"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

216 | settembre 2024

97888948401

IconoΔramma. Saggio metodologico

Miti plastici, pittura vascolare e scene teatrali in Grecia e in Magna Grecia (V-IV sec. a.C.)

Maddalena Bassani, Anna Beltrametti, Concetta Cataldo, Maria Luisa Catoni, Monica Centanni, Paolo Biagio Cipolla, Alessandro Grilli, Roberto Indovina

English abstract

I. Progetto IconoΔramma
II. L'inerzia iconografica
III. Dal mito al dramma, dal mito all’immagine. E ritorno

I. Progetto IconoΔramma

IconoΔramma è il titolo scelto per inaugurare la ripresa di un filone di studi incentrato sul teatro attico e le sue ricadute nell’iconografia vascolare in Grecia e Magna Grecia – e in minor misura nel mondo romano e nelle altre culture del mediterraneo antico. Il tema non è nuovo nell’ambito delle ricerche pubblicate nella rivista (si vedano i contributi pubblicati in “Engramma”: n. 107, giugno 2013; n. 183, luglio/agosto 2021; n. 195, settembre/ottobre 2022), ma il profilo e le potenzialità di questo filone di ricerca meritano uno spazio dedicato perché crediamo sia di capitale importanza. Esso ci porta dritti al centro del sistema culturale antico e alla relazione tra tradizione orale, testo e immagine. Si tratta di indagare gli impulsi energetici e le modalità in base a cui la natura plastica del mito trova nuove forme espressive nella pratica pittorica e sulla scena teatrale; i meccanismi, attraverso i quali nascevano, si affermavano e si diffondevano le innovazioni iconografiche. L’ipotesi, secondo la quale il teatro può aver generato delle innovazioni iconografiche nell’ambito della produzione vascolare esercitando un’inattesa – ma indiscutibile – influenza sulle produzioni artigianali, è stata indagata da una tradizione di studi ormai secolare; eppure, c’è ancora molto altro da fare: dalla definizione di un approccio storicamente accettabile alla definizione di un linguaggio critico condiviso; dallo studio nel merito dei singoli temi a una sintesi soddisfacente. L’invito a colmare tali vulnera e ad abbandonare un percorso costellato da situazioni, posizioni e vedute troppo confortevoli, ci ha spinto a reintegrare il gruppo ‘costituente’ del Seminario Pots&Plays con nuove forze e giovani leve, cresciute e formatesi sulle linee metodologiche che negli anni lo stesso gruppo di ricerca aveva fornito. L’incontro e il dialogo di questa nuova generazione di studiosi ha consentito il superamento delle posizioni e dei traguardi di ricerca ottenuti con Pots&Plays e Filologia delle immagini. Grazie alle due precedenti tappe della storia degli studi sul tema – fondamentali per giungere alla definizione di nuove prospettive di ricerca – si è arrivati, dunque, al desiderio di mettere da parte le posizioni concettuali attenuate e logocentriche per mettere in evidenza in maniera incisiva e preponderante il ruolo dell’immagine, come espressione di sintesi di un percorso che unisce diversi fattori che partono sì dalla forza evocativa dell’azione drammaturgica, ma che si distaccano da quegli elementi che erano stati punti nevralgici degli studi precedenti. Ad esempio, per quanto possa essere affascinante e consolatorio immaginare di colmare le lacune di conoscenza sui modi della rappresentazione teatrale antica e provare a ricostruire le parti della tradizione testuale che non ci sono pervenute tramite la lettura di scene vascolari, si è compreso che questa è una strada fuorviante: ciò che appare sui vasi non è l’illustrazione di una tragedia ma l’inserimento nella naturale trasmissione della tradizione mitografica di un cuneo, un mito rimaneggiato dall’intervento drammaturgico, che in alcuni casi riesce a modificare per sempre l’iconografia di una figura mitologica, in altri casi resta a livello di interferenza, vivendo per pochi decenni nell’immaginario artistico e produttivo delle botteghe che – a noi moderni! – sembrano produrre dei pezzi unici, per poi ricomporsi nello schema conosciuto o evolvere ancora in altre forme. Il teatro sotto la potenza dell’azione poetica dei drammaturghi ha la straordinaria capacità di creare nuovo materiale mitico, probabilmente grazie alla stessa malleabilità insita nel modo di pensare la divinità del mondo greco, e il nuovo mito diventa oggetto delle scene vascolari, configurandosi come mito teatrale a tutti gli effetti. Altro elemento che in questa nuova stagione di studi ci sembra fondamentale è la comparazione dei codici semiotici: in che modo il codice teatrale e quello iconografico si sviluppano? È possibile intravedere una sintassi di tipo narrativo nelle scene vascolari? Con riferimento a una sintassi, tuttavia, di tipo figurativo e non testuale, in cui lo spazio a disposizione del pittore è chiuso dalla forma del vaso, in cui i contenuti mitici del mito teatrale (pur appartenendo a uno stesso contesto, a una saga o a un mythos stratificato attorno a un eroe o a una divinità) sono raffigurati come moduli a sé stanti, talvolta tendendo verso una scena apicale e interagendo tra loro, talvolta restando singoli elementi – o quadretti – di una narrazione, che ha a che fare con il contesto generale del mito raffigurato, ma che in termini logocentrici tende a porre mille dubbi e ipotesi interpretative sulla suggestione teatrale della scena. La questione, se valutata da una prospettiva centrata sulle immagini, risponde invece ad altre logiche molto meno filologiche e più spinte verso l’archeologia della produzione: quali sono le capacità pittoriche dell’artigiano; quante energie e tentativi ha investito il pittore per realizzare tali immagini; se ha attinto a un repertorio di bottega per riprodurre la scena aggiungendo tanti e tali dettagli nuovi per realizzare il prodotto o si è lanciato – rischiando in termini di riuscita e logiche di mercato – in una raffigurazione talmente innovativa da risultare poco accettabile per la propria committenza, tanto da non ripeterla nuovamente. Tra le nuove domande da porsi è essenziale aprire un focus sui contesti e le destinazioni d’uso. La maggior parte dei vasi – almeno quelli di produzione italiota – che conservano il mito teatrale proviene da contesti funerari. Ma questo contesto di rinvenimento è indice di una particolare destinazione d’uso – e quindi di una scelta proveniente dalla committenza – o piuttosto è soltanto frutto del caso? Su questa domanda il gruppo di ricerca si è posto nuovi interrogativi e ha mobilitato altre discipline come l’informatica, la statistica e la matematica combinatoria. Non è più sufficiente suggerire alcune ipotesi in modo implicito; è necessario impiegare i record numerici relativi ai ratei di sopravvivenza, integrandoli con una gestione informatizzata che, attraverso l’analisi di grandi quantità di dati, fornisca il numero effettivo di vasi con miti teatrali e la loro distribuzione geografica. A tale analisi è importante affiancare questioni di natura iconologica per tentare di spiegare la persistenza di tali soggetti e colmare la lacuna interpretativa riguardante la ripresa e la sopravvivenza del mito teatrale nel mondo magnogreco. Ciò che potrebbe apparire come un distacco dal contesto puramente filologico e drammaturgico, in realtà si allinea con l’obiettivo di esaminare, mito per mito, il percorso che esso compie, la sua conformazione originaria prima dell’intervento teatrale – e come e in quali forme è stato plasmato dall’estro artistico del drammaturgo. Va notato che la ricerca, in tal senso, muove esclusivamente da singoli casi di studio e ognuno di essi poco interagisce con un confronto generale con l’opera dell’autore, ricorrendo talvolta all’iconografia vascolare per colmare le lacune e integrare i testi irrimediabilmente perduti. Riteniamo opportuno, inoltre, porre l’accento sulle molteplici forme di trasmissione del mito risvegliato dall’intervento drammaturgico, dall’oralità ad altre espressioni artistiche che hanno contribuito a perpetuare il mito nella forma e nella variante di tipo teatrale. Concentrarsi su un problema teorico, ovvero in che modo si attua il processo di trasformazione dal testo all’immagine – dando per accertato che il testo drammatico è in qualche modo la fonte e le scene vascolari il prodotto, il punto di arrivo – potrebbe rappresentare lo spunto iniziale per avviare una ricerca mirata: il processo attraverso il quale si generano quelle immagini, infatti, è quello che noi ancora non riusciamo a definire in modo esatto. Come noto, il vecchio sistema immaginava in maniera molto semplice un meccanismo attraverso il quale il pittore dipingeva quasi col testo in mano. Il meccanismo attraverso cui questo passaggio si genera è un problema teorico che richiede uno studio specifico: prendendo un certo numero di casi significativi (tragedia e immagini, tragedia frammentaria ma con frammenti significativi e relative testimonianze, casi in cui immagini sono hapax iconografici, tipologie differenti) per cercare di capire, partendo dal mito che è la fonte originale e i vasi che ne sono il prodotto, potremmo provare a indagare il meccanismo con la consapevolezza che si tratta necessariamente di un processo sociale complesso e che non può essere risolto, in effetti, nel modo tradizionale. Non si può pensare a una derivazione diretta come facevano i filologi ottocenteschi, dal momento che il pittore è un artista autonomo che raffigura i soggetti in base ai desideri del committente e alla propria esperienza, che comprende sicuramente l’immaginario collettivo, probabilmente attraverso la visione diretta di alcuni spettacoli, ma anche altro, che a volte sfugge alle nostre capacità di analisi. Si potrebbero provare ad applicare dei modelli teorici di partenza, come l’esempio dell’effetto Biancaneve (Rebaudo 2017, 1205-1218) per cui la tragedia creerebbe un alone di popolarità su determinate situazioni, un orizzonte di attesa da parte del pubblico e quindi lo sforzo del ceramografo di venire incontro a quel preciso orizzonte di attesa. Questo, ovviamente, è solo un modello, ma ce ne potrebbero essere altri, in linea con i meccanismi culturali della formazione delle immagini e compatibilmente con gli studi relativi al tema ascrivibili alla sezione IconoΔramma avviata su Engramma. L’evoluzione delle immagini seguiva dunque l’evoluzione dei miti stessi. I pittori potevano essere ispirati da nuove opere poetiche o teatrali, creando immagini che offrivano nuove intuizioni sul significato di un mito o sulle relazioni tra i personaggi mitologici. Inoltre, rappresentare i miti in contesti familiari al pubblico poteva aggiungere immediatezza ed emozione, facendo apparire gli eroi come persone comuni e viceversa. Nell’interessante lavoro di Katharina Lorenz del 2016, i processi di formazione dell’immagine e la sua ricezione sono indagati attraverso un’analisi dettagliata di alcune immagini classiche del mito e di fonti testuali (cfr. Lorenz 2006, 243-258, in cui si concentra sul rapporto tra pitture vascolari e testi teatrali). La studiosa tenta, attraverso delle sperimentazioni sulla base di una selezione di casi studio, di delineare come la narrazione mitologica sia stata tradotta in immagini visive, evidenziando le strategie usate dai pittori per rendere vividi i racconti. Approcci teorici alle immagini (in particolare iconologia, semiotica e visual studies) per provare a dimostrare da quali influenze derivano i significati che riusciamo a ricavare dall’arte antica. La pittura vascolare greca, in particolare, mostra come le immagini siano create per essere facilmente leggibili e riconoscibili dal pubblico.
 

II. L'inerzia iconografica

Con l’espressione inerzia iconografica si fa riferimento a quella tendenza delle immagini e dei motivi visuali a persistere e a diffondersi nel tempo e nello spazio, indipendentemente dalle loro fonti originarie. Anche di fronte ad esempi di relazione tra pittura vascolare e testi teatrali che sembrano patenti (è il caso dei vasi riferibili alla scena delfica di Eumenidi o alla raffigurazione dell’atto finale di Medea), bisogna tuttavia considerare che l’eventuale dipendenza diretta è l’ipotesi limite (e sarà più l’eccezione che la regola). In altre parole, anche in presenza di chiari indicatori di una relazione che pare diretta, la fonte teatrale è spesso fondata su una memoria filtrata dall’immaginario collettivo – o dal repertorio culturale delle conoscenze condivise – più che trattabile come una citazione vera e propria. Innanzitutto, data la parzialità dei testi preservatici dalla tradizione, è opportuno ribadire che non possiamo stabilire se il tragediografo autore del dramma a noi noto sia stato effettivamente il primo a inventare, integrare o rielaborare quella specifica variante; quando una particolare scena o effetto drammaturgico colpiva in modo profondo l’immaginario del pubblico (si pensi appunto al carro di Medea o al seno di Clitemnestra), quella immagine, originariamente teatrale, per la sua potenza icastica poteva diventare facilmente un topos ed entrare come tale nel repertorio mitografico, senza perciò dover essere strettamente e necessariamente collegabile alla versione teatrale. Un esempio dell’inerzia iconografica a partire da un modello eminente è approfondito ad esempio in S. Woodford, Images of Myth in Classical Antiquity, Cambridge University Press, Cambridge 2003, 4-9: nel rappresentare il sacrificio di Ifigenia il pittore Timante (la notizia è in Plin. NH XXXV, 73) dipinge Agamennone col capo velato, a significare l’inesprimibilità del suo dolore. Scelta eccezionale che nella tradizione iconografica del sacrificio di Ifigenia continuerà a essere riproposta come un elemento acquisito ormai nel repertorio. Rimane il fatto però che i vasi che riproducono varianti del mito risvegliate o addirittura introdotte dalla tragedia possono appunto rappresentare un’eccezione che va comunque indagata o spiegata: se il vaso di Medea con il carro del Sole rappresenta un esempio in questo senso, rimane invece un problema aperto quello rappresentato dalla lekythos palermitana di Ifigenia (Palermo, Museo Archeologico Regionale Antonio Salinas, 1886), attribuita a Duride e databile probabilmente entro il primo decennio del V secolo a.C. Del soggetto Ifigenia, gli autori sottolineano però la relativamente scarsa ricorrenza iconografica e considerano le forti differenze di questo vaso e della più tarda oinochoe del Pittore di Shuvalov (Kiel, Kunsthalle zu Kiel, Antikensammlung, B 538), databile intorno al 430-420 a.C., rispetto al cratere apulo di Londra attribuito al Pittore dell’Ilioupersis (London, British Museum, F 159). La lekythos e l’oinochoe evocano chiaramente una situazione di guerra, mentre nella scena del cratere il coltello rituale, la machaira, sostituisce la spada e la sovrapposizione grafica di Ifigenia e della cerva allude alla sostituzione animale con maggiore evidenza rispetto all’immagine di Artemide che regge in mano una piccola cerva raffigurata sull’oinochoe. Tale iconografia coincide con quella di un’Ifigenia sacrificata recalcitrante e non sostituita dalla cerva, la stessa figura che si afferma con Pindaro (P. XI 17-37; data più probabile 474 a.C.) e nella parodos di Agamennone nel 458 a.C., la sua versione più illustre. La sequenza farebbe pensare più che a una dipendenza diretta di una rappresentazione dall’altra, all’affermarsi di un motivo legato a una versione meno nota del mito atridico o a una innovazione vera e propria sull’onda di cambiamenti culturali o di un vulnus storico importante.

