Che l’espansione progressiva, nel passaggio dal XIX al XX secolo e oltre, della didascalia nel testo drammatico rifletta la cosiddetta nascita o il cosiddetto sviluppo della regia teatrale è opinione diffusa. Tuttavia un simile approccio – non, ovviamente, per misconoscere il peso del lavoro scenico e delle sue novità sulla scrittura drammatica – va quantomeno controbilanciato da una considerazione simmetrica, assai meno ovvia. Come ha scritto Ferdinando Taviani, nella storiografia teatrale degli ultimi decenni (in particolare in quella italiana) il riferimento alla regia teatrale “ha designato a tutta prima una funzione direttiva; poi una funzione estetica, alla fine il senso di un’intera età della storia del teatro”, finendo con l’assumere, di slittamento in slittamento, il ruolo di “una bandiera potentissima, come tutte quelle che accennano a gran cose ma non rappresentano nulla di preciso”, ovvero “una sorta di ‘ombrello d’un mutamento estetico onnivalente’”. Così personalità e fenomeni che la categoria viene impiegata a coprire “visti nel loro insieme dimostrano soltanto che la domanda sulla ‘regia’ come sintesi dei mutamenti è troppo generica per indicare una ben identificabile pratica artistica; e troppo (apparentemente) specifica per segnare un mutamento epocale del teatro. Sotto il suo ombrello nobile e bucato si riparano le teste più diverse, e lì strette sembrano far famiglia” (Taviani 2021, 303-305).
La questione o il tema sono amplissimi e il richiamo all’inizio di questo contributo non potrà che essere, per ovvi motivi, ridotto ai minimi termini in rapporto al suo argomento, diversamente circoscritto. Non possiamo, tuttavia, non ricordare una contrapposizione di massima tra una considerazione della regia come una “creazione organica”, che occupa uno spazio preciso nella storia del teatro del Novecento (Schino 2003), e una diversa opzione che considera invece la sua nascita come un lungo percorso evolutivo, che comincerebbe nel XIX secolo o prima ancora, e che vedrebbe nell’allontanamento dal primato della letterarietà, ovvero dal testo, una “tappa miliare nella storia del teatro” nel “passaggio da un’idea di regia come funzione vicaria al riconoscimento del regista come demiurgo dell’evento spettacolare” (si veda Artioli 2000, 59). Ci limitiamo solo ad osservare la discutibilità di una precisazione che correda tale affermazione, ovvero il fatto che “una cultura come quella occidentale […] ha sempre mostrato di anteporre la scrittura drammatica all’evento rappresentativo”. Cosa non vera se non per l’ovvia ragione della conservazione (laddove questo si dia) del testo rispetto allo spettacolo nel lungo arco temporale che precede il XIX secolo. Ciò si può affermare, e non senza difficoltà, per i secoli dal XVI in poi, ma riguarda, più che la tradizione in sé, l’assunzione nella prospettiva degli studi, o senz’altro accademica, della storia del teatro dentro quella delle letterature.
Se risulta indiscutibile l’affermazione che la storiografia teatrale abbia mutato fisionomia in tempi recenti, ovvero che “fino a qualche decennio fa le storie del teatro erano storie della drammaturgia, e solo liminarmente, per tracce e per lampi, storie dello spettacolo”, un rapporto di causa-effetto rispetto all’imporsi della regia sulla scena sembra invece assai discutibile, secondo l’affermazione che “se oggi le proporzioni si sono invertite […] lo si deve a quel rivolgimento teorico che, a partire dalla fine del XIX secolo, ha accompagnato l’ascesa al potere della regia” (62 e si sottolinei qui l’espressione “ascesa al potere”). Dunque, tornando alla questione di partenza, una diversa, parallela istanza emerge nell’incremento del sistema didascalico, e dare ad essa rilievo non presume affatto una prospettiva, come si usa dire, “testocentrica”, che intenda cioè rivendicare un qualche primato della letteratura sullo spettacolo. Semplicemente il discorso che si prova qui a mettere in tavola, riprendendendo questioni affrontate in precedenti saggi e interventi, intende ripensare la questione in un più ampio quadro di storia della cultura, fuori da secche ripartizioni accademico-disciplinari.
II.
Un’esemplare cartina di tornasole mi sembra offerta da un testo di George Bernard Shaw, figura che sarà qui implicata nel sostanziale disinteresse per la sua drammaturgia, che tuttavia copre un arco temporale di considerevole ampiezza, dalla fine del XIX secolo fino agli anni ’30 del XX (il medesimo, peraltro, in cui si colloca normalmente la nascita e/o lo sviluppo della regia). Al principio e in estrema sintesi: un giovane romanziere fallito passa alla scrittura per il teatro, campo in cui invece gli arride una pronta fortuna e, quindi, un grande e continuato successo. Evidente in partenza l’influenza, che vale per lui come per altri scrittori di teatro del suo tempo, nell’Europa continentale e in Inghilterra, della drammaturgia di Ibsen.
Premetto che pur avendo precedentemente trattato la questione della crescita esponenziale dell’annotazione didascalica nel secondo Ottocento e nei primi decenni del Novecento, mentre ho considerato con qualche attenzione, per fare solo alcuni nomi, D’Annunzio, Pirandello, Valle-Inclán, Lorca, e così via, non mi sono mai interessato a Shaw. Né Shaw risulta coinvolto nel libro più rilevante dedicato alla storia e alla teoria della didascalia, dovuto a Silvia De Min. Shaw rappresenta invece un punto di snodo fondamentale, nel senso della rappresentatività ed esemplarità per questo procedimento, in particolare con la stampa dei primi suoi tre plays, in data 1898, uniti dall’aggettivo Unpleasant, che offre nelle pagine introduttive un documento di eccezionale valore.
La Preface sarebbe praticamente tutta da citare e mi limiterò a richiamarne solo alcuni luoghi essenziali. Shaw discute, infatti, in essa la questione della necessità di superare il sistema didascalico corrente, contro la cultura della pièce bien faite (o well done), che, per ripartizione dei ruoli, presuppone degli “esecutori scenici” in grado di realizzare uno spettacolo a partire da un testo drammatico sapientemente confezionato dal drammaturgo, nella rispettiva separazione dei ruoli e del lavoro. Shaw presenta dunque, e difende, la fitta annotazione ai suoi primi tre testi come a literary treatement, ma che non intende tanto offrire annotazioni di corredo utili al rispetto delle intenzioni dell’autore per chi lo vorrà mettere in scena (appena una premessa di rito suona la difesa del “living author against the extremity of misrepresentation”), quanto tentare di elevare la precaria e difettosa natura del testo drammatico in sé, facendo di esso un libro ovvero un’opera. Non più un copione composto solo dai dialoghi tra i personaggi e corredato da poche istruzioni per i falegnami e i sarti, ma che intende misurarsi col più complesso regime della fiction (si sottolinei questa definizione per la comprensione del differente significato che assume l’aggettivo literary), che caratterizza sostanzialmente il romanzo. Certo, Shaw recupera per questa via le sue precedenti ambizioni (in particolare la sua attrazione per Dickens); certo egli trova nella scrittura di Ibsen, come altri suoi contemporanei, un modello di riferimento per il significativo incremento diegetico del dramma; ma la partita mostra una più ampia ambizione o funzionalità.“The customary brief and unreadable scene specification at the head of an act will have expanded into a chapter, or even a series of chapters”, egli osserva appunto, a partire da Ibsen. Ed aggiunge subito una dichiarazione relativa ai limiti che il practical dramatist dovrebbe porsi davanti a una possibile crescita esponenziale della funzione didascalica. Senonché, a leggere le pagine introduttive ai singoli atti dei tre testi che questo volume consegna ai lettori (e ancora di più quelle composte in seguito, e tenuto in ogni caso conto della natura antifrastica e polemica delle dichiarazioni e giustificazioni teorico-introduttive di Shaw in generale: si pensi, per esempio, a un titolo, dopo questo, come Pleasant Plays, e quello che segue ancora, Three Plays for Puritans, nel 1900 tondo tondo), non si può tuttavia non rilevare come l’elencazione degli eccessi rappresenti piuttosto una puntuale descrizione dell’operazione condotta. Ecco, insomma, un testo “part narrative, part homily, part description, part dialogue and (possibly) part drama; works that could be read, but not acted” (Show 2003, 38). Si noti e si sottolinei: testo da leggere e non da mettere in scena, nel senso che chi mette in scena i plays – investendo denaro – ha le sue regole e i suoi principi, e soprattutto le sue attese commerciali, e il dramma diviene (si veda l’ironica sottolineatura dell’avverbio possibly) solo una parte dell’opera.
Dopo aver ricordato gli experiments di Charles Charrington con Ibsen, di Lugné Po con Maeterlinck e, soprattutto, del Wagner Festival Playhouse at Bayreuth (quelli, potremmo aggiungere, che calamitano contemporaneamente l’attenzione di Adolphe Appia, una delle figure che si sogliono indicare nel primo manipolo dei “precursori della regia”, e di Edward Gordon Craig, per il suo rapporto con Henry Iriving, da lui citatissimo) – Shaw afferma che sarebbe disposto a dare una parte degli stessi drammi di Shakespeare per disporre, appunto, di un quadernetto contenente le descriptive directions di mano del Bardo. Non però, si badi, ai fini di un eventuale restauro di condizioni “originali” della rappresentazione, ovvero per ritrovare le intenzioni del drammaturgo e dell’uomo di teatro contro la “maniera” di Irving e della scena contemporanea, quanto per indicare un vuoto assoluto di funzione in rapporto al più grade drammaturgo in lingua inglese di tutti i tempi. Del resto, negli anni seguenti, Shaw tenterà, immodestamente, di riscrivere o variare Shakespeare, addirittura convinto di migliorarlo, in testi come Caesar and Cleopatra, proprio a partire dall’immaginazione retrospettiva, ovvero dall’idea di Shakespeare affidata alle proprie descriptive directions, sempre sul terreno del trapianto romanzesco o della fiction nel libro, ovvero per rivendicare a sé il diritto di una tale intrapresa.
Essenziale il riferimento, più che rispetto alle libertà degli adattamenti (e dunque dei protoregisti, allora all’opera, o delle figure che la storiografia ha investito di funzione di battistrada per la regia), a una competition of fiction. Ma citiamo almeno, nella sua estensione complessiva, un passo tra i principali, che comincia appunto dal riconoscimento della relativa necessità di ciò nel sistema di Shakespeare, ma invece di una necessità assoluta in quello al volgere del XIX secolo, e della stessa immaginazione di Shakespeare. Cito un passo di discreta ampiezza in italiano, riportando tra parentesi i tratti essenziali delle definizioni nell’originale:
Un tale trattamento letterario è molto più necessario per i drammi moderni che per quelli di Shakespeare, perché al suo tempo la recitazione drammatica si differenziava in maniera alquanto imperfetta dalla declamazione poetica [the acting of plays was very imperfectly differentiated from the declamation of verses]; e la recitazione, descrittiva o narrativa, faceva quello che ora fanno la scenografia, il mobilio e le indicazioni di scena [furniture and stage business]. […] La presentazione di drammi attraverso il mezzo letterario [the presentation of plays through the literary medium] non è ancora diventata un’arte: di conseguenza è molto difficile indurre il pubblico inglese a comprare e leggere opere teatrali [plays]. E, in verità, perché dovrebbe farlo, dal momento che non ci ritrova nient’altro che le nude parole [the bare words], con qualche indicazione per il falegname e il costumista, su come il padre dell’eroina abbia la barba grigia, o il salotto abbia tre porte sulla destra, due porte e un’entrata dalla veranda sulla sinistra, e una portafinestra al centro? Mi sorpende che Ibsen, che ha dedicato due anni alla produzione di un dramma in tre atti, la cui straordinaria qualità dipende dalla padronanza della resa dei personaggi e della situazione [on a mastery of character and situation] che è possibile ottenere soltanto scavando in profondità nella famiglia e nella storia personale degli individui rappresentati, abbia nondimeno offerto ai lettori pochissimo altro, se non le note tecniche necessarie al falegname, all’elettricista e al suggeritore [the technical memorandum required by the carpenter, the electrician, and the prompter]. (Shaw 2023, 35-37)
Ora, che il sistema di annotazione di Ibsen sia così ristretto al memorandum essenziale risulta ovviamente falso, e serve solo a una rivendicazione a sé medesimo di un ruolo maggiore, posto che appunto la scrittura ibseniana costituisce con evidenza, per l’ampia modellatura diegetica, il modello della nuova forma didascalica per la drammaturgia europea dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, e ovviamente il punto di partenza per la stessa elaborazione di Shaw.
