La tragedia del Cinquecento come “specchio de’ Principi”
La virtù, il principe e il tiranno nella Canace di Giovanni Falugi
Michele Di Bello
English abstract
I. Tragedia ‘politica’ nel Cinquecento italiano e suddivisione tradizionale della tragedia cinquecentesca
Una felice definizione di Sandra Clerc ha spiegato con chiarezza in che senso il genere tragico, che rifiorisce nel Cinquecento soprattutto a seguito e per merito della riscoperta della Poetica aristotelica, possa essere definito come un genere letterario sostanzialmente ‘politico’:
La tragedia del Cinquecento è, come noto, una rappresentazione prevalentemente politica: per argomento, ma anche e soprattutto perché diviene ben presto lo spettacolo privilegiato delle corti principesche, in una sorta di catarsi apotropaica. Si mette in scena il potere tirannico, criticandolo; si denuncia l’ipocrisia delle corti, presentate come luogo del complotto; al contempo, si dedicano le tragedie a sovrani “ideali”, di cui sono esaltate le numerose virtù. La tragedia, vero e proprio “specchio de’ Principi”, diviene strumento di edificazione morale e spazio in cui continuare la riflessione aperta, tra gli altri, da Machiavelli e Castiglione, sul potere e le sue derive, sul delicato equilibrio tra giustizia, moralità e utilità (Clerc 2016, 220).
Utilizzando un’espressione mutuata dalla lettera di dedica dell’Asdrubale (1562) di Jacopo Castellini a Francesco de’ Medici, Clerc identifica nella tragedia, “specchio dei principi”, l’alveo privilegiato della riflessione teorica che tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento impegna un gran numero di intellettuali (Machiavelli e Castiglione sono solo i più noti) sui temi della natura e delle forme del potere, della sua gestione, della figura del reggente, delle dinamiche interne alla corte, del comportamento del cortigiano e molti altri.
La tragedia, alta forma di intrattenimento principesco, diventa cioè nel Cinquecento uno dei principali strumenti del veicolamento di tali contenuti, anche e non solo per l’immediatezza del suo impatto – proprietà in fondo comune a tutte le forme di letteratura destinate alla rappresentazione piuttosto che alla pura e semplice lettura: il principe assisteva, di fatto, nel dipanarsi delle vicende di soggetti illustri (storici, biblici o mitologici), ad una proiezione travestita di sé, insieme alla corte, coinvolta in un gioco di rispecchiamento ora più allusivo, ora più scoperto. La parabola tragica, aristotelicamente conducente dalla prosperità alla miseria, portava di fronte agli occhi della corte l’esemplificazione sempre a fini più o meno apertamente didattici di varie declinazioni del destino umano, e si caricava, adattata di volta in volta alla fabula drammatizzata, di forti contenuti morali. In questo senso, la riflessione teorica rinascimentale sul potere e sui suoi molteplici aspetti conosce nella tragedia una sede favorita di attecchimento e di sviluppo, e segue passo dopo passo l’evoluzione di tale genere letterario nelle fasi in cui questa viene convenzionalmente suddivisa. Seguendo l’impostazione classica di Ferdinando Neri, che Clerc in parte riargomenta, la tragedia italiana cinquecentesca si può infatti suddividere in tre fasi principali:
1500-1530 ca., periodo dei cosiddetti “grecizzanti fiorentini” (cui la Canace falugiana appartiene, vd. infra, 2.);
1530-1570 ca., periodo caratterizzato dalla “riforma giraldiana” (Speroni, Aretino, Dolce);
1570-1600 ca., periodo in cui si sviluppa la tragedia barocca e controriformistica.
II. La Canace di Giovanni Falugi: l’autore e l’opera
La Canace di Giovanni Falugi, rimasta per lungo tempo manoscritta e conservata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNCF, cl. 7 cod. 166), dovrebbe appartenere al primo periodo della scansione temporale di Neri, anzi proprio alla fine della prima fase, secondo la datazione dell’opera (1529) proposta da Riccardo Bruscagli, alla cui edizione del 1974 – l’unica moderna del testo – si farà costantemente riferimento nella citazione di brani dalla tragedia. Non è solo allo scarso interesse riservato dalla critica a quest’opera, relegata allo statuto di Canace ‘minor’ rispetto alla molto più fortunata opera omonima di Sperone Speroni (1542), che si deve l’incompletezza e l’incertezza delle informazioni didascaliche su di essa (a partire dai dubbi sulla sua data di stesura nonché sulla sua rappresentazione, non certa); tali vaghezze derivano anche dalla generale opacità di contorni in cui si muove il suo autore, personaggio così poco noto “da non potersi tentare neppure l’abbozzo di una biografia” (Bruscagli 1974, ix). Di lui, toscano proveniente dall’Incisa, si sa che fu alle dipendenze di Ippolito de’ Medici (1511-1535), il figlio di Giuliano, cardinale e arcivescovo che governò come capo della città di Firenze fino alla terza cacciata dei Medici nel 1527 e partecipò alla spedizione dell’imperatore Carlo V d’Asburgo contro i Turchi del 1532. Falugi si trovò dunque ad operare nel “decennio calamitoso” (Bruscagli 1974, xviii) segnato dall’invasione dei lanzichenecchi, dal sacco di Roma e dall’assedio di Firenze, e frequentò con ogni probabilità la fastosa corte romana di Ippolito, già illuminata dalla presenza di altri intellettuali più conosciuti come Francesco Maria Molza e Claudio Tolomei.