III. Dal mito al dramma e all’immagine. E ritorno

Lo studio dei processi di relazione tra testi teatrali e immagini vascolari apre a un ripensamento generale delle dinamiche proprie del mito: a fronte della visione genealogica ancorata a un’idea di intertestualità forte, in cui ciascun testo dialoga con altri testi in un rapporto serrato, lineare ed esclusivo, ci sembra più opportuno pensare a una diffusione più sfumata delle ‘storie’ a partire da cui venivano create le trame drammatiche e i soggetti delle rappresentazioni pittoriche. Le dinamiche del mito diventano forse più chiare se pensate come un flusso percorso da movimenti ondulatori, che oscillano continuamente tra un estremo di testualità molto definita (i testi poetici, le messe in scena, le rappresentazioni iconografiche) e un estremo opposto sostanziato di discorso informale (Grilli 2021, 102-107). In questa prospettiva il mito non dà luogo a reti di nodi, in cui ciascun nodo rappresenta un testo e ciascuna stringa rappresenta il legame certo e diretto con gli altri testi-nodi: la natura del mito è più simile al tracciato di una costellazione, dove intorno a ciascun punto di irraggiamento luminoso non si trovano stringhe lineari, ma aloni. Intorno ai testi tragici, ad esempio, c’è l’alone delle innumerevoli produzioni discorsive che essi possono (devono) aver occasionato. La rilevanza degli agoni teatrali per la civiltà ateniese era tale che, molti decenni dopo la fine dell’impero marittimo ateniese, qualcuno ha fatto costruire sulla pendice Sud dell’Acropoli (presumibilmente all’interno dell’area di culto di Dioniso) un edificio destinato a contenere fasti e didascalie degli agoni teatrali dalle origini al momento presente, in un evidente sforzo di capitalizzare il prestigio culturale della città di fronte al mondo (un’edizione aggiornata dei testi delle epigrafi è in Millis, Olson 2012). Agli agoni, accanto ai pochi professionisti, partecipavano centinaia di cittadini e la produzione drammatica doveva essere oggetto di discussione e confronto incessante in ogni casa ateniese, e in ogni luogo della città. Come tutte le produzioni discorsive orali, esse sono per definizione effimere e, per quanto riguarda le versioni dei miti circolanti tra V e IV secolo a.C., possono essere ricostruite solo per via indiziaria, da accenni come il passo di Platone sull’importanza formativa dei mythoi raccontati dalle balie (Resp. 377a-c). Ma anche le abitudini simposiali, dove brani tragici erano oggetto di recitazione o di canto, erano senz’altro il set di racconti e di continui, variabili, ripensamenti e commenti, dove ogni interlocutore aveva modo di presentarli, chiosarli, interpretarli – o anche contaminarli e fraintenderli. È ragionevole pensare che, in questa prospettiva, a determinare i passaggi di un mito tragico da un medium drammatico-letterario a uno iconografico fosse non tanto la volontà di ‘illustrare’ un’esperienza teatrale, quanto piuttosto lo stimolo incessante dei racconti che trasformavano già prima la variante del mito al centro dell’evento teatrale in un oggetto di scambio quotidiano. E questo spiega perché, nella sintesi estrema del veicolo (il discorso informale), ciascuno dei due estremi del passaggio potesse mantenere in toto le proprietà del rispettivo codice di riferimento: poetico-drammaturgico per la tragedia, figurativo per la pittura su vaso. Insomma: l’esistenza di pittura vascolare, in particolare quella che riflette casi di hapax dromena mitico-drammatici, fornisce una conferma non trascurabile all’ipotesi di un collegamento fra teatro e vaso; tuttavia, anche questi esempi non ci permettono di affermare con sicurezza che quel collegamento sia diretto o immediato, e quindi che esso sia avvenuto come evento isolato in un’officina collegata in qualche modo ai luoghi di fruizione del repertorio teatrale. Tra il momento dell’innovazione, avvenuto in occasione della messa in scena, e il momento della prima penetrazione della novità mitico-drammatica in ambito figurativo possiamo ipotizzare non solo una risposta poligenetica della ceramografia, ma soprattutto un numero anche considerevole di passaggi intermedi, tutti peraltro impossibili da documentare. In un primo momento, in un unico luogo o in più luoghi in parallelo, la raffigurazione dell’azione saliente innovativa fa il suo ingresso nel repertorio vascolare; a partire da quel momento di effettivo passaggio transmediale si avviano complesse dinamiche di proliferazione che investono progressivamente altri centri di produzione, e finiscono per popolare il repertorio di un ambito anche molto vasto, ormai del tutto indipendente dai contesti originari della produzione tragica. Le considerazioni fin qui svolte portano altresì a riflettere sui tempi e sui modi della rispondenza tra cultura e rappresentazioni drammatiche e ceramografiche più o meno narrative. Ci si potrebbe dunque domandare se il teatro, e in particolare la tragedia, non si siano fondati principalmente sull’innovazione operata dagli intrecci, mentre la ceramica tendeva in alcuni casi a conservare – anche quando complicava con particolare sapienza e competenza – le immagini. Che fare, quindi? Prima di partire alla ricerca delle connessioni tra pitture vascolari e testi teatrali, o dei criteri per identificarle, occorre caso per caso – e soprattutto quando le affinità con il presunto modello letterario sembrano evidenti – porsi il problema del rapporto complesso tra i codici che regolano la produzione dell’immagine (dagli aspetti tecnici del manufatto, al contesto della committenza; dai temi repertoriali, comuni e di bottega, al talento e all’originalità del singolo artista); la dote di estrema mobilità e fluidità del patrimonio mitologico ellenico (prima dell’irrigidimento nelle ‘biblioteche’ mitografiche ellenistiche) e quindi la disponibilità dell’immaginario greco ad accogliere positivamente nuove invenzioni e varianti delle storie più o meno note; le modalità di circuitazione delle pièces teatrali e i dispositivi di circolazione dei testi. Nei processi di classificazione e di interpretazione dei materiali saranno da presupporre tre livelli interconnessi su cui misurare le proprie ipotesi: un immaginario collettivo, un repertorio drammaturgico, un repertorio iconografico. Si tratta insomma di una equazione a tre o più incognite, non a due. O di un dilemma a tre corni e non a due. Taplin tiene in considerazione due di questi livelli e cerca i nessi dall’uno all’altro. Ma pare urgente la necessità di affrontare e aggiornare il problema triangolando fra le immagini considerate nella loro autonomia espressiva; i testi teatrali; l’immaginario collettivo (categoria più estesa che comprende i miti maggiori, ma anche i miti minori o a noi meno noti). Un’ipotesi è che gli intrecci tragici e comici possano aver influenzato i pittori, anche a prescindere dalla conoscenza diretta delle performance teatrali o dei testi, ma soltanto se avevano avuto successo per la loro efficacia espressiva ed erano riusciti a incidere sull’immaginario popolare, almeno per quanto riguarda il patrimonio vascolare giuntoci. Il primo esito del lavoro di questa analisi critica è il disegno di un diagramma in cui l’immaginario collettivo – il ‘mito’ come ‘racconto condiviso’ – esercita continuamente la sua interferenza produttiva filtrando la relazione tra cultura letterario-teatrale e cultura artistico-figurativa. Ma la triangolazione è complicata su almeno due fronti che aprono all’intreccio delle prospettive ermeneutiche. Il lato artistico-figurativo condivide con il lato teatrale la valenza iconografica e, più in generale, la libertà e la potenza di suggestione assoluta dell’immagine: una grande opera d’arte come una grande scena teatrale, una volta evocata, si impone e si imprime come l’immagine propria di quel soggetto. Il lato teatrale, nella sua declinazione tragica, condivide per altro con il lato dell’immaginario collettivo, la capacità mitopoietica. In altri termini: la versione tragica di un mito ‘fa mito’ – e finisce per imporsi nell’immaginario come ‘testo’ di quel soggetto mitico. Quanto ai criteri e ai ‘segnali’ da rintracciare nelle raffigurazioni vascolari come indicatori della relazione complessa tra i tre lati del diagramma, come spesso accade nella ricerca, l’importante non è trovare la prova, ma disegnare con pazienza una costellazione di indizi. Costruire un paradigma indiziario, il più probante possibile – che però alla fine, con tutta probabilità, confermerà la triangolazione feconda delle suggestioni passanti fra testi e performance teatrali, immagini artistiche e immaginario collettivo.

Note

[1] Testo nella nota. Il codice da usare è quello compreso tra p abstract tra <> e /a tra <> e poi ricordarsi di chiudere il paragrafo con la solita /p tra <>. Guarda il codice.

Riferimenti bibliografici
  • Autore, Autore anno
    A. Autore, A. Autore, Titolo saggio in rivista, “Rivista” numero (mese anno), pagine.
  • Autore, Autore anno
    A. Autore, A. Autore, Titolo del libro, Città della casa editrice anno.
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La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: nome e cognome, titolo dell’articolo, “La Rivista di Engramma” n. xx, mese e anno, pp. xx-yy | PDF dell’articolo

English abstract

I. Progetto Iconogramma
II. Un annoso (e dannoso) divorzio disciplinare
III. Consistenza dei materiali
IV. Questioni preliminari
V. Criteri
   
V.1 I quattro criteri Taplin 
   V.2 Due criteri ulteriori
         V.2.1 Accentuazione dell’enfasi gestuale
         V.2.2 hapax dromena
VI. I punti critici
         VI.1 Diffrazioni tra testo teatrale e rappresentazione vascolare
         VI.2 Le lacune della tradizione
         VI.3 L’evidenza del palcoscenico
         VI.4 L’inerzia iconografica
VII. Come funziona la & di Pots&Plays
VIII. Dal mito al dramma e all’immagine. E ritorno

§ Appendice | il termine “iconogramma”

I. Progetto Iconogramma

Iconogramma è una nuova sezione della “Rivista di Engramma” concepita per raccogliere studi e ricerche su teatro e iconografia in Grecia e Magna Grecia, in minor misura nel mondo romano e nelle altre culture del mediterraneo antico. Il tema non è nuovo nell’ambito delle ricerche pubblicate nella rivista (si vedano i contributi pubblicati in “Engramma” xxx) ma il profilo e le potenzialità di questo filone di ricerca merita uno spazio dedicato perché crediamo sia di capitale importanza. Esso ci porta dritti al centro del sistema figurativo antico e del suo funzionamento. Al più complesso e appassionante dei problemi che si ergono di fronte a chi studia il mondo delle immagini: il meccanismo in base al quale nascevano, si affermavano e si diffondevano le innovazioni iconografiche.

Iconogramma si appresta a essere il luogo in cui di questo problema, al tempo stesso concettuale e materiale, si indagherà un aspetto preciso: le innovazioni ispirate dal teatro. Più esattamente, i meccanismi sociali e culturali attraverso i quali la produzione drammatica riusciva a esercitare un’inattesa ma indiscutibile influenza sulle produzioni artigianali, in particolare su quelle destinate al mondo funerario, ceramica fine dipinta e coroplastica in primo luogo. In questo campo, nonostante una tradizione di studi ormai secolare, c’è ancora molto da fare: dalla definizione di un approccio storicamente accettabile alla definizione di un linguaggio critico; dallo studio nel merito dei singoli temi a una sintesi soddisfacente.

Il gruppo di ricerca è costituito da studiosi di diversa formazione – archeologia, filologia, iconologia, storia dell’arte antica – e ha già una sua piccola storia. Dopo lo spunto dal dibattito innescato nella comunità scientifica internazionale dalla pubblicazione nel 2007 dell’importante saggio Pots & Plays di Oliver Taplin (vedi, in Engramma, la presentazione del volume xx e il testo di una conferenza di presentazione dell’autorxxx), a partire dalla primavera del 2011 un gruppo di filologi e archeologi ha dato vita al “Seminario Pots&Plays” che portava già nel nome l’omaggio al lavoro dell’amico studioso di Oxford che aveva aperto pionieristicamente la nuova stagione degli studi sul tema della relazione tra testi teatrali attici e pittura vascolare. Il progetto Pots&Plays si è sviluppato con una serie di colloqui e seminari itineranti, per diverse tappe (Venezia, aprile 2011; Pavia, dicembre 2011; Pisa, marzo 2012; Siracusa, maggio 2012, Milano, giugno 2012; Oxford xxx; ZZZ, xxx): quella prima fase di elaborazione teorica e di applicazione del metodo via via affinato a specifici casi di studio ha dato come esito articoli, saggi, volumi collettanei (si vedano almeno Beltrametti et all. [2012] 2015; Bordignon 2015; Centanni e Grilli 2021; Grilli 2021; Rebaudo xxx; ZZZ xxx,  di cui riprendiamo dati e spunti tematici e metodologici in questa presentazione; ma per la bibliografia sul tema, anche in riferimento agli studi dei promotori del Seminario, si veda la Adnoted Selected Bibliography link in questo stesso numero di Engramma). Di recente il filo della ricerca è stato ripreso e il seminario si è ricostituito con il nome “Iconogramma. Filologia delle immagini” (ultime tappe: Venezia xxx; xxx yy; zzzz, Venezia, novembre 2023). 

II. Un annoso (e dannoso) divorzio disciplinare

Lo studio della rappresentazione di scene teatrali nella pittura vascolare in relazione ai testi teatrali conservati, in forma integrale o frammentaria, è un campo di ricerca che a partire dal XIX secolo ha conosciuto fasi di alterna fortuna. A partire dal primo studio di riferimento in età moderna Bild und Lied di Carl Robert (1881), il filone di ricerca sulla relazione tra pittura vascolare e teatro attraversa tutto il XX secolo in cui la storia degli studi è punteggiata da alcuni studi importanti per i contenuti e le elaborazioni di metodo. Si tratta dei lavori di: Louis Séchan, Études sur la tragédie grecque (1926); Arthur Pickard Cambridge The Theater of Dionysus at Athens (1946); Arthur D. Trendall, Thomas B. Webster, Illustrations of Greek Drama (1971); Anneliese Kossatz-Deissman, Dramen des Aischylos auf westgriechischen Vasen (1974); J.M. Moret, L’Ilioupersis dans la céramique italiote: les mythes et leur expression figurée au IVe siècle (1975) e Oedipe, la Sphinx et les Thebains. Essai de mythologie iconographique (1987); John R. Green, Images of the greek theater (19xx); Luca Giuliani (xxx); Oliver Taplin, Comic Angels and other approaches to Greek drama (1994); Pots&Plays (2011). teniamo il riassuntino che precede in evidenziato grigio? O rimandiamo direttamente all’aggiornamento dello State of the Art che pubblicheremo qui???Per la ricostruzione della storia degli studi, rimandiamo a Ludovico Rebaudo, Iconogramma. The State of the Art, link in questo stesso numero di Engramma).

Nel corso del XX secolo gli studi archeologici e filologici si sono dotati di tecniche di indagine via via più affinate e la progressiva specializzazione ha di fatto comportato, nei diversi campi degli studi di antichistica, una divaricazione fra discipline sempre più distinte una dall’altra. Ciascuna disciplina si è data metodi e percorsi di ricerca sempre più puntuali e approfonditi, ma, per effetto della progressiva specializzazione, i diversi filoni di studio si sono via via allontanati e, in nome dell’esclusività di singolari e sempre più minuti specialismi, hanno seguito una propria storia di studi e di scuole, comunicando sempre meno fra loro. I danni di questa separatezza sono stati forse più sensibili negli studi filologici e letterari, e meno nelle discipline archeologiche e storiche: se da una parte archeologia e storia, non foss’altro che per l’esigenza fondamentale in quelle discipline della consultazione diretta e continua delle fonti letterarie, si sono tenute più aperte al complesso degli studia humanitatis, gli studi di impronta filologico-letteraria, invece, hanno proceduto piuttosto autonomamente e, almeno fino agli ultimi decenni del Novecento, l’interazione con gli studi archeologici e iconologici è stata più un’eccezione che la regola.

Nel frattempo un importante, per quanto non specifico, contributo è venuto dalla pubblicazione tra il 1981 e il 1997 del Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, il prezioso regesto ragionato di soggetti mitologici su manufatti artistici nel quale, in testa a ogni voce, è premesso un capitolo che delinea in modo articolato i rapporti tra l’evoluzione iconografica della figura mitologica trattata e la storia del soggetto nelle fonti letterarie. In questi anni studiosi e ricercatori di tutto il mondo stanno lavorando all’aggiornamento e alla pubblicazione on-line di questo eccellente strumento di ricerca, e quando sarà attiva l’edizione elettronica del LIMC, con la possibilità di un aggiornamento sistematico e in progress rispetto allo stato degli studi e ai nuovi reperti scoperti e inventariati, senza dubbio la strumentazione a disposizione degli studiosi di tutte le discipline sarà estremamente più utile e raffinata.

III. Consistenza dei materiali

La quasi totalità dei vasi magnogreci e sicelioti, ma anche attici di provenienza sud-italica, è stata rinvenuta in tombe o comunque in contesti funerari; fra essi, una grande parte è stata prodotta per il corredo funebre e non ha un passato ‘d’uso’; la percentuale sale di fatto al cento per cento se restringiamo il campo ai grandi vasi figurati (anfore, crateri, hydriailoutrophoroi). Le composizioni a soggetto mitico costituiscono, rispetto ai motivi puramente decorativi e alle scene di tipo non-narrativo (astanti al sepolcro, Lebensszenen  etc.), un gruppo minoritario in termini percentuali, pur se non trascurabile in termini assoluti. Fornire cifre è difficile: nella letteratura critica non è dato trovare alcuna quantificazione di tale rapporto. Il calcolo esatto, cioè aggiornato e non basato semplicemente sui repertori di Trendall e Cambitoglou 1983, non è facile, ma il dato sarebbe di grande utilità.

Una parte delle scene del mito presenta punti di contatto di qualche tipo con il teatro e la produzione drammatica. Poiché è proprio questo un punto critico della nostra indagine, non sarà inutile sottolineare in quanti modi – e quanto sfumati e inafferrabili – questi contatti si realizzino. Importante è ricordare che anche in questo caso il dato percentuale, cioè il rapporto fra scene propriamente e univocamente teatrali e scene mitiche ‘generiche’, non è mai stato calcolato. Esistono invece dei numeri assoluti, della cui affidabilità non si può essere certi, ma che servono ad avere un’idea dell’ordine di grandezza del fenomeno. Distinguendo per aree di produzione, gli oggetti che ci interessano sono (sulla base del regesto di Todisco 2003): 76 attici, 56 lucani, 243 apuli, 20 sicelioti, 26 pestani, 56 campani. riverificare questi numeri. Numeri che sembrano grandi ma che sono in realtà molto piccoli, se pensiamo che i vasi sud-italici oggi noti sono più di centomila.

In una prospettiva strettamente archeologica questi dati, nel loro insieme, ci dicono che il rapporto tra le scene vascolari e il teatro è un aspetto, una faccia, di un fenomeno più vasto: l’uso del mito nella ceramica sud-italica e il suo significato in rapporto ai rituali funerari contemporanei, sia greci che indigeni. Le scene di cui discutiamo vanno analizzate prima di tutto in quanto pitture su vasi, con tutto ciò che questo aspetto comporta dal punto di vista tecnico-fabrile; poi sono da interpretare come rappresentazioni del mito destinate alle tombe; infine, e solo infine, sono da considerare echi del teatro contemporaneo (rispetto alla messa in scena esperita direttamente o ad altre forme di circolazione dei testi). In altri termini: la ricerca non può ignorare il dato storico-archeologico per discutere esclusivamente l’iconografia in relazione al suo specifico interesse e al suo obiettivo esegetico. Per evitare scorciatoie la prima cura dell’interprete deve essere, appunto, ‘storica’: ricostruire il contesto produttivo, la cultura figurativa del pittore, la destinazione originaria del vaso. Il fatto che una scena possa avere un contenuto ‘teatrale’ non autorizza a trattarla come se fosse un’immagine pura, distinta dal supporto materiale (il vaso e la sua forma), dalla tradizione cui appartiene e dalla personalità dell’autore (l’abilità tecnica, il grado di originalità, il talento artistico. È rarissimo che un vaso sia una oeuvre unique, come un quadro accademico dell’Ottocento. Solitamente è invece un oggetto di medio costo fabbricato seguendo un procedimento che comporta momenti creativi e aspetti meccanici, e che ricorre comunque a un repertorio di schemi fissi. Le variabili storiche non possono essere cancellate, assolutizzando l’oggetto e sottraendolo al fastidio dei condizionamenti materiali. La decontestualizzazione delle immagini comporta gravi rischi, il più grande dei quali quello di attribuire a certi particolari, alle varianti, alle innovazioni e omissioni un valore semantico anche quando, come accade la più arte delle volte, sono dovute a banali ed empiriche ragioni tecniche o alla forza della tradizione.

