"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

202 | maggio 2023

97888948401

Odium regni, fons olei reges uncti
da Augustus alla res publica christianorum

Spigolature tra il sacro e il profano (giuridico)

Orazio Licandro

English abstract

1. Prologo

“Viene da Gerusalemme l’olio crismale che il 6 maggio 2023 sarà utilizzato a Londra dall’arcivescovo di Canterbury Justin Welby per ungere re Carlo III durante la cerimonia di incoronazione in programma nell’Abbazia di Westminster. Lo rende noto un comunicato della Casa reale britannica. L’olio è stato consacrato la mattina del 3 marzo scorso nella basilica del Santo Sepolcro, durante un rito presieduto dal patriarca greco-ortodosso Theophilos III e dall’arcivescovo anglicano di Gerusalemme e del Medio Oriente, Hosam Naoum. Il 6 maggio verrà utilizzato per ungere il capo, il petto e le mani del sovrano, che è anche capo della Chiesa di Inghilterra. Il cerimoniale prevede che anche la regina consorte, Camilla, riceva l’unzione dopo il suo sposo. L’olio è stato ottenuto in un frantoio nei pressi di Betlemme dalla spremitura dei frutti di due uliveti del Monte degli Ulivi, inclusi nelle proprietà del monastero dell’Ascensione e della chiesa (russa) della Maddalena, che spicca per le cupole a cipolla dorate, poco sopra la basilica dell’Agonia, e dove è sepolta la nonna paterna di re Carlo, la principessa Alice di Grecia. Il crisma è profumato con germogli di arancio ed essenze di sesamo, rosa, gelsomino, cannella, neroli, benzoino e ambra, secondo una formula in uso da secoli alla corte inglese. Un olio simile fu utilizzato per ungere la regina Elisabetta II, nel 1953”. “Questo dimostra il profondo legame storico tra l’incoronazione, la Bibbia e la Terra Santa”, ha detto Welby, capo spirituale della Chiesa anglicana. “Dagli antichi re fino ai giorni nostri, i monarchi sono stati unti con l’olio proveniente da questo luogo sacro” (vedi la pagina di Terrasanta.net dedicata al tema).

Quello appena letto è soltanto uno dei tanti pezzi giornalistici relativi a un passaggio importante della vita di una delle più blasonate monarchie europee, quella inglese, depositaria di un antichissimo e complesso rituale di investitura, il cui momento cruciale è costituito dall’unzione del futuro monarca, ossia la consacrazione con l’olio santo proveniente direttamente dalla Terra Santa e dai luoghi della Natività, a sancire nel terzo millennio la linea di sacralità che congiunge la casa reale con Cristo. Come precisa il comunicato di Buckingham Palace, quell’olio che ha unto il principe Carlo consacrandolo Carlo III Re d’Inghilterra sembra catapultarci indietro di oltre mille anni, in un medioevo di incessanti crisi e rinascenze, di luci e ombre, di reliquie e di liturgie che altro non erano che la ricerca disperata di supremazia e di legittimazione politica dei sovrani dei regni sorti all’indomani della frammentazione del potere imperiale nei territori occidentali, in un quadro reso ancor più confuso e magmatico dall’aspro conflitto tra potere temporale (regale e imperiale) e potere religioso, tra re e clerici, tra Impero e Papato. In effetti, a leggere con animo distaccato le cronache non si può non restare sorpresi dal contrasto stridente tra società globalizzate e ipertecnologizzate e la sopravvivenza di arcaiche liturgie ormai del tutto svuotate di ogni valore politico-religioso, eppure ancora capaci di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, comunque di suscitarne la morbosa curiosità. Così come provoca, in chi scrive, una certa sorpresa il fatto che nella vecchia civile, disincantata Europa un ristrettissimo numero di gruppi familiari, caparbiamente attestati nel vantare la loro appartenenza a stirpi di sangue reale, continuino a stare ai vertici istituzionali di numerosi Stati ed esercitare un potente fascino popolare veicolato con sconcertante ossessività da tutti i media di ogni paese.

Tuttavia, l’obiettivo alla base di queste pagine non è affatto la critica alla sopravvivenza di liturgie oggi comprensibili ma francamente poco giustificabili e comunque storicamente superate, che semmai lasciamo volentieri ai politologi, né tantomeno l’offesa a sentimenti religiosi, stante la posizione e il ruolo del sovrano inglese nella Chiesa Anglicana (sull’argomento s.v. l’interessante punto di vista di Sturli 2021, 150 ss.). Premetto subito che andremo alla ricerca delle radici dell’aspetto liturgico della sacra unzione, che ci porterà indietro nel tempo, prendendo le mosse proprio da lì dove Marc Bloch si fermò, in uno dei suoi libri più belli, I re taumaturghi (Bloch [1924] 2021), per risalire ancora ai secoli dell’Antichità classica.

2. L’odium regni

Prima di entrare in medias res, è utile richiamare la percezione della regalità dopo la cacciata della dinastia etrusca dei Tarquini. Secondo l’unanime racconto della tradizione, il sentimento giuspubblicistico largamente maggioritario fu segnato da un radicato odium regni. L’adfectatio regni, ossia l’aspirazione al regnum, costituiva il crimine politico più grave, che andò via via sostituendosi all’antica perduellio, anch’essa crimine politico, ma dai contorni assai sfumati ed elastici, che la migliore giusromanistica ha tracciato come poderoso strumento di lotta politica nel corso del conflitto patrizio-plebeo. Bernardo Santalucia, al riguardo, con argomenti convincenti, non ha perimetrato la perduellio quale crimine dalla impossibile tipizzazione in quanto capace di ricomprendere ogni comportamento che i tribuni della plebe riuscissero a far percepire come lesivo degli interessi della plebe e pertanto suscettibile di un processo ‘rivoluzionario’ dinanzi ai concilia plebis (v. principalmente Santalucia 1998, 29 ss., con ricca bibliografia).

Di contro, alcune recenti indagini hanno giustamente sottolineato il carattere tardorepubblicano di questo filone ideologico della tradizione, frutto del posizionamento della parte più conservatrice dell’aristocrazia senatoria, a partire dal II secolo a.C., quando Roma, sconfitta la potenza punica, si scoprì dominatrice incontrastata dello scacchiere mediterraneo. Il dibattito e lo scontro politico virarono all’interno, alla ricerca di un nemico agevolmente trovato nel movimento dei populares, intento a raccogliere le istanze di ceti popolari dei piccoli e medi contadini in sofferenza, polverizzati se non spazzati via dalle profonde trasformazioni economiche e sociali (il commercio transmarino su vasta scala, la formazione del grande latifondo schiavile) indotte dalle guerre di espansione. Non a caso i primi a cadere sotto l’accusa di aspirazioni monarchiche furono i Gracchi e poi, tra gli altri, Catilina, Cesare vittima di una congiura propagandata come difesa della libertà contro la tirannide (Licandro 2022; Lentano 2023); persino Cicerone non andò esente dall’ombra sinistra e infamante gettatagli addosso da Clodio (sul tema, in generale, Russo 2015, passim).

Da Augusto in avanti, com’è noto, la storia politica e giuridica di Roma imboccò una strada diversa che, pur nel rispetto formale degli organi del regime cosiddetto repubblicano (senato e popolo), nel volgere di qualche secolo condusse a un assetto monarchico dalla graduale ma irreversibile torsione autoritaria e infine all’approdo a forme autocratiche o assolutistiche. Lungo questo versante, andò elaborandosi una lenta, sapiente costruzione del culto imperiale augusteo, che nei secoli tardoantichi giunse a una compiuta e complessa teologia imperiale secondo cui l’imperatore (o il basileus) rappresentava il reggitore di un impero terreno realizzato a somiglianza e a imitazione di quello celeste di Dio (Sulla genesi del culto imperiale augusteo v. per tutti Fraschetti 1990 e il recente volume di Letta 2020). Andò così generandosi una macchinosa liturgia della successione imperiale volta ad assicurare visibilmente alla persona dell’imperatore cifra e fattezze sacrali, e in cui avrebbe finito per trovare posto anche il rito dell’unzione. Eppure, dell’olio santo nella più antica documentazione disponibile non vi è alcuna traccia. Il silenzio al riguardo è inequivocabile e non può certo spiegarsi come assenza di attestazioni, anzi al contrario.

3. La liturgia imperiale

Partiamo allora dal celebre De caerimoniis del dotto imperatore Costantino Porfirogenito (913-959 d.C.). Alla metà del X secolo d.C., il trattato in questione dava forma definitiva e protocollare all’investitura imperiale in maniera funzionale a rendere la basileia una sorta di “‘corpo politico mistico’, destinato a propagare la fede sino agli estremi confini dell’ecumene” (Gallina 2016, 113). Dettaglio noto, ma nient’affatto privo di significato, è utile ricordare che il trattato di Costantino Porfirogenito contiene parti di un’opera altrettanto interessante, il περὶ πολιτικῆς καταστάσεως (Sulle istituzioni politiche), di Pietro Patrizio, colto e apprezzato magister officiorum di Giustiniano, autore, tra l’altro, anche di una Storia romana che pare andasse dalla morte di Giulio Cesare (44 a.C.) a quella di Costanzo II (361 d.C.) (Per le opere di Pietro Patrizio v. Mai 1827, 590 ss.; anche Haury 1905, 529 ss.; Mecella 2018, 577 ss.). Il περὶ πολιτικῆς καταστάσεως è un freddo breviario redazionale sul cerimoniale di corte dal punto di vista del magister officiorum, i cui documenti protocollari, inseriti da Pietro Patrizio, fungevano da guida sulla base dei precedenti, ed è questa la ragione della presenza di cospicui stralci nel De caerimoniis di Costantino Porfirogenito. Leggiamo la registrazione di Pietro Patrizio a proposito dell’investitura di Anastasio I:

Dopo aver giurato, Anastasio si recò all’ippodromo e, entrato nella sala in cui i senatori sono soliti rendere omaggio all’imperatore durante i giochi equestri, vestì la tunica divitision listata d’oro, la cintura, le brache e i calzari imperiali. Andò quindi sul kathisma senza corona mentre i soldati stavano di fronte, nello stama, con le lance e le insegne piegate verso terra. Il popolo stava sulle gradinate e acclamava. Fu quindi sollevato in piedi sullo scudo e un campiductor dei Lanciarii, salitovi, gli pose sul capo il proprio maniakis. Vennero sollevate le insegne e i soldati e il popolo lo acclamarono. Scese quindi dallo scudo recandosi di nuovo nella sala in cui indossò le insegne imperiali. Qui il vescovo recitò una preghiera, pronunciò il ‘Kyrie eleison’, lo rivestì della clamide imperiale e gli mise in capo una corona gemmata. Anastasio, quindi, tornò di nuovo sul kathisma e salutò il popolo. Tutti gridarono: ‘Augusto’ ed egli parlò ai soldati e al popolo (Const. Porph. De caerim. 1.92, 422-423; trad. it. di G. Ravegnani 2008, 78; il testo greco in Appendice, Fonte I).

È agevole scorgere nei vari momenti in cui è scandita la successione al trono una stratificazione plurisecolare fatta di pensiero politico, rituali, prassi e consuetudini costituzionali, vestigia di antichi assetti e di rituali che ci porterebbero addirittura alle origini di Roma, all’età dei re della tradizione (su cui in effetti ritorneremo più avanti). Nella liturgia dell’investitura di Anastasio I si riconosce il ‘protagonismo’, con la loro necessaria presenza, di esercito, senato, il popolo. Naturalmente, si tratta di fossili di un tempo in cui i Cesari fondavano la loro legittimazione sul carisma esercitato su (e riconosciuto da) tre ‘corpi istituzionali’ il cui favore ne faceva appunto i “migliori cives” in grado di guidare l’Impero: tra V e VI secolo d.C., sia pure relegati al valore di mera acclamazione e di reverenza, almeno dalla loro presenza formale non poteva prescindersi.

In questa raccolta protocollare, sulla cui attendibilità non v’è ragione di dubitare anche alla luce degli apprezzamenti che le riserva Giovanni Lido (De mag. 2.26.1), non compare il rito dell’unzione. Anzi, poiché non vi è il benché minimo aggancio testuale neppure a proposito delle fasi, ancorché non esattamente identiche, delle investiture di Leone II e di Giustiniano I, i cui momenti salienti sono scanditi sempre e soltanto dalle acclamazioni dei tre corpi, può escludersi ogni dubbio circa l’assenza dell’olio santo nella liturgia imperiale (si rinvia a Antonopoulos 1990, 201 ss.; Laniado 1997, 405 ss.; Stein [1949] 2021, 844 ss.; v. pure Marotta 1999, 120 ss.). Una volta ricevute le acclamazioni dei demi, l’imperatore, deposta la corona, “dapprima entrava in Santa Sofia procedendo a fianco del patriarca sino all’altare, senza tuttavia varcarne come quest’ultimo i cancelli; quindi, dopo essersi prosternato per tre volte, si appartava nell’isolamento del proprio oratorio da cui usciva per venerare il Vangelo, comunicarsi e scambiarsi un bacio di pace con il patriarca” (Gallina 2016, 115).

1 | Cristo Pantocratore con l’imperatore Costantino IX. Mosaico della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli (particolare).

