sinonimica, giacché diventa proiezione del ventre materno, delle braccia che avvolgono e custodiscono il neonato, mentre trasportato dal mare, simile all’acqua nel grembo della madre, si avvia a rinascere una seconda volta.
Quel che va sottolineato è che l’unione di Danae con Zeus non nasce da una sua bramosia sessuale né la sua maternità è il frutto di una relazione incestuosa, di uno stupro o di un adulterio, la cui gravità sarebbe più lieve solo perché commesso con un dio. La sua maternità è funzionale e necessaria al compimento del Fato. Il mito racconta che Acrisio vuole un erede maschio, ma apprende dall’oracolo delfico di Apollo, che sarà sua figlia ad avere un figlio e che costui sarà causa della sua morte. Il vaticinio del dio è la μοῖρα di Acrisio, ovvero, dal verbo μείρομαι, quello che gli è stato concesso di “avere in parte, in sorte”, a cui, al pari di tutti gli uomini e degli dèi stessi, non può in alcun modo sottrarsi. Ecco allora che tutti i personaggi e gli oggetti coinvolti nella vicenda sono anzitutto strumenti necessari a che il fato di Acrisio si compia: Zeus, unico che può riempire del suo seme la fanciulla rinchiusa in una prigione impenetrabile; Danae, chiamata a generare l’“innocente” assassino; la cassa, che nelle intenzioni di Acrisio vale come un sarcofago per la morte, ma che si muta in arca di salvezza, che riconduce Perseo alla vita; Ditti, che pesca dalle acque il prezioso scrigno con madre e figlio; Polidette, che li accoglie nella sua casa, ma che, poi, con lascivie voglie per Danae innesca il meccanismo attraverso il quale Perseo realizza pienamente se stesso come eroe, liberando il mondo da Medusa e Andromeda da Ketos; i giovani di Larissa dei Pelasgi, dove Acrisio si autoesilia per sfuggire a ogni contatto col nipote, impegnati negli esercizi ginnici e che forniscono a Perseo il disco di bronzo con cui colpisce il nonno, provocandone la morte, involontariamente. Perché Perseo, tornato dalle sue eroiche imprese ad Argo, vi lascia Euridice, Danae, Andromeda e i Ciclopi suoi compagni e si reca a Larissa per riportare a casa anche suo nonno, per ripristinare quello che crede essere un ordine dovuto, giusto, inconsapevole di quanto è stabilito dal Fato o, semplicemente, non incline ad accettarlo. I due sono decisi a ritornare insieme in patria, ma attratto dai giovani in esercizi atletici, Perseo chiede di provarsi nel lancio del disco, colpisce Acrisio a un piede e ne causa la morte. Non un atto di vendetta, dunque, ma un incidente. Né, tantomeno, la morte giunge per Acrisio come un castigo per hybris. Certo, egli offende Zeus Erkeios, quando non crede alle parole di Danae, che sull’altare del Cronide giura che non si è unita a nessun uomo e che è stato proprio il dio a possederla. Ma anche questo deve rientrare nella trama della sorte, che prevede il necessario allontanamento ‘iniziatico’ di Perseo. Perché, a ben guardare, Acrisio non ha altra colpa che quella di aver cercato di sfuggire al suo destino di morte. La dimensione del suo mondo non è ancora quella della progressiva umanizzazione dei valori eroici propugnata da Sofocle ed è del tutto estranea alle riflessioni cui invita Euripide su questioni di ordine sociale e culturale. È quella dell’homo tragicus di Eschilo, che porta sulla scena il “meglio τὸ μὴ γενέσθαι” dell’epos, l’amara e sarcastica verità che il Sileno di Nietzsche rivela a chi crede di essere il più felice tra gli uomini, Mida (Nietzsche 1872, 11-12).
Lo stesso Perseo non può sottrarsi in alcun modo alla sua μοῖρα: se l’unico modo di ingannare la triste condizione umana è conseguire l’immortalità consacrata dal mito cantato dai poeti per il merito delle proprie imprese eroiche, non può condividere con l’anima di Achille rivolta a Ulisse il desiderio ‘di essere bifolco, servire un padrone, un diseredato che non avesse ricchezza piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte’ (Hom. Od. XI 489-491), né esclamare con Mimnermo di voler vivere ‘senza malattie, senza funesti pensieri, il destino di morte mi colga a sessant’anni!’ (Fr. 6 Diehl), ma deve morire nel fiore dei suoi anni, perché muore giovane chi è caro agli dèi (Menandro Fr. 111 K.-Th). E allora Perseo, pur se eroe, che ancora in fasce si salva da morte certa, che vince uomini e mostri, proprio perché eroe, muore e, per certi versi, di una morte ‘giustificata’: egli ha ucciso Preto, gemello di Acrisio che già nell’utero materno cominciò a essere nemico del fratello, fino a insidiare Danae, sì da far nascere il sospetto di essere egli stesso il padre di Perseo, fino a costringere alla divisione del regno di Argo con la formazione di quello di Tirinto, per esserne re; Megapente, figlio di Preto, uccide Perseo, per l’apollinea legge che gli impone di vendicare l’assassinio di suo padre.