Le sue opere a noi note, tutte in volgare, non sono molte: un poemetto eroicomico in ottava rima, la Pygmeis (dedicata a Ippolito e Alessandro de’ Medici, verosimilmente nel 1527); una tragedia, la Canace (dedicata a Ippolito de’ Medici nell’anno della sua elezione a cardinale, avvenuta il 10 gennaio 1529 e già adombrata nella Pygmeis); una tragicommedia, l’Ulisse paziente (uscita insieme ad una traduzione dei Menaechmi di Plauto, nel 1531); ancora un poemetto in ottave, In morte del fortissimo Signor Giovanni de’ Medici (pubblicato a Venezia nel 1532 ma ascrivibile agli anni 1526-1527). Si converrà con Bruscagli (Bruscagli 1974, xi) sull’impressione che tali opere, tutte ravvicinate e distribuite in un decennio, tradiscano un doppio obiettivo dell’autore: da un lato la ricerca di un qualche riconoscimento letterario, dall’altro il perseguimento di una linea d’intervento culturale tutto sommato omogenea, caratterizzata dal recupero di un classicismo abbastanza raffinato e dalla volontà di porsi ad un tempo come traduttore (Menaechmi), re-interprete di miti noti (Canace) e autore originale (Pygmeis, In morte del fortissimo Signor Giovanni de’ Medici). Ciò che più conta in questa sede è comunque notare che la sua parabola letteraria seguì visibilmente le sorti della carriera politica di Ippolito de’ Medici, considerato che la quasi totalità delle opere di Falugi è a lui dedicata.
Proprio all’ascesa di Ippolito al soglio cardinalizio – come è lecito desumere dalla dedicatoria dell’opera (vv. 57-59, in cui si fa riferimento ad un “soglio illustre”, identificabile con il soglio cardinalizio cui ascese Ippolito il 10 gennaio 1529) – si ricollega il dono della Canace, tragedia rimata invero molto elaborata che dispiega una vasta gamma di metri anche piuttosto colti (ad esempio la strofe saffica); il dramma è in cinque atti intervallati da altrettanti cori, preceduti da una dedicatoria e chiusi da un congedo ad libellum. L’impasto linguistico e formale, caratterizzato da una sorta di immaturità pienamente ascrivibile al primo periodo della tragedia cinquecentesca (appunto definito di “grecizzanti fiorentini”, vd. supra, 1.) è di matrice quattrocentesca, ispirato al Pulci e al Poliziano, e lo spirito, espresso anche dallo stile (soprattutto nei dialoghi) è spesso popolareggiante e “borghese” come lo ha definito lo stesso Ferdinando Neri (Neri [1904] 1961, 16). Il soggetto del dramma è l’amore incestuoso dei due figli di Eolo, Canace e Macareo (sul mito Gantz 1993, 169-170), riutilizzata nel suo ‘scheletro’ mitologico per ospitare una riflessione moralistica indirizzata al cardinale. Questa la trama:
Il regno di Eolo prospera arricchito dalla straordinaria virtù dei suoi due figli, Canace e Macareo. A turbare l’ordine della situazione, la furia Megera suscita nella bella Canace una passione incestuosa per il fratello. La fanciulla, in preda al travolgente desiderio, decide di confidarsi con la sua nutrice che, dopo qualche resistenza, decide di aiutarla consegnando a Macareo una lettera in cui la sorella gli confessa il suo amore. Con un salto narrativo di nove mesi, si ritrova Canace al momento del parto del figlio suo e di Macareo. Il padre Eolo non tarda a scoprire l’accaduto e, in preda alla furia, invia alla figlia una spada ingiungendole di uccidersi. Ordina poi ad un servo di esporre il figlio dell’incesto perché sia dilaniato dalle bestie feroci. Macareo, informato della doppia sciagura, prende la via dell’esilio, straziato dal dolore; nelle parole conclusive del sacerdote si viene a sapere che Eolo, pentitosi tardivamente, comanda di raccogliere il corpo fatto a brani del nipote innocente per dargli una adeguata sepoltura.
La scelta dello scandaloso soggetto, apparentemente audace come dono ad un neo-cardinale, si potrebbe ricondurre alla volontà di fornire di una storia particolarmente infelice di passione e dannazione un’esegesi moralistica, evidente nella proposta di un modello esistenziale stoico di distacco dalle passioni e di estrema attenzione ai colpi della sorte. In realtà, però, proprio perché nell’opera i personaggi agiscono sotto la spinta di una passione demoniaca e di provenienza tutta infera, quasi prodotta da una Fortuna dalla quale non ci si può in nessun modo guardare, non è propriamente possibile intravedere nella progressione del dramma la consegna di una morale ottimistica: la Canace falugiana propone invece, come è stato sottolineato, una sorta di “antropologia in negativo”, in cui l’arbitrio del soggetto è ridotto al minimo (Gallo 2005, 231).
La morale ricavata e offerta sarà, pertanto, quella della negazione della felicità per l’essere umano (si veda già il pessimistico Coro dell’atto I, intonato dalle tre Parche, in cui si asserisce l’infelicità dei viventi a partire dall’eloquente incipit, “Nessun in terra si dica felice”), riconfigurata verso la fine del dramma come invito ad un’esistenza cosciente dei rischi stessi del vivere, aggirati o evitati attraverso l’esercizio della consapevolezza e della diffidenza verso la Fortuna (infra, 6.). È così che la fastosa rappresentazione mitologica – che si fa qui dramma cortese di un infelice amore tra consanguinei – si rivela percorsa, nella tragedia, da una serie di motivi che configurano una riflessione nel complesso organica sui temi del mutamento di fortuna, dell’incostanza del fasto e delle ricchezze (di derivazione senecana), ma sottendono anche nessi concettuali e teorici più maturi (qui appena in abbozzo e destinati ad essere ripresi e approfonditi solo nella tragediografia successiva, es. giraldiana) come il rapporto colpa-sventura o il contrasto fra responsabilità etica e fato.