Quanto appena descritto da Costantino Porfirogenito sulla liturgia della successione al trono, in particolare l’inequivocabile silenzio sull’unzione, non interpretabile come reticenza o assenza di informazione, trova riscontro pure in uno straordinario, e poco studiato, trattato adespota di scienza della politica, περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης (Vat. gr. 1298) del VI secolo d.C., parzialmente contenuto in un codice palinsesto confezionato a Costantinopoli nel X secolo d.C. Il trattato – di cui prima della sua riemersione nel XIX secolo si aveva una scarna e indiretta notizia contenuta nella Bibliotheca di Fozio (scheda nr. 37; sull’opera foziana oggi è fondamentale la nuova sontuosa edizione a cura di Bianchi, Schiano 2019) – composto in età giustinianea e strutturato in sei libri (i fogli palinsesti pervenutici comprendono la fine del quarto e forse circa la metà del quinto), si inquadra nel genere letterario precettistico (dagli aspetti ibridi con quello poi definito speculum principis, sulla cui distinzione v. Odorico 2009, 224 ss.; Gallina 2016, 29 ss., Alvino 2019, passim), un genere ricco di esempi illustri, dal De laudibus Constantini di Eusebio di Cesarea, alle orationes di Temistio, dal De regno di Sinesio di Cirene al Panegirico per l’Imperatore Anastasio di Procopio di Gaza, alla Scheda Regia di Agapeto, tutti prodotti del singolare sincretismo tra neoplatonismo e idee cristiane per delineare i tratti di un’ideale βασιλεία [Fig. 1].

Nella sua serrata forma dialogica tra due personaggi loquentes, il patricius Menodoros e il referendarius Thomasios, il περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης affronta il tema delle forme ideali di governo. Ricchissimo di spunti sulla cultura politica e istituzionale del VI secolo d.C., uno degli aspetti più interessanti è che i due optano per l’impianto del De re publica di Cicerone, posto a confronto con la Πολιτεία di Platone (sul Vat. gr. 1298, v. fondamentalmente Mazzucchi 2002 e Licandro 2017). 

Sfortunatamente nel codice mancano i libri relativi al confronto più serrato, ma della sua certezza dà esplicitamente conto il πίναξ del V libro:

παράϑεσις τῆς κατὰ Πλάτωνα καὶ Κικέρωνα πολιτείας, ἔτι δὲ τῆς κατὰ τὸν Πλάτωνα καὶ ᾽Αριστοτέλη ὅλης φιλοσοφίας.

Comparazione della Repubblica di Platone e di quella di Cicerone e anche dell’intero sistema filosofico di Platone e di Aristotele (trad. it. di C.M. Mazzucchi 2002, 79).

Nel medesimo πίναξ si avverte il lettore che avrebbe incontrato critiche mosse a Platone:

ὅτι ἀνομοια περὶ τῆς πολιτείας εἴρηται τοῖς ὑφ᾽ ἑτέρων εἰρημένοις, ἐν ᾧ καὶ ἔνστασις πρός τινα τῶν τῷ Πλάτωνι εἰρημένων.

Esposizioni sullo Stato diverse da quelle espresse da altri, con anche un’obiezione verso alcune affermazioni di Platone (trad. it. di C.M. Mazzucchi 2002, 79).

Ora, a me pare ragionevole pensare che, se un punto del genere finiva nel sommario dell’indice di un libro del trattato, dovesse avere un peso rilevante nell’economia delle tesi propugnate nel libro; ne consegue che, nel quadro dell’impianto istituzionale preferito dai due personaggi loquentes, le obiezioni mosse a Platone dovevano riguardare aspetti tutt’altro che secondari.
Nel dibattito tra la Πολιτεία di Platone e il De re publica di Cicerone Menodoros e Thomasios considerano, infatti, l’opera ciceroniana come luminosa indicazione di un modello di governo temperato del βασιλεύς. Già Angelo Mai aveva affermato la derivazione del governo temperato dalla costituzione mista ciceroniana, soprattutto sulla base di Anon. De scient. pol. dial. 5.134-137 la cui matrice ciceroniana, secondo il Cardinale, proverrebbe da Cic. De re publ. 2.42 (Appendice, Fonte II).

L’attualizzazione della teorica ciceroniana nell’età dell’assolutismo imperiale e a proposito di un imperatore cristiano cattolico come Giustiniano è di per sé testimonianza straordinaria, se è vera, come continuo a credere, l’identificazione di Menas e Thomas con i due alti funzionari imperiali di Giustiniano menzionati tra i commissari selezionati da Triboniano per la grande compilazione giuridica (Licandro 2017, 35 ss.). Nel manoscritto i nomi si presentano nelle forme onomastiche di Menodoros e Thaumasios. Mentre sono molteplici e convergenti le strade che portano a identificare Menas con il raffinato filosofo neoplatonico che ricoprì la carica di prefetto del pretorio dell’anno 529 d.C. (Const. Summa rei publicae: Iustinianus Pius, Felix, Inclitus, Victor ac Triumphator, semper Augustus, Menae viro Illustri Praefecto Praetorio II, ex Praefecto huius Almae Urbis ac Patricio [a. 529]), dubbi più seri continuano a gravare sull’identità di Thomas. Di costui non si può escludere affatto che fosse uno dei quaestores sacri palatii di Giustiniano, brillante giurista, anche avvocato, dalla fulminea carriera nella burocrazia imperiale, nei cui passi iniziali probabilmente fu inquadrato come referendarius (sul punto v. Licandro 2017, 41 ss., e bibliografia ivi citata).

Comunque, Vat. gr. 1298 5.50-53 è preziosa testimonianza anche a proposito della procedura di investitura imperiale:

Quanti hanno preminenza in tutti gli ordini dello Stato nominino – poniamo – tre persone per ciascuno tra gli ottimati che ritengano degni del potere imperiale, dopo aver giurato di scegliere secondo coscienza e di nominare il bene comune. [51] Nominati questi, siano decretati, per al massimo due tridui, comuni preghiere per la cittadinanza e purificazioni di tutto il popolo, dopo le quali, gettate le sorti sui prescelti alla presenza dei sacerdoti e in un tempio, pienamente e secondo le norme della legge divina, colui sul quale cadrà la sorte e al quale Dio lo conceda, sia imperatore. [52] Così infatti i cittadini avranno parte nella cosa pubblica e nel diritto e a Dio sarà attribuito ciò che gli spetta; il potere imperiale sarà dato da lui e la proclamazione dell’imperatore avverrà in modo legale. [53] Penso che se ciò avvenisse così, avverrebbe in maniera giusta e degna di uno Stato giusto nei confronti della divinità e degli uomini (trad. it. di C.M. Mazzucchi 2002, 86-87; testo greco in Appendice, Fonte III).

Ebbene, anche quando si richiamano i momenti liturgici di carattere religioso per accedere al soglio imperiale manca del tutto ogni richiamo o riferimento al rito dell’olio santo.

4. L’unzione nella liturgia di investitura del basileus

L’apparizione dell’unzione imperiale, dunque, non appartiene alle origini della liturgia di investitura, mentre, come messo chiaramente in luce da Marc Bloch, è assai più tarda (v. il recente ampio quadro tratteggiato da Canetti 2007, 1335 ss.). Certamente, gli imperatori ricevevano l’impronta dell’olio santo nel XIV secolo: nei suoi Quattro libri di storia, l’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno attesta l’unzione a proposito dell’incoronazione di Andronico III Paleologo avvenuta nel 1325. “Ma quando era cominciato esattamente?”, si è chiesto Bloch. In effetti, trovare davvero dati certi a favore dell’uso dell’olio santo significa addentrarci nelle nebbie. Ciononostante, il filo che Bloch riesce a far emergere conduce a un tempo a cavallo tra il XII e gli inizi del XIII secolo, grazie a un passo di Niceta Coniate relativo alla consacrazione di Alessio III Angelo nel 1195, in cui si fa menzione dell’olio santo [PG t. 139, col. 829 (ed. Migne)]:

[...] ὅπως κατὰ τὸ ἔϑιμον ἐς βασιλέα χρισϑῆ καὶ περιβαλεῖται τὰ τοῦ κράτους σύμβολα.

[...] affinché, secondo l’usanza, egli fosse fatto basileus con l’unzione e ricevesse i simboli del sommo potere.
 

C’è anche chi ha provato a retrodatarne l’introduzione al X secolo, ma il documento base, ossia il commento di Teodoro Balsamone al canone XII del concilio di Ancira a proposito di Giovanni Zimisce in cui apparentemente ricorre un’allusione all’olio santo, appare debole e di incerta interpretazione [PG t. 137, col. 1156 C (ed. Migne)]:

Εἰπε γὰρ μετὰ τῆς ἀγίας συνόδου, ἐν τῇ γενομένῃ τηνικαῦτα συνοδικῇ πράξει, τῇ ἐν τῷ χαρτοφυλακείῳ ἀποκειμένῃ, ὡς, ἐπεὶ τὸ χρίσμα τοῦ ἁγίου βαπτίσματος τὰ πρὸ τούτου ἁμαρτήματα ἀπαλείφει οἷα καὶ ὅσα ἄν ὦσι, πάντως καὶ τὸ χρίσμα τῆς βασιλείας τὸν πρὸ ταύτης γεγονότα φόνον παρὰ τοῦ Τζιμισκῆ ἐξήλειψεν.

Il patriarca, d’accordo con il Santo Sinodo, secondo la deliberazione allora promulgata e il cui testo è conservato negli archivi, dichiarò che, dal momento che l’unzione del santo battesimo monda tutti i peccati, per quanto grandi e numerosi essi siano, commessi in passato, anche l’unzione imperiale, con un effetto del tutto analogo, aveva cancellato l’assassinio di cui Zimisce si era macchiato prima di riceverla.

Balsamone, vissuto nel XII secolo, patriarca di Antiochia, tra i più rinomati giuristi del tempo, è vero, usa la parola χρίσμα ma, come sottolinea Bloch, non siamo dinanzi a una prova decisiva, innanzitutto perché non vi è alcuna solida certezza che abbia riportato fedelmente il dispositivo conciliare, e poi perché χρίσμα nel X secolo aveva ancora un valore squisitamente metaforico (Bloch [1924] 2021, 378). È lo stesso patriarca a precisare l’assenza dell’unzione nel rito orientale di consacrazione dei vescovi, per i quali bastava l’imposizione del Vangelo sulla loro nuca. Stesse osservazioni sul valore di χρίσμα valgono per la più tarda altrettanto metaforica unzione di Manuele Comneno (XII secolo) a cui farebbe riferimento Michele Italico in un’orazione inviata al patriarca Michele Curcuas (Ostrogorsky 1955, 246 ss.; Gallina 2016, 165 s.).

A Occidente, invece, registrazioni della presenza dell’olio santo sono assai più antiche e riguardano l’investitura dei sovrani germanici. I dati offerti a tal proposito da Marc Bloch sono del tutto sufficienti a tracciare una rapida sintesi per i principali nuovi regni cristiani (Bloch [1924] 2021, 363 ss.). Non bisogna spendere molte parole per la Spagna visigotica: non ricavando spunti significativi nei resoconti del Concilio di Toledo del 638 circa l’investitura dei sovrani, la prima attestazione certa dell’unzione risale al 672 a proposito dell’incoronazione del re Vamba [PL t. 196, col. 765-766 (ed. Migne)]. Ma visto il carattere frammentario delle informazioni, prudenza impone di considerare il rito dell’olio sistematicamente rispettato dalla dinastia cristiana di Oviedo dall’886 in avanti. Più complesso il discorso relativo al Regno dei Franchi. Sulla base di un manoscritto del IX secolo è stata revocata in dubbio la maggiore antichità dell’unzione di Pipino il Breve nel 751, ritenendosi già conosciuta e praticata anche per i sovrani Merovingi. Tuttavia, il dibattito è tutt’altro che sopito su questo punto, mentre assai più interessante è quanto accadde con Carlo Magno, certamente unto come re, ma non come imperatore nella celeberrima notte di Natale dell’800.

Papa Leone III, incoronandolo imperatore dei Romani, mise Carlo Magno nell’imbarazzante condizione di imperatore illegittimo sollevando un grave incidente diplomatico con Costantinopoli. L’imperatore dei Romani esisteva già ed era non altri che l’imperatrice Irene, mentre il papa era giuridicamente privo di qualsivoglia autorità nell’investitura imperiale, come pure era privo di ogni titolo circa l’appartenenza di Roma che continuava a restare sotto il dominio imperiale (a mo’ d’esempio, basti ricordare che fu l’imperatore Foca a donare il Pantheon a papa Bonifacio IV nel 609 d.C.).

La severa irritazione di Costantinopoli non tardò a manifestarsi nella forma di un’ambasceria inviata ad Aquisgrana per chiedere conto di quanto accaduto e ricordare che quell’incoronazione era nient’altro che un maldestro tentativo di usurpazione del titolo imperiale. Di recente, un ponderoso volume di Georges Minois ha riportato un po’ di chiarezza sulla questione (v. Minois 2010, 284 ss.). Dando il giusto peso ad alcune formule e titolatura che deporrebbero per l’assunzione del titolo imperiale, Minois sostiene che il primo a non aver creduto troppo nell’investitura imperiale e anzi a provare imbarazzo, se non addirittura estrema diffidenza, fu lo stesso Carlo, che raramente fece uso del titolo di imperatore, mentre amò sempre fregiarsi della regalità franca. Quando alla corte franca apparve chiaro il profondo e fermo disappunto di Costantinopoli, si cercò di superare l’incidente con una proposta di matrimonio tra il re dei Franchi e l’imperatrice Irene, ma il compromesso non ebbe luogo per la destituzione e l’esilio dell’imperatrice, mentre il suo successore, Niceforo, rifiutò seccamente a Carlo il riconoscimento del titolo imperiale. Tant’è che, alla sua morte, i tre figli che si spartiranno il regno saranno re ma nessuno porterà il titolo di imperatore.