Nell’Atene che vittoriosamente si lascia alle spalle le guerre persiane e va costruendo la base ideologica su cui fondare le sue, non immotivate, pretese egemoniche sulle altre poleis greche, senza rinunciare a piantare sullo stilobate del santuario delfico il piede possente della sua dèa poliade (Cesarano 2017, 128), il destino di morte di Acrisio non può essere un semplice capriccio del fato. La sua ambizione a lasciare il trono a un figlio maschio è legittima come legittime sono le paure che Danae, sua figlia epiclera, concepisca il desiderato erede con Preto. Ma quest’erede non può nascere da Acrisio, perché deve significare l’ineluttabile e necessaria transizione del regno al nuovo mondo degli dèi olimpii, di cui è proiezione la polis, soprattutto quella ateniese. Ecco perché Perseo nasce da Zeus, ecco perché è guidato da Atena. Ecco perché, lo stesso vaticinio fatale giunge ad Acrisio dall’Apollo delfico, il cui santuario nel pieno V sec. a.C. è sotto l’egemonia di Atene. Il culto di Zeus Erkeios, che ad Argo, oltre che a Olimpia, gode della più grande venerazione, sul cui altare opportunamente Danae è chiamata a giurare, perché condensa i valori della parentela e della moralità, forse prelude già esso stesso alla finale esaltazione di Atena/Atene, della cui custodia e prosperità si fa garante, in ossequio al suo stesso epiteto, sull’alto dell’acropoli che domina l’Attica, se è giusto riconoscere il dio nel mostro tricorpore nel programma figurativo delle sculture del frontone dell’Hekatompedon (Howe 1955, 287-301).
Si tratta dello stesso manifesto politico che a Spina si ritrova rappresentato sul cratere della tomba 6C di Valle Pega (Cesarano 2017, 125-141): nella vicenda di Oreste, che, stante la legge di Apollo, deve inderogabilmente uccidere sua madre Clitemnestra per vendicare l’assassinio di suo padre Agamennone, ma, soprattutto, per ristabilire l’ordine sociale infranto dalla donna che ha ucciso un uomo, dalla regina che col suo amante ha reso vacante il trono sottraendolo al suo legittimo erede, nella sua fuga ad Atene, dove a processarlo è l’Aeropago e non il tribunale delle Erinni furiose, difeso dallo stesso Apollo che ne annulla l’accusa di matricidio, si consuma, giungendo a pieno compimento, la transizione dalla Grecia arcaica, costellata di regni congenitamente minacciati da guerre fratricide, che innescano la sequenza di saghe tragiche, indirizzate da un sistema di valori ancestrali, che si condensa nella più ancestrale delle verità per la quale “è legge che gocce cruente versate per terra domandino altro sangue” (Aesch. Ch. 400), alla Grecia classica, dove i mostri diventano Eumenidi, sotto l’egida del sistema etico-politico di Atene, pronaia del santuario delfico.
Sempre a Spina tutto ciò si ripete ricorrendo proprio al mito di Perseo, che su una oinochoe del Pittore di Shuvalov (proveniente da scavi clandestini in Valle Trebba, acquisita al Museo di Ferrara inv. 2512 con sequestro operato a Venezia nel 1924, non è possibile risalire al suo contesto sepolcrale), databile intorno al 420 a.C. (Massei 1973, 441-443; BAPD 215959), fugge con la kibisis nella quale porta la testa di Medusa, asportata con la falce che regge nell’altra mano, mentre le Gorgoni lo inseguono e Atena lo protegge [Fig. 18]. Le sembianze sono quelle dell’efebo, imberbe, con la clamide sulle spalle, nell’atto di concludere l’impresa eroica ovvero la transizione verso lo status di cittadino adulto, proprio come avviene per i giovani attraverso l’educazione impartita nel ginnasio (Jaeger [1978] 1991, 1-22).
In realtà questo ideale etico è richiamato anche sul cratere a calice con Danae e Perseo da Cerveteri, dove, nello spazio sotto le braccia del carpentiere intento a cesellare la cassa, in successione verticale al nome ΔΑΝΑΕ seguono sovradipinte le lettere dell’iscrizione Ο ΠΑΙΣ ΚΑΛΟΣ.