Ad esempio: non può essere sottovalutato il condizionamento che la forma del vaso esercita sulle scelte del pittore. Adattare una complessa scena narrativa al corpo allungato di un’anfora a collo distinto o di una loutrophoros non è affare di poco conto, perché il pittore è costretto a forzare il racconto entro schemi verticali più o meno spinti. Un cratere di grandi dimensioni, con il suo campo pittorico oblungo o quasi quadrato, consente ben altra disposizione delle figure e un numero molto più grande di personaggi. Come si può essere sicuri che l’operazione di adattamento non interferisca con il trattamento della storia, con la selezione degli episodi, con il modo stesso di raccontarla?

Non vanno poi sottovalutati né il luogo e il contesto di produzione, né le qualità dell’artista, né la datazione del vaso, che in parte della bibliografia vengono citati come meri dati di corredo anagrafico del manufatto. La catalogazione delle scene è effettuata su base contenutistica, ovvero per mito (in ordine alfabetico) o per presunta fonte drammatica (soggetti eschilei, sofoclei ecc.). La produzione sud-italica è tacitamente trattata come un fenomeno omogeneo, un blocco monolitico senza sviluppo interno, che occupa la scena per un secolo e più, senza rapporto con il progressivo mutare delle strutture sociali, con l'evoluzione storico artistica e con la prassi delle diverse botteghe. I primi vasi ‘teatrali’ lucani e metapontini prodotti intorno al 400 (Pittore di Pisticci, Pittore del Ciclope, Pittore di Amykos) e le enormi macchine figurate degli atelier dell’Apulo recente attivi fra il 330 e la fine del secolo (Pittore di Dario, Pittore dell’Oltretomba, Pittore di Baltimora) sono trattati – anche in Taplin 2007 – allo stesso modo, applicando le medesime categorie, cioè appunto come oggetti culturalmente omogenei. È invece da tener presente che i contesti in cui quegli artigiani operano sono diversi sotto tutti i profili: in un secolo è mutato il dato politico di molte città, il progresso tecnologico è stato enorme, le strutture economiche sono evolute, per non dire dell’evoluzione del gusto, del livello medio di istruzione e della circolazione dei testi. Questo almeno ci mostra la cronologia dei primi rinvenimenti papiracei. Più plausibile è ipotizzare committenti letterati nei vasi apuli della fine del IV secolo, prodotti in grandi città premoderne di molte migliaia o decine di migliaia di abitanti; più problematico farlo nei pur raffinati prodotti della Lucania della fine del V secolo, una realtà di piccole città e borghi rurali in contatto costante con popolazioni indigene solo parzialmente ellenizzate.

In sintesi – prima di indagare il rapporto fra l’immagine e la sua fonte presunta occorre sapere che cosa rappresentava questa scena per l’artigiano che la dipinge e, soprattutto, per il committente che sceglie di acquistarla: quel che interessa, quel che ‘tira sul mercato’ sarà la storia di Niobe, madre affranta e pietrificata dal dolore per la morte dei suoi figli, oppure la Niobe di Eschilo? E se l’allusione al testo è pur voluta o almeno consapevole, quanto l’artigiano si sente vincolato al modello e quanto ricorre liberamente al suo proprio repertorio figurativo? Certo l’artista, ad ogni latitudine storica e geografica, risponde a istanze sue proprie e ai desiderata del committente, e nel raffigurare un soggetto si sente certo libero di contaminare il contenuto secondo utilità.

IV. Questioni preliminari

Per procedere con un metodo che deve via via affinarsi e consolidarsi pare necessario porre alcune questioni preliminari che riguardano i contenuti e gli aspetti tecnici delle immagini e della loro realizzazione. In altre parole per decidere la natura della relazione tra un testo teatrale e una iconografia devono essere accertate alcune condizioni che enunciamo ora in modo generale: 
– che la scena vascolare X sia una consapevole rappresentazione (o allusione, o eco, o suggestione) del testo teatrale Y e non semplicemente una rappresentazione delle versioni correnti, verbali o figurative, della leggenda, di cui quel testo elabora un certo nucleo;
– che gli elementi che sembrano avvicinare la scena X al testo Y non si spieghino anche o meglio sulla base della tradizione iconografica precedente del mito Y.
– essere certi che l’elemento Z, che appare come un segnale di relazione con il testo drammatico, non si spieghi anche o meglio sulla base dell’usus pingendi dell’artista, oppure delle consuetudini e dei repertori della sua bottega.

Se la risposta a queste istanze non è ‘sì’ al di là di ogni dubbio, nessuna accelerazione ermeneutica è possibile e in particolare non è proponibile una relazione tra rappresentazione teatrale e iconografia vascolare senza avere prima escluso altre spiegazioni. Per questo al momento di procedere all’esegesi di una scena di cui si presume l’origine teatrale è necessario mettere preventivamente a confronto la scena stessa, e ogni sua singola componente, con tutta la tradizione iconografica del mito. Se la situazione nel suo complesso, o singoli elementi di essa, sono riscontrati in precedenza rispetto alla cronologia del testo teatrale supposto come riferimento, o in ambiti letterari o artistici paralleli, la probabilità che i dettagli che sembrano significativi siano stati tratti dalla fonte drammatica diminuisce. O, in altri termini, aumenta di molto la possibilità che il pittore li abbia introdotti anche senza aver presente un testo di riferimento, semplicemente perché ‘così si fa’. O così si può fare. Ed è ovvio che, anche se ricordano la presunta fonte molto da vicino, in questo caso non possiamo riconoscerli come segnali, o addittura prove, di una relazione.

Un discorso analogo vale per il problema dei particolari e del loro eventuale valore documentario. Si può ammettere la possibilità che un certo modo di dipingere un personaggio regale riecheggi un costume di scena di un dato personaggio solo se si è verificato preventivamente che quello non sia il modo consueto in cui i pittori (o quel particolare pittore) dipingono ‘il Re’ nei suoi vasi, anche quando i soggetti non hanno rapporti con il teatro. Allo stesso modo si può ipotizzare che un particolare elemento architettonico (una tomba, ad esempio) conservi tracce visive di una scenografia solo a patto di aver preventivamente verificato che quelle strutture non siano rappresentate – come in effetti quasi sempre è – secondo le consuetudini della bottega. Il primo passo di qualsiasi ricerca sul teatro passa, insomma, per la contestualizzazione dei singoli vasi rispetto al mito e rispetto alla prassi di coloro che li hanno fabbricati.

V. I criteri per il riconoscimento della relazione tra ‘pot’ e ‘play’

Sul piano metodologico, il punto è stabilire criteri validi che costituiscano i punti di riferimento per avviare lo studio della relazione tra scena figurata e testo teatrale. Nei repertori iconografici e negli studi raccolti nella Bibbliografia agionata (link) le note, i commenti, le didascalie alle immagini, le interpretazioni dei soggetti vascolari evidenziano chiaramente la prima difficoltà che gli studiosi incontrano: stabilire se le situazioni e i personaggi raffigurati sui vasi sono riferibili specificamente al repertorio drammaturgico o, più genericamente, al repertorio iconografico del mito di cui la versione teatrale è una variante. Ma forse la questione va posta diversamente.


V.1 I quattro criteri Taplin

Oliver Taplin in Pots&Plays propone alcuni elementi come segnali di riconoscimento del rapporto tra teatro e ceramografia; da specificare che lo studioso, rispetto alle posizioni più nettamente ‘logocentriche’ che si presentano come impostazione quasi obbligata negli studi di matrice filologica e letteraria, non postula infatti tanto una ‘derivazione’ delle immagini sui vasi dai testi teatral quanto piuttosto un rapporto di ‘conoscenza presupposta’: c’è connessione fra pot e play quando la fruizione dell’immagine sul vaso è facilitata dalla conoscenza di una possibile messa in scena corrispondente. Sarà utile passare in rassegna gli elementi che Taplin propone come “signals”, da considerare come spie inequivocabili di una connessione della ceramografia con la performance di testi in scene tragiche (Taplin 2007, pp. 37-43), vagliando la validità probatoria di ogni classe di indizi.

Riassumendo e sintetizzando si tratta, con grado diverso di significazione, dei seguenti indicatori:
A. presenza di elementi di attrezzeria (A.1) e, più significativamente, di scenografia teatrale in forma para-realistica (A.2, A.3) o stilizzata (A.4);
B. presenza di personificazioni di concetti astratti che interagiscono con la scena rappresentata;
C. presenza di personaggi secondari (Nutrice, Pedagogo);
D. nomi/etichette ascritti accanto alle figure rappresentate, identificabili nell’insieme come cast, ovvero come elenco di personae dramatis.

I quattro Taplin “signals”
A. Elementi di scenografia teatrale: l’arco di roccia (A.4.2). 
B. Personificazione di concetti astratti: ΑΠΑΤΗ.  Darius Painter, Red figures volute-krater, 340 and 320 BCE. Naples, Museo Archeologico Nazionale (H3253).
C. Personaggi secondari: la Nutrice, il Pedagogo. Medea sul carro, la Nutrice in atto di disperarsi e il Pedagogo accanto ai corpi dei figli (cfr. Eur, Med., vv. 1376-ss.). Cratere a calice lucano vicino al Pittore di Policoro, 400 a.C. circa, Cleveland Museum of Art, 1991.1
D. Etichette con personaggi di un cast teatrale. Alcesti [ALKESTIS], i figli e altri personaggi (cfr. Eur. Alc., vv. 371-392). Loutrophoros apula vicina al Pittore di Laodamia, 340 a.C. circa., Basel, Antikenmuseum S21

verificare che in Taplin siano proprio questi e che non abbiamo troppo semplificato!!! vedi in coda appunto Taplin in evidenziatore grigio, caso mai da riutiizzare! (v. Seminario Pots&Plays 2015; Taplin 2015a; Taplin 2015b; aggiornamento e puntualizzazioni teoriche e metodologiche di Oliver Taplin, in riferimento alla discussione sui “signals”: Taplin 2021, con bibliografia).

Taplin propone con grande cautela l’attendibilità questi “signals” e di fatto l’utilità ermeneutica di questi indicatori, una volta processati alla luce di un vaglio critico severo, si rivela affidabile solo in senso molto parziale e con necessarie restrizioni e precisazioni. In particolare:

A.1 La presenza di elementi riconducibili all’attrezzeria teatrale (tripodi, costumi, maschere, calzari) non sempre, anzi raramente, è un indizio probante della pertinenza della scena a un contesto stricto sensu drammaturgico. I reperti in cui compaiono oggetti di questo tipo sono spesso vasi che rappresentano, genericamente, scene cultuali di ambito dionisiaco che possono anche avere risvolti performativi importanti ma che non sono scene tratte da performance teatrali. Se sono presenti attori in azione, essi sono rappresentati come technitai Dionysou, sia all’interno di scene ‘professionali’, sia di scene dionisiache in senso lato.

Diverso è il grado di attendibilità di elementi di scenografia che richiamano esplicitamente la scena teatrale. In particolare:

A.2 Elementi architettonici univocamente teatrali: questi sono il solo indizio davvero cogente di una connessione diretta con la prassi scenica. Ma probabilmente il solo elemento che veramente appartiene a questa classe è il palcoscenico rialzato (sulle convenzioni della rappresentazione del palcoscenico teatrale, e su possibili fraintendimenti di altri supporti, rimandiamo a un prossimo approfondimento). Resta da notare però che, a quanto risulta a questo punto dell’indagine, il palcoscenico come elemento scenografico, inequivocamente riconoscibile come tale, è attestato quasi precisare: mi pare che non sia più così!!! esclusivamente in rappresentazioni di scene comiche.

mettere striscia con casi di palcoscenico rappresentato??? o facciamo un contributo a parte con galleria di tutti i palcoscenici rappresentati su vasi noti a oggi? sarebbe interessantissimo: vedi ipotesi di un paragrafo dedicato in capitolo “Punti critici”

A.3 Architetture scenografiche o comunque strutture architettoniche riconducibili alla decorazione scenografica. Questa classe di indizi è senz’altro la meno cogente: è vero che porte e facciate di palazzi sono implicate dai testi dei drammi che conosciamo; ma è altrettanto vero che il desiderio di contestualizzazione spaziale di un’azione non è una prerogativa della scenografia tragica, e si può presupporre, ad esempio, esistente già nella pittura mitologica anteriore all’invenzione della scenografia. In tal caso il codice della pittura vascolare può presupporre direttamente un ipotesto pittorico, da cui potrebbe aver avuto origine la convenzione vascolare parallelamente a quella della scenografia teatrale: si può insomma osservare che l’introduzione di elementi architettonici è possibile in pittura senza presupporre necessariamente una mediazione teatrale.

A.4 Stilizzazione artistica e stilizzazione scenica. Alcune stilizzazioni di elementi architettonici potrebbero essere leggibili come scenografie o praticabili scenici: questa classe di segnali scenografici è senz’altro meno cogente della presenza del palcoscenico (A.2), ma più cogente di presunte architetture scenografiche (A.3). Il maggiore tasso di stilizzazione di taluni elementi la rende più cogente dei semplici elementi architettonici; tuttavia essa resta meno cogente della prima classe di indizi per due ragioni: in primo luogo perché non è dimostrabile con certezza che un certo modo di rappresentare un oggetto sia una stilizzazione di secondo grado mutuata proprio dalla scenotecnica teatrale, piuttosto che da altre arti, o che non sia, direttamente, una stilizzazione di primo grado. Si possono fare diversi esempi.

A.4.1 La tomba, quando viene rappresentata su un vaso, è di solito fortemente stilizzata; più spesso è identificata da una colonna (quasi sempre ionica) oppure da una stele con coronameno decorata con ghirlande floreali e collocata su una base modanata o su un crepidoma a gradoni. Un caso particolare è quello della tomba di Agamennone, elemento potenzialmente importante per connettere la composizione a una scena teatrale collegabile a Coefore o ad altre ‘Orestee’, specie se alle caratteristiche sopra elencate si aggiunge la presenza di un elmo in cima alla colonna e l’iscrizione ΑΓΑΜΗΜΝΩΝ o AΓAMΗMNONOS spesso apposta sulla base del monumento. Non si può escludere però una stilizzazione primaria, guidata dai codici interni ceramografici, né una stilizzazione di secondo grado, derivata da un’opera figurativa e non dalla scena (ad esempio dalla pittura monumentale civica o funeraria).

A.4.2 L’arco di roccia, elemento la cui stilizzazione appare abbastanza lontana dal referente primario, rende plausibile una stilizzazione intermedia, ma anche in questo caso non possiamo essere certi che a monte dell’arco di roccia sul vaso ci sia l’arco di roccia del teatro, e non un arco di roccia già stilizzato in una pittura o in una scultura arcaiche di grande notorietà (v. Roscino 2003). È plausibile insomma la derivazione figurativa di questo come di altri elementi architettonici (l’altare, ad esempio) da una sorta di enciclopedia visiva che poteva seguire le sue proprie convenzioni senza passare necessariamente per l’intermediazione teatrale. 

B. Anche la presenza strutturale di personificazioni astratte (‘Homonoia’ in Taplin 2007, n. 63; ‘Apate’ in Taplin 2007, n. 29 et cet.) non è certo interpretabile univocamente come segnale di derivazione da una performance teatrale. Se infatti non è plausibile pensare a traduzioni lineari di divinità presenti tout court sulla scena tragica, sul piano semiotico la funzione da assolvere con più urgenza è la disambiguazione della dinamica, o della Stimmung, di una scena rappresentata. Nel cinema questo avverrebbe ad esempio con la colonna sonora, che permette di riconoscere se i due amanti affrontati stanno per baciarsi (melodia di violini) o per litigare (ritmo concitato di violoncelli). La presenza di ‘Homonoia’ nella scena sopra citata, pertanto, non deve necessariamente rimandare a una dea ex machina o, come viene ipotizzato, a un personaggio di Andromeda, non più di quanto le personificazioni di Peithò debbano rimandare a una figura concreta piuttosto che all’atmosfera complessivamente erotica (o politica) di una scena. citare Bordignon 2015 sulle personificazioni

C. La presenza di personaggi del cast di seconda fila delle tragedie, come l’anziano Pedagogo o la Nutrice, costituirebbe un segnale identificativo di scena teatrale. Queste figure ‘secondarie’ solitamente sono rappresentate in modo convenzionale, secondo canoni iconografici precisi, che ne consentono un immediato riconoscimento (capelli bianchi, schiena curva e bastone). Il cratere lucano a calice del 400 a.C. circa, su cui è raffigurato il carro del Sole di Medea presenta a terra, vicino ai bambini, due figure, un uomo e una donna anziani, con le mani al capo in segno di dolore e disperazione, identificabili con il Pedagogo e la Nutrice. Vero è che nelle trame di molti fra i testi drammatici conservati il poeta porta queste figure in primo piano dell’azione, al punto di farle quasi emergere dall’anonimato e interagire con i protagonisti. Ma sarà da notare che nutrici, concubine, coppieri pedagoghi non sono figure che caratterizzano esclusivamente il contesto teatrale. È quasi superfluo ricordare che esiste un ventaglio di presenze letterarie che acquisiscono lo statuto di personaggi veri e propri, anche se secondari – come la concubina Briseide in Iliade o la nutrice Euriclea in Odissea – e contraddicono l’idea di una, particolare, significatività teatrale delle figure ancillari portate dal poeta a un ruolo di primo piano in un punto della trama della sua opera. E figure ancillari possono emergere dall’oscurità in particolari contesti di scrittura poetica anche in quanto una divinità ne assume occultamente l’aspetto e le funzioni (Afrodite come vecchia serva in Iliade III; Demetra travestita da vecchia nutrice di Demofonte nella casa di Metanira in Inno omerico a Demetra). Si può ricordare, sempre nel paesaggio poetico omerico, che il ruolo delle figure ancillari può essere svolto da personaggi con un più alto tasso di soggettività e di statuto libero, ma in rapporto di subordinazione rispetto all’eroe: ad esempio Alcimo e Automedonte nei confronti di Achille dopo la morte di Patroclo; Automedonte che serve anche a tavola nel banchetto dopo il riscatto di Ettore (Iliade XXIV, 625); oppure, in contesti non omerici, la zia Ino il veste di nutrice del piccolo Dioniso (v. Apollodoro III, 28).