“La questione del Natale dell’800” – scrive giustamente Minois – “è stata montata da alcuni intellettuali di palazzo, familiari con la cultura classica, e dalla curia pontificia”, in funzione di un disegno politico e ideologico di un impero d’occidente restaurato romano e cristiano (Minois 2010, 285 ss.). Disegno che si perfeziona con Ludovico II il Giovane incoronato, con unzione, imperatore del Sacro Romano Impero, evento questo giustificato e teorizzato da Anastasio Bibliotecario [MGH, Epistolarum VII. Epistolae Karolini Aevi (ed. Perels)]: Nam Francorum principes primo reges, deinde vero imperatores dicti sunt, hii dumtaxat qui a Romano pontifice ad hoc oleo sancto perfusi sunt.

In Inghilterra, il primo caso di re unto è quello di Egberto nel 787, e di cui si è conservato il Pontificale quale più antico testo della liturgia di consacrazione dei sovrani inglesi (Bloch [1924] 2021, 367 ss.). Quindi possiamo concludere, seppur con prudenza ma con un buon margine di sicurezza, che l’uso dell’olio simbolo della grazia divina nel rito di investitura dei sovrani barbarici apparve e si consolidò negli ex territori occidentali dell’Impero romano tra VII e IX secolo.

Se questo è vero, bisognerebbe spiegare, allora, la tarda penetrazione dell’olio santo nell’investitura imperiale romana. A parte l’avvertenza di Duchesne in Liber Pontificalis, II, 38 nt. 35, secondo cui nella liturgia orientale si era sempre respinta l’analogia con la concezione biblica dell’unzione dei grandi sacerdoti, mentre l’unzione reale poggiava sull’esempio di David, una precisa indicazione della direzione verso cui volgere l’indagine ci viene da una limpida intuizione di Bloch che, pur non traendo tutte le dovute conclusioni dalla sua ricostruzione, ha precisato che “la monarchia bizantina, consacrata dalle sue origini romane, appoggiata sulle sopravvivenze del culto imperiale, non provò così presto quanto le monarchie barbare d’Occidente il bisogno di santificarsi con un rito imitato dalla Bibbia. Più tardi, si fece sentire l’influsso dell’esempio occidentale. Molto verosimilmente Bisanzio mutuò l’unzione monarchica dagli stati sorti dall’Impero franco; non certamente da Bisanzio la ricevettero i re visigoti o Pipino” (Bloch [1924] 2021, 378 ss.).

La spiegazione blochiana, in effetti, trova un suo sviluppo nella cosiddetta ‘regalità cristocentrica’ formulata da Ernst H. Kantorowicz, con una ricostruzione fondata sulla dottrina di teologi e giuristi medievali (Kantorowicz 1989, 39 ss.). Sulla scorta dei ‘re unti’ del Vecchio Testamento, ma aggiungerei anche della tradizione cristiana del ‘titulus crucis’ – I.N.R.I – circa l’affermata regalità di Gesù come capo d’imputazione, come in Ioh. 19.19: Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων, il sovrano medievale era divenuto lui stesso un christomimetes: è facile scorgere la simmetria, costruita in Occidente in età successiva, con la configurazione dell’imperatore romano imitatore di Dio forgiata dalla potenza modellante del sincretismo cristiano-neoplatonico, se “Cristo era Re e Christus a causa della sua intrinseca natura, mentre il suo rappresentante terreno ne era re e christus solo per mezzo della grazia” (Kantorowicz 1989, 43. Sulla questione della regalità di Gesù come capo d’imputazione rinvio per tutti ai recenti lavori Schiavone 2016, 74 ss.; Miglietta 2021, 85 ss.; 197 ss.).
Ma, se tali ricostruzioni sono fondate, se di unzione imperiale nella liturgia imperiale orientale si può parlare soltanto a partire dal XII secolo per le ragioni prima accennate, il problema è soltanto spostato indietro nel tempo e in latitudini occidentali, e possiamo riproporlo nei seguenti termini: perché e da dove origina il ricorso all’unzione per legittimare i sovrani dei regni sorti sugli antichi domini dell’Impero romano?

5. L’olio santo

Abbiamo visto, nelle pagine precedenti, come l’olio santo fosse estraneo alla più genuina concezione greco-romana della liturgia imperiale, mentre correttamente Bloch e Kantorowicz hanno insistito molto sulla sacralità della persona del re e sulle sue doti sovrannaturali in quanto fondate sull’unzione, simbolo della discesa sulla persona del monarca della grazia divina.
La prima menzione dell’olio santo in chiave religiosa e cristiana la troviamo in Girolamo, PL 17.431-432 (ed. Migne): E taberna Meritoria trans Tiberim oleum terra erupit fluxitque tota die sine intermissione Christi gratiam ex gentibus. Non occorre una particolare esegesi dinanzi a un’affermazione tanto chiara, benché lapidaria: sulla riva del Tevere presso la taberna Meritoria avvenne un evento miracoloso, l’apparizione di una sorgente da cui sgorgò per un giorno intero, e ininterrottamente, dell’olio. Secondo l’interpretazione di Girolamo, il fenomeno stava a significare la grazia di Cristo scesa su tutti i popoli. Il racconto del fons olei di Girolamo lo ritroviamo come un calco in Paolo Orosio, non brillante allievo di Sant’Agostino (Oros. Hist. adv. 6.20.4-7):

Trattare ora più diffusamente della santità di codesta nostra fedelissima osservanza, non è richiesto né dalla ragione né da questa sede, sicché sia chiaro che lo riserviamo ad altro luogo per coloro che lo chiedono, né vogliamo imporlo a chi se ne disinteressa. Era però conveniente ricordarlo fedelmente, affinché risulti confermato sotto ogni aspetto che l’impero di Cesare fu preparato per la venuta di Cristo. [5] In primo luogo, infatti, mentre egli dopo l’assassinio dello zio Caio Cesare entrava in Roma di ritorno da Apollonia, verso l’ora terza, nel cielo limpido e terso un cerchio a guisa di arcobaleno circondò improvvisamente il disco del sole, come per indicare nell’Augusto l’unico e potentissimo in questo mondo, e il più famoso sulla terra, al tempo del quale sarebbe venuto colui che, unico, il sole stesso e tutto il mondo aveva creato e reggeva. [6] In secondo luogo, quando, ottenuta in Sicilia la resa delle legioni di Pompeo e di Lepido, ebbe restituito trentamila schiavi ai loro padroni e distribuito le quarantaquattro legioni poste sotto il suo unico comando a difesa di tutta la terra; e quando, fatto l’ingresso con ovazione in Roma, ebbe condonati tutti i debiti precedentemente contratti dal popolo romano e distrutta anche la documentazione scritta di essi, proprio in quei giorni una fonte d’olio copiosissima sgorgò, come ho narrato, da una locanda per un intero giorno. E che altro poté più chiaramente significare quel segno nel tempo in cui Cesare regnava su tutta la terra, se non la futura nascita di Cristo? Cristo, infatti, nella lingua della gente tra cui e da cui è nato significa “l’Unto”. [7] E così, mentre si decretava per Cesare la potestà tribunizia perpetua, a Roma una sorgente d’olio sgorgò per un’intera giornata: apparvero dunque segni in cielo e prodigi in terra, evidentissima anche per coloro che non ascoltavano la voce dei Profeti, a significare che sotto il principato di Cesare e l’impero romano, per un intero giorno – cioè per tutta la durata dell’impero – Cristo, e da lui i cristiani – e cioè l’Unto e gli Unti da lui – sarebbero sgorgati copiosamente e incessantemente da una locanda – cioè dalla Chiesa ospitale e generosa – e che tutti gli schiavi sarebbero stati restituiti a mezzo di Cesare, per lo meno quelli che riconoscevano il loro padrone, mentre gli altri che fossero trovati senza padrone sarebbero stati torturati e uccisi; e che sotto Cesare sarebbero stati rimessi i debiti dei peccatori in quella città in cui era sgorgato spontaneamente l’olio (trad. it. di G. Chiarini; testo latino in Appendice, Fonte IV).

Indubbiamente, rispetto a Girolamo, Orosio è la voce cristiana che più si inoltra per lasciarci il più limpido testo teorico di quel formidabile tornante della Storia e dell’operazione ideologica di assimilazione del sistema imperiale alla concezione soteriologica cristiana. Orosio infatti, con una certa abilità, imprime una particolare accentuazione al valore dell’olio, descritto come uno dei prodigi augustei, con interessanti e suggestive connessioni. Colloca l’avvento al potere del princeps nel momento del suo ingresso a Roma il 6 gennaio del 27 a.C., proponendo la decisiva connessione di un fatto istituzionale, cioè le celeberrime sedute senatorie in cui Ottaviano, con la restitutio rei publicae al senatus e al populus Romanus, ricevette l’epiteto di Augustus e altri onori, con l’avvento del Messia, dell’Unto, essendo il 6 gennaio il giorno in cui la cristianità celebrava l’Epifania ossia l’apparizione di Cristo. Fatta questa premessa fondamentale, Orosio passa a elencare alcuni prodigi: dapprima, una sorta di arcobaleno che circonda il disco solare e, in seguito, appunto la fonte d’olio zampillante da una taberna per un giorno intero.

Il fons olei, dunque, che sgorga copiosissimo da una taberna e che nella narrazione di Orosio diventa anche metafora della Chiesa, de meritoria taberna, hoc est de ospita largaque Ecclesia, si collega direttamente al concetto messianico dell’Unto (e unti sono i cristiani, scrive Orosio) dando vita a una strabiliante e abilissima elaborazione tutta interna alla res publica christianorum per la reciproca legittimazione di Impero e Chiesa. Orosio scandisce una sequenza di prodigi che, a ben guardare, è ben inserita in un continuum culturale: sembra essere interpretazione del Vangelo di Luca a sua volta debitore di Livio, coincide in buona sostanza con la narrazione contenuta dell’anonimo autore dell’Expositio quattuor Evangeliorum, opera indipendente da Orosio ma con aderenze allo storiografo di età augustea. Ad ogni modo, la costruzione di Orosio, in un impero ormai fattosi cristiano, esplicava tutta la sua efficacia perché coerentemente interna a una strategia comunicativa diretta a costruire, come è stato detto prima, una Augustustheologie.

A ben vedere, però Girolamo e Orosio non furono affatto originali perché, ben prima di loro, il miracolo della fonte dell’olio santo compare nella narrazione di uno storiografo, funzionario imperiale pagano, Cassio Dione, a proposito delle manifestazioni soprannaturali segni della predestinazione al potere di Ottaviano (Cass. Dio 48.43.4):

πολλὰ μὲν δὴ καὶ πρὸ ἐκείνου τοῦ χρόνου τερατώδη συνηνέχϑη, ἄλλα τε γὰρ καὶ ἔλαιόν τι παρὰ τῷ Τιβέριδι ἀνέβλυσε, πολλὰ δὲ καὶ τότε.

Molti prodigi si verificarono prima e dopo quel tempo, tra l’altro zampillò [una sorgente di] olio presso il fiume Tevere.

È appena il caso di dire che una singolare traduzione italiana, curata da Giuseppe Norcio, per i tipi della BUR, propone la seguente lettura: “tra l’altro germogliò una pianta di ulivo presso il fiume Tevere” (Norcio 1996, 91). Ora, a parte il fatto che ἔλαιον è “olio” e non “ulivo” (ἐλαία), ἀνέβλυσε è indiscutibilmente aoristo di ἀναβλύζω, una voce verbale che esprime “sgorgare”, “scaturire”, “zampillare”, e non “germogliare”, l’evento miracoloso non poté consistere affatto nell’apparizione di una pianta d’ulivo, dato che capace di sgorgare, zampillare è semmai un liquido derivante dal frutto degli ulivi, cioè l’olio. Dunque, Girolamo, prima, e Orosio, dopo, raccolgono una tradizione circolante e di non chiara provenienza del fons olei, di essenza divina, legata all’avvento di Augusto però già registrata un secolo prima da Cassio Dione. Sedimentatasi, probabilmente, sia in ambienti pagani sia giudaico-cristiani, questa tradizione fu tramandata ancora da Paolo Diacono: Hist. Rom. 7.8: His diebus trans Tiberim de taberna Meritoria fons olei e terra exundavit ac per totum diem largissimo rivo fluxit significans ex gentibus gratiam Christi.

Rilevante, però, è soprattutto la testimonienza di Anastasio Bibliotecario, a cui si deve un’operazione talmente interessante da meritare qualche parola.