La stessa situazione potrebbe aversi anche sulla kylix da Spina, dove, contrariamente a quanto creduto fino ad ora, a una più accurata osservazione, mi è stato possibile rilevare le tracce lasciate da lettere, tanto labili, però, da renderne difficile l’identificazione e consegnarci un testo forse ormai difficilmente comprensibile [Fig. 19]. Il verso di una E, riconoscibile al di sotto del gomito di Acrisio spinge a ritenere che l’iscrizione debba leggersi dall’alto verso il basso e da destra a sinistra, partendo grossomodo dall’altezza del volto di Acrisio e procedendo oltre il suo gomito. Due lettere sono tra il volto del re e il suo braccio, almeno altre cinque se ne intravedono oltre il gomito: sembra potersi leggere il nome di ‘Perseus’. Più in basso una O potrebbe far parte di un non ben riconoscibile ΚΑΛΟΣ. Ma quale che sia l’iscrizione, non cambia quanto abbiamo ricostruito delle intenzioni narrative del ceramografo.
Dal Ceramico di Atene alla necropoli di Spina
A questo punto bisogna capire se queste intenzioni narrative vengono recepite, e in che misura eventualmente rielaborate, dal fruitore ultimo della kylix a Spina. Dobbiamo fermarci, per ora, ancora al livello dell’analisi iconografica e rintracciare le vie e le forme attraverso le quali stavolta sulla riva di Spina, e non di Serifo, approdano Danae e Perseo, ovvero quella conoscenza del loro mito che ne consente il riconoscimento immediato a chi ne osserva la trasposizione ceramografica. Perché, è chiaro, solo se la conoscenza del formulario iconografico attico è condivisa da entrambe le parti coinvolte nella comunicazione, allora ha senso che venga deposto nella tomba quando vi è l’intenzione di farne un contesto significante.
Pur stante l’esistenza di testi letterari narranti le vicende di Perseo e di Danae, il threnos di Simonide di Ceo e la XII Pitica di Pindaro, collocabili grossomodo in un arco di anni contemporaneo, per l’impianto narrativo figurato della saga di Perseo si è proclamato chiaramente che the “prototype for these paintings had to be visual” (Howe 1953, 274) e si è proposta una dipendenza dei ceramografi attici a figure rosse dalla produzione di Eschilo (Howe 1953, 269-275), primo e solo tra i tragediografi ad aver dedicato un’intera tetralogia (i drammi Phorcides, Polydectes, uno per noi anonimo e il satiresco Dictyulci) al tema mitico in questione, tanto da ricorrere alla datazione delle ceramiche per definire quella della stessa opera eschilea fissata a circa il 490 a.C. dalla Howe e agli anni Sessanta dello stesso secolo dalla maggioranza degli studiosi (Goins 1997, 193-210). Ovviamente la plausibile validità di questa ipotesi non implica meccanicamente che i pittori apprendano il mito dalla tragedia, sì piuttosto riafferma che essi contribuiscono insieme con il dramma messo in scena a costruire una imagérie visiva ma anche noetica condivisa dagli Ateniesi, che, in un gioco di interconnesioni, diventano al tempo stesso spettatori a teatro e fruitori del vasellame dipinto, recependone nell’uno e nell’altro caso quelle suggestioni culturali che promanano dal loro stesso comune sentire, nella loro dimensione di cittadini di una polis coesa e unica sul piano sociale e politico. Si procede, oserei dire, all’‘atenizzazione’ del mito, all’appropriazione di un qualcosa che esiste da prima ancora del tempo della polis e oltre i suoi confini, che con forme e finalità diverse è stato già raccontato, forse nei canti orali, certamente sulle pareti delle ceramiche, sulle metope dei templi e forse dalla pittura parietale.
Lontano dalla Grecia, in particolare sul suolo italico e principalmente tra le genti etrusche, la conoscenza del mito greco si propaga certamente fin dai primi contatti tra i due mondi, man mano che proporzionalmente vanno riducendosi le distanze geografiche e quelle culturali. Se sulla pancia della protoattica Anfora di Eleusi, di circa il 660 a.C. (Eleusi, Museo), il pittore si ferma a raffigurare Medusa ormai acefala e le gorgoni che inseguono Perseo, se tra 520 e 510 a.C. su una metopa del Tempio C di Selinunte lo scultore coglie l’attimo in cui Perseo, auspice Atena, sta decapitando il mostro, che regge con le braccia il cavallo Pegaso e il gigante Chrysaore, nati dal suo sangue (Palermo, Museo Archeologico Regionale Salinas), in Etruria un ignoto ceramografo su un’anfora destinata a una sepoltura della necropoli di Tolle di Chianciano Terme nell’ultimo decennio del VI sec. a.C. dipana in forma più estesa la narrazione dell’intero ciclo eroico e su un lato del vaso dipinge Medusa vinta, in ginocchio, la testa e la zampa anteriore di Pegaso che fuoriesce dal suo tronco decapitato e l’eroe in fuga e sull’altro lato mette in scena Perseo che leva in alto la kibisis contenente il volto che pietrifica Polidette (Paolucci 2002, 331-340, figg. 2-4) [Fig. 20].