Per quanto riguarda i modelli, Falugi aveva a disposizione per questo soggetto (e probabilmente leggeva in latino) l’epistola di Canace a Macareo nelle Eroidi di Ovidio (l’undicesima) – la tragedia Eolo di Euripide, tra le fonti del testo ovidiano, era purtroppo già andato perduto – che forniva prima di tutto la trama dell’intrigo domestico (forse suggerendo anche l’espediente della lettera come mezzo della confessione dell’amore di Canace) e poi, in parte, il modello sentimentale per la costruzione dell’identità dell’eroina, caratterizzata da un furor erotico almeno tanto forte quanto il corrispondente furor tirannico di Eolo scatenatosi alla scoperta dell’incesto tra i figli; a quello ovidiano si aggiungeva l’importante modello drammatico (e tematico) di Seneca, di cui Falugi considerò per la sua tragedia in particolar modo la Fedra, opera incentrata su un mito paragonabile a quello di Canace: l’amore impossibile di una matrigna, Fedra, per un bel principe virtuoso, il suo figliastro Ippolito, anch’essa storia di passioni proibite, confessioni ‘scandalose’ ed esiti infelici. Ad un’analisi più attenta di questa compresenza di modelli latini nell’opera falugiana non è difficile notare come il modello senecano si imponga di gran lunga su quello ovidiano, fornendo a Falugi il repertorio situazionale risonante di presenze oscure (fra tutte quella pestifera della furia Megera nella scena I dell’atto I) e di scene cruente e macabre (come la descrizione dello scempio del corpo del figlio di Canace in atto V, scena II, vv. 149-253), tutti tratti che contraddistinguono universalmente la tragedia senecana.
In questa sede si è scelto in particolare di focalizzare l’attenzione su tre aspetti della Canace in vario modo riconducibili alla discussione cinquecentesca su temi ‘politici’ cui si accennava in apertura (supra, 1.): 1) la raffigurazione del principe ideale e idealizzato nella figura di Macareo (con un accenno alla questione teorica dell’opposizione tra ozio e attività nella valutazione della figura del buon regnante); 2) la rappresentazione del tiranno, figura cardine di molta trattatistica politica e onnipresente nelle discussioni sulle degenerazioni del potere, ruolo qui impersonato da Eolo; 3) la morale del dramma consegnata al signore dedicatario della tragedia, attraverso una lettura dell’ultimo coro della Canace.
Prima di tutto, però, sarà necessario considerare la dedicatoria che prelude alla tragedia: tale testo da un lato definisce l’opera in questione come dono cortigiano vero e proprio, rinsaldando, nell’evocare i consueti temi legati alla dedica, il cosiddetto ‘patto cortigiano’ che è premessa e finalità dell’opera stessa; dall’altro esso anticipa tutto il valore morale e sapienziale del dono, presentato, con un consueto processo di diminutio, come privo di pregio apparente.
III. La dedicatoria ad Ippolito
La coltissima dedicatoria di questa tragedia, scritta in strofe saffiche rimate, prende le mosse da un lungo preambolo (vv. 1-36) che ha per oggetto le ricchezze dei popoli della terra invitati a portare le loro ricchezze in omaggio ad Ippolito. Il fasto volutamente esagerato che si coglie nell’elencazione dei vari popoli sarà un motivo importante nella tragedia che di quel fasto e di quella prosperità dimostrerà progressivamente la labilità e la dannosità fino a proclamarne, nell’ultimo coro, l’abbandono completo in favore di una vita ritirata e condotta all’insegna di una sicura saggezza (infra, 6.). In opposizione a questo stuolo di ricchi donatori si pone Falugi stesso che, in netto contrasto con tali elargizioni, dichiara invece di offrire al suo signore un omaggio molto meno fastoso ma – come si arguisce – molto più prezioso:
Ma corsier acri, celeri e audaci,
auro, drappi, gemme e armi lucide,
falconi e pardi o presi in selve mucide
cervi fugaci,
lascerò io presentarti a coloro
ch’hanno e palazzi suoi superbi e alti,
dove le travi, e cardini e gli smalti
refulgan d’oro:
ché nelle selve mia povere e aride
non nacque mai de l’Esperide el pome,
o qual già trasse Ippomene o pur come
fu dato a Paride.
Non va pel campo mio correndo vago
el fiume fatto da Mida aurifero,
non Fasi ameno, o Idaspe gemmifero
o l’aureo Tago:
ma sol ci è nato un quasi secco lauro,
onde talor non sanza sua periculi
Melpomene mi detta esti versiculi
per mio tesauro.
Questi el tributo son della tua sedia,
questi ho sacrati al tuo soglio sublime:
ch’altro non ho da darti che le rime
d’esta tragedia. (Canace, Dedicatoria, 37-60)
Nella dedicatoria l’opposizione tra i ricchi doni materiali degli altri e il dono delle rime della tragedia di Falugi è costruita attraverso la metaforica dello splendore naturale dei luoghi più belli della terra (come l’immagine del fiume reso d’oro dalla mano di Mida ai vv. 49-50), ai quali si contrappone un misero ramoscello di alloro addirittura quasi secco, simbolo di una poesia ripiegata e umile che nasce nelle selve povere e aride del poeta (il “quasi secco lauro” del v. 53). Similmente, nel tredicesimo canto dell’Inferno dantesco, l’orrore della selva dei suicidi veniva presentato attraverso l’anafora martellante di “non” (per tre volte presente nella dedicatoria della Canace rispettivamente in apertura dei vv. 46, 49, 51), che negava le caratteristiche naturali del locus amoenus indicando invece le caratteristiche inquietanti di un luogo inospitale. Compaiono anche qui, in opposizione ai floridi rami, gli stecchi e gli sterpi di una natura immiserita:
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:
non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti (Dante, Inferno XIII, 4-9)
Se però nella selva dei suicidi la natura languiva perché pervasa dalla colpa e punita dalla giustizia divina, la natura apparentemente secca e arida alla quale è paragonato il dono di Falugi risponde, in questo vistoso processo di diminuzione, alla ben nota strategia del topos modestiae: l’alloro di Falugi rispetto a quello degli altri poeti non è verdeggiante e rigoglioso soltanto esteriormente ma cela un valore in realtà molto più alto perché è ricco di saggezza. Il pericolo che impone tanta cautela nel porgere il dono ad Ippolito è ovviamente il mancato gradimento dell’opera da parte del cardinale, un timore che in effetti verrà ripetuto nel congedo della tragedia e di cui si coglierà la concretizzazione nella dedica allo stesso Ippolito dell’Ulisse paziente, in cui Falugi dirà di credere “ch’Eolo e Canace, / de’ qua’ l’un pianse, e l’altro amando morse, / in lor boato e tragica ira forse / poco ti piace […] / ogni verso fu / orrido e negro […] di membri e d’animo egro, / e ‘l dolor… dittava e non virtù”).