6. Anastasio Bibliotecario e il fons olei

Anastasio fu uomo dalla storia tumultuosa. Scomunicato ‘a divinis’ da Leone IV nell’853, due anni dopo, alleato di una parte del clero e dei Franchi, Anastasio veniva intronizzato come antipapa. Rimosso però presto dal nuovo pontefice Benedetto III, nonostante le disavventure e la sconfitta, restò tuttavia in sella con la nomina di abate di S. Maria in Trastevere, assumendo da allora quel ruolo di intellettuale e diplomatico al servizio del Papato per cui viene ancora oggi ricordato. Grazie a una sua lettera indirizzata a Urso, subdiacono e medico di Niccolò I, possediamo ulteriori importanti ragguagli sulla storia del fons olei (MGH, Epistolarum VII. Epistolae Karolini Aevi (ed. Perels): Urso venerabili subdiacono sanctae romane ecclesiae seu medico et domestico domini nostri sanctissimi papae Nicolai Anastasius exiguus abbas monasterii sanctae Dei genetricis Mariae virginis siti trans Tiberim, ubi olim circa Domini nativitatem fons olei fluxit, in Domino salutem.

Mi sono limitato a riportare soltanto il titolo della missiva a Urso, sufficiente per trarre i seguenti dati: 1) Anastasio è abate del monastero di S. Maria in Trastevere; 2) il monastero è dedicato alla Vergine Maria genitrice di Cristo; 3) il monastero sorge trans Tiberim nel luogo dove ‘olim’ sgorgò la miracolosa sorgente d’olio; 4) il tempo era all’incirca quello del Natale.
Ora, Anastasio certamente si rifà a Girolamo, che indica con maggior precisione di quella prestata da Orosio, il luogo dell’effluvio di olio, ossia trans Tiberim, dunque sulla sponda destra del fiume, e il sito della taberna Meritoria oggi è identificato come parte del Castrum Ravennatium (v. Hülsen 1927, 84 ss.). Al nostro abate e diplomatico deve così riconoscersi il risultato della cristallizzazione topografica del miracolo del fons olei come tradizione propria della basilica di S. Maria in Trastevere in età medievale, tanto da farle acquisire l’appellativo ufficiale di Fundens oleum, come apprendiamo dal manoscritto Vat. lat. 8051, I, fol. 13r: […] virgo Maria Mater domini nostri Iesu Christi et tuo venerabili tytulo qui est Transtiberim et cognominabatur fundens oleum (v. Bull-Simonsen Einaudi 1990, 179 ss.). Una tradizione che si mantenne viva, anche con evidenti posteriori proiezioni iconografiche, come nel caso del maestro veneziano [Fig. 2] che racchiude nel medesimo contesto Maria con il Bambino, la Sibilla che con un cartiglio annuncia la venuta dell’Unto a un Augusto inginocchiato a segnarne la subalternità e una fontana campeggiante al centro da cui non sgorga acqua bensì olio (cfr. Settis 1986, 378).

2 | Visione di Augusto e rovine del Tempio della Pace (Maestro veneziano, c. 1400; Staatsgalerie, Stuttgart).

In definitiva, il primo a parlare del miracolo del fons olei, a collocarlo trans Tiberim e a connetterlo con i prodigi di Augusto non fu Anastasio, né Girolamo né tantomeno Orosio, bensì Cassio Dione. Gli altri abilmente lo misero a frutto rimodulandolo come prodigio cristiano. Tale indubbio tratto saliente del miracolo dell’olio evidenzia la circolarità dei documenti richiamati – Augusto, Girolamo, Orosio, Paolo Diacono, Anastasio – e obbliga a ritornare ad Augusto princeps, al fondatore del principato, mettendo meglio a fuoco alcuni motivi della strategia di sacralizzazione della sua persona e del relativo culto elaborata e messa in pratica dal suo potentissimo staff di comunicazione.

7. I prodigi sull’avvento al potere di Ottaviano Augusto

Il primo ad attestare il miracolo dell’olio è, dunque, Cassio Dione, mentre è difficile, se non impossibile allo stato delle fonti, stabilire se quel cenno lo abbia ripreso da qualcuno. Ciò che importa però è verificare quanto il prodigio dell’olio rientrasse nella propaganda della predestinazione augustea e, fortunatamente, possediamo il più antico e dettagliato catalogo dei prodigi sull’avvento al potere di Augusto approntato da Svetonio nella relativa biografia, che merita di essere riportato integralmente per la sua portata decisiva (Appendice, Fonte V).

La pagina di Svetonio è straordinaria, una lista vertiginosa, per parafrasare un celebre libro di Umberto Eco, Vertigine della lista (Eco 2009): un’antica profezia a Velletri secondo cui un giorno un cittadino di quella città si sarebbe impadronito del potere; il terzo prodigio, ricordato da Giulio Marato, liberto e biografo di Augusto, per mezzo del quale si preannunciava la nascita di un re del popolo romano che atterrì talmente il senato da emettere un decreto con il divieto di allevare nessun bambino nato in quell’anno (63 a.C.). In realtà, il decreto risultò inefficace perché, spiega Svetonio, se ne impedì il deposito nell’Aerarium Saturni, deposito necessario affinché i senatusconsulta entrassero in vigore. Si tratta di un evidente archetipo della strage degli innocenti (non avvenuta, nel caso romano) annotata anche nei Saturnalia di Macrobio 2.4.11: Cum audisset inter pueros, quos in Syria Herodes rex Iudaeorum intra bimatum iussit interfici, filium quoque eius occisum ait: Mallem Herodis porcus esse quam filius. Tuttavia, Bouché-Leclerq ha acutamente escluso che Svetonio abbia attinto alla tradizione cristiana, fondando la costruzione della profezia quale ricordo di un ancestrale rito di matrice italica per scongiurare eventi nefasti (v. Bouché-Leclerq 1892, 115 ss.).

La fecondazione della madre, Azia, da Apollo attraverso le fattezze di un serpente; la profezia di Publio Nigidio Figulo (un erudito neopitagorico e orfico), confermata da un oracolo, che annunciava, proprio nel giorno della discussione in senato sulla congiura di Catilina, la nascita del futuro dominus terrarum orbis; i prodigi a cui assistette il padre presso un santuario tracio di Dioniso predizione della missione cosmocratica del figlio; le rane che gracidavano azzittite da un suo comando; l’aquila che gli sottrasse, mentre pranzava, il pane per restituirglielo poi docilmente; il sogno di Cicerone del puer disceso dal cielo e inviato da Giove, ecc. Insomma, si tratta di un elenco sterminato di eventi portentosi, onirici, sovrannaturali, una sorta di summa di motivi che, ora Eracle, ora Dioniso, ora figlio di Apollo, imprimevano sempre più al processo di divinizzazione di Augusto motivi e venature orientali, che finì per fargli assumere paradossalmente il progetto politico orientaleggiante del suo ultimo temibile rivale: Antonio.

Ai prodigi raccolti da Svetonio, poi, può aggiungersi pure l’evento celeste ricordato da Plinio il Vecchio, ossia l’apparizione di una cometa:

Una cometa è oggetto di culto in un solo luogo del mondo intero: in un tempio a Roma. Il divino Augusto l’aveva ritenuta un segno del tutto favorevole per il proprio destino, perché, al principio della sua carriera, questa apparve durante i giochi che egli faceva tenere per Venere Genitrice, nel collegium istituito da suo padre Giulio Cesare. 94. E con queste parole egli riferì l’evento gioioso: “Proprio nei giorni in cui si tenevano i miei giochi, una stella chiomata fu avvistata per sette giorni nella zona del cielo che volge a settentrione; spuntava verso l’undicesima ora del giorno, ed è stata luminosissima e visibile da ogni terra. Questa stella, secondo l’opinione popolare, indicava che l’anima di Cesare era stata accolta dra gli dèi immortali; per-tanto il simbolo della cometa fu aggiunto al busto di Cesare che poco dopo consacrammo nel Foro”. Queste le sue affermazioni pubbliche; ma una gioia più intima gli suggeriva che quella stella era nata per lui, e che lui nasceva in essa (trad. it. di A. Barchiesi; testo latino in Appendice, Fonte VI. Sul testo pliniano v. Cotta Ramosino 2004, 328 ss.).

È il 23 settembre del 44 a.C. mentre il giovane Caio Ottavio celebra i giochi in onore di Venere disposti da Cesare (Ludi Victoriae Caesaris), i cieli di Roma per nove giorni vengono solcati da una cometa (per la quaestio riguardante la cometa si veda la Nota dedicata, in Bibliografia). Il fenomeno astronomico fu subito interpretato come la manifestazione dello spirito di Cesare (sidus Iulium) assurto tra gli dèi nella Via Lattea, tanto che, a tal proposito, fu convocato in contione l’aruspice Vulcacio: Serv. in Verg. ecl. 9.46 (Augustus, Commentarii de vita sua frg. 7, ed. De Biasi, Ferrero): Sed Vulcatius aruspex in contione dixit cometem esse, qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi, sed, quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit.

Tuttavia, come svela Plinio il Vecchio, Augusto seppe farne un uso ben diverso e coerentemente dosato nella strategia della sua divinizzazione (v. Ramage 1985, 223 ss.). Quella cometa, il cui reale transito astrale peraltro accertato dagli studiosi di settore, comunque intesa quale segno celeste di volontà divina e di predestinazione, per quanto all’inizio agganciata a Cesare, ben presto venne legata al dies natalis di Augusto, finendo per assumere i caratteri di segno di annunciazione della sua nascita, avvento di un’era di pace (Per un quadro del relativo dibattito v. Gurval 1997, 39 ss.; Ramsey, Licht 1997, 65 App.; interessanti anche i più recenti contributi di Koortbojian 2013, 27 ss.; e di Pandey 2013, 405 ss.). Cresci Marrone rileva nell’iconografia monetale un processo evolutivo dei significati via via attribuiti alla cometa: da “simbolo conteso dell’eredità cesariana espressione di pietas filiale” ad “auspicio dell’avvento di un’era di pace, addirittura segno del potere di Augusto di ‘fare gli dei’” (Cresci Marrone 2017, 15; cfr. Cogrossi 1981, 141 ss.). Eloquentissima pure la chiusa di Plinio – et, si verum fatemur, salutare id terris fuit [e, a dire il vero, essa portò al mondo la salvezza] – un evidente rifacimento alla IX ecloga virgiliana, che nei vv. 47-49 celebrava i benefici recati all’umanità da Ottaviano filius del divus.

3 | Monete con segno zodiacale del Capricorno, stella e cornucopia.

Il trasferimento della cometa e del suo simbolico significato palingenetico da Cesare ad Augusto finì così per trovare un magnifico esempio in alcune emissioni monetali [Fig. 3] e in alcune paste vitree, ove compare il Capricorno, segno zodiacale del princeps, sormontato da una stella. La congiunzione astrale non poteva essere più felice e perciò meritevole di essere sapientemente coordinata tanto da divenire il sigillo del principe: la cometa e il Capricorno, segno del suo concepimento e simbolo della rinascita e della prosperità.

 

Alla fine, però, di questa cursoria rassegna dello sterminato complesso di prodigi, via via agglutinatisi attorno alla persona del princeps, resta un dato inconfutabile, e cioè l’assenza del miracolo dell’olio santo nel catalogo svetoniano. Il che significa che nel II secolo d.C., quando il bibliotecario di Adriano scriveva la biografia augustea, il prodigio del fons olei non era ancora innestato nella tradizione augustea, o quantomeno non appariva tale a Svetonio. Dunque, Cassio Dione non dipende da Svetonio, sicché resterebbero da sciogliere due nodi:
1) dove Cassio Dione abbia recuperato il racconto dell’olio sgorgante dalla terra legato ad Augusto;
2) il significato profondo dell’impiego dell’evento miracoloso da parte di Orosio in chiave cristiana.

A proposito della prima questione, ad oggi lo stato della documentazione non consente altro che l’unica congettura a mio avviso possibile, ossia che lo storiografo di Bitinia abbia ripreso un filo orientale della tradizione biblica (in particolare, l’unzione di David nel primo libro di Samuele; Luc. 4.18; Act. Apost. 10.38), probabilmente circolante appunto nelle comunità giudaiche e cristiane delle città ellenistiche dell’Impero, e che nel III secolo d.C. finì per innestarsi sul culto di Augusto. Ma assai più probabile è che Cassio Dione sia stato influenzato dal tentativo del contemporaneo Sesto Giulio Africano, autore delle Chronographiae, di conciliare sincronicamente il cristianesimo con la storia e la cultura pagana (v. Mecella 2013, 350 s., che giustamente cita precedenti in Ippolito (In Dan. 4.9.2), Origene (Contra Cels. 2.30) e Melitone di Sardi (F I 3, Perler apud Eus. Hist. eccl. 4.26.7-8); e aggiungerei anche in Eusebio di Cesarea (Dem. evang., 3.7.30-33); v. pure Roberto 2011, passim).

Per quanto concerne, invece, la seconda questione, credo che non ci sia altra strada che collocare in questo milieu il nesso elaborato da Orosio, vissuto a cavallo di IV e V secolo d.C., tra Augusto, Cristo e miracolo dell’olio santo. Ma l’operazione di Orosio fu possibile grazie all’ordito della sagace, sapiente strategia di sacralizzazione della persona di Augusto, come detto prima una sorta di vera e propria Augustustheologie (v. Opelt 1961, 44 ss.). Tra la copiosa documentazione merita una menzione particolare una straordinaria iscrizione proveniente dalla provincia d’Asia.