L’immediatezza con cui queste immagini devono giungere alla comprensione di chi le fruisce non può prescindere, sul piano iconografico, da una piena conoscenza dei fatti del mito. E questo si diffonde prima, in età Orientalizzante, nelle sale da banchetto, dove il principe etrusco e il suo ospite greco elaborano i termini di un’identità comune, e poi presso gli altari degli dèi, quando nel cuore del VI sec. a.C. l’Etruria dei principi cede il passo a quella delle città e Sostratos di Egina può fiduciosamente affidare il successo dei suoi commerci alle divinità del santuario costiero di Gravisca, in un contesto non molto diverso da quello di Adria e di Spina, nate nel più recente degli scenari e già protese sul mare.
La tomba 503 di Valle Trebba a Spina
Non abbiamo elementi per dire se e, in caso affermativo, in che misura a Spina giunga l’eco del teatro di Eschilo o del “lamento” di Simonide, né, se è vero che il Pittore di Eucharides crea il suo lessico iconografico per Perseo, Danae e Acrisio suggestionato dalla scena teatrale, se gli Spineti ne abbiano contezza. Di sicuro non possiamo escludere che l’uso che essi possono fare del mito può essere diverso da quello che viene fatto ad Atene ed essere diverso in momenti diversi. La forza del mito sta in effetti nella sua “universalità” (Sacco 2013, 17-19), valido per tutti gli uomini e in ogni tempo, sicché ne coglie suggestivamente l’essenza Secondo Sallustio: “queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”. E la forza del mito risiede, anche, nella sua versatilità, nella totale assenza di una rigidità che lo faccia riferire a una sola e inderogabile logica narrativa e a un unico significato: Perseo, eroe che libera il mondo dalle paure ancestrali e che lo purifica da ciò che, umano e non umano, è estraneo al kosmos così come inteso dal pensiero greco, si fa strumento di propaganda dell’ascesa di Atene, che incarna i valori dell’ordine cosmico instaurato dagli dèi olimpii; Perseo che pietrifica Polidette proclama che alla hybris tien sempre dietro ate (Aesch. Pers. 819-822); Perseo con Danae e Acrisio ricordano all’uomo che a ciascuno è ineluttabile la propria μοῖρα.
Inoltrandoci, a questo punto, nel più complesso campo dell’iconologia, dobbiamo anzitutto credere che l’uso delle immagini non possa disgiungersi dal contesto nel quale esse vengono impiegate e che dallo stesso contesto possono ricevere un maggior carico semantico (Osborne 2001, 277-295). Imbocca, dunque, la strada giusta Paolucci quando cerca una connessione tra la funzione di cinerario assegnata alle anfore etrusche a figure nere della necropoli di Tolle a Chianciano e le loro decorazioni. Ma se appare plausibile leggere nel mito del rapimento di Teti da parte di Peleo (convenzionalmente visto come archetipo del passaggio della donna allo status di sposa attraverso il matrimonio) il “momento di passaggio verso il nuovo status del defunto sepolto all’interno dell’anfora” ovvero un’allusione alla morte che rapisce l’essere umano dalla vita (Paolucci 2014, 358), e se può prendersi in considerazione la proposta di ricondurre la scelta di raffigurare il mito di Perseo che ha ucciso Medusa per manifestare la credenza in una vita ultraterrena attraverso l'immagine di Pegaso e Crysaore che nascono dal sangue della Gorgone, “in cui viene evidenziato quel momento di passaggio verso l’Aldilà che comporta la dissoluzione del corpo e la fine della vita terrena” (Paolucci 2002, 337), bisogna, tuttavia, andare oltre e cercare di comprendere per quali vie queste iconografie vengono scelte da una committenza etrusca per illustrare la propria ideologia funeraria, cioè indagare le strategie attraverso le quali gli Etruschi si appropriano del mito greco e della sua trasposizione iconografica, fino a comprendere se e in che misura assegnano all’uno e all’altra nuovi significati e nuove funzioni. Cerchiai e d’Agostino evidenziano che “la possibilità di istituire i termini di confronto attraverso un comune simbolismo culturale può condurre a focalizzare gli elementi proprio del punto di vista etrusco che – nella circolazione dell’immaginario figurato – conserva comunque una funzione recettiva più che propulsiva, ferma restando la sua autonoma capacità di selezione e rielaborazione” (Cerchiai, d’Agostino 1999, XX).