IV. Macareo-Ippolito e le virtù del principe
Dopo la prima scena del primo atto, in cui Falugi fa intervenire le Furie Megera e Aletto, vere responsabili della passione che Canace concepirà per il fratello, si assiste alla presentazione della felice corte di Eolo, in dialogo con il servitore Tirso (Canace, atto I, scena II). Questo regno, prospero e sconfinato (vv. 121-143), non è tanto ricco per la sua estensione. Eolo dice chiaramente che la sua fortuna, accordatagli da Giove, consiste nei suoi due splendidi figli con cui la natura è stata particolarmente generosa (Canace, atto, I, scena II, vv. 144-151 “ben parmi essere a Giove più che gli altri caro, / non tanto per favor di regno o d’armi / […] quanto in trovar sì liberal e larga / Natura, che ‘n dua figli espresso mostra / quanto ben possa infonder ne’ mortali”). La rappresentazione della virtù filiale sulla quale si regge la prosperità del regno è affidata soprattutto al ritratto del principe Macareo, descritto nelle parole di Tirso e del padre Eolo, che risulta particolarmente interessante nella valutazione dell’impronta ‘cortigiana’ possibilmente lasciata sulla Canace da altre opere precedenti, sempre legate al mecenatismo mediceo (Canace, atto I, scena II, 84-86; 103-120):
(Tir.) Il vidi, o re, con più baron di corte
A caccia andar, con molti pardi e lacci,
festivo, lieto, bel, sano e giocondo
[...]
(Eo.) Pur fra tutte le cose son contento
di Macareo che mai lo veggo in ozio:
or le fugaci fiere segue in caccia,
or atteggia cavai, or la quadriga;
or trae co l’arco e Apollo rassembra,
or in palestra denudato e unto
getta alla terra gli omini più validi;
allor notando ‘l fondo del mar tocca,
talor sonando l’aurata cetra
ferma ne l’aria vagabundo uccello.
La rappresentazione del giovane cacciatore virtuoso corrisponde da diversi punti di vista alla descrizione che Poliziano, nelle Stanze per la giostra (post 1478), aveva dato del giovane protagonista Iulio, notoria maschera poetica di Giuliano de’ Medici, dedicatario dell’opera (Stanze per la giostra I, 8-9):
Nel vago tempo di sua verde etate,
spargendo ancor pel volto il primo fiore,
né avendo il bel Iulio ancor provate
le dolce acerbe cure che dà Amore,
viveasi lieto in pace e ‘n libertate;
talor frenando un gentil corridore,
che gloria fu de’ ciciliani armenti,
con esso a correr contendea co’ venti:
ora a guisa saltar di leopardo,
or destro fea rotarlo in breve giro;
or fea ronzar per l’aere un lento dardo,
dando sovente a fere agro martiro.
Cotal viveasi il giovene gagliardo;
né pensando al suo fato acerbo e diro,
né certo ancor de’ suo’ futuri pianti,
solea gabbarsi delli afflitti amanti.
I contatti con il testo cortigiano di Poliziano si fanno in alcuni punti anche più densi, come nella anafora di “or” impiegata nella analoga esposizione delle attività boscherecce e venatorie cui si dedicano i due giovani cacciatori. Più in generale, a livello rappresentativo, può comunque spiegare tale analogia il ricorso polizianesco e falugiano al comune antecedente mitologico di Ippolito, il prototipo del giovane e bel cacciatore insensibile alle questioni di amore; il Macareo di Falugi si colloca dunque a pieno titolo in una ideale trafila di figure della letteratura cortese e cortigiana italiana esemplate sull’Ippolito mitologico nella quale potrebbe essere inserito anche il protagonista del Filostrato, Troilo, allo stesso modo presentato da Boccaccio nell’esercizio della sua indifferente castità e destinato come Macareo a fare esperienza di un amore che lo condurrà ad una fine tragica.
Nella Canace il motivo di Ippolito torna peraltro con una certa insistenza: si vedano ad esempio i vv. 110-115 dell’atto quinto in cui Macareo prende la via dell’esilio salutando la patria e gli amici, una scena paragonabile al momento dell’Ippolito di Euripide – i cui primi volgarizzamenti paiono però successivi alla composizione della Canace, il che porta ad escludere la conoscenza falugiana diretta dell’opera greca – in cui Ippolito, bandito dal re padre Teseo in quanto ritenuto colpevole di aver violentato Fedra, saluta per sempre la città di Trezene (vv. 1090-1110). Il topos è attivo anche nel secondo coro della Canace (dal titolo “Coro di cacciatori che canta le laude di Diana”, Atto II, vv. 232-271), da leggere in parallelo al canto dei compagni di caccia di Ippolito che nell’omonima tragedia di Euripide sollevano le lodi di Artemide nel pezzo corale successivo all’uscita di scena di Afrodite (vv. 58-71); si consideri inoltre l’inno rivolto da Ippolito a Diana all’inizio della Fedra di Seneca (vv. 54-84), opera tra i sicuri modelli della Canace di Falugi (sui modelli della Canace vd. supra, 2. e Bruscagli 1974, xliv-lii; sul topos di Ippolito vd. invece anche Tuzet 1987).
La differenza sostanziale fra il Macareo falugiano e lo Iulio polizianesco – entrambi, come si è visto, virtuali discendenti dell’Ippolito mitologico – è che i due intraprendono un percorso per molti aspetti ‘inverso’: se Iulio è inizialmente imperfetto (deve ancora conoscere l’amore che lo innalzerà alla virtù più compiuta, quello per la bella Simonetta), Macareo, da perfetto eroe tragico, è invece inizialmente davvero perfetto, ma la catastrofe di natura amorosa minerà irrimediabilmente questo ritratto di idealizzazione, leggibile dunque come parte di una strategia attiva nella tragedia che ne fa una fabula didascalica al contrario: la lezione sottesa è quella della preservazione della virtù ‘cortese’ da difendere dalle spinte distruttive dell’illecito e dell’ingiusto, qui incarnate in un amore incestuoso e degradante contrapposto all’esperienza d’amore edificante di Iulio.