Ho analizzato, qualche anno fa, alcune didascalie ibseniane a titolo campionario, e impiegherò anche qui come esempio quella che apre Hedda Gabler (1890) [mi servo dell’edizione Ibsen 2009], che precede di appena nove anni gli Unpleasent plays di Shaw, per osservare come essa costituisca un indubitabile modello, soprattutto per gli squarci dedicati ai personaggi, come in una sorta di “fermo immagine” o di punto d’arresto nel momento del loro ingresso in scena, dopo appunto la descrizione dell’ambiente, della posizione di porte e finestre (si potrebbe dire, come in un romanzo):
Una spaziosa, bella ed elegantemente arredata sala di ricevimento, decorata con colori scuri. Sul muro di fondo c’è una larga apertura di porta con la portiera scostata. Questa apertura conduce in una sala più piccola, dove è lo stesso stile della sala di ricevimento. Lungo il muro di destra di questa c’è una porta a due battenti che conduce nell’anticamera. Sul muro opposto, a sinistra, una porta vetrata con le tende egualmente scostate. Attraverso i vetri si vede una parte della attigua veranda esterna e alberi frondosi di colore autunnale. Sul davanti della stanza c’è un tavolo ovale ricoperto di un tappeto con sedie intorno. Lungo il muro di destra una larga stufa di porcellana scura, una poltrona a schienale alto, un poggiapiedi con cuscino e due tabourets. Nell’angolo di fondo a destra un sofà d’angolo e un piccolo tavolo rotondo. A sinistra sul davanti, un po’ staccato dal muro, un sofà. Al di là della porta vetrata un pianoforte. Sul fondo, su entrambi i lati della apertura di porta, stanno étagères con oggetti di terracotta e di maiolica. – Presso il muro di fondo della sala interna si vede un sofà, un tavolo e un paio di sedie. Sopra questo sofà è appeso un ritratto di un bell’uomo di una certa età in uniforme di generale. Al disopra della tavola una lampada appesa con il globo di vetro opaco color latteo. – Tutt’intorno nella sala di ricevimento quantità di bouquets di fiori messi in vaso di vetro. Altri stanno sui tavoli. I pavimenti di entrambe le sale sono ricoperti di spessi tappeti. – Luci del mattino. Il sole splende attraverso la porta vetrata.
La signorina Juliane Tesman, con cappello e parasole, entra dall’anticamera, seguita da Berte che porta un bouquet involto nella carta. La signorina Tesman è una donna di circa 65 anni dall’apparenza piacevole e bonaria. Vestito da passeggio grigio lindo ma semplice. Berte è una cameriera avanti negli anni, dall’apparenza ordinaria e un po’ contadina. (Ibsen 2009, 710)
Si possono davvero considerare “indicazioni di regia” puntuali descrizioni e precisazioni anagrafiche relative ai personaggi che qui leggiamo: “circa 65 anni”, oppure “33 anni”, o “29 anni” e simili? La competition of fiction è ancor più chiaramente rivelata da particolari inscenificabili o, in ogni caso, se eventualmente realizzati, che non potrebbero essere percepiti, dai palchi o dalla platea, anche da uno spettatore munito di binocolo. Che dire, in particolare, del color grigio acciaio degli occhi di Hedda, che esprimono fredda e chiara calma? Davvero per mettere in scena Hedda Gabler ci vuole un’attrice con gli occhi color grigio acciaio? E il pallore opaco della sua carnagione è un’istruzione per il trucco o non piuttosto per l’immaginazione del lettore?
Hedda arriva da sinistra attraverso la sala di fondo. È una dama di 29 anni. Volto e figura nobile e distinta, Il colore della pelle è di un pallore opaco. Gli occhi sono di un grigio acciaio ed esprimono una fredda chiara calma. I capelli sono di un bel castano ma non troppo abbondanti. Indossa un elegante abito da camera un poco ampio. (Ibsen 2009, 717)
Venendo a Shaw, potremmo citare pagine e pagine – anche per il progressivo ampliamento in lunghezza – delle sue didascalie, specie di quelle poste in testa agli atti, ma forse basterà limitarsi alle prime righe, senza muoverci dagli Unpleasant plays, di The Philander (Il seduttore). La descrizione comincia qui in medias res, non dall’ambiente ma dalla situazione, dunque innovando anche il tradizionale ordine di sequenza descrittiva ereditato dal romanzo. Un uomo e una donna si stanno baciando, su un divano. Solo dopo – in una vera e propria “pausa”, nel senso narratologico del termine – verranno dichiarati i loro nomi, la loro età e provenienza, in un’ampia rendicontazione di cui ovviamente lo spettatore a teatro non può disporre. L’occhio immaginario (penso sempre a quello che si aggira, descrivendo quadri e ambienti al tempo presente, non al “preterito epico” della narrazione, nei capitoli dove non parla la narratrice, in quel romanzo straordinario che è Bleak House di Dickens, la cui versione a puntate data al 1852-53) si mette qui però non a spiare la coppia, secondo una comprensibile attitudine voyeuristica, ma a percorrere una per una le stampe e le fotografie di uomini e donne di scena appese alla parete retrostante. Se è la stanza ad attendere qui la descrizione della sua forma e dei suoi arredi, il riconoscimento delle persone nelle immagini della galleria risulta tanto preciso quanto, ad un tempo, implausibile per una messinscena, e soprattutto estranea alla sfera dell’azione drammatica, ovvero alla storia dell’uomo e della donna che si stanno baciando sul divano (ovvero, non ha la funzionalità in rapporto alla storia che possiede il “ritratto di un bell’uomo di una certa età in uniforme di generale”, descrizione che attende evidentemente il compimento in un’identificazione col personaggio, che abbiamo letto nella didascalia di Ibsen citata). Si tratta, infatti, di una sorta di sguardo alla scena inglese prossima e contemporanea, al di qua delle recenti aperture nell’Europa continentale al modello di Ibsen, come sottolinea la dichiarazione di ciò che manca, che riguarda l’autore più che i suoi personaggi, che infatti amoreggiano nel totale disinteresse per l’ambiente che li ospita:
Una donna e un uomo stanno amoreggiando nel salotto di un appartamento ad Ashley Garden nel quartiere Vittoria a Londra. Sono le dieci di sera passate. Appese alle pareti della stanza stampe e fotografie teatrali: Kemble nella parte di Amleto, la signora Siddons nei panni della regina Caterina che si appella alla Corte, Macready nella parte di Werner (da Maclise), Sir Henry Irving nei panni di Riccardo III (da Long), Ellen Terry, la signora Kendal, Ada Rehan, Sarah Bernhardt, Henry Arthur Jones, Sir Arthur Pinero, Sydney Grundy, e via discorrendo; non c’è Eleonora Duse, né chiunque altro in qualche modo legato a Ibsen. (Shaw 2023, 213)
Potrebbe mai uno spettatore – ammesso e non concesso il dovizioso riconoscimento di figure e pose alla parete – notare la mancanza di Eleonora Duse dalla galleria? La descrizione dell’ambiente segue, come si è detto con un’evidente inversione dalla panoramica al dettaglio, rispetto a quanto si costuma nelle didascalie tradizionali e anche in quelle ibseniane (la stanza è di forma irregolare, il camino si trova dalla parte dell’ingresso, eccetera). L’occhio indugia ancora sui dettagli: la statuetta di Shakespeare sul piano della finestra, una copia aperta di un romanzo francese con la copertina gialla, lo spartito aperto, sul pianoforte a coda, di “When other lips” (in questo caso si dovrebbe immaginare non solo uno spettatore che scruti col binocolo i dettagli della scena, ma che addirittura abbia competenze per riconoscere a colpo d’occhio la melodia dello spartito). Solo poi si presentano i personaggi – Grace Tranfield, di 32 anni e Leonard Charteris, “più grande d’età di qualche anno” – con varie altre divagazioni, prima che essi stacchino le loro bocche e pronuncino le due prime battute.
Scelgo questa pagina rispetto a didascalie d’apertura anche di assai più ampia dimensione offerte da altri testi shawiani per l’implicazione di questa galleria fotografica dedicata alle grandi figure della scena inglese, in opportune assunzioni di ruolo e di posa. Nel secondo atto, infatti, e senza relazione della storia dei personaggi col mestiere del teatro, l’azione si sposta non a caso proprio in un Club Ibsen, dove campeggia il busto dell’anziano – ma ancora vivente – drammaturgo, rendendo chiara una contrapposizione di ambienti, che interessa però non tanto l’azione o i personaggi, ma l’autore, da un ambiente che trasuda tradizione teatrale inglese a un altro, benché a carico del “fanatismo” di dilettanti e dei loro limiti di cultura e gusto, di apertura a nuove tradizioni e influenze. Su tutto ciò ci sarebbe molto da dire e da meditare, anche per collocare le premesse al sistema della direction dentro alla tradizione attoriale, e del lavoro dell’attore su sé, ma non è questa l’occasione, anche per l’ovvietà di una tale prospettiva, meno scontata semmai solo per il suo punto di osservazione, sulla pagina più che in scena.
Come si è premesso, un discorso su Shaw potrebbe proseguire analizzando le didascalie dei moltissimi plays che seguono a questo e le diverse direzioni di quella cha abbiamo compreso nella categoria della competition of fiction, dalla fine del secolo agli anni ’30 del successivo. Mi limiterò qui a citare una breve nota, che precede la prima delle didascalie at the head of the acts – a significativa distanza nella carriera del drammaturgo – che indica, nella sua estrema sinteticità, il punto di approdo di una lunga applicazione, nella diversa determinazione, culturale e tecnica, del quadro di riferimento. Essa si legge ad apertura del celeberrimo, fortunatissimo, Pygmalion, e si intitola Note for the Technicians:
Una rappresentazione completa dell’opera [play] così come appare per la prima volta in questa edizione è tecnicamente possibile solo sullo schermo cinematografico o su palcoscenici dotati di macchinari oltremodo sofisticati [with exceptionally elaborate machinery]. (Shaw 2023, 2672-2673)
Niente più, dunque, memorandum per falegnami e sarti, posto che i technicians hanno preso il posto degli artigiani, ed è lo schermo cinematografico, non più la pagina del romanzo, a essere diventato l’esatto referente per la competition of fiction dell’immaginazione teatrale. Quanto il rapporto col cinema segni carriere come quelle di D’Annunzio e Pirandello – e meglio ancora di un drammaturgo visionario, e insieme grandissimo romanziere, la cui drammaturgia non ha diretta destinazione o occasione scenica, come Valle-Inclán – resta una traccia di svolgimento di prima evidenza per un’eventuale applicazione. Come, del resto e più ampiamente, risulta un interrogativo centralissimo quello relativo al rapporto tra l’ascesa della figura del regista cinematografico – la sua direzione di ben altre masse e il suo controllo di ben altri mezzi (anche rispetto a quelli dell’Opera) – e la definizione e la storia del ruolo del regista teatrale, soprattutto inteso come “demiurgo” del “grande evento spettacolare”.
III.
Dieci anni esatti – dal 1925 al 1935 – separano l’assegnazione a Shaw e a Pirandello di due premi Nobel per la letteratura, con le rispettive consacrazioni mondiali di due drammaturghi europei di particolare fama nella prima metà del Novecento (il terzo, nell’immediatamente successivo 1936, riguarderà l’americano Eugene O’ Neil).
L’inclusione sulla scena del Capocomico, insieme ai macchinisti e al suggeritore, costituisce il passo sostanziale che decreta la fortuna europea di Pirandello, ovvero il suo “brevetto”, attraverso la scelta dell’ambientazione metateatrale, trovata che esibisce una decisiva competion of fiction col romanzo e, ad un tempo, una fortissima impressione a teatro. Si faccia mente al fatto che i personaggi “in cerca d’autore” sono stati dapprima immaginati uscire dalle pagine di un romanzo per entrare in un altro romanzo, quindi da un romanzo a un dramma, e infine da un abbozzo di dramma non compiuto dirigersi verso una sala teatrale, mentre una compagnia sta provando un dramma di Pirandello, quando Pirandello non faceva il capocomico o il regista di sé medesimo. Il rapporto con le successive messinscena di Sei personaggi, e in particolare con quella parigina di Georges Pitoëff, nel 1923, lo indurrà, come a tutti noto, a ripensare e a variare il suo testo di partenza, in particolare prendendo spunto dall’ingresso dei personaggi non dalle quinte ma, a vista, dagli ascensori di scena, per farli più semplicemente, ma con effetto tanto più forte, salire sul palco dalla platea (luogo da cui le vittime sacrificali del compimento tragico non potranno alla fine scendere). Sono soprattutto i cenni all’impiego delle luci, più una narrazione degli effetti illuminotecnici che una prescrizione per la messinscena, a marcare la differenza della seconda (1925) rispetto alla prima redazione.