7. L’iscrizione di Priene

L’importante documento risale al 9 a.C., ed è un’iscrizione bilingue di Priene (colonia situata alle pendici del Monte Micale, in Turchia, oggi Samsun Dag). L’epigrafe contiene un editto del proconsole d’Asia Paullus Fabius Maximus poi trasfuso in un decretum de fastis provincialibus provinciae Asiae, e dipinge un quadro davvero straordinario delle tensioni, delle ansie e delle aspettative nutrite verso Augusto. Questo il testo:

I Greci che vivono in Asia hanno approvato, su proposta del sommo sacerdote Apollonio figlio di Menofilo di Ezeane, questo decreto: “Poiché la provvidenza che divinamente regola la nostra vita, manifestando sollecitudine e generosità, ha disposto il più perfetto compimento della vita, avendo inviato Augusto che, a beneficio degli uomini, ha colmato di virtù, facendo a noi e ai nostri discendenti la grazia di un salvatore, lui (Augusto) che ha fatto cessare la guerra e stabilirà l’ordine di tutte le cose (la pace), e poiché Cesare con la sua epifania è andato oltre le speranze di tutti coloro che avevano ricevuto in precedenza buone novelle, non solo superando i benefattori vissuti prima di lui ma non lasciando nemmeno speranza in quelli futuri di far meglio, e poiché per il cosmo il giorno natale del dio (Augusto) ha dato inizio alla serie delle buone novelle annunciate per suo merito; e avendo decretato l’assemblea della provincia d’Asia, riunita a Smirne, sotto il proconsole Lucio Volcacio Tullo, e segretario Papione figlio di Diosierito, che a colui che avesse procurato i più grandi onori al dio (Augusto) fosse conferita una corona, Paolo Fabio Massimo, proconsole della provincia, inviato come benefattore dalla sua mano destra e dalla sua volontà (Augusto) insieme agli altri con cui beneficò la provincia, dei quali benefici nessun discorso giungerebbe a esprimerne la grandezza, ha trovato proprio ciò che sino a ora non era stato immaginato dai Greci in onore di Augusto, cioè che dal suo giorno natale inizi il tempo per la vita: per ciò per buona sorte e per nostra salvezza, l’assemblea dei cittadini greci della provincia d’Asia decreta che il nuovo novilunio cada per tutte le città il giorno nono prima delle calende di ottobre, che è il giorno natale di Augusto (EG IV, 1929, nr. 490 = OGIS 458, 40; il testo greco in Appendice, Fonte VII).

Il documento epigrafico racchiude in una lettera inviata dal proconsole Paolo al Koinón d’Asia l’ordine di applicazione della riforma cesariana del calendario giuliano-asiano in cui il 23 settembre, dies natalis di Augusto, diventava inizio dell’anno. Non è ovviamente l’aspetto burocratico-amministrativo che ci interessa. Quello che più colpisce della comunicazione del governatore romano è la sua portata ideologica. L’iscrizione è tutta un inno alla nuova era avviata da Augusto, come sottolineato da Santo Mazzarino (Mazzarino [1956] 1988, 156); in particolare sono alcune espressioni ad attrarre attenzione e suscitare curiosità: la provvidenza divina, l’invio di un ‘salvatore’, l’arrivo di un tempo di pace, sono espressioni assai suggestive, ma soprattutto denso di implicazioni è il passaggio in cui il dies natalis di Augusto viene equiparato a quello che fu per il mondo il principio della vita: un’equivalenza straordinaria con la quale la vita riprendeva il suo corso, grazie alle buone novelle (evangelii) da lui annunciate. L’espressione τῶν δι᾽ αὐτὸν εὐανγελίων costituisce davvero un messaggio di rara potenza comunicativa, soprattutto nella sua connessione causale, cioè la straordinaria attribuzione al giorno della nascita del princeps (ἡμέρα τοῦ Σεβαστοῦ), il 23 settembre del 63 a.C. di un’importanza pari a quello della creazione del mondo. Qui si realizzava quell’innegabile punto di contatto dell’ideologia del culto imperiale con l’attesa soteriologica in senso messianico del giudaismo, funzionale a favorirne penetrazione e diffusione capillare nel Vicino Oriente mediterraneo (sul punto v. ancora Mazzarino [1956] 1988, 54 ss., praecipue 70 s. e nota 5).

Ecco, perciò, quel medesimo annuncio (εὐανγελίων) dell’arrivo di una nuova era di pace e felicità, inciso su una lastra di marmo bianca esposta in una città dell’Asia minore, esplicava la sua portata universale risuonando simmetricamente in Occidente, grazie ai versi 6-17 della IV ecloga di Virgilio, come l’età di Saturno portata da una persona, cioè Augusto:

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis, / Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet / saecula qui rursus Latio regnata per arva / Saturno quondam; super et Garamantas et Indos / proferet imperium: iacet extra sidera tellus, / extra anni solisque vias, ubi caelifer Atlas / axem umero torquetstellis ardentibus aptum (Verg. Aen. VI, 791-794).

Anche il lessico di Virgilio è affine alle parole chiave del messaggio cristiano: l’uomo, figlio di Dio, che viene a portare un’era di pace, il secolo d’oro di Saturno; e un puer annunciato, su cui tanto inchiostro si è versato per individuarne l’identità nonostante la soluzione sia stata sempre chiara: né Salonino, figlio del console Asinio Pollione, né l’atteso erede di Marco Antonio, né Marcello, nipote di Ottaviano, ma Ottaviano stesso (merita una sottolineatura la ricostruzione alternativa proposta in Braccesi 2012, 10 ss., che invece individua nel nascituro puer piuttosto una puella, cioè Giulia, la figlia del princeps).

Eppure, per quanto comprensibile, quel motivo in un testo epigrafico ufficiale non può essere liquidato semplicemente come la cifra artistico-letteraria di un amico del principe, perché resta la singolarissima coincidenza che quelle parole straordinariamente affini al messaggio cristiano di Paolo di Tarso furono coniate parecchi decenni prima della vicenda umana di Gesù, e dei primi vagiti delle comunità cristiane, da un altro Paolo, un abile proconsole capace di declinare da quel momento l’egemonia romana non soltanto sulla lama affilata di un gladio, ma anche sulle corde della pace e della venuta sulla terra di un uomo secondo il disegno della provvidenza divina. Non sappiamo né possiamo ipotizzare se e quanto il linguaggio del proconsole Paolo abbia potuto influenzare quello del Paolo cristiano, con un’omonimia dovuta davvero a un bizzarro gioco della Storia. Quel che dobbiamo riconoscere è che il motivo messianico, largamente serpeggiante nelle province orientali gremite di predicatori, maghi, profeti e taumaturghi, fosse espresso proprio con timbro e modalità simili a quelli risuonanti nel documento del funzionario imperiale dal segno identitario inequivocabilmente romano. Sicché appare più fondata l’ipotesi che fu il Paolo cristiano, sua sponte, a utilizzare una semantica familiare ai cittadini romani per diffondere la nuova fede oltre il ridottissimo perimetro della Giudea.

In definitiva, possiamo dire che questo documento eccezionale, solitamente trascurato, testimonia la diversa declinazione dell’accorta strategia di Augusto e del suo entourage di sacralizzazione della persona e della costruzione del culto di Augusto: a Occidente un uomo predestinato e amato dagli dèi, a Oriente un dio sceso in terra, tra gli uomini, con evidente affinità con giudaismo e il cristianesimo. Si tratta di affinità, certo, innegabili non prive però di una certa lontananza rispetto al messianismo: la concezione greco-romana affiorante dall’iscrizione di Priene, in cui gli evangelii di Augusto erano più rivolti al presente (il salvatore è già arrivato), com’è chiaro dal riferimento al dies natalis di Augustus (l’inizio del tempo), non coincide con la prospettiva giudaica, invece, integralmente collocata nel futuro, nell’attesa del Messia.

In fondo, in un mondo prostrato da un secolo lungo, empio e insanguinato, di violenze e guerre civili, l’instaurazione di un ordine simbolico in grado di coinvolgere capillarmente dèi e uomini era la risposta a un’istanza collettiva, agli intensi aneliti di pace e di ordine levatisi tanto in Oriente quanto in Occidente. Augusto, questa è la cifra del messaggio, si faceva interprete di una nuova stagione pacificatrice e ordinatrice, in cui la religione ridiventava cardine fondamentale e strumento indispensabile di consenso. Del resto, torna calzante la lezione di Pierre Bourdieu, secondo cui ogni istituzione per avere successo deve avere consenso, deve cioè esistere “nelle cose e nei cervelli”, secondo regole riconosciute e condivise; era quindi necessario assecondare e persuadere, secondo le specificità, le due grandi aree geopolitiche su cui Roma aveva ormai affermato l’egemonia (Bourdieu [1989-1990] 2013; Bourdieu [1990-1992] 2021).

8. Augusto strumento del Dio cristiano

Torniamo, pertanto, a Orosio. Adesso diventa assai più agevole cogliere sino in fondo il valore del miracolo della fonte da cui sgorga copiosissimo olio, se collocato dentro la stratificata teologia del potere imperiale a cui si riconnetteva l’avvento del Cristo: insomma, Augusto, per Orosio, poté esser tale, cioè divenire princeps e fondatore di un impero universale, in quanto strumento divino. Orosio magnificava con enfasi la nuova era di pace che abbracciava Oriente e Occidente, che andava da Nord a Sud: finalmente si era ristabilita la pace per tutti i popoli; una pace vasta e duratura che aveva condotto alla chiusura del tempio di Giano per la terza volta e a lungo come mai nella storia di Roma, e proprio nel 9 a.C., il medesimo anno dell’iscrizione di Priene, i cives Romani potevano assistere alla solenne inaugurazione dell’Ara Pacis celebrativa della Pax Augusta:

Così, nell’anno 752 dalla fondazione di Roma, Cesare Augusto, avendo ordinato tutti i popoli in un’unica pace da Oriente ad Occidente, da Settentrione a Mezzogiorno e lungo tutto il cerchio dell’Oceano, chiuse lui stesso per la terza volta le porte di Giano. [2] Le quali, tenute chiuse da allora per circa dodici anni in una tranquillissima pace, furono persino intaccate dalla ruggine, né mai prima si aprirono se non al tempo dell’estrema vecchiaia di Augusto sotto la spinta della ribellione degli Ateniesi e dell’insurrezione dei Daci. [3] Chiuse, dunque, le porte di Giano, cercando di rinvigorire e ingrandire nella pace la res publica che aveva ottenuto con la guerra, stabilì molte leggi, per le quali il genere umano, con volontario rispetto, si conformasse a una disciplina (Oros. Hist. adv. pag. 6.22.1-3; trad. it. di G. Chiarini; il testo latino in Appendice, Fonte VIII).

Si rimarginavano le ferite delle guerre civili e si perpetuava, dunque, il patto di alleanza degli uomini con gli dèi. Dal punto di vista cristiano, fu scelta di non comune intelligenza imprimere al movimento una svolta di autoinclusione nel quadro istituzionale (in senso lato) dell’Impero, nel lucido perseguimento della liberazione del cristianesimo dall’ipoteca di una quasi certa dispersione (e oblio) che in qualche modo affliggeva, accomunandoli, tutti i messaggi profetici del mondo antico nel quadrante del Vicino Oriente. In questa prospettiva, produttrice nel corso dei secoli anche di una poderosa macchina propagandistica, fu estremamente abile il ribaltamento delle posizioni, per cui l’Impero romano e Augusto costituirono lo scenario e l’autorità entro e sotto cui il dio cristiano aveva scelto d’incarnarsi. La cifra davvero saliente la troviamo ancora nel sesto libro dell’opera orosiana, ove si legge la solenne enunciazione del nesso di causalità tra Augusto e l’unico vero Dio. Un messaggio suggestivo ed evocativo di rara efficacia comunicativa, leggiamolo:

E in quel tempo, cioè nell’anno in cui Cesare per volere di Dio diede al mondo la pace più vera e più stabile, nacque Cristo, al cui avvento questa pace fece da ancella e alla cui nascita gli angeli esultanti cantarono e gli uomini udirono: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Colui nelle cui mani era pervenuta la somma dei poteri, non tollerò, o piuttosto non osò, esser chiamato “signore” degli uomini proprio nel tempo in cui nacque tra gli uomini il vero Signore di tutto il genere umano. 6. E ancora, quel Cesare che Dio aveva predestinato a così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle singole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo e, appena nato, fu subito iscritto nel censo romano. 7. È questo il primo chiarissimo riconoscimento che mostrò Cesare come principe di tutti gli uomini e i Romani come signori del mondo con la registrazione ufficiale di tutti gli uomini uno per uno, nella quale volle figurare come uomo tra gli uomini Colui che tutti gli uomini creò: ciò che non fu concesso mai, in questo modo, dalla nascita del mondo e dall’inizio del genere umano, neppure al regno babilonico e macedonico, per non dire a qualsivoglia altro piccolo regno. 8. E senza alcun dubbio appare chiaro all’esperienza, alla fede e alla ragione di ciascuno che è stato nostro Signore Gesù Cristo a far progredire questa città, accresciuta e protetta dal suo favore, a tale apice di grandezza: a questa città volle appartenere quando venne, farsi chiamare cioè cittadino romano per attestazione del censo romano (Oros. Hist. adv. 6.22.5-8, trad. it. di G. Chiarini; testo latino in Appendice, Fonte IX).