A spiegare le consonanze tra i protagonisti maschili delle due opere (Iulio e Macareo), però, soprattutto alla luce dell’importanza che apparentemente la letteratura medicea quattrocentesca riveste nel percorso letterario di Falugi (a partire dall’aspetto stilistico e linguistico per giungere a quello tematico), la comune derivazione dei personaggi dall’archetipo di Ippolito non sembra pienamente sufficiente. Nell’opera di Falugi (non solo nella Canace), infatti, l’autore auspica di continuo che sotto l’egida di Ippolito si possa rinnovare l’età d’oro laurenziana e giulianea, che quel lauro cui si fa riferimento anche nella dedica iniziale (supra, 3.) possa rinverdire: la ripresa falugiana dello Iulio polizianesco, con tutte le sue implicazioni da un punto di vista ‘propagandistico’, è per questo tanto più interessante e potrebbe indicare la necessità da parte di Falugi di una legittimazione poetica e politica, ricercata attraverso la ripresa di un illustre antecedente di travestimento mitologico della corte medicea quale appunto quello proposto nelle Stanze polizianesche. Anche per questo motivo, l’insistenza falugiana sulle doti ‘cortesi’ del personaggio di Macareo, immerso in un primo momento in una dimensione di suprema virtù ed imitabilità, riveste un’importanza particolare nell’analisi di alcuni motivi didattici e ‘politici’ attivi nella tragedia: attraverso la vicenda luttuosa rappresentata il signore è messo in guardia dalla variabilità della sorte e soprattutto dalla pericolosità di Amore, qui inteso come forza perturbante e perversa (un amore contro natura quale quello carnale di un fratello per una sorella) che inficia la stabilità dell’organismo politico e lo distrugge dall’interno; allo stesso modo – ma per via imitativa – Poliziano, attraverso la vicenda di Iulio, invitava Giuliano ad emulare il percorso di elevazione spirituale per mezzo di Amore contenuto nelle Stanze per la giostra.
Tra le virtù di Macareo elencate da Tirso ce n’è una particolarmente rilevante per le sue implicazioni ‘politiche’ sulla quale è il caso di soffermarsi (Canace, atto I, scena II, 113-120):
(Tir.) Come l’om sapiente usa far quello,
ché ‘n vigilie, in sudori, in ferri, in petra
virtù germuglia, e da l’ozio trabocca
un largo mar di vizi brutti e squalidi.
E sai, Canace gli è conforme appunto,
la cui grazia, virtù, le belle membra
ferman e venti e’ mari; e ‘l sol si liga
d’un riso, un atto sol della sua faccia.
Ai vv. 115-116 Tirso loda Macareo per la sua infaticabile attività, sostenendo che la virtù germoglia nelle veglie, nelle fatiche, nella guerra e nel lavoro, mentre dall’inoperosità proviene un grande mare di vizi brutti e turpi. Tale formulazione risponde all’espansione di un concetto introdotto già da Eolo: il re, infatti, aveva affermato ai vv. 103-104 di essere massimamente contento di non vedere mai Macareo indugiare nell’ozio, ma sempre in attività (Canace, atto I, scena II, vv. 103-104, “Pur fra tutte le cose son contento / di Macareo che mai lo veggo in ozio”). L’importanza di questo tema è confermata anche dalla ripresa del motivo dell’ozio, evocato per contrasto attraverso il suo antonimo (“negozio”, per giunta in rima, posizione forte), nelle parole di Eolo in risposta al suo servitore (Canace, atto I, scena II, 121-123):
(Eo.) Ogne mie grazia, valor e negozio
cognosco e veggo come in vetro chiaro,
tal che da Giove in fuor nessun m’è sozio.
Il binomio ozio-attività, già convertito nelle parole di Tirso nel binomio “ozio-virtù” – ben chiaro nelle connotazioni valutative dei suoi due poli –, non è un concetto neutro nella cultura rinascimentale e in particolare nella trattatistica storica e politica del Cinquecento: nella riflessione di Machiavelli, infatti, uno dei chiari antonimi della virtù è proprio l’ozio. Si tratta di un concetto molto ricorrente, espresso in vari modi e in diverse opere di Machiavelli, ma a grandi linee può formularsi in questo modo: a rovinare un buon regno è l’inattività, e specificamente l’inattività che si genera nella quiete, quando meno, cioè, ci si aspetta il colpo basso della sorte, sempre in agguato. La virtù, al contrario, si sviluppa nella veglia, nella fatica, nella guerra, nelle avversità. Tale riflessione si trova espressa, fra le molte occorrenze, all’interno della teoria storica ‘ciclica’ contenuta nelle Istorie fiorentine (1532), V, 1:
Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna.
La medesima idea dell’ozio come prodotto dall’inattività della virtù emerge poi nel poemetto satirico L’asino (1517), V, 94-96:
La virtù fa le region tranquille: e da tranquillità poi ne risolta l’ozio: e l’ozio arde i paesi e le ville.
Anche in uno dei Capitoli, quello dedicato a Giovan Battista Soderini (Di Fortuna, v. 85), ritorna il tema dell’Ozio che guasta il mondo: “L’una racconcia il mondo (scil. Necessità, al v. 84), e l’altro il guasta (scil. Ozio, al v. 84)”. Si tratta di una formulazione più concisa dello stesso concetto: l’inattività è una condizione perfetta per far attecchire il vizio, poiché nella tranquillità non c’è alcuna ragione di preoccuparsi per qualcosa; al contrario, la Necessità è una condizione di obbligato esercizio della virtù che mantiene in ordine il mondo difendendolo dai colpi della sorte.