Si riparta dalla scena all’inizio della “commedia da fare” (in realtà minutamente pianificata in ogni dettaglio nella scrittura) in cui il Capocomico (poi Direttore), contro la resistenza degli attori, impone al Suggeritore la lettura ad alta voce della didascalia iniziale del Giuoco delle parti, con scarso successo. Ha perfettamente ragione Roberto Alonge – di contro alle letture correnti – a sottolineare la volontà di Pirandello di introdurre qui, e non per screditarne la funzione o per polemica, un Capocomico/Direttore dalle idee “più moderne” o quanto meno più disponibile rispetto ai retaggi del teatro “all’antica italiana”, ovvero alle abitudini testimoniate dalla compagnia (Alonge 2001, 598 ss., e si veda il richiamo al tema dello sviluppo delle competenze di direzione oltre il ruolo capocomicale nell’intero capitolo dedicato a Pirandello del saggio). Evidente, infatti, risulta piuttosto la parodia delle abitudini deteriori degli attori dei primi ruoli, come mostra il Primo attore che rifiuta di mettersi in testa il berretto da cuoco e compiere l’azione di sbattere le uova, secondo le indicazioni che il drammaturgo ha fornito nella didascalia in testa al primo atto.
La precaria e contrastata testimonianza dell’impiego delle descriptive directions, per dirla con Shaw, che l’autore affida al testo, marca un primo grado di sua assenza. Si tratta, in realtà, della circostanza di base o del preludio che introduce la potenziale ricerca di “un autore” non già da parte degli attori, ma, paradossalmente, dei personaggi, regredendo a una confezione del dramma più prossima a un canovaccio (o soggetto) che a un testo, che privi dunque gli attori delle battute preconfezionate a cui si limita la loro pratica di apprendimento e di esecuzione. Si tratta, nella realtà compositiva, di una competion of fiction di seconda potenza, che la partita metateatrale introduce appunto al quadrato e riconduce dal palcoscenico, ove l’autore è assente e non comanda, allo scrittoio, che egli controlla: una partita che finge una “commedia da fare”, in realtà stesa minuziosamente, riga per riga, in un indistricabile intreccio di scrittura drammatica e didascalica, ovvero di mimesi e diegesi, che trova peraltro compimento nel passaggio dall’una all’altra redazione del testo, nutrendosi del suo stesso successo scenico e del lavoro, oltre al ruolo di capocomici e direttori, di veri e propri “registi”.
In nessun caso credo si possa vedere nei Sei personaggi una qualche polemica contro il nascente teatro di regia, cosa da tenere in conto, nonostante le interpretazioni correnti. Essa sarà di fatto, nell’ultima anta della “trilogia del teatro nel teatro”, ovvero Questa sera si recita a soggetto, piuttosto la linea di superfice della costruzione, nella continuità e complicazione di una medesima istanza di volontà onnivora rispetto alla scrittura e alla costruzione scenica. Pirandello, il “signor Io! Io! Io” – l’acuta definizione spetta ad Adelaide Bernardini, vedova di Luigi Capuana – in un epiteto che ci importa non tanto per l’accusa di furto e plagio, ma piuttosto di “occupazione totale dello spazio” (cit. in Alfonzetti 2022, 279-280). Si tratta del Pirandello, che in questi anni centralissini si fa anche “capocomico” o “regista”, che fagocita nella scrittura, almeno in quella dei suoi testi più rilevanti, il teatro tutto, nelle sue diverse componenti: attoriali, registiche, tecniche, ivi compreso la spazio della critica e della polemica dei giornali e delle gazzette.
IV.
Ho sempre trovato particolarmente rilevante un luogo, in un testo per molti versi sviante (anche rispetto a questa fondamentale rivelazione che contiene) quale la Prefazione messa in testa alla redazione finale di Sei personaggi. Si tratta della riflessione relativa alla forza scenica sorprendente – ovvero a un impatto emotivo sostanzialmente non calcolato in termini logici o logico-poetici – che riguarda l’apparizione di Madama Pace (Vescovo 2020, 152-155). Chissà se in realtà la “servetta Fantasia”, invocata ad apertura del testo in causa, non vada piuttosto ricompresa nella figura, di lunga tradizione, della Virtus Imaginativa, che al contrario comanda e non serve, al cui campo è sicuramente pertinente la questione qui posta: ovvero, come “un personaggio possa nascere a quel modo soltanto nella fantasia del poeta, non certo sulla tavole d’un palcoscenico”. Questione la cui risposta suona in questi termini: “ho cioè mostrato, in luogo del palcoscenico, la mia fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso”. La fantasia sotto specie di palcoscenico, ovvero la scrittura sotto specie di racconto dell’attuazione scenica, e tanto più forte quanto più la realizzazione del dramma si finge fallimentare o precaria.
L’indicazione che segue appare in tanto rilevante in quanto si pone fuori dal sistema teorico-poetico pirandelliano (quello a cui l’autore continuerà comunque nella routine a fare riferimento e quello generalmente usato dagli interpreti meno attrezzati come repertorio): “se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silenziosamente e quasi inavvertitamente, in un attimo, il piano della realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, raggelato dalla sua apparente illogicità”. Forse Pirandello finge, o esagera, lo sgomento che dichiara di aver provato, ma certamente qui la prospettiva metateatrale (che, come abbiamo insistito più volte, sarebbe più opportuno dire metalettica, nel senso che essa riguarda non solo e non tanto l’inquadramento di una finzione dentro la finzione, ma specificamente il passaggio, materialmente impossibile nella realtà, da uno a un altro livello diegetico) rende particolarmente evidente un procedimento, mostrandolo e dichiarandolo come sostanzialmente indipendente da una volontà o un calcolo: scoperto anzi dall’autore contro la sua prospettiva logica, ovvero contro i suoi riferimenti poetico-teorici, o, se si preferisce, messo a carico nella finzione scenica a una persona diversa da quella dell’autore.
Si potrebbero peraltro contrapporre le descriptive directions, che espandono nel testo in proporzioni vastissime il memorandum per falegnami e sarti, all’operazione immaginata a teatro che vede (richiede) una preparazione del luogo che ospita la “storia” dei personaggi con pochi e preesistenti materiali, recuperati alla bella e meglio dal magazzino del teatro. I macchinisti danno consistenza materiale sommaria alla stanza in cui il Padre incontra la Figliastra nella casa di appuntamenti, travestita da sartoria, di Madama Pace: una ricostruzione approssimativa, che richiede un solo elemento-chiave utile all’evocazione, nella presenza di una “busta cilestrina”. Certamente una situazione allusiva alla solo parziale, e talora “tirata via”, restituzione praticata nelle messinscena delle indicazioni offerte dagli autori nelle didascalie, tanto più dettagliate quanto dettate da una sorta di horror vacui. Da qui il riconoscimento del carattere essenziale di questa riflessione, che si stacca nettamente, e di molte spanne, dai riferimenti topici, e a nostro avviso limitanti e stereotipi, della poetica pirandelliana: l’indicazione del testo come opera d’Arte perfettamente compiuta sul piano della scrittura autoriale rispetto a cui si possono dare solo approssimazioni o “traduzioni” sceniche (semmai il testo le ingloba e fagocita per mettersi o rimettersi a punto); la vieta coppia di vita e forma, che si trova declinata un po’ dappertutto ai tempi di Pirandello (e che Adriano Tilgher a lui riconduce, con grande fortuna); soprattutto, l’ancor più abusata, a nostro avviso inservibile o utile solo a inquadrare ciò che è già ovvio, categoria dell’umorismo.
Lo scardinamento riguarda, infatti, esattamente queste e altre prospettive teoriche correnti e strumentali. Si noti qui il rinvio come “vera necessità” a una “misteriosa organica correlazione” (“contro una bugiarda apparenza logica, quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera”), definizione che consente anche una rimeditazione della categoria appena evocata: vita dell’opera o – se si volesse servirsi di prospettive più significative per non incappare nella solita coppia di “vita e forma” – di un riferimento alla diversamente articolata idea di una vie des formes di Henri Focillon, che data al 1934. Si potrebbe aggiungere, posta la modalità della messinscena, della necessità della rete o del sistema del lavoro collettivo – e dunque appunto anche quello qui fornito da Capocomico e macchinisti – che permette una tale evocazione, appunto, nella “fantasia” che si fa “palcoscenico”.
Madama Pace è un’“apparizione” nel senso in cui si usa questa parola in rapporto alla rivelazione inattesa di uno spettro o da seduta spiritica (si veda l’importante intervento di Pieri 2012, per le premesse spiritistico-folkloriche e lo sviluppo di queste nella direzione di un “cinema mentale”, fino alla vera, irrealizzata, progettazione cinematografica dell’ultimo Pirandello). Il personaggio prende infatti corpo sul palcoscenico senza entrare, come un qualsivoglia essere vivente, nella realtà come nella finzione, dalle quinte (ma nemmeno, a vista, dall’ascensore o dalla platea). Un secondo elemento, che provoca una profonda revisione dell’aspetto stesso dei Sei personaggi dalla prima alla seconda redazione, riguarda infatti la contrapposizione a questi dell’aspetto grottesco del settimo personaggio – che non cerca, infatti, un autore –, che comprende anche la sua caratterizzazione linguistica nella deformazione dello pseudo-spagnolo in cui Madama Pace si esprime.
La seconda redazione – dato che essa scopre in qualche misura la sincerità della dichiarazione finale sul procedimento – conduce infatti Pirandello a distanziare gli stessi sei personaggi dalla comune apparenza umana, avvicinandoli al settimo, fissando il loro profilo in maschere perenni: non più persone comuni, ovvero una famiglia che entra in un teatro in una giornata in cui esso è chiuso al pubblico, mentre la compagnia è alla prova. Se il Capocomico poteva scambiarli nella prima redazione per comuni disturbatori, anzi per attori filodrammatici, non si vede come lo possa fare ancora il Direttore nella seconda, posta la completa trasformazione del loro aspetto. In essa, infatti, il turbamento che provoca l’apparizione di Madama Pace dovrebbe trovare una prima affermazione o stazione nello stesso ingresso – dalla platea e non più dalle quinte – di questi raggelati, perenni, profili, così ripensati dopo gli spettri della regia di Pitoëff, senza tuttavia voler fare di essi dei “fantasmi”. Si tratta di un luogo del testo che mostra la non risoluzione tra una costruzione razionale – dettata dal sistema logico-poetico d’autore (e che infatti affida proprio al personaggio del Padre, come abbiamo ricordato, una dettagliata, talora pedantesca, esposizione della poetica d’autore) – e un’apparenza inquietante, rivelatrice di diversa profondità. Non “vita e forma” ma due altri termini di correlazione appaiono utili: ovvero la bugiarda “apparenza” logica contro la “vera necessità”, inquietante, che esprime l’“apparizione”. Per tornare al passo da cui siamo partiti: se il sistema poetico è quello che affida la “trovata” dell’abbandono allo stato di abbozzo e l’incompiutezza dei personaggi a quello tra loro eletto alla funzione di portavoce dell’autore, l’evoluzione contrastante con tale principio si situa nella rivelazione che il palcoscenico (e, si badi, un palcoscenico in cui alla fine le vittime sacrificali non potranno più salire e da cui scendere, impiegando le scalette) offre a un’“immaginativa” più profonda dell’autore, e a partire da un personaggio che non lo cerca affatto.
V.