Da queste prime considerazioni generali si evince che non pare convincente considerare (seppure con prudenza e a tasso variabile di significazione) le figure secondarie come un segno probante di una connessione tra pittura vascolare e teatro: esattamente come gli elementi architettonici che ambientano la scena, schiave e schiavi vecchi e giovani popolano fittamente la quotidianità, e quindi l’immaginario non solo domestico, dell’uomo greco, e hanno largo spazio in tutti i riflessi della vita quotidiana che si trovano nelle opere letterarie. Il fatto che in tragedia le figure servili emergano più che le loro corrispondenti epiche dipende dal fatto che il dramma, per citare l’Aristotele della Poetica, si fonda sulle azioni, e le figure ancillari coinvolte nell’azione finiscono per assumere un ruolo di maggiore rilievo rispetto alla semplice menzione di cui spesso le stesse figure sono fatte oggetto nella poesia narrativa. Ma, a prescindere dal cospicuo archetipo della nutrice Euriclea in Odissea, è possibile che anche l’epica postomerica presentasse importanti figure di nutrice: per fare un solo esempio, nella leggenda di Smirna presumibilmente contenuta negli Ionika di Paniassi di Alicarnasso doveva avere un ruolo di rilievo la nutrice, che aiutava la ragazza a giacere occultamente con il padre (almeno secondo quanto si evince dal riassunto dell’episodio in [Apollodoro] III, 14). La ripresa dell’episodio nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui pure riveste un ruolo rilevantissimo l’intrigo di una nutrice, ha suggerito la tesi che a monte della Mirra ovidiana ci fosse una tragedia, con evidente petizione di principio e circolarità dell’argomento (v. Florence Dupont, Le furor de Myrrha (Ovide, Metamorphoses X, 311-502), in: J.-M. Frécaut, D. Porte (éd.), Journées Ovidiennes de Parménie. Actes du Colloque sur Ovide (24-26 juin 1983), Brüssel 1985, pp. 83-92).

È possibile insomma vedere nelle figure secondarie un segnale relativamente probante di connessione con il teatro soltanto se compaiono in sinergia e concorrenza con altri segni: quando anche altri fattori suggeriscano una prossimità tra rappresentazione vascolare e testo (o rappresentazione) di una tragedia, la presenza di trophoi o paidagogoi può essere presa in considerazione come segnale attendibile di un ruolo drammatico svolto in prima persona, come personae dramatis, dalle figure servili che emergono dalla massa anonima degli oiketai con un proprio profilo psicologicamente connotato.

D. La presenza di etichette con i nomi dei personaggi che animano la scena ovviamente non è di per sé indicativa di una situazione teatrale (basti pensare alle celebri scene troiane dipinte da Polignoto di Taso nella Lesche dei Cnidi a Delfi: Pausania, X, 25-31, che le descrive in dettaglio, osserva che tutti i personaggi sono identificati da un’etichetta, e che buona parte dei nomi non sono in Omero ma sono probabile invenzione del pittore). Nomi di dèi ed eroi sono comuni alle diverse forme poetiche, correnti nel linguaggio liturgico e quotidiano, e nello specifico sono presenti con una certa frequenza nella pittura vascolare, anche quando la scena sia ispirata a un episodio epico o genericamente mitologico. Diventano segnali probanti di una connessione con testi o performance teatrali quando:
– i nomi siano in forma attica (la lingua propria della lexis tragica e comica nelle sezioni non liriche) in un contesto dialettale dorico, ad esempio nelle colonie greche occidentali da cui provengono quasi tutti i vasi esaminati;
– l’insieme dei nomi dei personaggi identificati con le etichette definisce una vicenda mitica in una variante specifica di una particolare versione tragica, vale a dire in una variante teatrale innovativa delle versioni del mito precedentemente note.

V.2 Criteri ulteriori

La critica ai criteri proposti da Taplin per l’individuazione di relazioni tra le rappresentazioni vascolari e i testi drammatici, o addirittura l’esperienza di una loro reale performance, ha condotto agli esiti – in via generale restrittivi – sopra proposti. La severità adottata nella ricognizione non deve inibire però la ricerca di classi di indizi che possano essere significativi di un influsso di scene teatrali, conosciute mediante la lettura dei testi o la visione di una reale performance drammatica, su alcune rappresentazioni. Proponiamo pertanto qui di seguito due altre classi di indizi che possono essere ‘segnali’ di valenze teatrali di una scena vascolare: 
E. accentuazione dell’enfasi gestuale;
F. i casi di hapax dromena.

V.2.1 Accentuazione dell’enfasi gestuale

teniamo questo criterio? ne discutiamo? portiamo altri esempi più persuasivi di immagini che corrispondano a una azione teatrale? secondo me questo criterio non è stringente come il successivo (hapax dromena) ma è un criterio che, insieme agli altri, può fare ‘paradigma indiziario’. Vogliamo cambiare l’ordine E/F e lasciare per ultimo questo, più labile dell’hapax dromena?

L’esaltazione di alcune formule gestuali, destinate a divenire convenzionali, è correntemente adottata nella rappresentazione di scene mitologiche o epiche, il cui tema sia contrassegnato da dinamismo ed eruzioni di pathos (positivo o negativo che sia). 

È utile richiamare qui il concetto di Pathosformel, termine coniato da Aby Warburg, e l’analisi di Salvatore Settis del versante “caldo” e del versante “freddo” della formula patetica (su questo aspetto cfr. Salvatore Settis, Pathos und Ethos, Morphologie und Funktion, in Vorträge aus dem Warburg-Haus, a cura di W. Kemp, G. Mattenklott, M. Wagner, M. Warnke, 1, Berlin 1997, pp. 33-73); citare versione nuova dell’articolo Settis in Engramma con pagine giuste). Warburg, in relazione ai suoi studi sulla rimersione dell’Antico in età moderna, ha avuto la straordinaria intuizione che l’espressione del pathos è una cosa, la sua cristallizzazione in una formula è un’altra; non tutti i gesti esasperati, infatti, sono Pathosformeln, ma possono divenirlo solo in seguito a una loro codificazione formale. Dunque, secondo la proposizione di Warburg (illuminato dalla lettura di Settis), le Pathosformeln non sono semplicemente espressioni del pathos; o meglio, lo sono, ma entro una struttura formulare. La forte carica emotiva che esse catturano viene compressa in una formula, che non ne pregiudica affatto la forza – tanto è vero che le Pathosformeln potranno essere riusate in più occasioni – ma l’esito è, anche, una formula proposta come riconoscibile e semanticamente connotata. 

Per quanto riguarda più specificamente il nostro tema, è anche utile incrociare l’idea di Pathosformel con un altro concetto formulato da Aby Warburg che, con metafora grammaticale, definisce i gesti ad alta carica emozionale che si cristallizzano in formule iconografiche come “superlativi” dell’emozione e della sua espressione nella gestualità (per ricorrere a un’espressione di Aby Warburg) sono particolarmente esasperati nella pratica sarà però da evidenziare il fatto che il dinamismo nella movimentazione dei personaggi e i “superlativi patetici” dell’emozione e della sua espressione nella gestualità (per ricorrere a un’espressione di Aby Warburg) sono particolarmente esasperati nella pratica teatrale propriamente detta, che affidava anche alla esasperazione del gesto – oltre che alla vistosità dei costumi, all’espressività e all’effetto di amplificazione vocale delle maschere, nonché alla replicazione, che al lettore moderno suona superflua o noiosa, di concetti e di espressioni – la leggibilità dell’azione scenica per i numerosi spettatori postati anche a grande distanza dallo spazio della rappresentazione. I gesti teatrali, insomma, sono gesti che esprimono un grado superlativo del pathos, non solo in quanto il pathos tende a essere portato al grado estremo nell’azione teatrale, ma anche in quanto una gestualità esasperata diventa un sussidio eloquente alla perspicuità di quanto accade sulla scena.

dovremmo forse fare anche un approfondimento a parte sull’utilità della categoria Pathosformel per questo nostro discorso?

In ambito teatrale, o più genericamente performativo, I gesti e le posture al grado superlativo contendono alla parola il primato dell’eloquenza e sono certamente significativi indizi di scene che sono comunque da considerarsi rappresentazioni di ‘mito in azione’. Ma per l’individuazione e la disambiguazione di questi ‘gesti eloquenti’ bisogna tenere presenti alcuni rischi: innanzitutto la convinzione che un gesto – nella vita reale come nella rappresentazione in immagine – sia sempre e comunque traducibile in un enunciato verbale è vera solo in parte, perché se da una parte il gesto non ha la chiarezza di un enunciato, dall’altra crea attorno a sé una serie di risonanze utili a rendere visivamente un tono, un’atmosfera, una Stimmung.

Ad esempio, l’enfatizzazione di posture gestuali è anche presente nelle forme di performatività religiosa, in rappresentazioni di scene rituali che presentano prossimità e possibilità di sovrapposizioni con scene teatrali. Si veda come caso esemplare della contiguità tra scene rituali e scene teatrali il Vaso dei Coreuti di Basilea.

Coro di giovani con maschere dinanzi ad altare con immagine di Dioniso.
Cratere a colonnette attico attribuito a un Manierista non identificato, 480 a. C. circa. Basilea, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig BS 415

In scena un gruppo di sei figure che indossano maschere, rappresentate nell’atto di compiere sincronicamente un passo (di danza?) in direzione di un altare su cui sta appoggiato un busto di Dioniso. La scena in cui parrebbero chiari i contrassegni di un contesto teatrale – il gruppo di coreuti, la presenza di maschere, la dinamica gestuale tra gli elementi del ‘coro’ e l’elemento scenografico dell’altare – potrebbe però essere ricondotta sia alla performance generica di un canto in onore del dio (ad esempio di un ditirambo), sia anche rappresentare un coro dionisiaco in contesto rituale (ovvero non precisamente teatrale): in questo secondo caso l’enfasi della gestualità sarà da attribuire alla ben nota convenzionalità della postura religiosa secondo la quale le braccia tese verso l’alto significano un atto di preghiera.

D’altronde, anche nella vita quotidiana si impone di continuo il problema dell’interpretazione del senso della gestualità (il problema degli errori di lettura della gestualità si incontra tanto nella letteratura antica, quanto negli studi moderni). Per la disambiguazione di un gesto e la sua comprensione (in altre parole la ricostruzione dell’intenzione dell’artista) devono continuamente tenere presenti:
1. il codice figurativo dell’epoca (ma anche i possibili scarti rispetto ad esso);
2. il codice gestuale dell’epoca (ma anche le possibili deviazioni);
3. il codice gestuale dello studioso (nella consapevolezza che il ricercatore incide sempre sull’esperimento o sulla ricerca che sta compiendo);
4. il contesto narrativo;
5. il contesto cinesico.

Ciascuno di questi punti meriterebbe osservazioni specifiche. Ne proponiamo alcune. Riguardo al primo, per fare solo un esempio, occorre tener presente che non tutti i movimenti sono raffigurabili, come accade per lo scuotimento della testa (è un esempio di Gombrich ??? trovare citazione!!!). Per il secondo, un’osservazione quasi ovvia: se è vero che dovettero esistere gesti univoci (toccare il mento come forma di supplica) è anche vero che una sola forma gestuale – alzare il braccio verso un uditorio – può assumere valenze differenti. Sul quarto punto: isolare un gesto dalla situazione può portare a fraintenderlo; si pensi nuovamente all’esempio del ginocchio tra le mani di Odisseo nelle scene dell’ambasceria ad Achille o quello di Ares nel fregio Est del Partenone: dal punto di vista formale (intendendo sia nell’esecuzione fisica, sia nella resa pittorica) è il medesimo, ma il suo senso è davvero identico nei due casi? Il quinto punto: la coerenza narrativa passa anche per quella che potremmo chiamare 'coerenza cinesica'; un determinato movimento, cioè, deve essere in una relazione credibile con i movimenti dei personaggi circostanti.

Quanto al quinto punto, il contesto cinesico, il possibile rimando a una scena teatrale forse non è rintracciabile tanto in un singolo gesto “al grado superlativo” ma nella compresenza di diversi gesti enfatici, in dialogo fra loro. È il caso del cratere di Boston, in cui il pittore ci mette davanti alla sequenza dei due atti della saga dell’Orestea: il regicidio compiuto da Egisto, il tirannicidio compiuto da Oreste (adde biblio su Boston), con una rappresentazione dinamica in cui pare di riconoscere chiari accenti di enfasi teatrale. da espandere e spiegare meglio

Egisto assassina Agamennone; Oreste assasina Egisto, alla presenza di Clitemnestra e altre figure femminili,
Cratere attico attribuito al Pittore della Dokimasia, ca. 470 a.C., Boston, Museum of Fine Arts 63.1246

Tra i gesti si noti il braccio disteso con il palmo della mano rivolto verso l’alto: nei contesti in cui appare il significato facilmente attribuibile a questo gesto è in generale quello di attenzione e di allarme verso un pericolo o una minaccia, spesso portata dall’azione di un altro personaggio.

L’atto di violenza estrema (ratto, stupro, omicidio) che si esprime nell’afferrare la vittima per i capelli si riscontra nel repertorio iconografico come gesto proprio del regicida: il tiranno è rappresentato seduto sul trono, mentre viene trascinato a terra dal regicida il quale con una mano lo tiene per i capelli e con l’altra si appresta a colpirlo con un’arma a lama corta. 

  

A sinistra: Pilade e Oreste uccidono Egisto, Oinochoe apula, gruppo del Pittore del Vento, 325-300 a.C. Paris, Musée du Louvre, K 320.
A destra: Oreste uccide Egisto alla presenza di Elettra, Pelike lucana attribuita al Pittore di Vaste, inizio del IV a.C. Christchurch (NZ), University of Canterbury, Logie Collection, 156/73

Un caso significativo del dinamismo cinetico della rappresentazione, con tutta probabilità riferibile a una scena teatrale, è quello della piccola ‘serie’ costituita dai due vasi frammentari che riproducono una stessa scena che sin dal loro ritrovamento è stata riferita dalla critica al perduto Laocoonte di Sofocle.

  

a sinistra: Antiopa si scaglia contro la statua di Apollo, a terra membra del figlio sbranato, dietro Laocoonte e Apollo, Cratere del Pittore di Pisticci con Storia di Laocoonte, seconda metà V secolo a.C., Basilea, Antikenmuseum.
a destra: Antiopa si scaglia contro la statua di Apollo, a terra membra del figlio sbranato, dietro Apollo e Artemide, Cratere attribuito al Pittore dell'Iliupersis, prima metà sec. IV a.C., Ruvo, collezione Jatta.

La scena, riprodotta in entrambe le rappresentazioni vascolari, è animata da una serie di gesti eloquenti: il personaggio femminile (probabilmente la sposa di Laocoonte, Antiopa) è presentata come una figura irruente in scena, proprio nel momento in cui si scaglia con violenza contro la statua di Apollo, ai cui piedi stanno i brani di uno dei figli già lacerato dal serpente che ora si avvinghia intorno al simulacro del dio. E se la donna impugna un’ascia alzando le mani sopra il capo, lo stesso sacerdote, dietro di lei, porta invece enfaticamente la mano al capo, segnalando così convenzionalmente la sua angosciata disperazione per quanto sta avvenendo di fronte a lui (sulla ricostruzione del perduto dramma sofocleo in base ai frammenti testuali e vascolari vedi in Engramma xxx).

Un gesto, più posturale che dinamico, che identifica il supplice o la vittima, è il ginocchio puntato sull’altare (rivedi e aggiorna biblio: sul punto si veda C. Franzoni, Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell’arte greca, Torino 2006, pp. 75-105: v. presentazione in Engramma; v. anche G. Bejor, Il Torso del Belvedere, il Laocoonte e Telefo, in «ACME» 59, n. 2, 2006, pp. 23-37; più in generale P. Cassella, La supplica all’altare nella tragedia greca, Napoli, Bibliopolis, 1999).

  

a sinistra: Telefo all'altare con Oreste infante in ostaggio (ispirata al Telefo di Euripide?), Cratere a calice attico non attribuito, 400-380 a.C. Berlin, Staatliche Museen, Antikensammlung VI 3974.
a destra: Scena parodica di Telefo all’altare (cfr. Arist., Tesm., vv. 689-764), Cratere a campana apulo attribuito al Pittore di Schiller, 370 a.C. circa. Würzburg, Martin von Wagner Museum H 5697.

È indubbio che si tratti, a tutti gli effetti, di uno schema (una gamba puntata a triangolo, l’altra distesa); e altrettanto è certo che questo schema ha avuto la diffusione di una formula (gli esempi tra V e IV sec. a.C. sono numerosissimi) e, come una formula, sia stata applicata a scene eterogenee. Un caso importante è la scena dalle Tesmoforiazuse di Aristofane rappresentata sul cratere di Würzburg (Taplin 1993, figura 11.4) 

Che significato può avere questa Pathosformel su un vaso comico? Si può unanimamente affermare che le scene comiche sui vasi siano prevalentemente raffigurazioni di una scena esplicitamente teatrale; possiamo allora ipotizzare che la posa assunta da Mnesilochos (il parente di Euripide), fosse una posa effettivamente eseguita di fronte agli spettatori? Possiamo supporre, cioè, che la parodia del testo euripideo funzionasse nella misura in cui gli attori della commedia riprendevano in scena le stesse mosse degli attori della tragedia? È opportuno notare che, sui vasi col mito di Telefo, l’episodio viene descritto con due soluzioni iconografiche diverse:
a) Telefo afferra Oreste stando seduto sull’altare;
b) Telefo afferra il bambino puntando una gamba sul piano dell’altare e distendendo l’altra a terra (vedi, supra, l'esempio del cratere di Berlino).