È lecito evocare a questo proposito anche il capitolo machiavelliano Dell’Ambizione, dedicato a Luigi Guicciardini (vv. 118-120), nel punto in cui l’autore riflette sulla misera sorte che l’inattività dell’Italia ha meritato:
Or vive (scil. l’Italia), se vita è vivere in pianto,
sotto quella ruina e quella sorte
ch’ha meritato l’ozio suo cotanto.
Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1531) si trova ancora una formulazione di questo concetto (II, 25):
[…] la cagione della disunione delle repubbliche il più delle volte è l’ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e la guerra.
Anche Baldassarre Castiglione aveva un’idea simile dell’ozio, come si può ricavare da un passo del coevo Cortegiano (IV, 28) in cui si legge:
l’ocio troppo facilmente induce mali costumi negli animi umani.
In un senso più ampio, considerando la progressione della tragedia, si potrebbe anche dire che nelle parole di Tirso vi sia dell’ironia tragica giacché i mali di Macareo inizieranno appunto nel suo ‘ozio’ amoroso, cioè quando sospenderà le sue attività e verrà avvolto nella spirale dell’amore incestuoso per Canace: l’immagine didascalica che si condensa nella lode dell’attività instancabile del principe virtuoso conterà dunque su un immediato controesempio, dato dalla caduta di questo principe perfetto nel rovinoso amore per la sorella.
V. Il ritratto tirannico di Eolo
A fare da contraltare alla figurazione idealizzata del virtuoso Macareo, anche nella Canace falugiana – come in gran parte delle tragedie del Rinascimento – figura il tiranno, incarnazione topica dei vizi più indesiderabili e proiezione dei timori della degenerazione del potere regale; a vestire i panni del tiranno è in questo caso il personaggio di Eolo.
I tratti tirannici di Eolo si trovavano già pienamente espressi nell’undicesima delle Eroidi di Ovidio (su questo testo come modello della Canace di Falugi vd. supra, 2.), in cui il re dei venti veniva definito dalla figlia – ideale autrice dell’epistola – come durus pater (“padre irremovibile”, v. 8). Nel testo ovidiano, che prendeva avvio dopo la scoperta dell’incesto e nel pieno imperversare della furia di Eolo, Canace descriveva l’impietoso padre nell’esercizio del suo potere, facendo del duro compito a lui affidato – la signoria su creature indomite come i venti – un riflesso delle sue asperità caratteriali ed un corrispettivo della sua crudeltà come genitore (Ov. Her. XI, 9-18, […] ut ferus est multoque suis truculentior euris, / spectasset siccis vulnera nostra genis. / Scilicet est aliquid cum saevis vivere ventis; / ingenio populi convenit ille sui. / Ille Noto Zephyroque et Sithonio Aquiloni / imperat et pinnis, Eure proterve, tuis. / Imperat heu! ventis; tumidae non imperat irae / possidet et vitiis regna minora suis. “Crudele com’è e molto più truculento dei suoi Euri, se ne starebbe a guardare le mie ferite ad occhi asciutti. Di certo significa qualcosa vivere insieme a venti selvaggi; [scil. Eolo] è in sintonia con l’indole del suo popolo. Dà ordini a Noto e a Zefiro e ad Aquilone Sitonio e anche alle tue ali, Euro violento. Dà ordini – ahimè – ai venti; ma non governa la sua tumida ira e possiede regni minori dei suoi vizi”).
Nella Canace di Falugi la rappresentazione del tiranno coincide in realtà con quella di una ‘parentesi tirannica’, nel senso che Eolo non corrisponde al prototipo del tiranno dall’inizio alla fine del dramma (come in molti altri casi di despoti tragici cinquecenteschi, es. il Polifonte nella Merope di Pomponio Torelli, che agisce tirannicamente dal primo ingresso in scena al momento in cui viene assassinato da Telefonte): Falugi sceglie invece di mettere in scena un sovrano inizialmente virtuoso che però, cedendo alle pulsioni negative suscitate in lui dalle circostanze, rivela un volto spietato e furioso per giungere poi, alla fine del dramma, al pentimento, sulla scia del Creonte nell’Antigone sofoclea, archetipo del ‘tiranno resipiscente’ magistralmente ripreso nella non lontana Antigone di Luigi Alamanni (1530). Per di più nella Canace non si vede mai Eolo agire da tiranno sulla scena: la rappresentazione della sua crudele furia è unicamente affidata alle parole dei personaggi e del coro. Può darsi che ciò costituisca un limite nell’indagazione psicologica del personaggio (sulla scia del giudizio sulla Canace formulato da Neri, vd. supra, 2.), lasciato agire fuori scena; nondimeno suscita un certo interesse il fatto che alle reazioni spropositate del tiranno di fronte alla scoperta dell’incesto tra i suoi due figli si assista attraverso i commenti di personaggi diversi (dalla nutrice al servitore Tirso, dal coro al sacerdote), in una moltiplicazione prospettica dei punti di vista che risulta comunque nell’unica posizione possibile ed ammessa a riguardo: il biasimo e la deplorazione del comportamento del tiranno.
Il ritratto tirannico di Eolo inizia a profilarsi nelle parole della nutrice che nell’atto quarto racconta la reazione del re alla scoperta dell’incesto. Nel suo furioso svelare la cesta in cui vagisce il nipote, Eolo è equiparato – con chiara ripresa della similitudine virgiliana di Aen. II, 378-382 (Acciarino 2018) – ad un uomo che veda spuntare in mezzo ai fiori una pericolosa vipera (Canace, atto IV, scena III, 229-235):
Eol pieno di furor la zana scuopre:
el fanciul vide, e come chi visto abbia
prima ne’ fiori una pessima vipera,
si tirò indietro, e poscia a finir l’opre
per le fasce in sul petto ciuffò quello,
come farebbe un leon pien di rabbia
quando egli arrappa un tenerin agnello.