La forte immissione diegetica nella forma drammatica, la competizione non solo col romanzo ma ora anche col cinema, il potenziamento attraverso la figura della metalessi, si impongono in Pirandello mentre egli rinuncia sostanzialmente al romanzo (e, peraltro, dopo aver saggiato in esso proprio il terreno del rapporto tra finzione romanzesca e cinematografica, in Si gira, poi I quaderni di Serafino Gubbio operatore, nell’arco 1916-1925). Ciò esattemente mentre la fama europea ed extraeuropea del drammaturgo cresce enormemente, fino al premio Nobel (fama “divaricata”, osservava opportunamente Taviani, rispetto all’opinione degli uomini di lettere più influenti dell’Italia del suo tempo). La soglia di uscita si colloca nel 1925-26, con Uno, nessuno e centomila, l’ultimo romanzo appunto, e dopo la seconda tappa metateatrale, ovvero Ciascuno a suo modo, all’epoca della riscrittura dei Sei personaggi, nell’identità della diegesi nutrita di tecnica di scena, e soprattutto di illuminotecnica. Qui, in rapporto a un pubblico calcolato come presente in sala, si colloca l’irruzione di presunte “persone reali” negli intermezzi tra gli atti, a cui i personaggi del dramma sarebbero ispirati, ovviamente non meno fittizie di quelli, e irruzione, soprattutto, dei critici teatrali. Se Sei personaggi fingeva l’assenza della divisione in atti, realizzata solo da accidenti di scena, che producono due pause di puro intervallo o vuoto nel tempo scenico continuato di una giornata di lavoro, in un teatro senza pubblico, Ciascuno a suo modo, mentre riempie il tempo dei due intervalli con azioni dislocate nelle differenti parti dell’edificio teatrale, immagina un terzo tempo non attuato, sempre per cause di forza maggiore, che tuttavia non esiste nel libro: “la rappresentazione del terzo atto non potrà più aver luogo”, dichiara il Capocomico al pubblico in sala, spiegando (almeno per chi legge il testo e può tornare a riflettere sul sottotitolo sul frontespizio) il significato di commedia in due o tre atti con intermezzi corali. Ovvero: l’autore ha rinunciato alla scrittura di un terzo atto.
L’implicazione dei critici significa, per un uomo che non disdegnava e anzi ricercava a spron battuto interviste e interventi sulla stampa, inglobare nel testo drammatico e nello spettacolo anche la dimensione difensiva e polemica, riattivando in termini novecenteschi, e proprio sull’esempio di Shaw e della sua peculiarità antifrastica, una tradizione peraltro antica, che trova del resto campioni fondamentali tra il Molière dell’Impromptu de Versailles e, per l’Italia, il Goldoni del Teatro comico. Beatrice Alfonzetti ha ricostruito puntualmente – proprio all’altezza di Ciascuno a suo modo, nelle premesse alla sua ideazione e composizione – il nesso saliente dell’avvicinarsi di Pirandello a Shaw, del suo “plagio” o ispirazione, richiamando la rappresentazione al Teatro Argentina di Roma de La prima commedia di Fanny nel novembre 1919 (con presumibile ricaduta onomastica, infatti, sulla Fanny di Ma non è una cosa seria). Da qui l’idea di portare in scena i critici drammatici, come avviene nel primo intermezzo di Ciascuno a suo modo. La studiosa richiama come prova, oltre a precisi appigli testuali, la vera e propria excusatio non petita fornita da Pirandello in un’intervista (“Il Mondo”, 17 marzo 1923) in cui egli dichiara la sua ammirazione per Shaw ma aggiunge subito, non richiesto, senza ispirazione alla sua drammaturgia (Alfonzetti 2022, in part. 296 e n.13 e 310-311).
Negli anni seguenti numerose poi sono le testimonianze dell’interesse di Pirandello per Shaw, e della loro conoscenza diretta, dopo appunto l’andata in scena di Ciascuno a suo modo e a partire dal successo americano di Pirandello, che comincia nel 1924. L’Istituto di Studi Pirandelliani conserva, inoltre, la copia di proprietà di Pirandello, con sue sottolineature, della traduzione italiana degli Unpleasant plays, che testimonia dunque la sicura lettura di quelle pagine (Commedie sgradevoli, traduzione di Adriano Agresti, Milano, Mondadori, 1923). Di particolare rilievo risulta per il ragionamento che qui si mette in tavola che Silvio D’Amico ne Il teatro dei fantocci (1920) non solo avesse poco prima mostrato un accoppiamento, avant la lettre, di Pirandello e Shaw, ma offerto un affondo critico precisamente rivolto alle “interminabili prefazioni polemiche con cui Shaw aveva raddoppiato il numero delle pagine” dei suoi drammi, con risalto, ancorché negativo, alla componente che abbiamo indicato (Alfonzetti 2022, 297, per la copia pirandelliana 311 e n.65).
Il nostro discorso – è bene chiarirlo – riguarda una prospettiva di riferimento, riassunta nella definizione della competition of fiction, che non vogliamo minimamente inchiodare a debiti e prestiti strettamente testuali. Tuttavia questa storia – sommariamente, da Ibsen a Shaw a Pirandello – mostra precise, documentate, influenze.
VI.
Il Padre dei Sei personaggi dovrebbe essere appena un abbozzo sofferente abbandonato dall’autore, bloccato sostanzialmente a quella sorta di “scena primaria” che ne ha prodotto l’invenzione, che si svolge (o si immagina svolgersi) nella finta sartoria di Madama Pace, in cui quasi avviene la consumazione di un rapporto sessuale para-incestuoso con la Figliastra (che si rivela poi, via via, una sorta di adepta di Madama Pace, una “regista del sinistro” nell’attuazione tragica che si svolge a partire dall’apparizione della strega-megera). La messinscena della “scena primaria” – si scusi il necessario bisticcio – è un procedimento tanto evidente nella contrapposizione dell’entusiasmo del Capocomico/Direttore per la sicura presa sul pubblico di questo “colpo da teatro” (da collocare quindi a chiusura d’atto) al grido angoscioso della Madre, che qui vede ciò a cui non potrebbe direttamente assistere in un piano di qualsivoglia “realtà”. L’errata esecuzione da parte del Macchinista delle parole del Capocomico, con l’abbassamento appunto del sipario, mentre sottrae allo sguardo tale situazione, rafforza ovviamente l’effetto teatrale, implicando lo statutario taglio drammatico-esecutivo ai passaggi essenziali della storia, troppo forti per essere direttamente rappresentati, costringendo la compagnia, i personaggi “in cerca d’autore” e soprattutto il pubblico, a un quarto d’ora d’intervallo.
Il padre, venuto con la famiglia composita, a reclamare al Capocomico o Direttore il diritto al completamento, parla dell’autore che non avrebbe inteso generarlo compiutamente, paragonando la sua labilità all’opposta pienezza di Don Abbondio o Sancho Panza, ma, avrebbe forse meglio potuto confrontarsi a personaggi perfettamente compiuti del repertorio tragico-familiare moderno, citando per esempio Ibsen. Egli mostra, insomma, di avere poca vita – fuori dal raggio in cui la critica cerca prevalentemente il “mito personale”, in un’applicazione clinico-letteraria – ma di avere a suo carico molte letture, che l’autore gli ha affidato.
Quanto alla “bulimia filosofica della conferenza di apertura”, essa recupera – come è stato osservato – “interi scampoli della saggistica del suo autore”, ma per contro, e in altro senso, “l’onnivora scrittura pirandelliana riesce a gestire per ora l’intera destrutturazione della partitura, colla drammaturgia mimetizzata che continua a controllare sino all’ultimo le forme espanse della spettacolarità” (Puppa 2021, 148 e 170).
Nel rapporto coi grandi régisseurs contemporanei e dopo l’esperienza del Teatro d’Arte in cui l’autore reale si era fatto direttamente capocomico, occupandosi della direzione dell’allestimento e della direzione delle prove, esperienza cessata poco prima del trasferimento a Berlino, Pirandello affida sicuramente al personaggio del dottor Hinkfuss una funzione antitetica rispetto a quella autoriale, ma, cosa meno ovvia, che continua l’autorialità in altra forma, come si dice per la guerra e la diplomazia. Per la questione del rapporto di Pirandello con il teatro di regia tedesco, la critica parla spesso di contraddizioni, pescando dalle stesse divaricate affermazioni: citando, da una parte, da quelle che dichiarano un’aspra polemica nei confronti dell’invadenza dei régisseurs, dall’altra da quelle, diversamente accomodanti, che esprimono una più pacata visione collaborativa, che deve alla fine unire “poeta, attori e régisseur” nel comune intento (così nella celebre dichiarazione a Guido Salvini, che parafrasa e spiega la battuta finale in rapporto al primo allestimento italiano). Ora, se è chiaro che nessuna contraddizione sì dà in realtà rispetto ad evidenti polarizzazioni contestuali, destinate a interlocutori e sedi diverse, la traccia da raccogliere riguarda altro, poiché è essenziale riconoscere in Hinkfuss un’evidente controfigura o alter ego dello stesso Pirandello.
Come abbiamo premesso, l’idea corrente di un’astiosa contrapposizione alla nascente figura del regista (senza con ciò volere ovviamente negare una dimensione polemica e parodistica) spiega poco, ovvero, se si giustifica a un primo e più superficiale livello, non giunge a quello più profondo, di rapporto piuttosto di implicazione antifrastica. Hinkfuss offre, del resto, nel prologo inziale, e si direbbe per distinzione del suo territorio d’esercizio o di sopraffazione, un riassunto centonario della stessa poetica pirandelliana, esposta dall’autore in precedenti occasioni. Il lungo pistolotto introduttivo (non a caso, ampiamente potato nelle messinscena, fin dalla prima italiana, diretta da Salvini, che andò in scena a Torino il 14 aprile 1930) rappresenta un’istanza assolutamente opponibile, ma si direbbe quasi un vuoto a perdere, rispetto alla pagina forse più alta, nel senso dell’“immaginativa”, che il testo offre, e su cui converrà dunque riflettere. Ovvero quella che, all’inizio del II atto, descrive la visione fantastica, solo apparentemente divagatoria, affidata al medesimo personaggio. Si tratta della massima manifestazione della tensione verso l’apparizione mentale che si fa apparizione scenica, già indicata per Madama Pace, che tornerà infatti, a un’ulteriore stazione, nel cosiddetto “arsenale delle apparizioni” de I giganti della montagna (però, e forse non per caso, incompiuti), con tanto di implicazione di mezzi cinematografici (più alla Piscator che alla Reinhardt, per citare figure di grandi registi tedeschi spesso richiamate, come già nelle intrusioni cinematografiche di Questa sera si recita a soggetto).
Si contrappongano – muovendo da un esempio semplice, riferito a un effetto scenico sul terreno fondamentale dell’illuminotecnica (ovvero il terreno decisivo dell’innovazione della progettazione teatrale tra le due guerre) – queste due descrizioni, prese dai due testi, relative ad una resa ‘non realistica’, ovvero non da situazione ambientativa ‘naturale’, ma implicanti una “luce di miracolo”, ovvero una “luce psicologica” (nel senso esatto che essa proviene dalla mente), ottenuta coll’impiego di una “gelatina” verde, tanto per fissarsi sul terreno più “moderno”, quello degli “elettricisti” rispetto a quello vecchio come la pratica scenica dei falegnami e sarti. Fondamentale – ovviamente – che la prima didascalia, tratta dal finale dei Sei personaggi appartenga, come abbiamo già ricordato, alla seconda redazione, e documenti come non solo essa lavori le suggestioni derivanti dalla messinscena del testo, ma rilanci questa esperienza sulla pagina, nel senso di quella che con Shaw abbiamo definito competion of fiction (rilevante, anzi, il giudizio riportato dal figlio Stefano proprio sui Sei personaggi: “nel valore che gli dà il Babbo, non è affatto da meno del romanzo”) (cit. in Puppa 2021, 148 nota).
Subito, dietro il fondalino, come per uno sbaglio d’attacco, s’accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina. Il Capocomico, vedendole, schizzerà via dal palcoscenico, atterrito [MN II, 758].
Nel bujo appena allargato da quel lume tremolante di candela, il Dottor Hinkfuss ha preparato un delicatissimo effetto: la soffusione d’una soavissima “luce di miracolo” (luce psicologica) verde, quasi emanazione della speranza che il miracolo si compia [MN III, 351].