Come si vede, il secondo caso coincide con la posizione dell’attore di Würzburg e a quanto pare la cosa non è casuale: la parodia attuata dal ceramografo coinvolgeva il gesto enfatico (ma stilizzato in una formula) che gli attori tragici compivano a questo punto del dramma euripideo? È certo possibile ma la postura può derivare anche dalla convenzione gestuale acquisita, e quindi anche (ma non direttamente) dalla gestualità scenica.

Certo è che sarebbe di grande utilità avere un repertorio vasto e puntuale dei gesti degli antichi, un catalogo completo dei gesti ‘patetici’ e delle loro convenzioni iconografiche, (repertorio che manca) da usare di volta in volta come si usa, ad esempio, un repertorio di forme ceramiche. Uno strumento del genere non esiste, cosa che ha quasi dell’incredibile se si pensa alle possibilità offerte oggi dai mezzi informatici: il repertorio di Carl Sittl (Die Gebärden der Griechen und Römer, Leipzig 1890), per quanto di ottima qualità, è del tutto privo di immagini; il saggio di Gerhard Neumann (Gesten und Gebärden in der griechischen Kunst, Berlin 1965) non è consultabile con facilità. Entrambi, poi, sono divenuti ormai obsoleti, vista anche la quantità di materiali pubblicati nei decenni scorsi. Sono uscite monografie (ad es. M. Pedrina, I gesti del dolore nella ceramica attica VI-V secolo a. C. Per un’analisi della comunicazione non verbale nel mondo greco, Venezia 2001) e un saggio importante come quello di Catoni 2005 (Schemata. Comunicazione non verbale nella Grecia antica, Pisa 2005: vedi presentazione in Engramma), ma niente a che vedere con un “catalogo completo”, aggiornare nota e biblio . Non a caso, recensendo proprio il libro di Taplin, J. R. Green sosteneva che “(…) despite some useful recent works, the study of gesture and body-language in the various times, places and regional cultures of the Greek world still has some way to go”. Parrebbe allora più efficace un’organizzazione dei dati per parti del corpo e relativa interazione. Una struttura di questo genere avrebbe il vantaggio di poter associare all’analisi delle iconografie quella dei (numerosi) testi direttamente o indirettamente riferibili alla sfera del corpo. Ma comunque, anche una volta si fosse in possesso di uno strumento del genere, ciò non eviterebbe allo studioso il momento cruciale dell’interpretazione, quello in cui si scontra con la sostanziale (e vitale) ambiguità del gesto.

Dunque l’elaborazione di un catalogo completo dei gesti ‘patetici’, tragici ma anche comici, e delle loro convenzioni iconografiche (soprattutto quando la gestualità comica mette in parodia l’enfasi della gestualità tragica), sarebbe uno strumento utilissimo per verificare se questi particolari superlativi gestuali del pathos ricorrono di preferenza in raffigurazioni collegabili a una messa in scena teatrale, a codificare azioni e situazioni drammatiche precise. Ma di converso l’identificazione di gesti enfatici in scene identificabili, per più elementi concorrenti, come ‘teatrali’ potrebbe fornire elementi importanti per riconoscere il significato di quegli stessi gesti. In altre parole: a volte in relazione alla vicenda drammaturgica è possibile intendere il significato di gesti altrimenti per noi non eloquenti (sul tema vedi il saggio di Claudio Franzoni).

V.II.2 hapax dromena

Significativi per l’identificazione di una relazione tra la raffigurazione vascolare e un testo o la performance teatrale possono essere considerati casi che potremmo definire hapax dromena, in cui l’immagine riporta un particolare narrativo che solo un tragediografo, a quanto ci risulta, ha inventato per il suo dramma e che entra nel repertorio mitografico proprio grazie al dramma.

Una precisazione preventiva: data la parzialità dei testi conservati dalla tradizione, è sempre da tenere presente la difficoltà di accertare se il tragediografo autore del dramma a noi noto sia stato effettivamente il primo a inventare, integrare o rielaborare quella specifica variante (questa riserva è sviluppata oltre). Comunque, fra le tragedie che leggiamo oggi, precise testimonianze relative a specifiche innovazioni drammatiche ci permettono di individuare pochi casi che, alla luce delle conoscenze attuali, possiamo considerare ἅπαξ δρώμενα. Quattro esempi:

1 | Clitemnestra che sveglia le Erinni e, prima, Oreste abbarbicato all’omphalos di Delfi (invenzione drammaturgica eschilea in Eumenidi: v. Centanni 2003, 596-597, 1091, con bibliografia);
2 | Clitemnestra che scopre il seno di fronte al figlio al momento del matricidio (invenzione drammaturgica eschilea in Coefore: v. Centanni 2003, 1079-1080, con bibliografia);
3 | Medea che fugge dopo l’infanticidio sul carro del Sole (invenzione drammaturgica euripidea: v. Page [1938] 2001, xxi-xxx, in part. xxvii; Mastronarde 2002, 44ss; Allan 2002, 17-24; Vox 2003; Tedeschi 2010, 5-8, con bibliografia);
4 | il caso di Neottolemo a Delfi, in atto di difendersi dall’aggressione omicida di Oreste (invenzione drammaturgica di Euripide in Andromaca: v. Stevens 1971, 3-5; Woodbury 1979; Allan 2000, 25-32 con bibliografia).

 https://nephelais.files.wordpress.com/2012/11/medea-fugge-sul-carro-del-sole-mentre-giasone-brandisce-la-spada-contro-di-lei-hydria-lucana-attribuita-al-pittore-di-policoro-policoro-museo-nazionale-della-siritide-400-a-c-cir.jpg

hapax dromena 
da sinistra a destra:
Il Fantasma di Clitemnestra sveglia le Erinni. Cratere a campana apulo, Paris, Musée du Louvre, K 710 (cfr. Aesch. Eum., 34-ss).
Oreste uccide Clitemnestra e la madre gli mostra il seno. Anfora da Paestum Attribuita al Pittore di Würzburg, ca. 350-340 a.C., Malibu, J. Paul Getty Museum 80.AE.115.1 (cfr. Aesch. Cho., 896-ss).
Medea fugge sul carro del Sole con i corpi dei figli assassinati. Hydria lucana del Pittore di Policoro, Museo Nazionale della Siritide, 35296 (cfr. Eur. Med., 1337-ss.). 
Neottolemo a Delfi. Oreste dietro l’omphalos (cfr. Eur., Andr., vv. 1114-ss). Cratere a volute apulo attribuito al Pittore dell’Ilioupersis, 360 a.C. circa. Milano, Collezione Banca Intesa 239 (cfr. Eur. Andr. 1104-ss.).

Eumenidi e Coefore di Eschilo; Medea e Andromaca di Euripide: si tratta di quattro casi in cui è comprovato che si tratta di versioni teatrali in cui il tragediografo non solo ha elaborato il mito, in tutto o in parte, in modo originale e inedito, ma nei quali, per ragioni di scelta innovativa o da quanto si ricava per lo sviluppo intrinseco alla drammaturgia della singola tragedia, risulta ampiamente probabile – se non certificato come nel caso di Eumenidi (giusta l’hypothesis del dramma) – che si tratta di una versione del mito, o della declinazione di un suo episodio, adottata dal tragediografo soltanto per quello specifico dramma. In altre parole, si tratta di casi in cui è altissima, se non certa, la probabilità che si tratti di ἅπαξ δρώμενα (l’analisi puntuale dei quattro casi e il confronto con le serie di raffigurazioni vascolari attinenti è in Centanni, Grilli, 2021 link).

VI. I punti critici

Affrontando il tema dai diversi fronti metodologici emerge comunque un dato che ci preme sottolineare: una pittura vascolare, sebbene possa presentare caratteristiche che, in base ai criteri elencati e ad altri che si potranno individuare, è accostabile a una precisa scena teatrale, non è mai la fotografia della situazione scenica: sarà dunque da evitare la tentazione di cercare il riscontro completo dei dettagli, di pretendere che l’immagine sia una fedele riproduzione di un preciso momento del dramma. Si tratta sempre della creazione autonoma di un artista che, anche se è provato che si ispira a una scena teatrale, dà poi vita a un’opera originale, libera dal legame diretto, letteralistico e univoco, con un testo.

VI.1. Diffrazioni tra testo teatrale e immagine vascolare 

Tra le pitture vascolari che, pur non rappresentando fedelmente ad unguem la scena così come la leggiamo nel testo teatrale, sono con alta probabilità collegabili a un determinato dramma, si ricorda il già citato esemplare in cui è raffigurata la fuga di Medea sul Carro del Sole dopo aver assassinato i figli.

Medea sul carro, la Nutrice in atto di disperarsi e il Pedagogo accanto ai corpi dei figli (cfr. Eur, Med., vv. 1376-ss.), Cratere a calice lucano vicino al Pittore di Policoro, 400 a.C. circa, Cleveland Museum of Art, 1991.1

Come è noto (e come si è ricordato più sopra) è molto probabile che la versione mitografica che prevede il duplice infanticidio e la fuga ‘in trionfo’ di Medea, sia tutta di invenzione euripidea. Varrebbe dunque qui il criterio dell’hapax dromenon, come solido indizio di riconoscimento di una relazione tra immagine e testo. Ma rispetto alla versione testuale della tragedia di Euripide nel ‘testo’ figurativo così come ci viene restituito da diversi esemplari è rilevabile l’aggiunta di un particolare iconografico di grande effetto: i dragoni che tirano il carro del Sole che non hanno alcun riscontro nel testo euripideo e che sono un dettaglio destinato ad avere un’ampia fortuna nella replicazione convenzionale dell’iconografia convenzionale del ‘trionfo di Medea’, fino all’età imperiale romana.

Creusa riceve i doni nuziali, morte di Creusa, infanticidio e fuga di Medea sul carro con i dragoni,
Sarcofago romano urbano (ASR II, n. 195), II secolo d.C. Roma, Museo Nazionale Romano

Si registra però almeno una, netta e clamorosa, discrepanza: lo spostamento dei cadaveri dei figli dal carro di Medea all’altare posto nella composizione in basso a destra. Il testo di Euripide recita:

Ἰάσων
θάψαι νεκρούς μοι τούσδε καὶ κλαῦσαι πάρες.

Μήδεια
οὐ δῆτ᾽, ἐπεί σφας τῇδ᾽ ἐγὼ θάψω χερί,
φέρουσ᾽ ἐς Ἥρας τέμενος Ἀκραίας θεοῦ

Giasone
Lascia che seppellisca e pianga questi morti

Medea
No davvero, perché li seppellirò io con questa mano,
portandoli al santuario di Era Akraia

(Medea, vv. 1377-9)

E poco più oltre:

Ἰάσων
τέκνα κτείνασ᾽ ἀποκωλύεις
ψαῦσαί τε χεροῖν θάψαι τε νεκρούς,

Giasone
dopo aver ucciso i miei figli, mi impedisci
di toccarli con le mani e di seppellirne i corpi.

(Medea, vv. 1411-2)

Stando al testo è certo che la scena finale del dramma prevede che i corpi dei figli di Medea siano a bordo del carro. Invece il pittore di Policoro raffigura due corpi di adolescenti (non di bambini, come nell’iconografia corrente) riversi su un altare. Nel caso specifico, dato il concorso di tanti elementi che collegano la raffigurazione in modo cogente al testo della tragedia, il difetto di fedeltà dell’immagine rispetto alla lettera del testo non è un motivo sufficiente per negare la relazione tra la raffigurazione vascolare e la scena finale del dramma euripideo: ma l’artista, rispetto alla riproduzione filologica del testo, avrà fatto prevalere una diversa ratio compositiva, intesa a privilegiare l’equilibrio dei volumi nello spazio della raffigurazione, e forse anche ad esaltare, con la collocazione enfatica, in primo piano, dei due giovani corpi sacrificati, l’impatto emotivo della sua opera sullo spettatore.

Altri casi in cui l’artista non rispetta fedelmente il dettato del testo drammatico sono quelli in cui in una sola scena sono rappresentati sinteticamente più momenti di un dramma, accostando personaggi che, stando al testo teatrale non compaiono mai insieme sulla scena. È il caso dell’Erinni che nell’Anfora di Paestum già ricordata sopra, compare simultaneamente, già al momento dell’ostensione del seno di Clitemnestra e non più tardi a perseguitare il matricida.

Oreste uccide Clitemnestra che si scopre il seno, alla presenza di una Erinni che lo minaccia  (cfr. Aesch., Cho., vv. 896-898),
Anfora pestana attribuita al Pittore di Würzburg H 5739, 350-340 a.C. circa, Malibu, J.P. Getty Museum 80.AE.155.1 

Anche in questo caso la diffrazione dell’immagine rispetto al testo non basta certo a determinare l’esclusione dal gruppo di soggetti collegabili alla scena teatrale di un esemplare che per altri versi risulta indiscutibilmente ascrivibile al gruppo: siamo di fronte a una sintesi figurativa che – ancora una volta – non è certo un ‘fotogramma’ scenico e perciò non è tenuta ad osservare puntualmente il dettato del testo, ma risponde a ragioni compositive e artistiche che seguono leggi proprie e vivono in perfetta autonomia rispetto al testo teatrale, alla sua circolazione ed eventuale circuitazione.

La scena restituisce icasticamente la violenza di Oreste e dall’immagine pare emanare la voce con la battuta della Clitemnestra eschilea che, nel dramma, con le sue parole insieme retoricamente armate e visceralmente potenti, per un attimo riesce a bloccare la mano assassina del figlio (fino al τί δράσω; risolto grazie alla risposta univoca e risolutiva di Pilade). Manca, insomma, soltanto il fumetto con i versi di Eschilo sopra citati e la pittura vascolare potrebbe essere considerata una puntuale illustrazione di quel, preciso, testo. Ma non è mai così: elementi discordanti sono, oltre alla nudità dell’eroe, la presenza minacciosa dell’Erinni, intempestiva rispetto allo sviluppo drammaturgico eschileo che prevede che le furie compaiono solo alla fine del dramma (e in Coefore solo come allucinazioni mentali di Oreste). La scena del matricidio ‘fa testo’, anche nel senso che ‘fa mito’ – ovvero nel senso che sul filo di quel racconto si producono immagini che, dal vincolo della relazione con il mito teatrale, e dallo stesso racconto che la versione teatrale ha contribuito a forgiare e che ispira poligeneticamente altri racconti e altre immagini, sono però tutt’affatto emancipate. Ancora una volta, anche in questo caso che parrebbe una prova positiva di una influenza diretta di uno specifico testo sull’immagine, l’immagine non è – come non è mai – illustrazione del testo. 

VI.2 Le lacune della tradizione  

I casi di hapax dromena sopra esposti – Oreste a Delfi e il Fantasma di Clitemnestra; Medea sul carro del Sole; Oreste matricida; Neottolemo a Delfi – portano a riflettere sui tempi e sui modi della rispondenza tra cultura e rappresentazioni drammatiche e ceramografiche, e sulla loro possibile connessione con aspetti performativi o testuali in senso lato. Cosa possiamo imparare di preciso da questi quattro esempi? La sola cosa ragionevolmente sicura, ci sembra, è il contatto tra mito teatrale e pittura vascolare di cui questi vasi portano traccia.

In realtà persino per un’affermazione così debole e vaga non possiamo contare su una certezza assoluta: anche in questi casi, come per tutti i problemi che riguardano la tradizione dei testi antichi, noi partiamo dal presupposto che le informazioni in nostro possesso, benché lacunose, siano comunque sufficienti a formulare ipotesi, e che non esistano ambiti completamente privi di documentazione. Ma questo assunto è tale solo per assioma: un ragionamento puramente quantitativo tra ciò che si è conservato almeno in parte e ciò che è andato perduto senza lasciare traccia spingerebbe piuttosto a farci credere il contrario, cioè che di ampi e rilevanti aspetti della produzione drammatica e vascolare noi non abbiamo alcuna idea (si pensi al caso di Neofrone, tragediografo autore di 120 drammi dei quali non ci resta niente al di là del titolo di una Medea, di cui, come abbiamo ricordato sopra, è tuttora molto controverso il rapporto con quella di Euripide).

Un esempio concreto può aiutare a chiarire questa riserva: abbiamo visto all’inizio dell’analisi del vaso di Neottolemo che nel mito di Oreste a Delfi il vaso Banca Intesa è il solo testimone iconografico a noi noto di questa variante relativa alla morte dell’eroe. Abbiamo visto altresì che è possibile identificare la fonte nell’Andromaca, una delle tragedie di Euripide che si sono conservate. Tuttavia, in linea di principio, non possiamo escludere che, come nell’Ermione di Sofocle, dove Neottolemo veniva ucciso a Delfi da Machereo, così come anche in un altro testo anteriore, drammatico o meno, ma a noi del tutto ignoto, l’episodio dell’uccisione di Neottolemo da parte di Oreste fosse già presente. In tal caso la nostra ipotesi di partenza, che quell’episodio mitico costituisca un ἅπαξ δρώμενον, non sarebbe corretta. È solo lo stato attuale delle nostre informazioni che ci porta a presumere che quel dato riferibile a un caso senza paralleli si sia verificato effettivamente solo quella volta. E in effetti anche sul piano linguistico gli ἅπαξ λεγόμενα sono tali nel corpus dei testi conservati, ma all’orecchio e per le competenze dei lettori antichi è possibile che quei termini non fossero tali.