Nello specifico del rapporto tra ceramica figurata e contesto funebre, ovviamente maggiori indizi possono ricavarsi dai casi in cui il contesto tombale si compone di diversi elementi. Nella tomba 503 di Valle Trebba la kylix di Eucharides si inserisce in un complesso di significati molteplici che insieme convergono, lo abbiamo preannunciato nell’introduzione, nella rappresentazione completa di un’unica identità insieme politica e culturale. Il corredo, che accompagna l’inumato, oltre che della kylix si compone di una piccola oinochoe a figure nere, con un guerriero su carro, di una hydria, di due coppe, di un askos e di due ciotoline a vernice nera e di un grande cratere a colonnette a figure rosse. Si tratta della panoplia da banchetto ritualmente deposta nello stesso periodo in un numero enorme di sepolture a Spina, col chiaro intento di dichiarare da parte del gruppo familiare del defunto la propria appartenenza, pretesa o reale, a un gruppo culturale, che reclama ascendenze principesche, legittimando la propria presenza, col proprio status, sul territorio in cui vive, e che, oltre i confini dello spazio geografico ed etnico, si riconosce in maniera omogenea autorappresentandosi per il tramite della pratica del banchetto di matrice eroica che condivide con coloro, i Greci, che quel mondo eroico portano alle loro mense.
Ad assumere un valore metonimico di questa complessa ritualità sociale è anzitutto il grande cratere, funzionale a mescolare l’acqua col vino tanto quanto genti e culture diverse. La sua decorazione principale mette in campo l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 817; BAPD 206431) [Fig. 21], il più emblematico volto eroico di Atene, ai cui gruppi emergenti, impegnati a promuoverne l’imperialismo commerciale in Occidente, i proprietari del sepolcro dichiarano il proprio pieno sostegno. Sull’altro lato, secondo un’iconografia e uno schema notevolmente diffusi sulla ceramica attica a figure rosse, due figure di anonimi ammantati (Isler Kerenyi 1993, 93-100), frammento dell’alfabeto iconografico col quale le botteghe del Ceramico celebrano e diffondono il codice etico dell’Atene del pieno V sec. a.C., insieme a: figure di dèi ed eroi; di donne assistite da ancelle nel loro gineceo o inseguite da efebi e/o rapite presso fontane (Cesarano 2014, 8-12); di uomini che, nell’atto di partire per la guerra, ricevono l’armamento oplitico dalle donne e il riconoscimento del loro ruolo di cittadini-opliti da figure di anziani, che hanno già percorso le diverse fasi d’età esercitando appieno la propria cittadinanza; di donne che sacrificano presso gli altari, rinnovando di volta in volta quel patto con gli dèi, che è per la città garanzia di prosperità. Svuotata del vino, che già di per sé espone a un’esperienza altra rispetto alla vita, quasi metafora dell’aldilà, la coppa di Eucharides, attraverso l’impossibilità di Acrisio di sottrarsi alla sua sorte, potrebbe aggiungere al ventaglio dei molteplici significati di carattere prevalentemente ‘politico’, di cui si carica l’insieme, un elemento di ideologia funeraria con un esplicito riferimento all’ineluttabilità di un destino di morte condiviso da tutto il genere umano, al quale il defunto non avrebbe potuto sottrarsi in alcun modo.
Nemmeno l’eroe può farlo: la cassa che trasporta Perseo diventa presagio di morte (Sforza 2013, 212-216) quando Esiodo (Theog. I 3-5) e Simonide la chiamano larnax, ricorrendo allo stesso termine con cui Omero si riferisce all’urna cineraria d’oro in cui vengono raccolte le ossa di Ettore (Hom. Il. XXIV 795) e, forse, la giusta lettura del gesto che fa Acrisio levando in alto il braccio destro con il palmo della mano aperto è quella del saluto rivolto al defunto, che muove per il suo viaggio ultraterreno; lo stesso gesto riscontrabile su tanta ceramica attica a figure rosse e su molte lekythoi a fondo bianco, queste ultime di chiara destinazione funeraria, in scene di omaggi a feretri e a tombe; lo stesso, forse, dei personaggi ai lati di porte, finte o reali, che si aprono tra un mondo e l’altro, nella grande pittura funeraria etrusca di età orientalizzante [Fig. 22] e più tardi sulle scene affrescate sulle pareti delle tombe a cassa di tufo di quell’ambiente campano-sannita (Benassai 2001, 171-174), sì debitore al mondo greco e a quello etrusco nel suo processo di etnogenesi e definizione identitaria sul piano culturale.
Che l’essere rinchiuso nella cassa valga per Perseo come un presagio di morte è significato dall’alabastron che Danae tiene sul palmo della mano proprio in corrispondenza del capo del figlio sulla lekythos del Pittore di Providence [Fig. 15], chiaro riferimento alla cura corporis del defunto, che ne prevede l’unzione con oli e unguenti per mano delle donne della famiglia. E, quasi sintesi di quanto finora abbiamo ipotizzato, su una lekythos a fondo bianco del Pittore di Achille (Geneva, Musee d'Art et d'Histoire: HR299; BAPD 6551) [Fig. 23] un’iscrizione onomastica indica che il sepolcro raffiguratovi è quello di Perseo; sui suoi gradoni siede Acrisio, indicato dal nome e riconoscibile dallo scettro (Oakley 1997, pl 163; Oakley 2004, 107, fig. 166): la sua morte nel mito precede quella di suo nipote, ma qui non compare più come re di Argo, colto nella sua reale esistenza, sì piuttosto come traslitterazione iconografica dell’inesorabile destino di morte, al quale nemmeno Perseo ha potuto sottrarsi. Pausania ne indica l’heroon sulla via che da Micene conduce ad Argo (Paus. 2, 18, 1).