Al netto di certune evidenti forzature, come il considerare Gesù iscritto nelle liste censuali come civis Romanus, nella visione di Orosio non vi è soltanto un preciso sincronismo (Braccesi 2012, 112 ss.; Braccesi 2013, 99 ss.). Vi è soprattutto un perfetto nesso di causalità interpretato pure nel senso della premialità manifestata dal dio cristiano nei confronti di Augusto, magnifico princeps e auctor di un’ecumenica era di pace. Proprio per questa ragione, Augusto, secondo l’ideologia patristica della tarda antichità, fu il Cesare predestinato a così grandi misteri; proprio perché portatore di pace, Dio apparve durante il suo principato e, facendosi uomo, venne iscritto nel censo romano (quando et Deus homo videri et esse dignatus est. Tunc igitur natus est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est). Si superava anche quello scarto stridente del deus praesens nella letteratura encomiastica augustea (soprattutto Ovidio, in Tristia 2.1.53-54, ma pure Orazio, in Carm. 3.5.1-3; 4.14.43-44; Epist. 2.1.5-6, 15-17, 134; v. Rocco 2017, 153 ss.).

La rivisitazione cristiana del motivo intimo della religiosità del mito augusteo si completava persino nel recupero degli Oracula sibillini attraverso la predizione virgiliana della Sibilla cumana, profetessa ispirata da Apollo, in cui l’arrivo di una Virgo (la vergine Astrea della IV ecloga virgiliana vv. 6-12 e dei Fasti di Ovidio 1.149-150) e del puer in grembo non erano altri che Maria e Gesù per bocca del fondatore della Nuova Roma, l’imperatore Costantino (Mazzarino 1974, 99 ss.; Cristofoli 2005). Ancora nella Chronografia (10.298 ss.) di Giovanni Malala trascritta nei Mirabilia urbis Romae si tramanda la leggenda della visione di Augusto, e il suo atto di adorazione, della Vergine con il Cristo in braccio sull’Arx capitolina (Appendice, Fonte X).

L’apparizione sarebbe stata anticipata da un vaticinio della Sibilla tiburtina richiamato da S. Agostino (De civ. Dei 18.23). A questo robustissimo filone tuttavia si contrapponeva Giovanni di Antiochia che nella sua Historia Chroniké trasmetteva un’immagine sinistra di Augusto e la sua negatività nella storia universale (su questo tema v. Roberto 2013, 409 ss. L’Historia Chroniké fu scritta seguendo il modello narrativo della Chronographia di Giovanni di Malala su cui v. Mecella 2013, 349 ss.).

Virgilio, soprattutto nella IV ecloga 4-14, già da Lattanzio accostato al profetismo cristiano (Lact. Inst. 7.24), da cantore dell’ideologia augustea sempre più trasfigurava in profeta dell’Avvento. A simili suggestioni e accostamenti non restarono insensibili neppure i moderni, se l’evento più importante delle celebrazioni del bimillenario del 1937 fu la Mostra augustea della Romanità, nella cui sala centrale consacrata ad Augusto “l’inevitabile statua di Prima Porta dialogava con una grande croce di vetro composta con le parole del Vangelo di Luca che ricordavano il censimento dell’impero voluto da Augusto e la nascita di Gesù Cristo, con riferimento al puer virgiliano. La diacronia si ricomponeva, dunque, in sincronia, e i due universalismi romani, quello imperiale e quello cristiano, promanavano, in un’atmosfera intensamente sacralizzata, dal fascino di quell’unica e simbolica effigie” (v. Giardina 2013, 66).

Quanto emerso nel corso dell’indagine, è sufficiente a darci un’idea della potenza della manipolazione della memoria e del ricordo. In un libro recente dedicato al pensiero cristiano prima della canonizzazione dei vangeli, Bart D. Ehrman ha avvertito sull’irrilevanza di ciò che Gesù realmente pensava e diceva; riporto un passaggio, secondo me, assai incisivo: “Che importanza ha sapere se Gesù pensava di essere Dio in terra? Da storico rispondo che mi interessa, e parecchio. Ma se non lo pensava (e ne sono convinto), il fatto che a un certo punto sia stato ricordato dai suoi seguaci come se lo avesse pensato ha un’importanza straordinaria. Senza questo ricordo di Gesù, la fede che si fonda su di lui non avrebbe avuto il successo che ha avuto, l’impero di Roma non avrebbe abbandonato la religione pagana, la storia del mondo sarebbe stata così diversa al punto che non riusciamo neanche a immaginarla. Il corso della storia è cambiato non per i dati storici, ma per i ricordi” (Ehrman 2017, 243. Sull’uso ideologico della memoria v. Torelli 1991, 47 ss.).

Augusto, Cristo, i prodigi. La tecnica di manipolazione della memoria e del ricordo assai invalsa nel mondo antico e non solo, su cui certamente punte di inarrivabile eccellenza raggiunsero i Romani, ne abbiamo saggiato la mirabile strategia comunicativa per Augusto, e poi i cristiani che fecero del princeps e dell’impero, il quadro di contesto della diffusione del cristianesimo; basti pensare alla costruzione di genealogie mitiche o del tutto gonfiate per nobilitare stirpi gentilizie, dai modesti natali, arricchitesi e divenute politicamente potenti. In altri termini, l’historia mendosior di cui parla Cicerone (a tal proposito v. Montanari 2009). Negli ultimi secoli della tarda antichità o se preferiamo nei primi dell’Alto Medioevo, quando i confini del potere imperiale andarono progressivamente ritraendosi, la Chiesa seppe impiegare robusti filoni della tradizione imperiale romana e cristiana, già tra loro intrecciati dalla patristica, e con abile pazienza tessere riti di investiture per imprimere una diversa impronta cristiana al nuovo potere regale che prendeva piede negli ex territori occidentali dell’Impero e marcare, rispetto al potere di Costantinopoli, un discrimine e una maggiore distanza.

9. L’interregnum e l’elezione del pontefice

Abbiamo sinora parlato di re germanici, forse alla fine qualche suggestione si potrebbe riservare anche a un altro antichissimo monarca: il papa. Osmotico fu il rapporto che caratterizzò nei secoli tardoantichi la storia delle due dignitates distinctae, Impero e Chiesa, secondo il concetto introdotto nel 494 d.C. da papa Gelasio I nell’epistula inviata ad Anastasio I per teorizzarne le soggettività paritarie, distinte e autonome. Tale rapporto dapprima asimmetrico e a un certo momento paritario innescò potenti processi di assimilazione nell’impianto ideologico e organizzativo della Chiesa di concetti, categorie, istituzioni propri dell’Impero romano; tuttavia, mai a proposito della successione sul soglio di Pietro si ricorse a liturgie simili a quelle invalse per i Cesari, quasi a volerne sottolineare una radicale differenza. Eppure, per sottrarre all’imperatore romano ogni possibile ruolo nella scelta del vicario di Cristo, e al tempo stesso per non recidere quel cordone ombelicale necessario per legittimare la rivendicazione di erede della vocazione universalistica della Roma dei Cesari, il potere ecclesiastico forgiò un meccanismo e una procedura di investitura dei pontefici – i cardinali chiusi in conclave a scegliere il nuovo pontefice, mentre fuori il Camerlengo sovrintende alla gestione quotidiana della Santa Sede assistito da tre cardinali, e poi la discesa dello Spirito Santo con la fumata bianca e l’affacciarsi del nuovo monarca di Dio su Piazza S. Pietro dinanzi al popolo dei fedeli – accostabili quasi come un calco all’arcaica successione al trono del rex romano: l’interregnum.

Istituzione nova et inaudita presso qualunque altro popolo, come sottolineava Cicerone in De re publ. 2.12.23-24, l’interregnum fu il meccanismo di successione al trono ricordato dalla tradizione come quello originario, in cui residuò la memoria del passaggio da un’età preurbana e protourbana durante le quali il sito di Roma era popolato da comunità di villaggio indipendenti guidate da capi clan (in età storica gentes) alla città con strutture, norme e istituzioni unitarie. In spregio a ogni principio dinastico, morto Romolo, le gentes patrizie escogitarono quella “forma di potere sminuzzata”, scrive Giulio Guidorizzi, “semi-repubblicana”, certamente farraginosa (Guidorizzi 2021, 113). Livio è dettagliatissimo al riguardo, e funzionava così: venuto meno il re, gli auspicia ad patres redeunt (appunto i capi dei gruppi clanici federatisi per dar vita alla città), e si costituiva un collegio di interreges scelti tra i più autorevoli membri del senato. Ciascun interrex esercitava il potere per soli cinque giorni, così pochi per scongiurare ogni pulsione o tentativo di colpi di mano – trasmettendolo poi all’interrex successivo, e così via, al fine di dare il tempo necessario ai patres per raggiungere un compromesso accettabile sulla scelta del futuro re. Una volta designato, questi accompagnato soltanto dall’Augure saliva sulla vetta più alta, cioè l’arx capitolina, in attesa della manifestazione della volontà di Giove. Ottenutone il consenso, rivelatosi mediante auguria, i segni divini più importanti, interpretabili soltanto grazie all’assistenza del collegio augurale, integrata cioè la volontà umana dalla convergente grazia divina, il rex inauguratus scendeva verso il Comitium dove stava ad attenderlo trepidante il suo populus (exercitus). Qui ne avrebbe preso solenne possesso, attraverso la proclamazione del suo ruolo di capo politico, militare e religioso nella forma di una lex curiata de imperio (per una ricostruzione sulle implicazioni arcaiche più implicite v. Fiori 2019, 455 ss.).

10. Un congedo con qualche considerazione finale e un’inquietudine

La liturgia di incoronazione e consacrazione dei re medievali si spiega, dunque, assumendo come prospettiva d’analisi la strategia del Papato nella sua competizione con l’Impero romano i cui confini si erano ritirati sempre più a Est. Tuttavia, quello romano con capitale a Costantinopoli restava l’unico legittimo Impero nello scacchiere del Mediterraneo, a cui ancora i sovrani occidentali dei neonati regni guardavano per costruire la propria forza attraverso un riconoscimento internazionale. Ciò fu contrastato dalla Chiesa che cominciò a surrogare il riconoscimento imperiale con la grazia divina che si manifestava nel corso di una complessa liturgia con l’olio santo; emblematica è la leggenda costruita per la monarchia francese, per la quale è sufficiente, a questo punto, richiamare la spiegazione di Marc Bloch:

Si raccontava che, nel giorno del battesimo di Clodoveo, il sacerdote incaricato di portare gli olii santi si era trovato stretto fra la folla, che gli impediva di giungere in tempo; allora una colomba discesa dal cielo, aveva portato a san Remigio, in un’“ampolla”, ossia in una piccola fiala, il balsamo con cui doveva essere unto il principe franco: unzione sovrannaturale, nella quale si vedeva, a dispetto della storia, oltre che un atto battesimale, la prima consacrazione regia. Il “liquore” celeste – conservato nel suo flacone originale, a Reims, nell’abbazia di Saint-Rémi – era ormai destinato a servire in Francia a tutte le consacrazioni dei re. Quando e come nacque questo racconto? Il più antico autore che ce lo fa conoscere è Incmaro di Reims. Lo ha narrato diffusamente nella sua Vita Remigii, composta nell’877 o 878 (Bloch [1924] 2021, 208 s.).

È tempo di concludere, e semmai interrogarsi in ultimo sul senso di certe sopravvivenze. Posto che l’olio santo svolse la duplice funzione di costituire, da un canto, le fondamenta della legittimazione delle nuove monarchie nate a seguito della polverizzazione del potere imperiale nei territori occidentali e, dall’altro, l’autolegittimazione del potere religioso cristiano quale fonte di consacrazione del vero monarca per volontà divina, in un contesto internazionale confuso e magmatico, quale senso può ancora conservare, oggi, al di là di un valore di residuato liturgico? C’è bisogno nelle attuali società altamente secolarizzate di sovrani autorevoli perché su di loro scende la grazia di Dio? Forse c’è ancora bisogno di sovrani mediatori tra la sfera divina e quella umana? È soltanto la persistenza o la riemersione di arcaiche forme e rituali quale risposta a un bisogno dell’immaginario collettivo o ci potrebbe essere anche qualcos’altro?
Qualcuno potrebbe rispondere affermativamente, spiegando che la resistenza del rito liturgico dell’olio santo continuerebbe a porsi come segmento irrinunciabile di una grande tradizione capace di conservare memoria e identità in un’epoca di frammentazione, di crisi degli Stati nazionali; oppure come strumento per consentire ai regnanti un parziale recupero del potere loro eroso dalle democrazie parlamentari, oggi in evidente crisi di legittimazione popolare. E dal punto di vista filomonarchico la risposta avrebbe un senso politico ma insufficiente risulterebbe a giustificazione della conservazione della matrice squisitamente religiosa.

Dinanzi a simili dubbi, viene da azzardare ed estendere il perimetro dell’interrogativo di fondo: salvo riproporre nell’attuale temperie mondiale, con ardita ginnastica mentale, una rinnovata anaciclosi di polibiana memoria, hanno ancora un qualche senso le monarchie in sé in un’era di ferro delle tecnologie e tecnocrazie, causa dello svuotamento della politica e del modello istituzionale di democrazia rappresentativa? Non è necessario che io espliciti il mio punto di vista ancorché già chiaro, ma nessun sincero repubblicano non resterebbe impressionato dall’irresistibile fascino sprigionato dalle famiglie reali su larghissime masse popolari della vecchia, “democratica”, Europa.