In particolare, il carattere innovativo della responsabilità di Oreste nella morte di Neottolemo potrebbe ad esempio essere revocato in dubbio dall’interpretazione di uno scolio bizantino all’Alessandra di Licofrone (ed. Scheer, p. 352), in cui si menziona Enea. Ecco il passo:

ὕστερον δὲ τῆς Τροίας πορθουμένης ἐλευθερωθεὶς ὑφ’ Ἑλλήνων ὁ αὐτὸς Αἰνείας (Al. 1265) ἢ αἰχμάλωτος ἀχθεὶς ὑπὸ Νεοπτολέμου, ὥς φησιν ὁ τὴν μικρὰν Ἰλιάδα πεποιηκώς, καὶ μετὰ τὴν ὑπὸ Ὀρέστου ἐν Δελφοῖς τοῦ Νεοπτολέμου ἀναίρεσιν ἐλευθερωθεὶς οἰκεῖ πρῶτον τὰς περὶ Ῥαίκηλον καὶ Ἀλμωνίαν πόλεις Μακεδονικὰς πλησίον Κισσοῦ ὄρους κειμένας (Alex. 1236)

“Successivamente, dopo il saccheggio di Troia, lo stesso Enea fu liberato dai Greci, oppure ridotto in schiavitù da Neottolemo, come sostiene l’autore della Piccola Iliade, e liberato dopo che Neottolemo fu ucciso a Delfi da Oreste; a quel punto Enea si insedia nelle città macedoni di Recelo e Almonia, che si trovano vicino a monte Cisso”. (trad. A. Grilli)

Come si intuisce, moltissimo dipende da come si intende questa nota: che la Piccola Iliade contenesse un riferimento a Enea schiavo di Neottolemo è certificato dal testo di un frammento (fr. 21 Bernabé), che proviene da un altro passo degli scolî a Licofrone e rivela quindi una familiarità di prima mano dello scoliaste con quel poema arcaico. Che la notizia della morte di Neottolemo a Delfi per mano di Oreste si riferisca sempre alla Piccola Iliade resta però da dimostrare, in base a quello che sappiamo dei contenuti della narrazione nel poema. È però sempre possibile che anche un contenuto posteriore come la morte di Neottolemo fosse anticipata proletticamente nel testo. Più probabile è però che lo scoliaste unisca qui informazioni da fonti diverse e che della morte di Neottolemo consideri ormai canonica la versione dell’Andromaca euripidea. Una prova indiretta di questa interpretazione è che in alcune fonti la sepoltura di Neottolemo compete al padre della sua sposa Ermione, l’atride Menelao, mentre nel dramma di Euripide viene istituita una contrapposizione fortissima tra la componente atridica della famiglia (Ermione, Oreste, Menelao, che sono i ‘cattivi’) e la componente legata alla stirpe di Achille (Neottolemo, Peleo, la dea Teti). In termini di logica drammaturgica, attribuire l’omicidio di Neottolemo a Oreste potrebbe non servire ad altro che a rafforzare questa contrapposizione, agganciando i ruoli specifici del dramma (Oreste come villain) con i nuclei d’azione della tradizione mitica (la morte di Neottolemo a Delfi). In sostanza, è molto probabile che anche questo scolio a Licofrone non basti davvero mettere in dubbio il nostro presupposto basato sul confronto di tutte le altre fonti, e cioè che la responsabilità di Oreste sia un ἅπαξ δρώμενον euripideo.

Una riserva analoga potrebbe valere anche per le Eumenidi, che pure sono il caso più sicuro nella nostra piccola selezione: alla base del nostro ragionamento c’è il fatto che l’affermazione dell’hypothesis antica (παρ’ οὐδετέρῳ κεῖται ἡ μυθοποιΐα) dia a Eschilo l’esclusiva sul mito di Oreste a Delfi (e poi la fine della trilogia in Atene). Ma con l’espressione παρ’ οὐδετέρῳ i commentatori antichi si riferivano solo alla triade dei poeti tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, canonizzata già nel tardo V sec. (come mostrano le Rane di Aristofane). Ma dei tanti altri poeti tragici attivi in Atene tra il VI e il V secolo le opere non si sono conservate, in molti casi, nemmeno fino all’età alessandrina, quando gli eruditi del Museo di Alessandria cominciarono a redigere gli apparati esegetici dei principali drammaturghi ateniesi. I nostri ragionamenti oggi presuppongono dunque che il corpus della tragedia attica si possa considerare coestensivo alle opere dei poeti maggiori, anche se sappiamo che i tragici maggiori sono solo tre su molte decine (cfr. Pickard-Cambridge [19672] 1996, 110-114).

Il nostro ragionamento, peraltro, è confortato dal fatto che già per gli eruditi ellenistici le opere dei tragici ‘minori’ erano meno accessibili delle altre: l’operazione di acquisizione del corpus tragico portata avanti da Tolomeo III Evergete I (246-221 a.C.) era basata sulle copie ufficialmente archiviate dalla polis ateniese per impedire abusi da parte degli attori (Page 1934); questo significa che il canone tutelato dalle copie ufficiali doveva includere soprattutto (anche se non esclusivamente) gli autori che erano oggetto di riprese nel IV secolo, vale a dire soprattutto i tragici maggiori. Come si intuisce, questa operazione aveva determinato già nel IV secolo una prima importante selezione nel corpus tragico (l’aneddoto delle copie antiche chieste in prestito da Tolomeo allo stato ateniese riguarda esplicitamente τὰ Σοφοκλέους καὶ Εὐριπίδου καὶ Αἰσχύλου βιβλία, come ci informa il passo di Galeno da cui lo conosciamo: Commento al III libro delle Epidemie di Ippocrate, ii 4, CMG V, 10.2 1: 79, 8-80, 2 Wenkebach, su cui Tessier 2018, pp. 29-32). Questo significa che la stessa circolazione dei testi e degli apparati, per non parlare dei discorsi informali dei fruitori, già in antico tendeva a concentrarsi sulla triade dei poeti maggiori. È più che probabile che già dal IV secolo le riprese della tragedia antica in sezioni specifiche degli agoni dionisiaci (della παλαιά sappiamo che era stata introdotta fuori concorso alle Dionisie urbane nel 387/386 a.C.: Millis, Olson 2012, 2) riportassero sulla scena soprattutto le opere dei tre tragici maggiori, che peraltro, già da sole, costituivano un vasto repertorio di poco meno di trecento drammi.

La maggiore diffusione e accessibilità dei testi di Eschilo non esclude però, in linea di principio, che un mito che a noi risulta trattato dal solo Eschilo fosse attestato anche in un altro poeta del suo tempo, in un dramma che il giudizio antico, di pubblico e di critica, potrebbe aver destinato all’oblio sin dalle prime fasi della tradizione. Ma prima che quel giudizio si formasse (in genere tra V e IV secolo) l’opera del tragico ‘minore’ poteva senz’altro essere entrata a far parte di una cultura mitico-teatrale condivisa e riflessa in una produzione iconografica. Peraltro l’incidenza di miti trattati da poeti ‘minori’ diventa sicuramente via via più trascurabile nel tempo: il percorso di canonizzazione della triade tragica, avviato già nel V secolo, è completo in epoca ellenistica, ed è verosimile che, per prodotti legati a una committenza alla ricerca di prestigio o di segnali facilmente riconoscibili, le opere dei tragici maggiori fossero un oggetto di interesse preponderante – o perlomeno che i testi ‘minori’ non esercitassero un’attrattiva paragonabile.

Insomma: che sia esistito un contatto fra le tragedie giunte fino a noi e i vasi giunti fino a noi non è scontato a priori; tuttavia, se riusciamo a evitare la paralisi dello scetticismo estremo, possiamo senz’altro ipotizzare che i miti raffigurati negli esempi convocati come casi di hapax dromena II siano davvero in relazione con alcuni drammi del corpus tragico che noi conosciamo.

VI.3 L’evidenza del palcoscenico dubbio: lasciamo questo tra i ‘punti critici’? comunque va aggiornato con palcoscenici in scene tragiche

Una considerazione appare, in questo quadro, molto significativa e ci preme metterla in evidenza perché, pur registrata en passant in vari contributi critici (vedi Rebaudo State of art), ne è stata forse sottovalutata l’importanza ermeneutica. Nelle pitture vascolari, la presenza di maschere, di costumi o di elementi univocamente teatrali (ad esempio il palcoscenico) è attestata più volte in soggetti collegati a episodi comici. Stando invece a quanto risulta dagli studi, nei vasi a soggetto mitologico potenzialmente influenzati da messe in scena tragiche i segnali patenti della teatralità sono attestati soltanto molto raramente, per di più in contesti localmente limitati (in prevalenza in Sicilia), e con una leggibilità iconografica problematica o incerta.

Sul problema mette l’accento anche Taplin 2007, p. 26-28 ma del fenomeno lo studioso non fornisce una motivazione soddisfacente. Una ragione è invece possibile proporre riflettendo sul diverso statuto del genere tragico e del genere comico nel sistema culturale della Grecia classica: rispetto al mito, infatti, la commedia si pone come un discorso di scarto, un discorso di secondo grado. Fin dalla produzione dei poeti più antichi (ad esempio Teleclide o Cratino) la commedia percorre due strade che non possono che contrapporla al mito: da un lato essa si basa su vicende di invenzione complessivamente originale, e fortemente legate all’attualità (tutte le prime commedie di Aristofane rientrano in questa categoria); dall’altro essa può sì accogliere la tradizione mitica, ma solo a patto di presentarne una versione fortemente deformata in senso parodico e paradossale e, nuovamente, legato all’attualità (un esempio di questa seconda tendenza è il Dionysalexandros di Cratino, più o meno contemporaneo allo scoppio della guerra del Peloponneso). In questo senso, la commedia non è mai mito, ma citazione o parodia di mito, ovvero discorso di secondo grado sul mito. Tornando al ‘Telefo’ di Würzburg la rappresentazione è comica solo nella misura in cui esibisce i segni della teatralità: in assenza delle maschere e dell’otre che permette di riconoscere le Tesmoforiazuse di Aristofane, il vaso proporrebbe una scena per noi difficilmente interpretabile, in quanto riferita in modo indiretto alla scena dell’ostaggio – scena cruciale del mito di Telefo resa popolare dal Telefo di Euripide per noi perduto.

La scena comica di soggetto mitologico nella pittura vascolare è dunque esplicitamente presentata come ‘messa in scena’ parodistica, ridicolizzata o comunque enfatizzata del mito di riferimento. Ai grandi miti la commedia arriva attraverso la tragedia e la dimensione della parodia e, in particolare della paratragoidia. Parodiando la tragedia, destituendo i suoi linguaggi e i suoi soggetti alti, la commedia indirettamente dissacra anche i miti su cui la tragedia si fonda. E, per questa via, la commedia non fa testo, nulla aggiunge e nulla toglie al repertorio mitico, perché non è nel mito il suo terreno di efficacia. La contrapposizione si gioca sull’asse di spoudaion e geloion e il ceramografo, quando si rifà al registro del ridicolo, denuncia sempre o quasi la fonte della deformazione o della dissacrazione con segnali inequivocabili di rinvio diretto al teatro, rilevando il medium da cui desume il mitema rispetto al codice mitico di riferimento. La scena tragica invece è presentata ‘di per sé’, come una variante mitica in sé. Senza rispetto per la convenzione culturale che, a quanto ci risulta, pur ammettendo a teatro scene di svestizione e forse di denudamento, non contempla la possibilità della ‘nudità eroica’ in scena, nella rappresentazione vascolare il personaggio tragico, può essere scalzo e in perfetta nudità eroica come è l’Oreste matricida del cratere di Paestum.

MA!!! … da aggiornare con ritrovamenti di vasi ‘tragici’ con palcoscenico!!!

VI.4 L’inerzia iconografica

Anche di fronte ad esempi di relazione tra pittura vascolare e testi teatrali che sembrano patenti (è il caso dei vasi riferibili alla scena delfica di Eumenidi o alla raffigurazione dell’atto finale di Medea), bisogna tuttavia considerare che l’ipotesi della dipendenza diretta è l’ipotesi limite (e sarà l’eccezione piuttosto che la regola): che insomma, anche in presenza di indicatori chiari di una relazione che pare diretta, la fonte teatrale è spesso fondata su una memoria filtrata dall’immaginario (o dal repertorio culturale delle conoscenze condivise), più che trattabile come citazione vera e propria. Innanzitutto, data la parzialità dei testi preservatici dalla tradizione, è sempre da tenere presente l’impossibilità di stabilire se il tragediografo autore del dramma a noi noto sia stato effettivamente il primo a inventare, integrare o rielaborare quella specifica variante. Da tenere in considerazione anche il fatto che, quando una particolare scena o effetto drammaturgico colpiva in modo profondo l’immaginario del pubblico (si pensi appunto al carro di Medea, o al seno di Clitemnestra), quella immagine, originariamente teatrale, per la sua potenza icastica poteva diventare facilmente un topos ed entrare come tale nel repertorio mitografico, e non essere più strettamente e necessariamente collegabile alla versione teatrale. Un esempio dell’inerzia iconografica a partire da un modello eminente è approfondito ad esempio in S. Woodford, Images of Myth in Classical Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 4-9: nel rappresentare il sacrificio di Ifigenia il pittore Timante (la notizia è in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 73) dipinge Agamennone col capo velato, a significare l’inesprimibilità del suo dolore. Scelta eccezionale che nella tradizione iconografica del sacrificio di Ifigenia continuerà ad essere riproposta come un elemento acquisito ormai nel repertorio. 

Rimane il fatto però che i vasi che riproducono varianti del mito risvegliate o addirittura introdotte dalla tragedia possono appunto rappresentare l’eccezione a cui accennavamo: se il vaso di Medea con il carro del sole rappresenta un esempio in questo senso, rimane invece un problema aperto quello rappresentato dalla lekythos palermitana di Ifigenia, attribuita a Duride e databile probabilmente entro il primo decennio del V secolo a.C.

Del soggetto Ifigenia, gli autori sottolineano però la relativamente scarsa ricorrenza iconografica e considerano le forti differenze di questo vaso e della più tarda oinochoe di Kiel (LIMC Iphigeneia 1), databile intorno al 430-420 a.C., rispetto al cratere apulo di Londra. La lekythos e l’oinochoe evocano chiaramente una situazione di guerra, mentre nella scena del cratere il coltello rituale, la machaira, sostituisce la spada e la sovrapposizione grafica di Ifigenia e della cerva allude alla sostituzione animale con maggiore evidenza rispetto all’immagine di Artemide che regge in mano una piccola cerva raffigurata sull’oinochoe). Tale iconografia coincide con quella di un’Ifigenia sacrificata recalcitrante e non sostituita dalla cerva, la stessa figura che si afferma con Pitica XI 17-37 di Pindaro (data più probabile 474 a.C.) e nella parodos di Agamennone, nel 458, la sua versione più illustre. La sequenza farebbe pensare più che a una dipendenza diretta di una rappresentazione dall’altra, all’affermarsi di un motivo legato a una versione meno nota del mito atridico o a una innovazione vera e propria sull’onda di cambiamenti culturali o di un vulnus storico importante.

riformulare il paragrafo sopra integrando e correggendo: forse portare altri casi di inerzia iconografica?? 

VII. Come funziona la & di pots&plays

Testi teatrali e immagini vascolari sono dunque indubbiamente in relazione, ma il problema che resta aperto è: in che modo sono in relazione? In che modo essi sono entrati in relazione?

La logica indiziaria delle influenze, che tende ad assimilare i rapporti a una forma di derivazione meccanica, come quella della copia testuale, è chiaramente una logica rigida e limitata. Tuttavia, essa presuppone un principio ‘filologico’ potenzialmente utile: quello della ‘coincidenza in errore’. Nelle fasi di recensio e di collatio dei testimoni di un testo, un principio guida importante è che la possibile derivazione diretta o indiretta di un testimone da un altro, e la conseguente eliminatio codicum (da praticare sempre con grande cautela: v. Pasquali [1934] 19522, 35-36 e passim), dipenda da una coincidenza in errore: se il testimone più antico è portatore di una anomalia evidente e questa anomalia si ritrova in testimoni più recenti, allora la coincidenza nell’anomalia è segno inequivocabile di una derivazione e, se non significa un rapporto di copia diretta, postula comunque, magari attraverso fasi di mediazione, un rapporto genealogico. Naturalmente l’analogia con la critica testuale non deve indurre a credere che il procedimento sia valido in modo esaustivo e senza residui: come mostra Ludovico Rebaudo, la stessa idea di andare alla ricerca di un ‘archetipo’ nella tradizione iconografica risulta per lo più fallace (Rebaudo 2019, 110ss). E possiamo bene affermare che, in ultima analisi, essa è semplicistica e fallace anche in ambito filologico, visto il ruolo della contaminazione, della correzione e della congettura nella determinazione di un assetto testuale, per non parlare della fluidità del testo in tutte le fasi della sua trasmissione (Pasquali [1934] 19522, XI e passim; una ripresa e sintesi, applicabile anche al metodo iconografico, in Centanni 2015, specie le pagine 134-137).

Dunque, la ‘coincidenza in errore’ potrebbe essere un buon criterio, mutuato dalla filologia testuale (in particolare quando si tratta di lacune: il riferimento è ancora a Pasquali [1934] 19522, 21, 140), valido per certificare la relazione tra due ‘testi’, quali sono il testo teatrale vero e proprio e una iconografia vascolare. Ma la domanda nel caso specifico è: ‘errore’ rispetto a cosa? Se c’è un ambito in cui la libertà di cui gode un autore nel rielaborare la tradizione mitica è al massimo grado di espressione creativa, questo è proprio il teatro greco del V e del IV secolo, in cui ogni dramma si propone come una nuova, possibilmente inedita, versione del mito. In questo senso, ogni versione teatrale rispetto ai suoi precedenti letterari (o di altro tipo) è una intenzionale ‘deviazione’. Quindi è ovvio che se l’arte è in qualche misura condizionata dal teatro, la ‘coincidenza in errore’ dell’iconografia – ovvero con la variante mitografica che il dramma impone – altro non è che una coincidenza con la variante mitografica che il dramma stesso propone. Ma anche ammesso (e, per le ragioni appena esposte, non concesso) che il criterio della ‘coincidenza in errore’ sia applicabile, con un qualche senso, alla relazione testo teatrale/pittura vascolare, diventerebbe automaticamente una ‘coincidenza in variante’, e perciò risulterebbe significativo solo quando la variante fosse univocamente tale e riconducibile a un preciso testo noto.