L’episodio di Danae, Perseo e Acrisio può, dunque, inserirsi nel contesto dell’imagerie di certa ceramica attica che nel V sec. a.C. sembra condensare i termini di un’ideologia della morte intesa come un viaggio che i defunti, congedandosi dai familiari, intraprendono verso l’aldilà. Sassatelli, muovendo dall’osservazione delle stele felsinee, vede una maggiore penetrazione di questa ideologia proprio in quell’Etruria padana, dalla quale viene la coppa di Eucharides, ma giustamente ne riconduce il fenomeno non tanto alla massiccia diffusione della ceramica attica, sì piuttosto alla presenza di Greci stabilmente insediatisi negli stessi centri etrusco-padani (Sassatelli 1987, 82) e ivi coinvolti in un vivace processo di osmosi culturale. Ma è proprio in accordo con questa certezza che, coerentemente con quanto abbiamo finora sostenuto, dobbiamo ritenere che il ricorso in contesti funerari a vasi con il mito di Danae, Perseo e Acrisio possa considerarsi uno degli indizi della penetrazione della stessa ideologia funeraria negli stessi anni anche tra le élites di quell’Etruria tirrenica, dalla quale, tra l’altro, ne proviene il maggior numero di attestazioni.
In realtà, la proposta di riconoscere nella rappresentazione della triste vicenda che coinvolge Danae, Perseo e Acrisio un’allusione al destino di morte comune a tutti gli uomini e nella cesta, lavorata con maestria dai carpentieri, un chiaro riferimento a una cassa mortuaria funzionale al viaggio verso l’aldilà, potrebbe vacillare se si tiene conto che in quasi tutti i casi che abbiamo analizzato la scena è, per così dire, autoreferenziale, non trovandosi associata ad altre raffigurazioni che possano ricevere una conferma della significazione che ognuna di esse può avere autonomamente proprio dall’associazione reciproca. A soccorrerci è proprio una coppa proveniente dall’Etruria tirrenica: la grande kylix di Douris del tumulo 2 della necropoli di Guadocinto a Tuscania (Sgubini Moretti, Ricciardi 2010, 55-56) [Fig. 6], dove all’episodio mitico di Perseo e Danae, posto su uno dei lati della parete esterna, ai fini della significazione globale dell’apparato decorativo è assegnato lo stesso peso semantico dato alle scene raffiguranti altri personaggi, all’esterno e all’interno della coppa, che niente hanno a che fare con la vicenda dei primi. Sul lato opposto della parete esterna in un primo gruppo si riconoscono due uomini adulti e una donna e in un secondo un adulto e un giovane con una lepre. Si tratta chiaramente di scene di conversazioni amorose: se a quelle convenzioni culturali, che la nostra società va solo oggi faticosamente abbandonando, può apparire di immediata comprensione nel caso dei due uomini con donna, per la coppia con uomo adulto e giovane dobbiamo rivolgerci all’istituto della pederastia, socialmente codificato e fortemente idealizzato nella Grecia classica, che inserisce l’iniziazione sessuale degli efebi nel complesso della loro formazione civica e culturale che si consuma all’interno del ginnasio. La connotazione erotica della scena è ribadita dalla lepre, che più che assumere una funzione attributiva per l’efebo, ne costituisce in termini di linguaggio iconografico un vero e proprio sinonimo: preda per eccellenza nell’immaginario comune, diventa trasfigurazione dell’efebo, oggetto della caccia amorosa (Schnapp 1986, 63-78).