Appendice. Le fonti

Fonte I | Const. Porph. De caerim. 1.92, 422-423, ed. Reiske

καὶ ὑποτελεσθέντος τοῦ ὅρκου τούτου, ἀνῆλθεν εἰς τὸ ἱππικὸν, καὶ εἰσελθὼν ἐν τῷ τρικλίνῳ, ἔνθα καθ’ ἱππικὸν ἔθος ἐστὶν προσκυνεῖν τοὺς συγκλητικοὺς, ἐφόρεσεν στιχάριν διβητήσιν αὐρόκλαβον καὶ ζωνάριν καὶ τουβία καὶ καμπάγια βασιλικὰ, καὶ εἰσῆλθεν εἰς τὸ κάθισμα γυμνός· τὰ δὲ στρατεύματα κάτω ἵσταντο ἐν τῷ στάματι, καὶ τὰς ἄστας καὶ τὰ σίγνα ἐπὶ τοῦ ἐδάφους εἶχον κεκλιμένα. ὁ δὲ δῆμος ἵστατο ἐν τοῖς βάθροις καὶ εὐφήμει. ἐσηκώθη οὖν ἐπάνω τοῦ σκουταρίου ἱστάμενος, καὶ ἀνελθὼν τῶν λαγκιαρίων καμπιδούκτωρ τὸ ἴδιον μανιάκιν ἐπέθηκεν εἰς τὴν κεφαλὴν αὐτοῦ. καὶ εὐθέως τὰ σίγνα ὀρθώθη, καὶ εὐφημήθη παρὰ τῶν στρατιωτῶν καὶ τῶν δημοτῶν. καὶ μετὰ τοῦτο κατῆλθεν ἐκ τοῦ σκουταρίου, καὶ εἰσῆλθεν πάλιν ἐν τῷ τρικλίνῳ, ἔνθα ἐφόρεσεν τὰ βασιλικὰ καὶ ἐκεῖ ὁ ἐπίσκοπος ἐποίησεν εὐχὴν, καὶ τὸ „Κύριε, ἐλέησον“ ἐλέχθη, καὶ περιέθηκεν αὐτῷ τὴν χλαμύδα τὴν βασιλικὴν, καὶ τὸν στέφανον τὸν διάλιθον, καὶ ὑποστρέψας αὖθις ἀνῆλθεν ἐν τῷ καθίσματι, καὶ ἠσπάσατο τὸν δῆμον, καὶ ἔκραξαν πάντες AUCUSTE, σεβαστέ [...]

Fonte II | Cic. De re publ. 2.42

Itaque ista aequabilitas atque hoc triplex rerum publicarum genus videtur mihi commune nobis cum illis populis fuisse. Sed, quod proprium est in nostra re publica, quo nihil possit esse praeclarius, id persequar, si potero, subtilius; quod erit eius modi, nihil ut tale ulla in re publica reperiatur. Haec enim, quae adhuc exposui, ita mixta fuerunt et in hac civitate et in Lacedaemoniorum et in Karthaginiensium, ut temperata nullo fuerint modo.

Fonte III | Vat. gr. 1298 5.50-53 

Τῶν τῆς πόλεως πάντων, ὦ Θωμάσιε, ταγμάτων οἱ πρωτεύοντες τρεῖς ἀμέλει καϑ᾽ ἕκαστον ὀνομαζόντων οὓς ἐκ τῶν ἀρίστων ἕκαστοι τῆς βασιλείας ἀξίους ἂν οἰηϑεῖεν, πρότερον ἐξομνύμενοι ἦ μὴν τὸ σφίσιν εὖ ἔχειν δοκοῦν οὕς τε νομίσειαν πρὸς τὴν κοινὴν σωτηρίαν ἐπιτηδείους ὀνομάζειν. [51] ὧν ὀνομασϑέντων, κοιναί τε εὐχαὶ τῆς πόλεως καὶ ἁγνισμοὶ πάνδημοι τριημέροιν μάλιστα ὁριζέσϑωσαν, μεϑ᾽ οὓς κλήρων ἐπὶ τοῖς ὠνομασμένοις παρὰ τοῖς ἱερεῦσιν ἔν τε ἱεροῖς οἴκοις εὐαγῶς τε καὶ κατὰ τὸν ϑεῖον νόμον τε καὶ τρόπον γιγνομένων, ἐφ ὃν ἂν ἔλϑοι ὁ κλῆρος ᾧ τε δώῃ ϑεός, ἔστω βασιλεύς· [52] οὕτω γὰρ τοῖς πολίταις μετείη τῶν κοινῶν τε καὶ τῷ ϑεῷ νέμοιτο τὸ πρόσφορον, παρ᾽ αὐτοῦ τε διδομένη ἡ βασιλαεία δοϑείη καὶ τοῦ βασιλέως ἀνάρρησις γίγνοιτο. [53] ταῦτα δὲ οἶμαι οὕτω γιγνόμενα δικαίως ἅμα καὶ δικαίας πόλεως ἀξίως περί τε τὸ ϑεῖον ἂν γίγνοιτο καὶ ἀνϑρώπους.

Fonte IV | Oros. Hist. adv. 6.20.4-7

De quo nostrae iustius fidelissimae observationis sacramento uberius nunc dicere nec ratio nec locus flagitat, ut et quaerentibus reservasse et neglegentibus non ingessisse videamur. Hoc autem fideliter commemorasse ideo par fuit, ut per omnia venturi Christi gratia praeparatum Caesaris imperium conprobetur. [5] Nam cum primum, C. Caesare avunculo suo interfecto, ex Apollonia rediens Urbem ingrederetur, hora circiter tertia repente liquido ac puro sereno circulus ad speciem caelestis arcus orbem solis ambiit, quasi eum unum ac potissimum in hoc mundo solumque clarissimum in orbe monstraret, cuius tempore venturus esset, qui ipsum solem solus mundumque totum et fecisset et regeret. [6] Deinde cum secundo, in Sicilia receptis a Pompeio et Lepido legionibus, xxx milia servorum dominis restituisset et quadraginta et quattuor legiones solus imperio suo ad tutamen orbis terrarum distribuisset ovansque Urbem ingressus omnia superiora populi Romani debita donanda, litterarum etiam monumentis abolitis, censuisset: in diebus ipsis fons olei largissimus, sicut superius expressi, de taberna meritoria per totum diem fluxit. Quo signo quid evidentius quam in diebus Caesaris toto Orbe regnantis futura Christi nativitas declarata est? Christus enim lingua gentis eius, in qua et ex qua natus est, unctus interpretatur. [7] Itaque cum eo tempore, quo Caesari perpetua tribunicia potestas decreta est, Romae fons olei per totum diem fluxit: sub principatu Caesaris Romanoque imperio per totum diem, hoc est per omne Romani tempus imperii, Christum et ex eo Christianos, id est unctum atque ex eo unctos, de meritoria taberna, hoc est de ospita largaque Ecclesia, affluenter atque incessabiliter processuros restituendosque per Caesarem omnes servos, qui tamen cognoscerent dominum suum, ceterosque, sine domino invenirentur, morti supplicioque dedendos, remittendaque sub Caesare debita peccatorum in ea urbe, in qua spontaneum fluxisset oleum, evidentissima his, qui Prophetarum voces non audiebant, signa in caelo et in terra prodigia prodiderunt.

Fonte V | Svet. Aug. 94.1-12, 95

Et quoniam ad haec ventum est, non ab re fuerit subtexere, quae ei prius quam nasceretur et ipso natali die ac deinceps evenerint, quibus futura magnitudo eius perpetua felicitas sperari animadvertique posset. [2] Velitris antiquitus tacta de caelo parte muri, responsum est eius oppidi civem quandoque rerumpotiturum; qua fiducia Veliterni et tunc et postea saepius paene ad exitium sui cum populo R. belligeraverant; sero tandem documentis apparuit ostentum illud Augusti potentiam portendisse. [3] Auctor est Iulius Marathus, ante paucos quam nasceretur menses prodigium Romae factum publice, quo denuntiabatur regem P. R. naturam parturire; senatum exterritum censuisse, ne qui sillo genitus educaretur; eos qui gravidas uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne senatus consultum ad aerariumdeferretur. [4] In Asclepiades Mendetis Theologumenon libris lego, Atiam, cum sollemne Apollinis sacrum media nocte venisset, posita in templo lectica, dum ceterae matronae domum irent, obdormisse; draconem repente irrepsisse ad eam pauloque egressum; illam expergefactam quasi a concubitu mariti purificasse se; et statim in corpore eius extitisse maculam velut picti draconis nec potuisse umquam exigi, adeo ut mox publicis balineis perpetuo abstinuerit; Augustum natum mense decimo et ob hoc apollinis filium existimatum. Eadem Atia, prius quam pareret, somniavit intestina sua ferri ad sidera explicarique per omnem terrarum et caeli ambitum. Somniavit et pater Ocatvius utero Atiae iubar solis exortum. [5] Quo natus est die, cum de Catilinae coniuratione ageretur in curia et Octavius ob uxoris puerperium serius affuisset, nota ac vulgata res est P. Nigidium comperta morae causa, ut horam quoque partus acceperit, affirmassr dominum terrarum orbi natum. Octavio postea, cum per secreta Thraciae exercitum duceret, in Liberi patris luco barbara caerimonia de filio consulenti, idem affirmatum est a sacerdotibus, quod infuso super altaria mero tantum flamma emicuisset, ut supergressa fastigium templi ad caelum usque ferretur, unique omnino Magno Alexandro apud easdem aras sacrificanti simile provenisset ostentum. [6] Atque etiam sequenti statim nocte videre visus est filium mortali specie ampliorem cumfulmine et sceptro exuviisque Iovis Optimi Maximi ac radiata corona super laureatum currum, bis senis equis candore eximio trahentibus. Infans adhuc, ut scriptum apud C. Drusum extat, repositus vespere in cunas a nutricula loco plano, postera luce non comparuit diuque quaesitus tandem in altissima turri repertus est iacens contra solis exortum. [7] Cum primum fari coepisset, in avito suburbano obstrepentis forte ranas silere iussit, atque ex eo negantur ibi ranae coaxare. Ad quartum lapidem Campanae viae in nemore prandenti ex inproviso aquila panem ei e manu rapuit et, cum altissime evolasset, rursus ex inproviso leniter delapsa reddidit. [8] Q. Catulus post dedicatum Capitolium duabus continuis noctibus somniavit: prima, Iovem Optimum Maximum e praetextatis compluribus circum aram ludentibus unum secrevisse atque in eius sinum signum rei p. quod manu gestaret reposuisse; at insequenti, animadvertisse se in gremio Capitolini Iovis eundem puerum, quem cum detrahi iussisset, prohibitum monitu dei, tamquam is ad tutelam rei p. educaretur; ac die proximo obvium sibi Augustum, cum incognitum alias haberet, non sine admiratione contuitus simillimum dixit puero, de quo somniasset. Quidam prius somnium Catuli aliter exponunt, quasi Iuppiter, compluribus praetextatis tutorem a se poscentibus, unum ex eis demonstrasset, ad quem omnia desideria sua referrent, eiusque osculum delibatum digitis ad os suum rettulisset. [9] M. Cicero C. Caesarem in Capitolium prosecutus somnium pristinae noctis familiaribus forte narrabat: puerum facie liberali demissum e caelo catena aurea ad fores Capitoli constitisse eique Iovem flagellum tradidisse; deinde repente Augusto viso, quem ignotum plerisque adhuc avunculus Caesar ad sacrificandum acciverat, affirmavit ipsum esse, cuius imago secundum quietem sibi obversata sit. [10] Sumenti virilem togam tunica lati clavi resuta ex utraque parte ad pedes decidit. Fuerunt qui interpretarentur, non aliud significare, quam ut si ordo cuius insigne id esset quandoque ei subiceretur. [11] Apud Mundam Divus Iulius castris locum capiens cum silvam caederet, arborem palmae repertam conservari ut omen victoriae iussit; ex ea continuo enata suboles adeo in paucis diebus adolevit, ut non aequiperaret modo matricem, verum et obtegeret frequentareturque columbarum nidis, quamvis id avium genus duram et asperam frondem maxime vitet. Illo et praecipue ostento motum Caesarem ferunt, ne quem alium sibi succedere quam sororis nepotem vellet. [12] In secessu Apolloniae Theogenis mathematici pergulam comite Agrippa ascenderat; cum Agrippae, qui prior consulebat, magna et paene incredibilia praedicerentur, reticere ipse genituram suam nec velle edere perseverabat, metu ac pudore ne minor inveniretur. Qua tamen post multas adhortationes vix et cunctanter edita, exilivit Theogenes adoravit eum. Tantam mx fiduciam fati Augustus habuit, ut thema suum vulgaverit nummumque argenteum nota sideris Capricorni, quo natus est, percusserit. 95: Post necem Caesaris reverso ab Apollonia et ingrediente eo urbem, repente liquid ac puro sereno circulus ad speciem caelestis arcus orbem solis ambit ac subindex Iuliae Caesaris filiae monimentum fulmine ictum est. Primo autem consulatu et augurium capienti duodecim se vultures ut Romulo ostenderunt et immolanti omnium victimarum iocinera replicata intrinsecus ab ima fibra parverunt, nemine peritorum aliter coiectante quam laeta per haec et magna portendi.