Torniamo dunque a una prima formulazione, molto generale, del problema. Possiamo identificare il tracciato di contatti indubitabili tra il mito tragico (messo in scena) e la rappresentazione vascolare? Nei paragrafi precedenti abbiamo sottoposto a processo critico i criteri individuati da Taplin come indizi di un rapporto più o meno diretto, fra teatro e pittura vascolare ( vedi anche Seminario Pots&Plays 2015; Taplin 2015b). In particolare, la critica era rivolta alle definizioni dei diversi gradi di relazione tra ‘pot’ e ‘play’ che Taplin aveva modulato nelle sue schede sui singoli manufatti:

  1. – “quite likely reflecting”
    – “may well reflect”
    – “possibly associated to”
    – “apparently related to”
    – “just possibly related to”
    – “possibly, but not probably, related to”
    – “possibly related to”
    – “quite possibly related to”
    – “probably related to”
    – “plausibly related to”
    – “plausibly related quite closely to”
    – “very plausibly related to”
    – “may be connected to”
    – “may be related to”
    – “may be plausibly related to”
    – “may well be related to”
    – “more than probably related to”
    – “more than likely related to”
    – “quite likely related to”
    – “related to”
    – “closely related to”
    – “quite closely related to”
    – “directly related to”
    – “evidently related to”

Come si evince dall’elenco si tratta di una scala articolata su gradi di progressiva prossimità tra il vaso e la tragedia: abbiamo riprodotto le ben 24 definizioni, utilizzate per introdurre le schede dei 109 esemplari esaminati nel saggio di riferimento di Oliver Taplin, escludendo le sottospecie pur presenti (Taplin 2007, passim), per dare conto della variegata classificazione che lo studioso avverte la necessità di articolare al fine di cogliere nel modo più preciso possibile la relazione tra ogni manufatto analizzato e il dramma al quale il vaso è collegabile. Questa stessa variegata e sofisticata declinazione delle definizioni di maggiore e minore prossimità che Taplin propone, se da un lato è una prova della positiva prudenza e della seria ponderatezza metodologica dello studioso, dall’altro però sembra denunciare l’oggettiva difficoltà di applicare al singolo caso una tassonomia minuziosa ma poco sistematica: le sfumature degli avverbi modali ambiscono a misurare il grado di affinità tra vasi e tragedia, tenendo il testo del dramma come punto di riferimento al quale la pittura vascolare, più o meno – ‘probabilmente’, ‘plausibilmente’, ‘verosimilmente’, ‘certamente’ – si avvicinerebbe; tuttavie esse rinunciano a estendere il discorso alle difficoltà che, a monte del collegamento, sono poste dalla natura e dai diversi codici espressivi dei testi teatrali e dei manufatti vascolari, e da ciò che sappiamo dei rispettivi contesti di produzione e di fruizione.

In realtà, il tipo di classificazione proposto da Taplin fa leva su presupposti importanti in senso teorico generale perché, insistendo sulle diverse forme di distanza, dà comunque per scontato uno stesso tipo di rapporto: nei casi di prossimità più evidente la classificazione presuppone infatti un rapporto diretto tra testo teatrale e pittura vascolare, rapporto che via via si fa più lasco nei casi in cui troppi dettagli rivelano le differenze specifiche tra i due testi, anche se non viene precisato come intendere di preciso questa relazione meno stringente. Come abbiamo avuto modo di argomentare, però (Seminario Pots&Plays 2015), in nessun caso il ‘testo’ pittorico coincide ad unguem con il testo teatrale (sul punto torneremo tra poco con l’analisi di casi specifici). Di conseguenza, nel valutare la distanza dell’immagine dal testo, è forse più saggio non dare troppo peso ai parametri di quantità: l’importante non è tanto valutare se la distanza tra pittura e testo teatrale sia minima o sia di più ampia misura, quanto sottolineare la divergenza ‘qualitativa’ – essenziale – dell’immagine rispetto al testo. L’incommensurabilità sostanziale del codice semiotico (repertorio, tecnica, funzione) rispetto al codice drammatico e teatrale fa sì che l’immagine riprodotta su vaso sia comunque sempre altra cosa – sia rispetto al testo rappresentato, sia rispetto al testo semplicemente letto.

Ora il punto di elaborazione teorica a cui si è giunti  si può sintetizzare così: i contatti fra tragedia e raffigurazione vascolare a soggetto mitologico si possono postulare, con una certa dose di sicurezza, solo nei casi in cui sia chiara e identificabile la modifica che la tragedia ha apportato ai contenuti narrativi di un mito. Solo in quei casi la riproduzione della modifica – riconoscibile come una anomalia o deviazione importante rispetto alle varianti che circolavano in precedenza, e certificata da prove dirette o indirette nelle versioni iconografiche della stessa storia – si potrà considerare una prova sicura dell’esistenza di un contatto tra testo e immagine. Forse la sola ‘prova certa’, anche se resta non dimostrabile la natura e la qualità di questo contatto, che può essere sì di prima mano ma, molto più probabilmente, sarà il risultato di ulteriori mediazioni che è difficile, se non impossibile, indagare. In altre parole: pobabilmente il criterio dell’ἅπαξ δρώμενον (vedi sopra, paragrafo xx criterio E/F) è il più significativo, se non l’unico, che possa garantire una relazione tra testo teatrale e pittura vascolare (così avevamo già argomentato in Seminario Pots&Plays 2015, 39ss). La locuzione ἅπαξ δρώμενον è da intendersi, ovviamente, solo in senso traslato: essa è modellato sul sintagma lessicografico ἅπαξ λεγόμενον, che si riferisce a parole attestate una sola volta in un’opera, in un autore o, più genericamente, in tutto il corpus di testi antichi conservato. Mutuiamo l’idea di unicità riferendola, in modo leggermente improprio, alla novità introdotta da un drammaturgo in una vicenda mitica a partire da una delle sue opere: l’ἅπαξ δρώμενον è infatti tale solo rispetto al repertorio precedente; nel momento in cui quella novità si afferma, essa è tutto tranne che un unicum. Ma piuttosto che usare il generico termine di “coincidenza in variazione” preferiamo mantenere l’espressione già impiegata nel saggio collettivo del 2015, per l’immediatezza con cui essa riesce a suggerire il carattere eccezionale e isolato dell’innovazione mitologica al suo sorgere. Per identificare una relazione tra l’immagine su vaso e il testo drammatico o la sua performance teatrale, e per rintracciare le dinamiche di questa relazione, andranno dunque analizzati con attenzione i casi di coincidenza in variazione, cioè quelli in cui l’immagine riproduce un elemento dell’azione mitica introdotto per la prima volta, a quanto ci risulta, in uno specifico dramma.

Un altro segnale da prendere in considerazione per valutare la possibile correlazione con il teatro di una raffigurazione vascolare potrebbe essere una movimentazione segnatamente drammatica (è il criterio E/F sopra esposto): anche in questo caso si tratta di un indizio di determinazione molto incerta, che una volta di più ha senso soltanto se considerato in concorrenza con altri indizi caratterizzanti la scena teatrale. C’è da dire però che in alcune rappresentazioni vascolari si nota una particolare movimentazione dei gesti dei personaggi, rappresentati ad esempio nell’atto di irrompere in scena (atto spesso accompagnato da una gestualità enfatica e accentuata) oppure intenti a interagire tra loro.

Va da sé che anche nel caso di questa ulteriore classe di indizi che proponiamo rispetto ai “segnali Taplin”, e della sua probatorietà sulla relazioni tra pittura e teatro saranno da adottare le stesse avvertenze di prudenza generale che abbiamo avanzato finora. Vero è infatti che l’analisi della gestualità nella pittura vascolare, e delle convenzioni iconografiche dei gesti ‘patetici’, investe un campo ben più vasto delle (presunte) scene di ispirazione teatrale, ma investe tutte le scene di episodi genericamente mitici o di derivazione epica (si pensi alla scena della morte di Priamo o dello stupro di Cassandra), e investe anche il campo dell’antropologia gestuale e della ritualità antica.

VIII. Dal mito al dramma e all’immagine. E ritorno 

Lo studio dei processi di relazione tra testi teatrali e immagini vascolari apre a un ripensamento generale delle dinamiche proprie del mito: a fronte della visione genealogica ancorata a un’idea di intertestualità forte, in cui ciascun testo dialoga con altri testi in un rapporto serrato, lineare ed esclusivo, ci sembra più opportuno pensare a una diffusione più sfumata delle storie a partire da cui venivano create le trame drammatiche e i soggetti delle rappresentazioni pittoriche.

Le dinamiche del mito diventano forse più chiare se pensate come un flusso percorso da movimenti ondulatori, che oscillano continuamente tra un estremo di testualità molto definita (i testi poetici, le messe in scena, le rappresentazioni iconografiche) e un estremo opposto sostanziato di discorso informale (per un approfondimento di questo spunto vd., in questo stesso numero di “Engramma”, Grilli 2021, par. 2). In questa prospettiva il mito non dà luogo a reti di nodi, in cui ciascun nodo rappresenta un testo e ciascuna stringa rappresenta il legame certo e diretto con gli altri testi-nodi: la natura del mito è più simile al tracciato di una costellazione, dove intorno a ciascun punto di irraggiamento luminoso non si trovano stringhe lineari, ma aloni. Intorno ai testi tragici, ad esempio, c’è l’alone delle innumerevoli produzioni discorsive che essi possono (devono) aver occasionato. La rilevanza degli agoni teatrali per la civiltà ateniese era tale che, molti decenni dopo la fine dell’impero marittimo ateniese, qualcuno ha fatto costruire sulla pendice Sud dell’Acropoli (presumibilmente all’interno dell’area di culto di Dioniso) un edificio destinato a contenere fasti e didascalie degli agoni teatrali dalle origini al momento presente, in un evidente sforzo di capitalizzare sul prestigio culturale della città di fronte al mondo (un’edizione aggiornata dei testi delle epigrafi in Millis, Olson 2012). Agli agoni, accanto ai pochi professionisti, partecipavano centinaia di cittadini e la produzione drammatica doveva essere oggetto di discussione e confronto incessante in ogni casa ateniese, e in ogni luogo della città. Come tutte le produzioni discorsive orali, esse sono per definizione effimere e, per quanto riguarda le versioni dei miti circolanti tra V e IV secolo, noi le possiamo ricostruire solo per via indiziaria, da accenni come il passo di Platone sull’importanza formativa dei mythoi raccontati dalle balie (Resp. 377a-c). Ma anche le abitudini simposiali, dove brani tragici erano oggetto di recitazione o di canto, erano senz’altro il set di racconti e di continui, variabili, ripensamenti e commenti, dove ogni interlocutore aveva modo di presentarli, chiosarli, interpretarli – o anche contaminarli e fraintenderli.

È ragionevole pensare che, in questa prospettiva, a determinare i passaggi di un mito tragico da un medium drammatico-letterario e a uno iconografico fosse non tanto la volontà di ‘illustrare’ un’esperienza teatrale, quanto piuttosto lo stimolo incessante dei racconti che trasformavano già prima la variante del mito al centro dell’evento teatrale in un oggetto di scambio quotidiano. E questo spiega perché, nella sintesi estrema del veicolo (il discorso informale), ciascuno dei due estremi del passaggio potesse mantenere in toto le proprietà del rispettivo codice di riferimento: poetico-drammaturgico per la tragedia, figurativo per la pittura su vaso. Insomma: l’esistenza di pittura vascolare, in particolare quella che riflette casi di ἅπαξ δρώμενα mitico-drammatici, fornisce una conferma non trascurabile all’ipotesi di un collegamento fra teatro e vaso; tuttavia anche questi esempi non ci permettono di affermare con sicurezza che quel collegamento sia diretto o immediato, e quindi che esso sia avvenuto come evento isolato in un’officina collegata ai luoghi di fruizione del repertorio teatrale. Tra il momento dell’innovazione, avvenuto in occasione della messa in scena, e il momento della prima penetrazione della novità mitico-drammatica in ambito figurativo possiamo ipotizzare non solo una risposta poligenetica della ceramografia, ma soprattutto un numero anche considerevole di passaggi intermedi, tutti peraltro impossibili da documentare. In un primo momento, in un unico luogo o in più luoghi in parallelo, la raffigurazione dell’azione saliente innovativa fa il suo ingresso nel repertorio vascolare; a partire da quel momento di effettivo passaggio transmediale si avviano complesse dinamiche di proliferazione che investono progressivamente altri centri di produzione, e finiscono per popolare il repertorio di un ambito anche molto vasto, ormai del tutto indipendente dai contesti originari della produzione tragica.

Le considerazioni fin qui svolte portano altresì a riflettere sui tempi e sui modi della rispondenza tra cultura e rappresentazioni drammatiche e ceramografiche più o meno narrative. Ci si potrebbe dunque domandare se il teatro, e in particolare la tragedia, non si siano fondati principalmente sull’innovazione operata dagli intrecci, mentre la ceramica tendeva piuttosto a conservare, anche quando complicava con particolare sapienza e competenza le immagini. Se è plausibile che si fondassero su innovazioni di maggiore o minore portata gli intrecci tragici che, ad ogni stagione, rielaboravano gli stessi materiali mitici di repertorio per un pubblico che doveva per qualche aspetto anche essere sorpreso e chiamato in causa; è altrettanto plausibile che tendessero invece alla conservazione i ceramografi, elaborando vasi prevalentemente di destinazione funeraria, da ammirare e non da discutere, intesi a rassicurare più che a inquietare, apprezzati per la buona esecuzione più che per la problematicità (ma anche questa tendenza può essere contraddetta da significative e importanti eccezioni).

Che fare, quindi? Prima di partire alla ricerca delle connessioni tra pitture vascolari e testi teatrali, o dei criteri per identificarle, occorre caso per caso – e soprattutto quando le affinità con il presunto modello letterario sembrano evidenti – porsi il problema del rapporto complesso tra i codici che regolano la produzione dell’immagine (dagli aspetti tecnici del manufatto, al contesto della committenza; dai temi repertoriali, comuni e di bottega, al talento e all’originalità del singolo artista); la dote di estrema mobilità e fluidità del patrimonio mitologico ellenico (prima dell’irrigidimento nelle ‘biblioteche’ mitografiche ellenistiche) e quindi la disponibilità dell’immaginario greco ad accogliere positivamente nuove invenzioni e varianti delle storie più o meno note; le modalità di circuitazione delle pièces teatrali e i dispositivi di circolazione dei testi.

Nei processi di classificazione e di interpretazione dei materiali saranno da presupporre tre livelli interconnessi su cui misurare le proprie ipotesi: un immaginario collettivo, un repertorio drammaturgico, un repertorio iconografico. Si tratta insomma di una equazione a tre o più incognite, non a due. O di un dilemma a tre corni e non a due. Taplin tiene in considerazione due di questi livelli e cerca i nessi dall'uno all'altro. Ma pare urgente la necessità di affrontare e aggiornare il problema triangolando fra le immagini considerate nella loro autonomia espressiva; i testi teatrali; l’immaginario collettivo (categoria più estesa che comprende i miti maggiori, ma anche i miti minori). L’ipotesi da cui muoviamo è che gli intrecci tragici e comici possano aver influenzato i pittori, anche a prescindere dalla conoscenza diretta delle performance teatrali o dei testi, ma soltanto se avevano avuto successo per la loro efficacia espressiva ed erano riusciti a incidere sull’immaginario popolare.

Il primo esito del lavoro di questa analisi critica è il disegno di un diagramma in cui l’immaginario collettivo – il ‘mito’ come ‘racconto condiviso’ – esercita continuamente la sua interferenza produttiva filtrando la relazione tra cultura letterario/teatrale e cultura artistico/figurativa. Ma la triangolazione è complicata su almeno due fronti che aprono all’intreccio delle prospettive ermeneutiche. Il lato artistico/figurativo condivide con il lato teatrale la valenza iconografica e, più in generale, la libertà e la potenza di suggestione assoluta dell’immagine: una grande opera d’arte come una grande scena teatrale, una volta evocata, si impone e si imprime come l’immagine propria di quel soggetto. Il lato teatrale, nella sua declinazione tragica, condivide per altro con il lato dell’immaginario collettivo, la capacità mitopoietica. In altri termini: la versione tragica di un mito ‘fa mito’ – e finisce per imporsi nell’immaginario come ‘testo’ di quel soggetto mitico.

Quanto ai criteri e ai ‘segnali’ da rintracciare nelle raffigurazioni vascolari come indicatori della relazione complessa tra i tre lati del diagramma, come spesso accade nella ricerca l’importante non è trovare la prova, ma disegnare con pazienza una costellazione di indizi. Costruire un paradigma indiziario, il più probante possibile – che però alla fine, con tutta probabilità, confermerà la triangolazione feconda delle suggestioni passanti fra testi e performance teatrali, immagini artistiche e immaginario collettivo.

Appendix | The Term “iconogramma”

Ludovico Rebaudo

English abstract
I. Che cosa significa ‘iconogramma’

‘Iconogramma’ (inglese: ‘iconogram’; francese: ‘iconogramme’; spagnolo: ‘iconograma’: tedesco e lingue slave: ‘ikonogram’) è un quasi-neologismo, soprattutto nell’ambito di ricerca che andiamo qui a definire.  Inutile perdere tempo a cercarlo nei dizionari ufficiali delle principali lingue europee: non lo troveremmo. Eppure, il termine esiste e circola.