La significazione della scena appare più compiutamente espressa sul fondo interno della kylix, dove un uomo adulto è intento a cingere con una benda il capo di un efebo, che regge una lepre nell’ideale spazio, più culturale che fisico, del ginnasio, al quale fanno riferimento sulla sinistra lo strigile, la spugna e l’aryballos. Il ginnasio, inteso nella sua più immediata accezione come il luogo in cui l’individuo attraversa in successione una serie di passaggi di età che lo portano fino allo status di adulto nella pienezza della sua condizione di cittadino, può diventare metafora del passaggio dalla vita alla morte, nella stessa ottica con cui abbiamo letto la transizione dalla vita alla morte nel cambiamento di status della donna che adisce le nozze, trasfigurato dal mito del rapimento di Teti sul cinerario della necropoli di Tolle (Paolucci 2014, 351-369; per il significato iconografico del rapimento di Teti cfr. Cesarano 2014, 9-10). Ma il contesto erotico offre anche l’amara visione di una vita fugace, simile, per questo suo aspetto, al desiderio amoroso. Oltre che a significare l’efebo come preda della caccia erotica, la lepre incarna lo stesso desiderio d’amore, che fugge via nell’istante stesso in cui viene soddisfatto, con la stessa velocità per la quale l’animale si distingue tra i tanti che, pure, potrebbero generalmente richiamare il contesto della caccia. È la stessa ottica con cui la resa iconografica del desiderio sessuale e amoroso è affidata alle raffigurazioni di Eos che rapisce i giovani di cui si è invaghita, da Tithonos a Kephalos: le ali, di cui è immancabilmente dotata, valgono a significare il tempo infinitamente breve del suo passaggio, l’ininterrotto suo movimento, inarrestabile come il desiderio d’amore, come lo scorrere della vita verso la morte.
Così, ampiamente diffuso sulla ceramica attica a uso funerario, il mito della dèa dalle rosee dita è attestato nella stessa necropoli di Guadocinto a Tuscania, nel tumulo 1, su un cratere a calice a figure rosse di circa il 470 a.C., che nel ricco corredo funebre pare far sistema con le altre ceramiche attiche decorate con scene che rimandano al corteggiamento amoroso in contesti simposiali (Sgubini Moretti, Ricciardi 2010, 52-55; BAPD 9024926). A Spina su ceramica attica a figure rosse del pieno V sec. a.C. proveniente da un contesto funerario se ne hanno ben 9 attestazioni: su un cratere a campana dalla tomba 173C di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 20299; BAPD 5039); su una hydria del Pittore di Mykonos della tomba 918 di Valle Trebba (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 2669; BAPD 205783); su un cratere a colonnette del Pittore di Egisto della tomba 42D di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 20517; BAPD 205672); su una kylix del Pittore di Alkimachos della tomba 308A di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 1683; BAPD 206040); su una coppa del Pittore di Pentesilea della tomba 433 di Valle Trebba (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale s.n.; BAPD 211605); su un cratere a colonnette del Pittore di Comacchio dalla tomba 325B di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 2999; BAPD 212995); su un cratere a colonnette dalla tomba 300A di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale s.n.; BAPD 215683); su una oinochoe del Pittore di Shuvalov della tomba 147A di Valle Pega (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 5218; BAPD 215965); sul fondo interno di una kylix del Pittore di Eretria dalla tomba 709 di Valle Trebba (Ferrara, Museo Archeologico Nazionale s.n.; BAPD 217030).
Le diverse scene sulla kylix di Douris da Tuscania, pur in assenza di una logica narrativa, sono legate da un nesso semantico che al fine di un’efficace e chiara comunicazione ne fa le preposizioni di un unico completo periodo. Vista nella sua interezza, la decorazione, che indubbiamente riserva una posizione di rilievo alla scena sul fondo interno, sembra voler celebrare il ruolo inderogabile che il ginnasio ha nella paideia del cittadino καλὸς κἀγαθός nella polis democratica ateniese (Jaeger 1991, 1-22). Ne verrebbe conferma da altre due kylikes attiche con cui farebbe sistema nello stesso corredo, che sembra ripetere lo stesso messaggio quasi in maniera ossessiva: sul fondo interno della prima (BAPD 9024932) campeggiano due giovani nudi, atleti o danzatori; nel tondo interno della seconda (BAPD 9024931) un giovane a torso nudo, disteso su una kline, tiene in mano una nacchera, sullo sfondo campeggiano un aryballos, un cesto e una custodia per il doppio flauto, mentre sulle pareti esterne alcuni giovani conversano in uno spazio chiuso, significato da colonne ed elementi di arredo, sgabelli, cuscini e custodie per il doppio flauto. In entrambi i casi è esplicito il riferimento al ginnasio, luogo dell’esercizio fisico, al quale rimandano la nudità atletica e per metonimia l’aryballos, e luogo dell’educazione civica, perseguita attraverso la mousike, il cui valore paideutico risiede nella natura stessa delle sue arti, che Platone nelle Leggi e nella Repubblica considera homoiomata degli ethe, capaci di educare l’individuo alla verità. Lo Stato ne promuove l’insegnamento ai giovani ed esercita un controllo sulla loro educazione, perché a essi viene affidata l’esistenza stessa dello Stato, che, per questo, sceglie con attenzione i temi e i contenuti da inculcare, a ragione dell’ethos che intende diffondere tra i suoi cittadini, consapevole che “ad ogni ritmo e ad ogni armonia corrisponde un ethos, uno stato d’animo determinato” (Catoni 2016, 277 e 267-283 per una visione completa del peso della mousike nella paideia attica).