Svet. Aug. 96.1-2

Quin et bellorum omnium eventus ante praesensit. Contractis ad Bononiam triumvirorum copiis, aquila tentorio eius supersedens duos corvos hinc et inde infestantis afflixit et ad terram dedit, notante omni exercitu futuram quandoque inter collegas discordiam talem qualis secuta est, atque exitum praesagiente. Apud Philippos Thessalus quidam de futura victoria nuntiavit auctore Divo Caesare, cuius sibi species itinere avio occurrisset. [2] Circa Perusiam sacrificio non litanti cum augeri hostias imperasse tac subita eruptione hostes omnem rei divinae apparatum abstulissent, constitit inter haruspices, quae periculosa et adversa sacrificanti denuntiata essent, cuncta in ipsos recasura qui exta haberent; neque aliter evenit. Pridie quam Siciliensem pugnam classe committeret, deambulanti in litore piscis e mari exilivit et ad pedes iacuit. Apud Actium descendenti in aciem asellus cum asinario occurrit: homini Eutychus, bestiae Nicon erat nomen; utrusque simulacrum aeneum victor posuit in templo, in quod castrorum suorum locum vertit.

Svet. Aug. 97.1-3

Mors quoque eius, de qua dehinc dicam, divinitasque post mortem evidentissimis ostentis praecognita est. Cum lustrum in campo Martio magna populi frequentia conderet, aquila eum saepius circumvolavit transgressaque in vicinam aedem super nomen Agrippae ad primam litteram sedit; quo animadverso vota, quae in prximum lustrum suscipi mos est, collegam suum Tiberium nuncupare iussit; nam se, quanquam conscriptis paratisque iam tabulis, negavit suscepturum quae non esset soluturus. [2] Sub idem tempus ictu fulminis ex inscriptione statuae eius prima nominis littera effluxit; responsum est, centum solos dies posthac victurum, quem numerum C littera notaret, futurumque ut inter deos referretur, quod Aesar, id est reliqua pars Caesaris nomine, Etrusca lingua deus vocaretur. [3] Tiberium igitur Illyricum dimissurus et Beneventum usque prosecuturus, cum interpellatores aliis atque aliis causis in iure dicendo detinerent, exclamavit, quod et ispum mox inter omnia relatum est: “non, si omnia morarentur, amplius se posthac Romae futurum”; atque itinere incohato Asturam perrexit et inde praeter consuetudinem de nocte ad occasionem aurae evectus causam valitudinis contraxit ex profluvio alvi.

Fonte VI | Plin. Nat. hist. 2.23.93-94

Cometes in uno totius orbis loco colitur in templo Romae, admodum faustus divo Augusto iudicatus ab ipso, qui incipiente eo apparuit ludis, quos faciebat Veneri Genetrici non multo post obitum patris Casaris in collegio ab eo instituto. [94] Namque his verbis in gaudium prodidit: “Ipsis ludorum meorum diebus sidus crinitum per septem dies in regione caeli sub septemtrionibus est conspectum. Id oriebatur circa undecimam horam diei clarumque et omnibus e terris conspicuum fuit: eo sidere significari vulgus credidit Caesaris animam inter deorum immortalium numina receptam, quo nomine id insigne simulacro capitis eius, quod mox in foro consecravimus adiectum est”. Haec ille in publicum; interiore gaudio sibi illum natum seque in eo nasci interpretatus est. Et, si verum fatemur, salutare id terris fuit.

Fonte VII | SEG IV, 1929, nr. 490 (= OGIS 458, 40)

ἔδοξεν τοῖς ἐπὶ τῆς Ἀσίας | Ἕλλησιν, γνώμῃ τοῦ ἀρχιερέως Ἀπολλωνίου τοῦ Μηνοφίλου Ἀζανίτου· | ἐπε[ιδὴ ἡ ϑείως] διατάξασα τὸν βίον ἡμῶν πρόνοια σπουδὴν εἰσεν[ενκα|μ]ένη καὶ φιλοτιμίαν τὸ τεληότατον τῶι βίωι διεκόσμη[σεν ἀγαϑὸν] | ἐνενκαμένη τὸν Σεβαστόν, ὃν εὐεργεσίαν ἀνϑρώ[πων] ἐπλή||ρωσεν ἀρετῆς, < ὥ>σπερ ἡμεῖν καὶ τοῖς μεϑ᾽ ἡ[μᾶς σωτῆρα χαρισαμένη] | τὸν παύσαντα μὲν πόλεμον, κοσμήσοντα [δὲ εἰρήνην, ἐπιφανεὶς δὲ] | ὁ Καῖσαρ τὰς ἐλπίδας τῶν προλαβόντων [εὐαγγέλια πάντων ὑπερ]|έϑηκεν, οὐ τοὺς πρὸ αὐτοῦ γεγονότ[ας εὐεργέας ὑπερβα]|λόμενος, ἀλλ᾽ οὐδ᾽ ἐν τοῖς ἐσομένοις ἐλπίδ[α ὑπερβολῆς], || ἦρξεν δὲ τῶν δι᾽ αὐτὸν εὐανγελί[ων ἡ γενέϑλιος ἡμέ]ρα | τοῦ ϑεοῦ, τῆς δὲ Ἀσίας ἐψηφισμένης ἐν [ἐπὶ ἀνϑυ]πάτοῦ | Λευκίου Οὐολκακίου Τύλλου, γραμματεύοντος Παπ[ίωνος Διοσιεριτοῦ] | τῶι μεγίστας γ᾽ εἰς τὸν ϑεὸν καϑευρόντι τειμὰς εἶναι στέφανον, | Παῦλλος Φάβιος Μάξιμος ὁ ἀνϑύπατος τῆς ἐπαρχήας εὐεργέτης || ἀπὸ τῆς ἐκείνου δεξιᾶς καὶ [γ]νώμης ἀπεσταλμένος ξὺν τοῖς ἄλλοις | οἷς εὐεργέτησεν τὴν ἐπαρχήαν, ὧν εὐεργέσιῶν τὰ μεγέϑεῖν οὐδεὶς ἂν ἐφίκοιτο, καὶ τὸ μέχρι νῦν ἀγνοηϑὲν ὑπὸ Ἑλλή|νων εἰς τὴν τοῦ Σεβαστοῦ τειμὴν εὕρετο, τὸ ἀπὸ τῆς ἐκείνου γενέ|σεως ἄρχειν τῷ βίῳ τὸν χρόνον· διὸ τύχῃ ἀγαϑῇ καὶ ἐπὶ σωτηρίᾳ δεδό||χϑαι τοῖς ἐπὶ τῆς Ἀσίας Ἕλλησι, ἄρχειν τὴν νέαν νουμηνίαν πάςα[ις] ταῖς πόλεσιν τῇ πρὸ ἐννέα καλανδῶν Ὀκτωβρίων, ἥτις ἐστὶν γενέ|τλιος ἡμέρα τοῦ Σεβαστοῦ [Ehremberg, Jones 1955, nr. 98 (b)].

Fonte VIII | Oros. Hist. adv. 6.22.1-3

Itaque anno ab Urbe condita DCCLII Caesar Augustus ab oriente in occidentem, a septentrione in meridiem ac per totum Oceani circulum cunctis gentibus una pace compositis, Iani portas tertio ipse tunc clausit. [2] Quas ex eo per duodecim fere annos quietissimo semper obseratas otio ipsa etiam robigo signavit, nec prius unquam nisi sub extrema senectute Augusti pulsatae Atheniensium seditione et Dacorum commotione patuerunt. [3] Clausis igitur Iani portis rempublicam, quam bello quaesiverat, pace enutrire atque amplificare studens leges plurimas statuit, per quas humanum genus libera reverentia disciplinae morem gereret.

Fonte IX | Oros. Hist. adv. 6.22.5-8

Igitur eo tempore, id est eo anno quo firmissimam verissimamque pacem ordinatione Dei Caesar composuit, natus est Christus, cuius adventui pax ista famulata est, in cuius ortu audientibus hominibus exultantes angeli cecinerunt “Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. Eodemque tempore hic, ad quem rerum omnium summa concesserat, dominum se hominum appellari passus est, immo non ausus, quo verus dominus totius generis humani inter homines natus est. [6] Eodem quoque anno tunc primum idem Caesar, quem his tantis mysteriis praedestinaverat Deus, censum agi singularum ubique provinciarum et censeri omnes homines iussit, quando et Deus homo videri et esse dignatus est. Tunc igitur natus est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est. [7] Haec est prima illa clarissimaque professio, quae Caesarem omnium principem Romanosque rerum dominos singillatim cunctorum hominum edita adscriptione signavit, in qua se et ipse, qui cunctos homines fecit, inveniri hominem adscribique inter homines voluit: quod penitus numquam ab Orbe condito atque ab exordio generis humani in hunc modum ne Babylonio quidem vel Macedonico, ut non dicam minori cuiquam regno concessum fuit. [8] Nec dubium, quin omnium cognitioni fidei inspectionique pateat, quia Dominus noster Iesus Christus hanc urbem nutu suo auctam defensamque in hunc rerum apicem provexerit, cuius potissime voluit esse cum venit, dicendus utique civis Romanus census professione Romani.

Fonte X | Giovanni Malala Chronografia 10.298 ss. trascritta in Mirabilia urbis Romae 11. De iussione Octaviani imperatoris et responsione Sibille

Tempore Octaviani imperatoris, senatores videntes eum tante pulchritudinis quod nemo in oculos eius intueri poterat et tante prosperitatis et pacis quod totum mundum sibi tributarium fecerat, dicunt: “Te adorare volumus quia deitas est in te; si hoc non esset, non tibi omnia essent prospera”. Qui renitens, indutias postulavit, ad se sibillam Tiburtinam vocavit, cui quod senatores dixerant recitavit. Que spatium trium dierum petiit, in quibus artum jejunium operata est. Post tertium diem respondit imperatori: “Hoc pro certo erit, domine imperator: Iudicii signum, tellus sudore madescet; e celo rex adveniet per secla futurus, scilicet in carne presens, ut judicet orbem” et cetera que secuntur. Ilico apertum est celum et nimius splendor irruit super eum; vidit in celo quandam pulcerrimam virginem stantem super altare, puerum tenentem in bracchiis. Miratus est nimis et vocem dicentem audivit: “Hec ara filii Dei est”. Qui statim in terram procidens adoravit. Quam visionem retulit senatoribus et ipsi mirati sunt nimis. Hec visio fuit in camera Octaviani imperatoris, ubi nunc est ecclesia sancte Marie in Capitolio; id circo dicta est Sancta Maria Ara celi.

Bibliografia
Nota sulla cometa del 23 settembre del 44 a.C.

Si citano qui i principali studi sulla quaestio della cometa: H. Wagenvoort, Vergil’s vierte Ekloge und das Sidus Julium, Amsterdam 1929; G. Pesce, Sidus Iulium, “Historia” 7 (1933), 402 ss.; K. Scott, The Sidus Iulium and the Apotheosis of Caesar, “Classical Philology” 36 (1941), 257 ss.; I. Hahn, Zur Interpretation der Vulcatius-Prophetie, “Acta antiqua Academiae scientiarium Hungaricae” 16 (1968), 239-246; S. Weinstock, Divus Julius, Oxford 1971, 370 ss.; D. Pietrusinski, Éléments astraux dans l’apothéose d’Octavien Auguste chez Virgile et Horace, “Eos” 68 (1980), 267 ss.; I. Hahn, Die augusteischen Interpretationen des sidus Julium, “Acta classica Universitatis Scientiarum Debreceniensis” 19 (1983), 57 ss.; P. White, Julius Caesar in Augustan Rome, “Phoenix” 42 (1988), 334 ss.; W. Orth, Verstorbene werden zu Sternen: geistesgeschichtlicher Hintergrund und politiche Implikationen Katasterimos in der frühen römischen Kaiserzeit, “Laverna” 5 (1994), 148 ss.; M. Clauss, Kaiser und Gott. Herrscherkult im römischen Reich2, München-Leipzig 2001, 57 s.; M.F. Williams, The “sidus Iulium”, the Divinity of Men, and the Golden Age in Virgil’s “Aeneid”, “Leeds International Classical Studies” 2 (2003), 1-29; M. Koortbojian, The Divinisation of Caesar and Augustus. Precedents, Consequences, Implications, Cambridge 2013, praecipue 27 s.; B. Pandey Nandini, Caesar’s Comet, The Julian Star, and the Invention of Augustus, “Transactions and Proceedings of the American Philological Association” 143 (2013), 405 ss.; M. Citroni, Autocrazia e divinità: la rappresentazione di Augusto e degli imperatori del primo secolo nella letteratura contemporanea, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, 239 ss., 261 ss.; G. Cresci Marrone, Fra sidus e sol: le alterne vicende del capitale simbolico augusteo in età tardo antica, in AA.VV., I disegni del potere, il potere dei segni. Atti dell’incontro di Studio, Catania 20-21 ottobre 2016 (a cura di C. Giuffrida, M. Cassia), Ragusa 2017, 11 ss.; C. Giuffrida, Ab oriente lux: gli inizi di una ‘splendida’ carriera, in AA.VV., I disegni del potere, il potere dei segni. Atti dell’incontro di Studio, Catania 20-21 ottobre 2016 (a cura di C. Giuffrida, M. Cassia), Ragusa 2017, 39 ss. 

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English abstract

Drawing on the research of Marc Bloch and Ernst H. Kantorowicz, the paper investigates the origins of anointing (holy oil) in the investiture of new kings in the post-Roman West, a rite that later penetrated the Eastern liturgy of imperial investiture.

keywords | Roman Empire; Kingship; Holy oil; Investiture.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Orazio Licandro, Odium regni, fons olei e reges uncti da Augustus alla res publica christianorum. Spigolature tra il sacro e il profano (giuridico), “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 65-97 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.202.0003