‘Iconogramma’ condivide la stessa incertezza semantica di tutti i termini derivati dal greco εἰκών che originalmente significa ‘ritratto’ e nel lessico cristiano passa a indicare, via via sempre più esclusivamente, il ‘ritratto sacro’, l’icona dei santi o della madre di dio. Un recente incremento dell’uso del termine e uno slittamento del suo significato è stato segnato dall’avvento del web, e dal lessico specifico dei computer: ‘icona’ è attualmente usato, in modo maggioritario, per indicare il pittogramma che identifica un programma e questa diffusione dell’uso del termine ha provocato, negli ultimi 20 anni, un successo della parola nel lessico comune, a indicare una immagine identificativa, paradigmatica, di riferimento in ambiti diversi. ‘Iconogramma’ si  si incontra pertanto in rete con significati vari, diversi, a volte pittoreschi, in una interessante oscillazione tra il sacro e il profano. L’Arcidiocesi greco-ortodossa d’America, ad esempio, gestisce il portale Iconograms.org attraverso il quale è possibile inviare a pagamento, sotto forma di e-cards, riproduzioni di icone sacre, brani delle scritture o inni coperti da copyright. Iconogram.com è uno studio di web-design con sede a New York che offre servizi come brand reputation, influencer marketing, community engagement, reels, videography. Un omologo francese, Iconogramme.com, vantava lavori di questo tipo per Voyage SNCF.com, Capital Data, France Telecom e-commece e altri brand importanti già nel 2010. In Spagna esiste l’agenzia Iconograma.net che produce braccialetti pubblicitari, biglietti e braccialetti di sicurezza (quelli che si consegnano all’entrata degli esercizi turistici per distinguere i clienti dai non clienti) personalizzati con logo e nome del cliente. Certo, in questi come in altri casi che supponiamo si nascondano nel web, il termine ha una relazione vaga con lo l’attività di chi lo ha scelto. È probabile la scelta sia stata impressionistica, di pura assonanza, per la seduzione del doppio grecismo. Quanto avrà contato, agli occhi dei resposabili dell’Arcidiocesi greco-ortodossa d’America che vende icone a cittadini che probabilmente non sanno il greco l’eloquente prefisso icon– ? E un termine che combina l’idea di immagine con quella di segno scrittorio non è forse adatto a richiamare il lavoro del grafico pubblicitario digitale? Che altro fa, costui, se non mescolare a un livello complesso parole e immagini, e occasionalmente musica, per farci desiderare ciò di cui non abbiamo alcun bisogno? fino a qui

1 | dida dida

2 | dida dida

In senso stretto il termine ‘iconogramma’ definisce un segno grafico, per sua natura associato al concetto di scrittura, posto in una relazione di qualche tipo con un contenuto figurativo. Il suo uso però è più vario, anche nella nella letteratura sceintifica. Per i filologi egei l’iconogramma è il disegno esplicativo che nelle tavolette contabili qualche volta segue il nome dell’oggetto scritto in lineare B. Il caso più noto è ti-ri-po-de seguito da  nella tavoletta 236 (= Ta 641) di Pilo (Martinotti 2014). Gli antropologi invece lo usano per definire certi motivi dal contenuto simbolico complesso, come l’animale cornuto che porta fra le corna il “quadrato del mondo abitato”, ovvero il piano ideale che gli antichi astronomi ponevano lungo l’eclittica, un motivo tipico dell’Asia occidentale (Baity, Aveni, Berger e al 1973, p. 442). Lo storico del cinema François Amy de la Brétèque ha chiamato ‘iconogrammes’ i personaggi e gli elementi d’ambientazione che gli sceneggiatori intrufolano nei film storici per caratterizzare il ‘medioevo’ (Amy de la Brétèque 2004, pp. 1071-1088). La disciplina che lo ha definito meglio è, comprensibilmente, la semiotica. Jean-Marie Klinkenberg in un recente studio delle relazioni morfologiche, sintattiche e semantiche delle associazioni testo-immagine ha dedicato un intero paragrafo all’iconogramma, ovvero all’“interpenetrazione” fra segno scrittorio e segno iconico (Klinkenberg 2020):

Le meilleur exemple de la manifestation de cette interpénétration est sans doute à chercher du côté de ce qu’il est convenu d’appeler les “ calligrammes “. Ce terme a certes l’usage pour lui, mais on devrait, en rigueur de termes, lui préférer celui d’iconogramme, qui ne confine pas le phénomène à la littérature. En effet, le terme “ calligramme “ tend malheureusement à ne désigner que des énoncés caractérisés par ce qu’on appellera ci-dessous dominante scripturale, à l’exclusion des énoncés à dominante iconique, où l’on observe pourtant la même interpénétration entre signe scriptural et signe iconique (§ 4.1, capoverso).

L’iconogramma è una miscela di scrittura e immagine di cui Klinkenberg distingue tre tipi su base quantitativa: l’iconogramma a dominante iconica, quello a dominante scrittoria e quello senza residui (Klinkenberg 2020, §4.2). Un iconogramma a dominante iconica è, ad esempio, l’Art de la convérsation IV di Magritte (1950, collezione privata svizzera: Fig. 1). In un’intricata architettura di pietra che ricorda una rovina, alcuni blocchi in basso sono disposti in modo da formare la parola Rêve mentre tutti gli altri non delineano alcuna lettera, anche se a prima vista potrebbe sembrare. È evidente che nell’opera l’elemento scrittoio è presente, ma quello iconico prevale.

I Calligrammi di Guillaume Apollinaire (1918) sono, al contrario, iconogrammi a dominante scrittoria. In La Cravate et la montre [Fig. 2] il titolo si riflette nella disposizione delle parole: riconosciamo agevolmente sia la cravatta che l’orologio. La componente iconica è però solo un geniale complemento del poema, non la sua essenza. Se ci limitassimo a guardare il disegno formato dalle lettere e non leggessimo il testo, tradiremmo la volontà dell’autore, che alle parole ha affidato un contenuto satirico (la costrizione dalle convenzioni sociali e l’ossessione del tempo nella società borghese).

Gli iconogrammi senza residui sono una sorta di via di mezzo meno frequente: i loro componenti possono essere letti sia come immagini che come parole. È il caso dei geroglifici egizi: in un rilievo che mostra il rituale di unione dell’Alto e del Basso Egitto lo stesso vegetale può essere letto come immagine dei fiori che caratterizzano le due parti del regno, sia come geroglifico con valore fonetico mhw (Alto Egitto) o swaw (Basso Egitto).

Insomma: l’iconogramma è una miscela inseparabile di immagine e testo. Nel discorso di Klinkenberg, e in generale nella riflessione semiotica, il testo coincide con la scrittura. Il prodotto dell’atto materiale di scrivere assume un significato iconico e può essere letto come immagine a vari livelli. L’iconogramma è una “interpenetrazione iconografica” della scrittura (Klinkenberg 2020, § 4.2, capoverso 22).

Per noi iconogramma ha un significato più generale. La scrittura in quanto atto fisico ci interessa fino a un certo punto, dato che nel contesto di cui ci occupiamo la dimensione orale prevale su quella scritta. Al concetto di scrittura sostituiamo quello di ‘testo’, ‘racconto’, ‘contenuto narrativo’. L’iconogramma è un’immagine, una situazione, una scena che nella memoria collettiva si lega indissolubilmente a una storia. È l’“immagine-segno” – iconogramma, appunto – da cui la storia si deduce. È l’insieme delle immagini che da una storia derivano e che servono a rappresentarla. In questo senso, il concetto è stato definito e usato da uno di noi in un lavoro recente (Rebaudo 2019). Ed è su questa base che abbiamo costruito la nostra idea di innovazione iconografica generata dal teatro, che spieghiamo più avanti.

Il concetto ci è indispensabile perché per sua natura il teatro genera iconogrammi in quantità. Prendiamo ad esempio la tragedia. La sua incidenza sulla percezione popolare del mito era già presente ad Aristotele ed è stata ampiamente discusso (bibliografia). Certo, anche la poesia epica ha modellato l’immaginario delle comunità greche, specie nel VII e nel VI secolo, ma la tragedia metteva in campo la potenza formidabile della componente visuale. Sarebbe possibile raccontare un mito tragico, ad esempio la versione euripidea della storia di Medea, senza avere in mente i momenti salienti della tragedia? La risposta è no. Ecco, quindi, che la Medea di Euripide diviene un generatore di innovazione. Grazie alla sua popolarità diffonde situazioni ignote: Glauce che muore in mezzo alle fiamme, Medea che medita l’uccisione dei figli, Medea che uccide i figli, Medea fugge su un carro trainato da mostri. Ciascuno di questi momenti è un potenziale iconogramma del mito intero. Una volta assimilato l’intreccio, queste situazioni permettevano a chiunque di riconoscere immediatamente la storia.

È anche probabile che in certi momenti, ad esempio dopo il 431 a.C. ad Atene o dopo una delle riproposizioni che devono avere avuto luogo nelle città italiche durante il IV secolo, le situazioni euripidee risultassero più glamour delle vecchie immagini tratte dalla tradizione epica che avevano dominato in precedenza: una per tutte la resurrezione dell’ariete davanti alle Peliadi (bibliografia). Non per caso la scena dell’infaticidio e la fuga sul carro scene sono fra le più rappresentate nella ceramica magnogreca (Rebaudo 2019, 101-104 con bibliografia).

Riferimenti bibliografici da rivedere, integrare, ordinare

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  • adde biblio ‘iconogramma’
English abstract

This article aims to reconsider the so-called ‘ἅπαξ δρώμενον criterion’, first introduced in Seminario Pots&Plays 2015; this principle refers to instances of mythological vase-painting whose content reflects innovative variations from extant V century BCE tragic texts. From a genealogical viewpoint, this coincidence parallels the philological principle of the ‘concordance in error’. We argue that this is the only relatively safe principle to ascertain any whatsoever connection between a drama whose text is known to us and a visual representation of its plot. The limits of this principle are first explored: sources pointing out to a unique dramatic version of a myth (as in Aeschylus’ Eumenides) may refer only to the works of the three great tragic playwrights, not to the Attic tragic corpus in its entirety; in other cases, that a mythical variation depends on an authorial choice is only possible, or supported by problematic evidence. Through close examination of four examples (Orestes’ Delphic act in Aeschylus’ Eumenides; Medea’s flight on the chariot of the Sun; Clytemnestra’s unveiling of her breast as an extreme plea for life; Orestes’ role in Neoptolemus’ Delphic assassination) we try to evaluate the soundness of this criterion as a means to better understand the relation between V-IV century BCE vase-painting and Attic tragedy. A comparative analysis of these examples shows that in spite of the relatively sure connection, there are no means to root the images in the visual dimension of the theatrical experience. Although some details suggest a possibly faithful correspondence between image and text, we contend that no theatrical experience was necessary to shape visual forms from dramatic myth: loose textual knowledge, or, more probably, informal discourse may well have conveyed what was essential to the painter’s own interpretation of a narrative content.

keywords | Pots&Plays; Attic tragedy; hapax drōmenon criterion; text-image transmediality; Greek and South-Italian mythological vase-painting;

appunto Taplin

L’obiettivo primario dichiarato da Taplin è di riportare al centro dell’attenzione il rapporto fra i vasi e il teatro. Tutta la prima parte dell’introduzione è dedicata a delineare un contesto storico nel quale il fenomeno dell’influenza teatrale sulla ceramografia, fenomeno inteso qui nella sua accezione più ampia, risulti plausibile. Si tratta della discussione dei pochi dati, letterari e archeologici, sui quali è possibile fondare l’affermazione che il dramma attico abbia goduto di popolarità in Italia meridionale e in Sicilia durante il IV secolo. La conclusione è, questa volta sì, estremamente ottimista (in senso letterale e non traslato): "it is not quite a hundred percent certain that 'Attic tragedies were both popular and performed in the fourth century in Apulia', but it is extremely likely – perhaps ninety-nine percent?". Qui è il presupposto dell’intero lavoro: è altamente probabile che il teatro tragico sia stato ben presente ai pittori di vasi, dunque possiamo aspettarci che abbia esercitato un’influenza sulla loro opera. Taplin rivendica a più riprese che un simile assunto non significa affatto aderire alle vecchie tesi ‘ottimistiche’. Il pittore e il suo pubblico appaiono a Taplin interessati alla storia che le immagini raccontano, non alla realtà del palcoscenico che può celarsi dietro di essa: "the tragedy-related pictures […] are paintings of a myth, not paintings of a play" (p. 28). Ma questo non autorizza la conclusione che non esista alcun rapporto fra immagine e tragedia, come sostengono gli scettici:

The vases are not, then, accordingly to my approach, banal ‘illustrations’, nor are they dependent or derived from plays. They are informed by the plays; they mean more, and have more interest and depth, for someone who knows the play in question. That is what I mean by calling a vase ‘related to a tragedy’ (p. 25).

In sostanza Taplin propone di sostituire al rapporto di subordinazione della letteratura ‘ottimistica’, che considerava l’immagine un mero riflesso della performance, un rapporto mediato e complesso, in cui gli stimoli che provengono dal teatro vengono rielaborati dai pittori in modo costruttivo, producendo immagini possono allontanarsi anche significativamente dall’impulso di partenza. Questo tipo di rapporto si evidenzia per contrasto con i vasi ‘comici', nei quali i richiami convenzionali al teatro sono chiarissimi (maschere, costumi con grandi falli pendenti, pance e sederi sporgenti, piattaforme sopraelevate e dotate di scale su cui agiscono gli attori). Nulla di simile esiste nei vasi a soggetto tragico, nei quali le allusioni alla scena mancano del tutto, e anzi vi sono particolari incompatibili con la prassi drammatica, il più comune dei quali è la nudità eroica della maggior parte dei personaggi maschili in giovane età. Anche le sontuose vesti ricamate a maniche lunghe indossate da re e stranieri, spesso interpretate come costumi di scena, sono solo un motivo standard che caratterizza le figure esotiche e non costituisce un legame con il teatro (certo, la loro derivazione dai costumi di scena è possibile: ma altro è la genesi di un motivo, altro il suo significato funzionale).

Per questo Taplin si sforza di individuare nelle immagini degli elementi che potessero servire come ‘segnali’ del rapporto col teatro: segnali non espliciti come quelli delle scene comiche, ma tali comunque da orientare e arricchire la lettura che uno spettatore ‘informato’ poteva fare dell’immagine. Questi elementi sono, secondo Taplin, classificabili in tre gruppi: a) spunti narrativi; b) segnali di relazione interni; c) segnali extradrammatici. Per il primo gruppo il meccanismo sembrerebbe semplice: se i particolari di una scena ricordano da vicino una tragedia, lo spettatore coglieva la relazione, in caso contrario questo non avveniva. In realtà la questione è più complicata: l’alto numero delle tragedie circolanti (nell’ordine delle migliaia), il peso delle scelte individuali nel privilegiare un aspetto o un altro della storia, la possibilità di divaricazioni di origine iconografica fanno sì che né la corrispondenza dei contenuti sia garanzia di riconoscibilità del riferimento alla tragedia, né eventuali discrepanze siano ragione sufficiente per negare che tale rapporto esista. Taplin insiste sul fatto che la vicinanza fra un’immagine e una tragedia non è mai di per sé decisiva: ogni singolo caso necessita di un approccio, per così dire, individuale, una considerazione bilanciata di tutte componenti in gioco.

Simile è il discorso per i ‘segnali di relazione’ interni. Il fatto che le scene tragiche non abbiano mai, a differenza di quelle comiche, richiami teatrali espliciti non significa che non vi si possa individuare nessuna traccia di ciò che dal teatro proveniva. Al contrario, la familiarità del pittore e dello spettatore con la dimensione visuale della performance fa sì che certi elementi si trasferissero più o meno consapevolmente dalla scena all’immagine, finendo per entrare nel repertorio iconografico. Elementi inveitabilmente eterogenei, che Taplin elenca e puntualmente commenta: 1) il costume; 2) i kothurnoi; 3) i portici; 4) l’arco di roccia; 5) le figure anonime; 6) il vecchietto (detto Pedagogo); 7) le Furie e altre figure correlate; 8) le scene di supplica. Cosa importante, nessuno di essi secondo Taplin può essere considerato un indicatore infallibile della connessione teatrale, ma alcuni hanno più peso di altri: l’arco di roccia (4) e il pedagogo (6) sarebbero ad esempio "pretty strong prima facie indicators" (p. 37), segnali quasi più espliciti che impliciti, derivati forse da elementi prefabbricati della scenografia (l’arco) e da un personaggio usato di frequente dai tragediografi (Pedagogo). Si potrebbe obiettare che, indipendentemente dalla sua natura, un indicatore non sicuro è sempre più fonte di dubbio che di certezza ed è quindi discutibile che possa essere considerato un ‘segnale’. In ogni caso non è questa la sede per valutare nel merito l’affidabilità di ciascuno di essi: alcuni, in particolare l’arco di roccia, indicatore di prima facies, lo sono già stati, con conclusioni negative (Roscino 2003, pp. 75-99).

Il terzo gruppo di segnali, apparentemente marginale rispetto ai primi due, è costituito dai segnali extradrammatici, ovvero non legati direttamente alla performance scenica. Si tratta essenzialmente di due particolari: la presenza nelle scene di iscrizioni con nomi di personaggi in dialettico attico attribuiti e la rappresentazione di tripodi. Il primo è ben comprensibile: nell’Apulia linguisticamente dorica i nomi con vocalismo attico sembrano indicare una centralità della tragedia nella formazione del repertorio narrativo popolare, se non addirittura che le iscrizioni fossero copiate da fonti scritte (ma su questo punto ci sono indizi in senso contrario). Quanto ai tripodi, essi sono poco comuni nella ceramografia magnogreca e il vaso di Pronomos mostra che erano probabilmente legati alle vittorie negli agoni teatrali.