Spettrale e metafisico, da apparizione fantasmatica, appare nella prima didascalia l’effetto del faro che si accende senza che nessuno abbia dato il comando relativo (“come per uno sbaglio d’attacco”) e che provoca il terrore nel Direttore, allo stagliarsi delle ombre dei quattro personaggi, escluse quelle delle vittime sacrificali: segno tangibile dell’inderogabilità del compimento tragico. Viceversa la luce diffusa, pure di colore verde, accompagna nella seconda didascalia la preghiera (o meglio il rito gravato di cultura arcaica, che si organizza intorno alla Signora Ignazia, tornata a casa dal teatro con un terribile mal di denti, che ha al centro una statuina della Madonna) come un effetto preparato fuori scena dal dottor Hinkfuss. Il Direttore, del resto, anche dopo l’ammutinamento della compagnia che ne determina la cacciata, non ha cessato di controllare la consolle, come l’Attore brillante alla fine della rappresentazione informa i suoi colleghi, e soprattutto noi lettori o spettatori: “Ma è stato sempre qua, con gli elettricisti, a governare di nascosto tutti gli effetti di luce”. Governare di nascosto: il concepire l’opera “da fuori” (funzione autoriale) si esprime in tale direzione, che comprende certamente il campo o la funzione della “regia”, ma qui in un senso ovviamente diverso e particolare.
Di grande rilievo – anche per la riduzione di Hinkfuss alla consolle – quanto Pirandello dichiara in un’intervista alla “Neue Freie Presse” in data18 dicembre 1926, mentre si definisce “regista” dei propri lavori nelle tournées internazionali: “Ho con me solo un tecnico per le luci e per le questioni puramente tecniche” (Cometa 1986, 272).
Dopo che la Signora Ignazia comincia ad intonare, in latino, a mani giunte, con lenta voce e grave, l’Ave Maria, Hinkfuss passa bruscamente a un guizzo diabolico, che annuncia l’ingresso di Totina (vestita da uomo) a cimentarsi in un’esibizione operistica, con significativo effetto sinestetico, dalla visione del lampo rosso al rumore del tuono:
D’improvviso, un tuono e il guizzo diabolico d’un violentissimo lampo rosso fracassa tutto. […] Il tuono diventa subito la voce di Totina che canta… (MN IV, 351)
Che Hinkfuss, piccolo, deforme, peloso, così definito dal piede zoppo, frainteso in vario modo, abbia tratti fisiognomici diabolici è evidente, anche se talora ciò viene rimosso nelle presentazioni. Bisogna tuttavia non trascurare il rilievo della trovata pensando alla chiara connotazione caricaturale: ripetiamo, ci sembra doveroso considerare l’umorismo pirandelliano, lungi dal ritenerlo una chiave interpretativa, un procedimento di rimozione o, in termini più esatti, di negazione (nel senso freudiano del termine). Peraltro va qui recuperato un particolare preciso e indubitabile. Nella novella Leonora addio! (1910), il fatto che la famiglia si dilettasse di simili prestazioni in rapporto alla frequentazione del teatro d’opera, secondo le usanze del Continente importate nel paese siciliano dal gruppetto di ufficiali di complemento là di stanza, frequentatori delle ragazze della famiglia La Croce, ha il semplice scopo di premessa generica alla morte melodrammatica di Mommina, che occupa interamente il racconto. Questo, in esso, il cenno relativo, ovvero un puro sommario preliminare:
La madre sonava a tempesta sul pianoforte tutti i “pezzi d’opera” che avevano sentito nell’ultima stagione, e le quattro sorelle, dotate di discrete vocette, cantavano in costumi improvvisati, anche le parti da uomo, coi baffetti sul labbro fatti con tappi di sughero bruciati e certi cappellacci piumati e le giubbe e le sciabole degli ufficiali. (Pirandello 1938, II, 379)
Qui, appunto, il dettaglio, sostanzialmente irrilevante, nella novella riferito non a Totina, che nella reinvenzione teatrale diventa una cantante professionista (a cui dunque ben si presta questa anticipazione al tempo della giovinezza), ma alla stessa Mommina:
Bisognava vedere Mommina, ch’era la più pienotta di tutte, nella parte di Siebel nel Faust:
Le parlate d’amor – o cari fior… (Pirandello 1938, II, 379)
Il dettaglio risulta straordinariamente valorizzato nella trasposizione teatrale. In essa, infatti, prima si ascolta l’inizio del tema dell’aria di Gounod, eseguito dal pianoforte, da dietro il sipario, come cerniera nel passaggio tra il II e il III atto; quindi, dopo il ritorno dei personaggi dal teatro, al termine della preghiera-rito alla Madonnina per il mal di denti della Signora Ignazia (che qui non suona più il pianoforte, passato a Pomàrici, uno degli ufficiali-aviatori), appunto con l’irruzione, dopo l’effetto illuminotecnico e acustico preparato da Hinkfuss, di Totina travestita in generici panni teatrali. L’aria di Siebel (peraltro un mezzosoprano) che apre il terzo atto del Faust – “Faites-lui mes aveux, / portez mes voeux, / fleurs écloses près d’elle…” – sottolinea il clima da maleficio, ove il giovane innamorato di Margherita, a causa dell’incantesimo di Mefistofele, non può toccare i fiori che vuole donare alla ragazza senza farli appassire (ma egli sconfiggerà il maleficio rivolgendosi a Dio, escogitando dopo l’aria, la soluzione: “Si je trempais mes doigts dans l’eau bénite!”). Poi, con incremento dell’intromissione melodrammatica, la Signora Ignazia chiede di passare senz’altro al verdiano “Stride la vampa”, e Totina invoca altro fuoco e altre fiamme.
L’ardire estremo, ovvero l’evidente blasfemia della preghiera alla Madonnina – l’Ave Maria è significativamente pronunciata in latino, per farne magica giaculatoria – non mi sembra raccolta dalla critica: si tratta invece di un momento fondamentale di regressione dalla fede alla superstizione o ai retaggi arcaici, a continuare in dimensione raccolta e domestica la grande scena, immaginata più sopra dal dottor Hinkfuss, della processione religiosa d’antan, con le comparse vestite nei panni della Sacra Famiglia, Maria con Giuseppe e un “bambolone di cera che rappresenta il Bambino Gesù, come ancor oggi si possono vedere in Sicilia, per Natale, in certe rozze rappresentazioni sacre” (si sottolinei l’aggettivo rozze), accompagnata dalle litanie, a “Dio sagramentato” e alla “nostra Vergine Maria” [MN IV, 322-323]. Se nella prima scena fortissimo risulta l’effetto di contrasto, per cui la processione sembra terminare dentro al cabaret, farsi la folla di avventori intorno alle ballerine discinte e scomposte, qui evidentemente calcolata risulta la giustapposizione della preghiera ad espressioni di inusitata crudezza – come “questo porco dolore” – fatte pronunciare alla Signora Ignazia, che perde dunque ogni ritegno piccolo-borghese immergendosi nel rito arcaico. Tant’è che ella, nel momento in cui riprende vigore dopo la paura e lo sconquasso provocati dall’effetto preparato dal dottor Hinkfuss, credendo il mal di denti passato, afferma: “Non so… sarà stato il diavolo… o la Madonnina”.
Guido Salvini mostra, nel dirigere il primo allestimento italiano di Questa sera, di cogliere perfettamente l’ardire estremo di questa scena, e prevedendo un intervento della censura decide, come testimonia il carteggio con Pirandello, di attenuarla, sostituendo con un’invocazione a San Gennaro – posta anche l’origine napoletana della Signora Ignazia – l’Ave Maria. Pirandello acconsente a malincuore: “Quanto all’Avemaria, che vuole che le dica? Mi avvilisce pensare che siamo giunti fino a questo punto… Vada per San Gennaro”; e Salvini a Pirandello, dopo il debutto: “Gli appunti che un critico fa al II atto si riferiscono al grottesco della preghiera che per i clericaloni di Genova è troppo spinto, per quanto io, come Le scrissi, abbia messo S. Gennaro al posto della Madonna. Le dirò, anzi, a questo proposito, che il pubblico ride immensamente alla parola S. Gennaro” (MN III, 263-267).
VII.
Esattissimo, rileggendo il testo, mi sembra un giudizio di Eugenio Ferdinando Palmieri nella recensione della grande messinscena di Giorgio Strehler (quella col sipario metallico anti-incendio che schiaccia il carretto dei comici): “Per noi, il teatro nel teatro di Questa sera non è che malafede. Una malafede festosa, violenta, allucinante” (“Il Tempo”, 20 novembre 1949, cit. in MN III, 281-282]. Qui “malafede” si potrebbe, con qualche libertà, intendere non solo nel significato ovvio di bugia o menzogna, ma in quello di “fede cattiva”, del piacere della provocazione blasfema (su questo aspetto resta, ancora una volta, imprescindibile una pagina di Taviani, con esempi puntali, e questa dichiarazione generale: “Pirandello amava le bestemmie. Non sotto forma di imprecazione. […] Le bestemmie – se non sono piccole imprecazioni, che non meritano niente più che d’essere vietate nello stesso cartello in cui si invita a sputare nella sputacchiera – sono lampi e scoppi. Permettono di vedere il sacro che si annida nel fondo del volgare” (Taviani 1995, 95-96). Ma prima di investire direttamente la questione, proviamo ad offrire una breve descrizione della struttura del testo.
Si finge che dalla novella di partenza, di cui in locandina si deve tacere il nome dell’autore, Hinkfuss estragga una scaletta di lavoro per una “recita a soggetto”: lo scenario si materia in forma di “rotoletto” di carta che il Direttore tiene in mano. Se la novella è in sé di estrema brevità, contenibile dunque in un minimo supporto cartaceo, il termine di comparazione del “rotoletto” risulta evidentemente un altro, ovvero la dimensione del testo drammatico che il lettore ha davanti – nel senso prima considerato della shawiana competion of fiction – o, per lo spettatore, la lunghezza e complessità della rappresentazione a cui sta assistendo rispetto ad esso. Si deve inoltre fare mente al fatto, per la complessità appunto della messinscena, che gli attori citano precedenti prove e, dunque, ci mettono al corrente di una concertazione preventiva, ovvero che quella a cui assistiamo non è affatto un’“improvvisazione” ma la tappa finale, ancorché contrastata, di qualcosa che ha avuto fin qui la sua preparazione.
Se si tentasse per Questa sera un’operazione analoga a quella di Peter Szondi per Sei personaggi, estraendo come là dal testo un copione virtuale, ci troveremmo di fronte, come là al “soggetto” per una tragedia familiare di tradizione post-ibseniana, qui allo schema per un dramma tragico-grottesco, e, nel concreto, con enorme distanza dalla breve novella che lo ispira.
Il testo pirandelliano risulta diviso in un prologo (senza alcuna intitolatura) seguito da tre atti o tempi, indicati dal numero ordinale (I, II, III). Due colpi di gong sono prescritti come stacchi esecutivi, a marcare i passaggi dal Prologo al I atto e dal II al III. Un battito di mani di Hinkfuss accompagna invece, dopo l’accensione delle luci di sala, l’annuncio dell’intervallo che stacca il I dal II. In realtà “intervallo” nel significato referenziale del termine può dirsi solo il precedente, nel senso di una pausa senza alcun contenuto spettacolare (“Cinque minuti di pausa”, prescrive la didascalia), mentre questo, intitolato Intermezzo, risulta stipato da ben cinque scene da far eseguire in simultanea nei diversi spazi del teatro e nella sala stessa (peraltro, dato di rilievo fondamentale, le scene da eseguire in simultanea vedono i personaggi agire senza alcuno sbandamento o sbavatura che li riconduca agli attori che li interpretano, evidentemente per l’assenza di Hinkfuss: essi, si direbbe, sono completamente personaggi solo nella recita fuori dal palcoscenico).
Evidente il fatto che il testo pirandelliano attribuisca al dottor Hinkfuss le più mirabili e ardite invenzioni rispetto alla novella di partenza: quelle attuate sulla scena, quelle che riescono solo parzialmente, e quelle, ancora, che le didascalie indicano come eventuali o potenziali: tra tutte la possibilità di mostrare un aeroporto al pubblico di ritorno in sala dopo il secondo intervallo, posta la trasformazione operata da Hinkfuss degli ufficiali di guarnigione della novella in aviatori. “Questo nella novella non c’è!”, sottolinea più volte Hinkfuss, e ovviamente con lui Pirandello, compiaciuto dello spettacolo, soprattutto quando osserva dalla platea quanto gli attori, che credono di averlo estromesso, realizzano; soprattutto al momento di riprendere il suo posto alla chiusura definitiva del sipario e della serata. Questo gioco a rimpiattino rende, ovviamente, del tutto priva di senso la messa a carico rispetto a un “testo d’autore” delle deviazioni del moderno teatro di regia del punto probabilmente più alto raggiunto dalla fantasia teatrale, o dalla fantasia in genere, di Pirandello, per quantità e complicazione delle escogitazioni.