Alla raffigurazione di Eolo-tiranno è dedicato poi un intero coro, quello che chiude l’atto IV (intitolato appunto “Coro reprensivo la crudeltà d’Eolo e plorante l’innocenza del nipote”), in cui vi è, come in una sorta di trionfo al contrario, l’elencazione di una serie di figure mitologiche e popolazioni della terra (come i Traci e gli Sciti) caratterizzate dalla crudeltà e dall’efferatezza (anticipate già dalla menzione, al v. 241, del feroce re Atamante, noto per aver ucciso il figlioletto Learco); tra di esse figura anche Busiride, altro sovrano mitologico noto per la sua barbara abitudine di sacrificare tutti gli anni un forestiero a Zeus (Canace, Coro dell’atto IV, 283-290):
Non più nella memoria degli umani
viva la fama del crudel Busiride
o d’altro immite Scita,
o efferato Trace,
ché la crudeltà d’Eolo fia viride
più che di tutti gli animali ircani:
questa a cantarne incita
d’omo e di fiera ogni lingua che tace.
Il medesimo coro si chiude sulla prefigurazione dell’immagine di Eolo privato di tutti i suoi affetti e destinato alla solitudine, la sorte più infelice di tutte; si sottolineano qui anche altri aspetti tipici della rappresentazione del tiranno quali la mancanza di autocontrollo, il cedimento alle passioni e la caduta nel vortice dell’ira (Canace, Coro dell’atto IV, 339-346):
Or poi, Eol, ch’a l’animo feroce
lasciasti el fren e a l’ira cedesti,
tu se’ de’ figli tuoi
rimasto orbato e privo:
e questi casi flebili e funesti
del tuo furor, con lacrimosa voce
tanto più ch’uom mortal piangerai poi,
quanto più ch’uom mortal resterai vivo.
Interessante in quest’ultimo passaggio è soprattutto il riferimento all’ira, materia di trattazione nobilitata soprattutto dal De ira di Seneca (39-40 d.C.), in cui tale affezione, se non incanalata nel modo giusto, diventa garanzia di degenerazione del potere; (anche) sulla scia della teorizzazione senecana, il Cinquecento torna a più riprese in ambito trattatistico sull’ira, considerata tratto caratteristico della figura del tiranno in opposizione a quella del buon re. Il tema, ad esempio, è elevato a soggetto di un anonimo dialogo cinquecentesco intitolato Dell’ira e de’ modi di curarla, da alcuni attribuito alla giovinezza di Niccolò Machiavelli, in cui Machiavelli stesso dialoga con l’amico Cosimo Rucellai. Tra i vari punti di interesse dell’operetta – in aggiunta alla questione dell’attribuzione e dei possibili modelli, su cui vd. Bettoni 1824 e Triantafillis 1875 – si segnala il momento della conversazione in cui Cosimo stabilisce una precisa equazione tra l’ira ed il tiranno; secondo questa equazione l’ira non solo è caratteristica del tiranno, ma spadroneggia essa stessa negli animi degli uomini al pari di un despota in una città; ne consegue logicamente che liberarsi dall’ira equivalga a liberarsi dalla dominazione di un tiranno:
(Co.) […] Essendo adunque l’ira un peccato arrogante e contumace e ch’è simile ad un gagliardo tiranno, non vuole esser ripreso da altrui.
E nel vero, Niccolò mio, quello sottrarsi dal principio dell’ira, non è altro che liberarsi da un pessimo tiranno che quietar non ti lasci, ma or gridando, minacciando, ed ora gli occhi e il viso stravolgendo, e battendo le mani, ti faccia a ciascuno tenere spiacevole o ridiculo; perciò nel principio suo dee l’uomo accostarsi alla tranquillità, e fuggire quella furia.
Il fine tutto morale e politico di tale confronto dialogico sull’ira si fa poi palese nell’immagine dello specchio, che richiama il genere letterario dello speculum principis – cui il De ira senecano appartiene – e al contempo rimanda alla funzione di “specchio de’ Principi” che il genere tragedia riveste nel Cinquecento, secondo la definizione di Jacopo Castellini (Asdrubale, Dedica, supra, 1.) da cui ha preso le mosse la presente discussione:
(Co.) […] Onde se m’accadessi d’aver a correggere alcuno, il quale fusse da tal passione combattuto, io userei, come fanno i barbieri a quelli che essi hanno lavati e puliti, di por loro avanti alli occhi uno specchio tantosto che io il vedessi ben infiammato nell’ira, perciò che veggendo sè stesso non pur nell’animo, ma eziam nel corpo sì fieramente transformato, gli sarebbe gran rimedio a tale insania.
Nella Canace di Sperone Speroni la rappresentazione di Eolo come tiranno apparirà ben più diffusa e profonda (specialmente i vv. 1238-1266 della tragedia) di quanto non lo sia nell’omonimo dramma falugiano, ma soprattutto acquisterà rilievo in quella sede un tema molto caro alla tragedia rinascimentale di secondo periodo (supra, 1.) e totalmente assente in Falugi: quello del dire la verità al tiranno (su cui si veda ampiamente Clerc 2016). In particolare, Speroni rappresenterà Eolo in dialogo con il suo Consigliero in un contrasto di pareri giocato sull’opposizione tra pietà e crudeltà (vv. 1303-1316):
(Con.) Tolga Iddio che giamai
il disio di vendetta
sieda in un cor reale et ivi usurpi
della giustizia il loco.
(Eo.) La vendetta in tal caso,
quanto men fie pietosa,
tanto sarà più giusta.
(Con.) Non po’ esser giustizia
nemica di pietade.
(Eo.) Qui sarebbe impietade
l’aver compassione.
(Con.) Signor, non vi scordate d’esser dio
e che, come re siete,
così voi siete padre.
Del medesimo dialogo si considerino anche i vv. 1344-1366:
(Con.) Se la pietà paterna
in voi non pò soffrir di veder vivi
i figliuoli e ‘l nipote,
muoiano condannati
dalla legge reale,
sì che primeramente
sia lor permesso di poter scusare
l’error commesso. Certo se temete
di vederli et udirli,
temete di exaudirli.
(Eo.) Pianti, sospiri e dimandar mercede
foran le lor ragioni.
(Con.) Lecito è lor, quando non hanno altre armi,
usar pianti e sospiri
in lor difesa e dimandar mercede.
(Eo.) Non voglio esser traffitto
da cotali armi, usate
a ferir la giustizia.