In conclusione, l’imagerie della ceramica attica, che ai temi che richiamano l’educazione ginnasiale associa quelli mitici, come la vicenda di Danae, Perseo e Acrisio, veicola in tutti i porti del Mediterraneo e nelle più interne regioni d’Europa la conoscenza di verità assolute: l’ineluttabilità del destino; la brevitas della vita umana, alla quale ognuno può dare un senso soltanto se si immerge pienamente nella sua dimensione di cittadino o, per dirla con Aristotele, di ‘essere politico’; la morte da intendere non come una fine ma come un viaggio verso un mondo altro.
Una breve considerazione
Sempre, anche fuori dalle aule universitarie e dalle sale dei convegni scientifici, ascoltare Mario Torelli è significato apprendere, arricchirsi, gustare il piacere di potersi confrontare con leggerezza, ma con immancabile sostanziosità, su argomenti riguardanti il mondo classico, non poche volte, da soli o con altri amici e amiche, banchettando e insaporendo le belle parole con un buon vino come in un piacevole e intenso simposio di quelli cari a Platone. Non poche volte negli ultimi anni Mario ha denunciato, anche in alcuni degli editoriali con cui si sono aperti certi numeri della rivista “Ostraka”, da lui fondata nel 1992 e diretta fino alla sua morte, il rinnegamento programmatico da parte dell’odierna società civile occidentale delle proprie radici classiche, materializzatosi nel progressivo smantellamento di un consolidato e, seppur sempre migliorabile, efficiente sistema di insegnamento degli studi classici e nella conversione della valorizzazione del patrimonio culturale materiale nella sua esclusiva funzionalizzazione a fini di reddito economico-monetario da parte di politici di mestiere che, espressione chiara di una società borghese i cui migliori esponenti sono andati distinguendosi per il loro compiaciuto status di illetterati, hanno trasformato i luoghi della cultura in sedi, per dirla con Settis, di una “Italia S.p.A”, impegnata a quantificare incassi al botteghino e a valutare dei suoi beni il potenziale ‘culturale’ in termini di marketing (Settis 2002). Eppure nemmeno i più convinti assertori di una simile politica possono oggi negare la compiuta affermazione di una cultura di massa che si caratterizza per la perdita di un senso di appartenenza al gruppo, quale che ne sia la dimensione di riferimento, per lo svuotamento di valori identitari collettivi, che si traduce, necessariamente, nel raggiungimento di una disillusione da parte dell’individuo al termine della sua corsa verso la ricerca di una dimensione in cui possa realizzarsi e in un consequenziale senso di disagio nel confrontarsi con quella società civile costituita, della quale ha convintamente professato l’inutilità e l’inadeguatezza ad accoglierlo, ma della cui esistenza, suo malgrado, giunge a prendere atto, senza riuscire a trovarvi una collocazione che lo soddisfi.
Forse la verità è che per quanto vogliamo rinnegarlo, per quanto vogliamo allontanarcene o semplicemente distrarcene, il mondo classico, segnato dal dialogo culturale tra mondi originariamente diversi e genti distanti, che nel tempo sono andate assumendo un unico volto di civiltà mediterranea, costituisce un patrimonio genetico culturale del quale non possiamo disfarci, tanto che solo riconciliandoci con esso possiamo realizzarci nella nostra più naturale dimensione di “esseri sociali”, rinvigorendo le radici che affondano nel ginnasio di Atene, e intendere il pieno e corretto significato di quel carpe diem oraziano troppo abusato oggi in un banale continuo fraintendimento del suo vero significato.
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English abstract
Between the fifth and fourth centuries BC the Etruscan city of Spina, founded at the mouth of the Po on the Adriatic, weaves such a close relationship with the Greek people that it established a thesauros in Delphi and became a privileged partner of Athens. Ancient literary sources remember it as polis hellenis. Its cemeteries have been officially excavated since 1922. Several thousand burials have been discovered. In many of them there are vases with Attic red-figured pottery. The present work aims to understand if the Etruscans of Spina are able to understand the iconographic lexicon used by Athenian potters and if they assign it the same semantic value. In particular, the work focuses on an Attic red-figured kylyx from tomb 503 in Valle Trebbra, depicting the mythical episode of Danaë abandoned with her son Perseus in a chest on the sea by the will of her father Acrisio, king of Argon. The study of the other vases with the same scene shows that the myth of Danaë and Perseus was widespread in the Italian peninsula where it could be a reference to the idea that no man can escape his fate.
keywords | Danaë; Spina; Attic pottery; Athens gymnasium.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Danae, Perseo e Acrisio tra gli Etruschi di Spina, a cura di M. Cesarano, “La Rivista di Engramma” n. 178, dicembre 2020/gennaio 2021, pp. 45-88 | PDF dell’articolo