La morte di Palmiro La Croce detto Sampognetta, suo padre, non solo costituisce il pendant alla morte melodrammatica di Mommina, ma si inquadra al termine di un combinato di sequenze di grande effetto, che occupa il II atto, solo apparentemente precario e squinternato. La scena, collocata a cavallo tra l’atto I e il II, dell’andata e del ritorno dal teatro della famiglia (con la proiezione cinematografica di uno spezzone di melodramma, senza sonoro, che dunque sovrappone brevemente al profilo del Teatro in cui il pubblico assiste allo spettacolo quello di un Teatro d’Opera), costituisce insieme all’incrocio tra la processione e la scena di cabaret che precede, l’invenzione di gran lunga più ardita del testo nel senso dell’apparizione, e anzi, considerata l’incompiutezza dei successivi Giganti della montagna, dell’intera carriera pirandelliana (le nuove, rivoluzionarie, prospettive del cinema sonoro sono peraltro considerate – viste con distanza e sospetto – da Pirandello proprio durante il periodo berlinese, come testimoniano le lettere a Marta Abba).
Rispetto alla divisione ora riassunta, che riguarda il “tempo della rappresentazione”, si dà poi quella relativa al contenuto drammatico o al “tempo della storia”. La novella racconta esclusivamente – brevi premesse a parte – solo la segregazione di Mommina dopo il matrimonio con Rico Verri, il suo precoce invecchiamento e il suo palese ingrassamento: tutto quanto in essa precede, nella rievocazione della sua frequentazione dei teatri, con i genitori, le sorelle, sulla spinta dei costumi “da Continente” introdotti dal gruppo di ufficiali di complemento di stanza nel non specificato paese siciliano, rappresenta un puro, estremamente sintetico, sommario. La reinvenzione teatrale consta invece di due episodi. Il primo occupa una giornata, in cui si susseguono rapidamente una processione evocatrice di “colore” siciliano, una sala da cabaret, un passaggio da un teatro d’opera a un salotto in cui si svolge il tentativo di un rito di liberazione per il mal di denti che affligge la Signora Ignazia dopo il ritorno a casa, e qui l’esibizione scenico-canora di Totina, che coinvolge il resto dei presenti, familiari e ufficiali, nel gioco al melodramma, fino all’apparizione di Sampognetta, che a teatro non era andato, ferito a morte al cabaret. Questa lunga e complessa sequenza occupa, dal giorno alla notte, lo spazio a cavallo tra il II atto e la prima parte del III.
Il secondo episodio – distanziato nel tempo della storia di alcuni anni, presumbilmente di un decennio, posto che si dichiara Mommina, precocemente invecchiata, avere passato da poco la trentina – mette in scena il contenuto della novella di partenza, ovvero l’esibizione melodrammatica finale davanti alle figlie bambine, usando il letto matrimoniale come scena e la sua cortina come sipario, in un condensato del Trovatore. Un volantino che reclamizza una rappresentazione operistica, rinvenuto in tasca della giacca del marito, evoca nella novella nella mente di Mommina altri tempi e altre attese, fino alla morte per eccesso di identificazione melodrammatica nell’esecuzione dell’aria di Manrico, appunto “Leonora, addio!”. La reinvenzione teatrale pone invece come dato scatenante la notizia che la sorella Totina – fatta esibire infatti nel primo episodio al suo posto – sia diventata una cantante lirica e torni ad esibirsi in paese, per cui Mommina si lancia in questa prova con evidente rapporto, ad un tempo, di privazione ed emulazione. Il secondo episodio, bisogna osservare, non viene staccato dal primo utilizzando la “naturale” distanza della pausa d’atto, ovvero l’ellissi temporale che ad essa normalmente si affida, e nemmeno nella progettazione di Hinkfuss: esso occupa infatti la seconda parte del III atto, preceduto da un doppio sommario che lo stacca dalla prima parte dello stesso, giustapponendo quindi in un’esecuzione continuata le differenti morti del padre e della figlia. La prima vede un pessimo esito rappresentativo, per la mancata identificazione dell’attore nel personaggio, la seconda riesce invece perfettamente, tanto da far credere la stessa attrice morta per eccesso di identificazione. Dopo la fallimentare prestazione dell’Attore caratterista avviene un ammutinamento della compagnia, con la cacciata del dottor Hinkfuss, che aveva cominciato un sommario di mediazione, in un tentativo di recupero della situazione. Gli attori provano a fare da soli, a partire dall’invecchiamento di Mommina ottenuto con la truccatura a vista della Prima attrice, a cui segue un altro sommario narrativo per giungere al secondo episodio, che utilizza di fatto il testo della novella.
Proprio l’Attrice caratterista, smettendo i panni della Signora Ignazia, si assume il ruolo di narratrice, offrendo un riassunto di quanto accaduto nel lungo lasso di tempo che separa i due episodi, facendosi “voce della Madre” in un’assunzione distaccata. Sostanziale la ripresa letterale – salvo variazioni di carattere meramente redazionale – per questo monologo che, appunto, l’attrice “dirà [= dovrà dire], come se leggesse una storia in un libro”. Non dal “rotoletto” di Hinkfuss, ma dalla novella di partenza, a cui l’Attrice arriva come per una sorta di divinazione. Ne riporto di seguito il tratto iniziale, indicando le omissioni tra parentesi quadre (si veda, tra esse, l’eliminazione dell’inflessione siciliana cittaduzza, variata in “paese” e del “mare africano”) e le aggiunte tra parentesi uncinate:
Fu imprigionata nella più alta casa del paese [, sul colle isolato e ventoso, in faccia al mare africano].
VIII.
Questo prelievo, per una diegesi in scena, dalla novella originale si contrappone con evidenza alla diegesi nuova, affidata a didascalie che lievitano in descrizioni di grande ampiezza. Da una parte, insomma, un residuo di narrazione d’autore, dall’altra le sue nuove visioni, attribuite però a Hinkfuss, in una focalizzazione a suo carico, sottolineando la dimensione di incertezza e confusione che riguarda le invenzioni del Direttore o régisseur. Aggiungendo questo carattere ambiguo all’estrema complessità di mezzi e di tecnica, dunque non, o non esattamente, istruzioni per una realizzazione scenica quanto per l’immaginazione. L’effetto-spettacolo, nel senso del dispiegamento della “fantasia’, viene infatti assunto dal lemma “prodigi”, insieme all’uso verbale del condizionale, che si differenzia evidentemente dal futuro attuativo, come abbiamo per esempio ora visto per la lettura “come da un libro” prescritta all’Attrice caratterista (“dirà”):
Tali prodigi potrebbero essere lasciati alla bizzarria del dottor Hinkfuss. Ma poiché lui stesso, e non l’autore della novella, ha voluto che Rico Verri e gli altri giovani ufficiali fossero aviatori, è probabile che abbia voluto così per prendersi il piacere di preparare, davanti al pubblico rimasto nella sala, una bella scena che rappresenti un campo d’aviazione, messo con mirabile effetto in prospettiva. (MN, III, 343)
“Non io” (l’Autore della novella), dunque, ma “nemmeno compiutamente lui” (il Direttore o régisseur): così si premura di affermare questa premessa, negando e diminuendo, mentre essa di fatto le sottolinea, le innovazioni più significative, che si collocano sul versante del teatro (“davanti al pubblico rimasto nella sala”), o almeno del teatro mentale rispetto alla novella di partenza.
Ma si veda soprattutto, per la sua estrema chiarezza, la narrazione che apre il II atto, in un testo di tale estensione e complessità che sembra improprio indicarlo col nome di didascalia, che comincia con l’attribuzione ad Hinkfuss di un’intenzione di “menare il can per l’aja”. Ecco dunque la splendida “immaginazione”, che abbiamo già richiamato, di una “processioncina religiosa” che “muova dalla porta d’ingresso della sala verso il palcoscenico”, dove a lato si colloca la porta di una chiesa, e la dissolvenza incrociata – quando il muro bianco di fondo, infatti un telone che si fa trasparente – che rivela l’interno di un Cabaret, in cui agiscono una Chanteuse e delle ballerine, che si muovono scompostamente su un motivo jazz, di forte contrasto con il precedente sottofondo di organo e campane. Le donne a capo coperto della processione religiosa, da una parte, e le “ragazze scollate e sguajatamente dipinte”, dall’altra. Il popolare-folklorico, se si vuole l’arcaica memoria siciliana del rito religioso e il borghese-metropolitano sono dunque qui messi a contrasto: il moderno contro il “ritorno del superato”, non però contrapposti ma, senza soluzione di continuità, incrociati in una dissolvenza di impatto cinematografico. Si tratta di una delle pagine in assoluto più rilevanti scritte da Pirandello, un dispiegamento di immaginazione tanto più potente in quanto affidato a un altro da sé e in totale assenza di riflessioni e dichiarazioni di poetica di complemento.
Certamente tale dimensione si può dire “registica” in rapporto alla sua preparazione e al lavoro di attuazione che la sua complessità di realizzazione richiedeva (lo dichiara, di fatto, lo stesso Pirandello in partenza per la Germania, raccontando nelle lettere a Marta Abba le ben diverse condizioni di lavoro che egli si attendeva dal teatro tedesco), con molti mezzi, molte prove, attraverso un impiego organico di tecnici e personale di scena (ma, si badi, senza suo diretto controllo sulla messinscena, certo motivo della parallela crescita esponenziale, a fronte, della scrittura che la mera funzione didascalica non può spiegare). Se si vuole però evitare una banale sovrapposizione col lavoro scenico reale e con la pratica dei grandi e meno grandi registi europei e tedeschi degli anni ’20 – posto che Pirandello non partecipa direttamente agli allestimenti tedeschi di Questa sera si recita a soggetto – va riconosciuto alle “visioni” di Hinkfuss il carattere di grande pagina di “letteratura”, o meglio di letteratura ecfrastica, nel senso di un effetto-spettacolo affidato sostanzialmente all’immaginazione comunicata al lettore del libro.
Punto essenziale: quanto più il “testo” finge la confusione o la disgregazione dell’impianto drammatico tradizionale (da cui il madornale equivoco che rapporta le prospettive pirandelliane allo sconquasso delle “serate futuriste”, anche nel caso in cui si consideri sincera la partecipazione dell’autore-spettatore ad alcune presentazioni travagliate dei suoi lavori, ivi compresa la prima berlinese di Questa sera), tanto più questa fantasia immaginativa assume tratti di “organicità”. Un’organicità che supera il raggio dell’autore drammatico inteso nel senso tradizionale del termine, ovvero i limiti prescritti al suo esercizio: “fantastica nascita sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione”.
IX.
Torniamo alle pendenze “diaboliche”. Si osservi che la processione risulta un’indubitabile ripresa di quella escogitata con fortissima volontà blasfema per la Sagra del Signore della nave nel 1924 (pure ispirata a una novella del 1916), realizzata presso il Teatro d’Arte, per cui Pirandello svolse anche la funzione di “direttore” della propria drammaturgia, con una vistosa teatralizzazione della festa (Vescovo 2020, 159 ss., a partire da Taviani 1995, 94 ss.; si veda anche Alfonzetti 2023, 508, per l’accostamento alla scena della processione/cabaret). Squarzina ha notato il rilievo del ritorno della “festa popolare” nella drammaturgia “naturalistica” (Squarzina 2002, 242-243): “altra scheda, quella della festa, che resterà aperta fino ai nostri giorni nel dibattito non soltanto teatrale fra spettacolo organizzato ed azione effimera”, con la citazione di presenza (Cavalleria rusticana e Figlia di Jorio, canti nuziali del Piccolo Santo di Bracco, festa della porchetta nel Cardinal Lambertini di Testoni); ma in realtà – si potrebbe aggiungere – con esempi sul terreno novecentesco di ben altra forza e rilievo (si pensi a Raffaele Viviani e, in particolare, a Festa di Piedigrotta, che data al 1919). La connessione – anche per altre osservazioni nello stesso (rapsodico e composito, spesso autoreferenziale, dove “regia” copre versanti i più diversi, padri fondatori, grandi registi, produzione media e secondaria di Teatri Stabili e compagnie private, figure caratterizzanti il recente teatro europeo, eccetera) libro di Squarzina è però di sicuro rilievo.
Se si rompe o scioglie quella sorta di doppia negazione freudiana esibita – guardandosi dalle insidie di banalizzazione offerte dal solito ricorso alla categoria dell’umorismo – il dato che si rivela è dunque un altro: ovvero, la dimensione dell’apparizione risulta quella in cui ciò che abita la mente dell’autore si materializza come per caso, oltre un’intenzionalità di cui possa farsi carico la sua poetica, nell’immaginazione scenica.
Hinkfuss non è certamente Mefistofele, ma la questione andrebbe comunque posta facendo mente al ruolo che a Mefistofele, e di conseguenza al suo possibile Faust, riserva la rielaborazione novecentesca del mito, oltre alla corriva tradizione romantica, ben rappresentata – in una punta ovviamente alta – dal Faust di Gounod, più in là dunque del diavolo col cappello con la piuma e le brache a palloncino e la calzamaglia rossa del teatro lirico, posta la citazione di una famosa aria che abbiamo visto.
L’opera a questo proposito di gran lunga più rilevante, ovviamente il Doktor Faustus di Thomas Mann, ripercorrerà nel corso degli anni ’40 – quelli che Pirandello non ebbe in sorte di vedere – i primi decenni del Novecento fino alla soglia degli anni ’30, raccontando il patto col maligno non di un vecchio sapiente che chiede giovinezza e amore ma di un giovane studente, Adrian Leverkühn. Un patto che non avviene, peraltro, nei termini consueti ma di cui reca traccia solo una registrazione su carta di un colloquio col maligno da parte del musicista, una sorta di dialogo drammatico con didascalie (il capitolo XXV del romanzo), che potrebbe benissimo essere opera di allucinazione o autosuggestione. Un testo difficilmente classificabile per il biografo Serenus Zeitblom, che lo rinviene tra le carte dell’amico, e rispetto al quale egli non detiene alcun ruolo di testimone, ovvero, in termini narratologici, alcuna prospettiva di focalizzazione (da cui, appunto, la scelta del capitolo in forma drammatica).
Risulta invece un piccolo diavolo e non il principe delle tenebre, non per la firma di un contratto ma per una luce sinistra che da questi e dal suo insegnamento emana, un esercizio di teologia negativa, a segnare la strada di Adrian: un professore alle cui lezioni, accompagnato da Serenus, egli assiste come studente. Da qui, abbandonando gli studi di teologia, Adrian diventa un musicista “diabolico”, nella doppia direzione del ritorno ossessivo del “superato” nella sua opera, ovvero del mito oscuro, e della “sperimentazione” estrema delle forme musicali ne investono le tappe, dal riattraversamento parodistico della tradizione applicato a Shakespeare e ai Gesta Romanorum (col ricorso delle marionette), fino al cupio dissolvi delle opere finali, che si allontanano del resto dalla forma direttamente rappresentativa. Il professore, alla cui figura è interamente dedicato il capitolo XIII del romanzo, fa di nome Schleppfuss, “trascina-piede”. Aldilà della facilità delle coniazioni onomastiche in tedesco in rapporto allo zoppicare del diavolo, non si può tuttavia escludere che Mann avesse presente il dottor Hinkfuss di Pirandello. Questa sera si recita a soggetto ha una storia principalmente tedesca; la fama e la presenza in Germania di Pirandello furono di grande evidenza; i due premi Nobel conferiti ai due scrittori, rispettivamente nel 1929 e nel 1935, difficilmente possono far supporre (e soprattutto da parte di Mann) una reciproca ignoranza.
Pirandello nomina Mann in una lettera a Marta Abba, del 5 giugno 1930, proprio subito dopo le polemiche successive alla prima berlinese del 31 maggio dell’allestimento di Questa sera diretto da Gustav Hartung, che lo convincerà ad abbandonare la città (il debutto tedesco era avvenuto, con grande successo, a Königsberg il 25 gennaio precedente, con la regia di Hans Carl Müller). Le polemiche furono provocate dall’identificazione di Hinkfuss (interpretato da Hermann Vallentin) con Max Reinhardt: “La resipiscenza [di stampa e pubblica opinione] è cominciata, quando s’è saputo che gli scrittori tedeschi di maggior nome, a cominciare da Thomas Mann, riuniti in casa di Hans Heinz Ewers […] si proponevano di fare una pubblica protesta” (Pirandello/Abba, 505). Il nome di Mann che appare in questa lettera rappresenta l’elemento più forte a favore di una conoscenza del testo fin dal 1930. Una lettera di risposta di Mann ad Adriano Tilgher, per le sue congratulazioni per il Nobel (Mann, 645-666), postula un rapporto con Pirandello attraverso la sua saggistica: si veda al proposito la testimonianza diretta di Lavinia Mazzucchetti: “un critico al quale ricordo che a quei tempi Thomas Mann si interessava sia per l’atteggiamento politico, che per i saggi pirandelliani, fu tra i pochissimi che trovarono un’eco all’invio dei loro messaggi”. Ma tutto questo importa relativamente, posto che, in ogni caso, anche se l’accoppiamento fosse puramente giudizioso, un terreno comune si lascia da qui scorgere: il diavolo di Pirandello ha un nome tedesco, unico tra tutti quelli dei personaggi di Questa sera si recita a soggetto, e non solo, e rinvia alla cultura tedesca prima dello studente e poi del drammaturgo.
Certamente il repertorio del melodramma impiegato da Pirandello appare molto distante dal teatro per musica che pratica Leverkühn, che si muove nel panorama della cultura post-wagneriana e sperimentale, tra scelte arcaiche (anche italiane, come mostra la rivisitazione di Palestrina) e l’esperienza “atonale” o “dodecafonica” (per cui Mann dovrà confessare di essersi ispirato soprattutto alla musica di Schönberg), ma abbiamo detto della differenza delle sue prime prove parodistiche. Ma, d’altra parte, la tradizione del melodramma che occupa il rito del canto domestico della famiglia La Croce in una remota località della Sicilia si può paragonare benissimo a quella che, sulla soglia della prima guerra mondiale, e insieme all’intrattenimento della proiezione cinematografica, occupa attraverso i dischi messi sul grammofono, macchina all’avanguardia, le serate dei residenti della clinica di Der Zauberberg, pubblicato nel 1924. Peraltro il grammofono fu utilizzato nella messinscena di Questa sera di Königsberg, con un raddoppiamento dell’effetto della trasparenza di parete, come Pirandello testimonia in una lettera a Guido Salvini: “Si vede lassù una Primadonna e un Baritono che cantano goffamente al suono d’un grammofono il finale del primo atto d’un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio tutto cangiato. Siamo veramente in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa la caricatura e la parodia, cantanti che si sbracciano vestiti di velluto e piumati, e il grammofono invece dell’orchestra” (Alfonzetti 2019, 19).
Ovviamente, la discesa musicale nell’abisso di Leverkühn, parallela all’ascesa al potere di Hitler, è costruita ex post, come doloroso itinerario ripercorso dal professore-“umanista” Zeitblom a partire dal 1943, dopo la morte dell’amico in un distacco progressivo dal suo paese e da chi, ora travolto dagli eventi, ne tenne il dominio, da altri e diversamente foschi demoni. Evidente – sul primo fronte – che l’assunzione del repertorio, diciamo all’ingrosso, romantico-popolare, e soprattutto italiano, funzioni per Pirandello, e per il suo pubblico internazionale, quello che potremmo definire un ritorno del superato melodrammatico. La catarsi rende l’attrice che incarna Mommina quasi vittima del trasporto identificativo, esattamente come il suo personaggio, con una forza tanto maggiore rispetto agli elementi caratterizzanti un’esperienza di provincia e la sua assunzione nel gioco domestico, con travestimenti d’accatto e i baffi realizzati col tappo di sughero bruciato. Del resto il gioco – in una distanza siderale dall’orizzonte della novella di partenza – è assunto in una finzione metateatrale ardita e destrutturata, in una serata avveniristica o “sperimentale”, da città europea all’avanguardia, giocando all’allusione alle usanze da remoto “paese”, come marca la sottoscrizione posta in calce al testo: “Berlino, 24 marzo 1929”.
Se in partenza, nella novella, l’ambientazione siciliana risultava solo genericamente definita (in una “polverosa città dell’interno della Sicilia”), se il “costume del Continente” marcava la distanza dell’ambientazione rispetto all’orizzonte di ricezione del lettore colto e metropolitano, risulta ben significativo che il “colore” siciliano venga ripreso, anzi amplificato, nella messa in forma teatrale, destinata alle platee europee, a carico dell’iniziativa del dottor Hinkfuss. “Egli” “avrà pensato all’opportunità” di “dare in principio una rappresentazione sintetica della Sicilia”, “egli”– non Luigi Pirandello – ha predisposto i mezzi per realizzare la processione d’apertura (MN IV, 322); egli, ancora, ha inventato la morte per accoltellamento di Sampognetta, come rivendica lui stesso: “Scena capitale, signori, per le conseguenze che porta. L’ho trovata io; nella novella non c’è; e sono certo anzi che l’autore non l’avrebbe mai messa, anche per uno scrupolo ch’io non avevo motivo di rispettare: di non ribadire, cioè, la credenza, molto diffusa, che in Sicilia si faccia tant’uso del coltello” (369). Nel “ritorno del superato”, siciliano e melodrammatico, c’è dunque anche la possibilità, qui in declinazione evidentemete parodistica, di una “cavalleria rusticana” riproposta nello spazio di per sé assai poco siciliano di un Cabaret. Peraltro Rico Verri non risulta più nella reinvenzione teatrale, a motivare meglio la sua estrema gelosia, un uomo “del Continente”, ma sicilianissimo e con parentela acconcia, discendente da padre usuraio che già fece morire sua moglie di crepacuore. Dunque l’ “energumeno” ha tutti i tratti per diventare un fosco personaggio da melodramma di ritorno (369-370).
Se tutto ciò è recupero della tradizione in forma manipolata, parodistica e stravolta, tuttavia, su un fronte diverso, Pirandello mostra di intrattenere significativi rapporti con il teatro musicale contemporaneo, e proprio applicandosi a una materia arcaica, nutrita da credenze o superstizioni folkloriche. Penso, naturalmente, a La favola del figlio cambiato, che data al 1934, e che va in scena per la prima volta ancora in Germania. Non si tratta di confondere Giovan Francesco Malipiero con Adrian Leverkühn, ma di verificare una tappa diversa dell’itinerario nel “mito”, ovvero della partita pirandelliana con le radici folkloriche. È lo stesso Pirandello a definire “atonale”, sia pertinente o meno oggettivamente questa etichetta, la musica di Malipiero in un’intervista che segue immediatamente al doppio debutto tedesco, a Braunschweig e poco dopo a Darmstadt, della Favola (l’intervista è riportata integralmente in Cometa 1986, 321-326). Peraltro la prima, nel gennaio 1934, vide in sala la presenza del cancelliere Adolf Hitler.
A Darmstadt la Favola, a differenza di Braunschweig, suscitò forti polemiche, con l’intervento di proibizione da parte del Ministro del Culto dell’Assia, che dichiarò l’opera “sovvertitrice e contraria alle direttive dello stato popolare tedesco”. Difficile pensare che ciò avvenne per motivi occasionali, e non in rapporto a elementi profondi, colti come di disturbo dalla vigilanza dei censori tedeschi: evidentemente il finale che vede la sostituzione di un erede al trono di un imprecisato regno del Nord con un giovane “deformato e scimunito” di un paese del Sud. L’intervista ricordata, che Pirandello rilascia a Chiarini, fu certamente pensata per contenere la notizia dello scandalo tedesco di cui la stampa italiana aveva riferito, in vista della presentazione dell’opera a Roma. Pirandello giustifica in essa la pura, innocua, gratuità fiabesca dell’invenzione, ma non evita, dopo che l’intervistatore richiama una nota de “L’osservatore romano” (“che cosa poi i Nazionalsocialisti intendano con la parola sovvertitrice è difficile da dire”), di alludere en passant a “l’ipersensibilità che i nazional-socialisti hanno in materia di razzismo”: considerazione che non può che rinviare al nesso indicato.
Si parta, anche in questo caso, dallo sviluppo che la Favola realizza rispetto alla novella, scritta nel 1902 e ampiamente rivista nel 1923-25 col titolo Il figlio cambiato. Alla base una credenza nel folklore siciliano – testimoniata da Giuseppe Pitré – a giustificare paralisi infantili o altre forme patologiche che colpivano bambini, immaginando uno scambio praticato dalle streghe, con la sostituzione del bambino sano con un altro affetto da tare o menomazioni. Una madre disperata viene, appunto, nella novella confortata da una fattucchiera, Vanna Scoma, che le fa credere di vedere con i suoi poteri suo figlio vivere altrove, pefettamente sano, sostituito addirittura con il figlio deforme di un re, di cui dunque ha preso il posto, dalle streghe-megere (“nonne” e “donne” nelle due redazioni). Già la novella, nella redazione rivista, elimina, a distanza di un ventennio, la precisa caratterizzazione locale siciliana, che manca del tutto nel libretto. Questo sviluppa, in realtà, non una narrazione o una messinscena in forma fiabesca, ma impiega in una cornice fiabesca una superstizione o credenza popolare, facendo di essa una trovata “pirandelliana”, di scambio di ruolo o delle parti. Qui due giovani uomini, il mostro (così definito nelle didascalie), che gira deriso bardato di una corona di cartoncino dorato e di un mantello di straccio, e un principe, erede di un imprecisato regno del Nord (secondo riferimenti interni al testo, non certo casuali, da non pensare però la Francia o l’Inghilterra: 769 e 773), vengono scambiati, con la ripresa dei creduti posti e ruoli, in una sorta di risarcimento retrospettivo, dove la credenza popolare permette al secondo, riparato in quel luogo di generica caratterizzazione “mediterranea” per sfuggire ansie e attese, di non salire al trono, lasciandolo all’“idiota” che si crede figlio di un re. Si tratta in questa declinazione di un tema – a cercare ancora – che si offre in altre varianti, dalla trovata nel registro pirandelliano di vecchio conio (alla Così è, se vi pare) che giunge proprio in anni precedenti a Come tu mi vuoi. Qui l’incertezza dell’identificazione della scomparsa Cia, forse morta o forse fuggita, perdendo il senno, dopo lo stupro di una truppa di soldati austroungarici nella villa di un imprecisato luogo del Veneto: essa potrebbe essere la bellissima Incognita oppure la “grassa e flaccida” Demente, sfigurata in una smorfia perenne. Il testo – il cui primo atto si svolge a Berlino, e dove nel terzo la Demente viene scortata nella Villa da un “dottore, psichiatra”, che esercita a Vienna (MN IV, 236) – si ispira liberamente, rivangando temi prediletti, al recente caso di cronaca dello “smemorato di Collegno”, e va in scena per la prima volta a Milano il 18 febbraio 1930. (Silvia De Min mi segnala per le cose qui discusse il carattere mefistofelico del personaggio di Boffi, “convinto che la vita non sia altro che trucco”, come risulta da numerosi richiami nel testo, a partire dalla maschera di Mefistofele con cui egli entra in scena).
Ora, se si tornano a considerare con attenzione alcuni particolari dell’assunzione melodrammatica di Questa sera si recita a soggetto, si potrà notare un significativo investimento dell’assunzione alla seconda potenza del Trovatore, che riguarda non solo il canto dell’aria “Leonora, addio!”, quale momento di struggente autoidentificazione da parte di Mommina, ma la sottrazione e lo scambio di infanti che sta alla base della trama. Mommima non solo canta e muore, ma ragiona a lungo, da eroina pirandelliana (non senza eccesso di logorroica capziosità), con osservazioni di dettaglio che riguardano, a ben vedere, i due piani che strutturano la reinvenzione dalla vicenda del figlio cambiato, con analogo ampliamento dell’angustia della novella breve nell’ampia campitura della Favola. Le “zingarelle” già evocate dai cori della famiglia La Croce sono assimilabili alle “donne” delle credenze siciliane: “vagabonde che leggono la ventura, le zingare, e ci sono ancora, e hanno fama veramente che rubino i bambini, tanto che ogni mamma se ne guarda”. Rubare i bambini, o meglio, come appunto nel Trovatore, sostituire un bambino con un altro, e infatti Mommina rievoca in questi termini la storia di Azucena: “nel furore della vendetta, quasi pazza, scambia il suo proprio figlio per il figlio del Conte [di Luna], e brucia il suo proprio figlio, capite?” (MN IV, 393-394, per il rapporto con il carattere favolistico del Trovatore e le favole dalle radici arcaiche, e il recupero nella Favola del figlio cambiato, si veda quanto osservato in Alfonzetti 2019, 19-24).
Possiamo allora tornare alla prima, e unica rappresentazione, al Teatro Reale dell’Opera di Roma della Favola del figlio cambiato, avvenuta il 24 marzo 1934. La clamorosa polemica non fa in realtà che riproporre e ribadire il senso, chiarissimo, dell’accusa di sovversione mossa dai nazionalsocialisti tedeschi. L’ira di Mussolini, presente alla prima, il suo immediato intervento a vietare la rappresentazione in Italia dell’opera, si possono difficilmente pensare suscitati dall’appoggio a istanze di musicisti “tradizionalisti” che avversavano Malipiero o dallo scarso gradimento del pubblico. La censura preventiva aveva, infatti, già provveduto a cancellare il cenno più esplicito, nella dichiarazione finale, nel momento dell’incoronazione dell’“idiota” per sostituzione di persona: (“Credete a me, / non importa che sia / questa o quella persona: / importa la corona! / Cangiate questa di carta e vetraglia / in una d’oro e di gemma di vaglia, / il mantelletto in un manto / e il re di burla diventa sul serio, a cui voi v’inchinate. / Non c’è bisogno d’altro, soltanto / che lo crediate”: MN, IV, 802-803). Se l’intenzione manifestata da Mussolini di voler direttamente sorvegliare la censura preventiva del libretto fu davvero seguita, la sua ira potrebbe avere un movente tanto più forte, posto che la soppressione dei versi citati non poteva bastare a rendere innocuo, come lieto-fine meramente fiabesco, il senso della vicenda. Mi sembra da rivedere, dunque, il giudizio riferito a partire da una testimonianza di Fedele D’Amico (735-736). Si veda tra l’altro, a individuare la responsabilità non nel musicista ma dell’autore del testo, una successiva, inequivocabile, dichiarazione di Mussolini a Malipiero: “Lei ha commesso l’errore di mettere in musica il libretto di un cretino”. L’episodio produsse il distanziamento del Duce dal drammaturgo, proibendogli di entrare nel suo palco la sera stessa della prima romana, rifuggendo in seguito le richieste di udienza di Pirandello, il cui grande patimento e tormento emergono chiaramente dalla corrispondenza con Malipiero, nella volontà manifestata di rimozione totale del libretto. Non a caso la corrispondenza col musicista, e ogni implicazione al proposito, cessano nel momento, ovviamente di riscatto e compensazione, del conferimento a Pirandello del premio Nobel.
Tutto ciò potrà sembrare materia per accoppiamenti eccessivamente giudiziosi, ma si ricordi che la Favola venne ideata da Pirandello prima della confezione del libretto per Malipiero, quale testo da implicare nel “teatro nel teatro” de I giganti della montagna, come testimonia una lettera a Marta Abba in data 4 aprile 1930. Essa doveva servire come pièce inquadrata, attribuendone nel piano di finzione di quest’opera, anzi di questo mito, la sua composizione a un giovane poeta morto suicida. La contessa Ilse riesce, con l’aiuto del “mago” Cotrone, a rappresentare la Favola con la propria compagnia di comici scarozzanti di fronte ai Giganti, in occasione del banchetto di nozze di Uma di Dòrmio e Lopardo d’Arcifa, salvo ad essere la vittima sacrificale di un rito orrendamente dionisiaco, insieme a due attori, dilaniati dagli spettatori. Si faccia mente, ancora, che la funzione che viene messa a carico dell’idiota o mostro della Favola trova nel mito incompiuto una parallela e variata distribuzione alla compagine dei segnati da Dio della Villa della Scalogna, che Cotrone infatti unisce agli attori scarozzanti nell’impresa. Questo orrido, assoluto, dispiegamento della potenza negativa del mito, consente di riprendere in un senso più profondo, meno precario e occasionale, l’accostamento sopra proposto.
Sulle caratteristiche e sul significato di quelli che Pirandello definisce miti – raggruppando sotto questa etichetta alcuni suoi drammi – ho insistito altrove (Vescovo 2020, 159-170) e non mi ripeterò, se non tornando a citare le brevi riflessioni di Furio Jesi, a proposito di una “brutalità inutile senza mistificazione, […] resa inutile, nihilistica ed essoterica fino in fondo dalla perdita di ogni passato collettivo, e perciò anche di ogni futuro e più che futuro”. La stessa adesione al fascismo di Pirandello – si rammenti la dichiarazione al Duce di voler essere il suo “più umile e obbediente gregario”, nel momento esatto del delitto Matteotti – va intesa, secondo lo studioso, in tale direzione: “il fascismo di Pirandello non poteva conciliarsi con il compito inutile ed esoterico di D’Annunzio, ma neppure con il compito utile del fascismo profano di Mussolini. […] Il passato era interamente perduto, l’“Antico” era inaccessibile; tutt’al più, per disperazione, ci si poteva lasciare avvolgere dai morti, dal suo guscio vuoto” (Jesi 2011, 218-219). Ovviamente Pirandello non era un drammaturgo di regime e la sua ansia, o la sua possessione, potevano offendere profondamente, proprio nella rivelazione dei fondamenti, il fascismo “profano” di Mussolini, come provocare la reazione dei nazionalsocialisti tedeschi.
Le brevi righe ora citate sono esattamente sovrapponibili ad altre, fondamentali, pagine di Jesi, in un’analisi di ben diversa ampiezza dedicata proprio al Doktor Faustus di Thomas Mann, nella prospettiva del doloroso, postumo, disvelamento conoscitivo da parte di Zeitblom dell’esperienza dell’amico musicista Leverkühn, che trova il suo apice, o meglio il suo abisso, all’inizio degli anni ’30, dove il patto col diavolo – che forse non esiste in quanto tale in senso referenziale – risiede nella proiezione di “parvenze orride” e demoniache sul mito, amplificate dal tormento che produce la dissoluzione sperimentale delle forme. Anche l’impiego di una parodia “diabolica” (rilevantissime, tra l’altro, le osservazioni di Jesi sulla figura e sul ruolo del professor Schleppfuss) è qui precisamente rilevato, nel percorso della “riduzione del mito a immagine del passato, deforme poiché tale, e poiché tale depositaria di morte” (Jesi 2018, in part. 37-100, la citazione da p.59). La formulazione, come si vede, è esattamente sovrapponibile a quella impiegata dallo stesso Jesi per Pirandello. Essa ci invita a letture ben diverse rispetto ai richiami correnti all’umorismo, nel senso appunto della freudiana Verneinug, ad inquadrare il rapporto di Pirandello col mito, col suo ritorno punitivo e tragico, dalla Sicilia all’Europa, dall’orizzonte arcaico alle forme d’avanguardia, tra l’Italia fascista e la “Germania segreta”.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
The exponential growth of the use of captions in European drama between the end of the 19th and the beginning of the 20th century is examined here, starting from Ibsen, in the relationship between George Bernard Shaw and Luigi Pirandello. The topic – removing it from the perspective of the centrality of stage direction (called “regìa” in the Italian tradition of theatre studies) - is focused in the direction that Shaw defines as the “competition of fiction” of dramaturgy, in reference to the book. Even the relationship with the figure of the director – for Pirandello relating above to Questa sera si recita a soggetto and the German experience – is redefined in the complex and contradictory relationship with the declared theoretical instances, in a broader perspective of “apparition”, and especially of “diabolic apparition”, which also introduces the role of a third protagonist of the twentieth century, Thomas Mann.
keywords | Luidi Pirandello; George Bernard Shaw; Thomas Mann; Stage Direction; Competition of Fiction; Theatrical Captions.
Questo contributo è stato sottoposto al vaglio del comitato scientifico ed editoriale della Rivista.
Per citare questo articolo/ To cite this article: P. Vescovo, Didascalie e apparizioni
Shaw, Pirandello, Mann, ”La Rivista di Engramma” n. 205, settembre 2023, pp. 11-41 | PDF