(Con.) Se l’arme di pietade
temete, or vi pensate
quanto sian paurose
a’ miseri soggetti
quelle di crudeltade.
Il dialogo tra i due personaggi prende avvio dalla violenta reazione di Eolo alla scoperta dell’incesto tra i figli, la cui scelleratezza egli è deciso a punire in maniera esemplare. Il Consigliero gli si oppone, provando a contestare la sua posizione e affermando il suo augurio che la vendetta e la crudeltà non alberghino mai in seno al potere di chi regna; Eolo controbatte, proseguendo imperterrito nella sua linea, che la sua vendetta sarà tanto più giusta quanto più sarà crudele.
Come si evince da questo passaggio, in Speroni la riflessione sul tiranno si esprime in maniera prescrittiva e dialogica piuttosto che narrativa e descrittiva come nella Canace di Falugi, dove un diverbio del genere fra il re ed un suo subalterno manca del tutto (vi era, invece, il concorde dialogo iniziale tra Eolo e il servitore Tirso analizzato supra, 3.): Speroni, proponendo la scena del confronto tra Eolo in preda al furore e il suo Consigliero assennato e temperante, apre invece uno spazio di riflessione sui legami tra il potere, la pietà e la giustizia, introducendo il tema dell’onestà dell’uomo semplice di fronte al tiranno, le cui ragioni vengono messe in discussione anziché passivamente accettate.
Nel passaggio speroniano ricorre peraltro una tematica molto utile al discorso ‘politico’ qui di interesse, quella cioè del potere in rapporto alla dinamica della vendetta, che invece in Falugi non figura: il desiderio di vendetta di Eolo contro la colpa scellerata dei figli viene inibito teoricamente dal Consigliero che antepone alla crudeltà del tiranno le ragioni della pietà e della misericordia, presentandole come forme di espressione della giustizia. In una serie di fitti passaggi il Consigliero arriva a stabilire tre relazioni: 1) vendetta ≠ giustizia (vv. 1303-1306, “Tolga Iddio che giamai / il disio di vendetta / sieda in un cor reale et ivi usurpi / della giustizia il loco”; 2) giustizia = pietà (vv. 1310-1311, “Non po’ esser giustizia / nemica di pietade”); 3) pietà ≠ crudeltà (vv. 1362-1366, “Se l’arme di pietade / temete, or vi pensate / quanto sian paurose / a’ miseri soggetti / quelle di crudeltade”). Suscita particolare interesse la contrapposizione di “pietà” e “crudeltà”, due valori centrali già nell’etica latina e molto presenti, spesso in reciproco contrasto, nella trattatistica politica rinascimentale.
Nel discorso machiavelliano su questo tema i due concetti si trovano espressamente contrapposti nel titolo di un argumentum dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (I, 41):
Saltare dalla umiltà alla superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente e inutile.
L’equazione 1) (pietà = giustizia) ricorre poi nelle Istorie fiorentine (V, VIII, 15), insieme alla coppia antonima di empietà e ingiustizia (VIII, XI, 2); ancora nelle Istorie fiorentine (IV, XXI, 10) si contrappone una “sì onesta e piatosa republica” alla “disonestà e crudeltà d’uno suo malvagio cittadino”. Come l’ira, inoltre, si ricorda che anche la crudeltà rientra nel topos dei vizi del tiranno (Istorie fiorentine, V, XI, 21).
I campioni testuali falugiani e speroniani analizzati in questo paragrafo a proposito della figura del tiranno dimostrano come le due tragedie siano pienamente ricettive di alcuni temi topici della coeva trattatistica politica, evidentemente richiamati (l’ira, il binomio giustizia-pietà) e diversamente riargomentati. Partendo da tale presupposto, è abbastanza chiara la maggiore disponibilità della tragedia speroniana (di “seconda fase”) a farsi portavoce di tematiche simili, mentre la tragedia falugiana (di “prima fase”) si dimostra a riguardo ancora piuttosto ‘impacciata’. Probabilmente, oltre al diverso stadio di maturità delle due tragedie, elemento non trascurabile nella valutazione dell’impatto della tematica politica nelle due opere, sarà da considerare anche il loro differente contesto di fruizione e la differente funzione: la Canace di Falugi è opera cortigiana in piena regola, tragedia d’occasione dedicata ad Ippolito de’ Medici e destinata – almeno teoricamente, ché prove della rappresentazione della Canace non ve ne sono – ad una rappresentazione di fronte al signore e alla sua corte se non proprio ad una lettura individuale da parte di Ippolito; la Canace di Speroni venne invece pensata per essere declamata presso la patavina Accademia degli Infiammati, per suscitare insomma un dibattito ben più acceso e molto meno ‘vincolato’ su questioni di natura etica e politica, come in effetti avvenne.
VI. La morale della tragedia: l’ultimo coro della Canace
Se da un punto di vista strettamente ‘politico’ la Canace di Falugi sembra avere meno da dire rispetto a quella speroniana, costituisce invece un sicuro punto di forza della tragedia falugiana la coerenza con la quale lungo tutta la tragedia si costruisce un modello etico da proporre al signore. Questo forte interesse falugiano nella consegna ad Ippolito di un vero e proprio insegnamento morale ricavato dalla lettura/rappresentazione della tragedia emerge cospicuamente nell’ultimo coro della Canace (il Coro dell’atto V), che a questo punto potrebbe essere complessivamente interpretata, avendo esaminato la parabola digradante che si profila nel corso dell’azione, in chiave tripartita: proposito, exemplum, morale ricavata.
La struttura formale di quest’ultimo coro si riannoda a quella della dedicatoria (supra, 3.): anche qui, infatti, si ha per gran parte lo stesso schema metrico, basato su una serie di strofe saffiche. Più precisamente, questo brano corale si compone di sette stanze di quattro versi in saffica rimata ABBa con l’ultima stanza – a mo’ di congedo – che ha invece schema AbbcaC.
Il testo, che in numerosi tasselli stilistici e lessicali ancora una volta conferma la ricca cultura latina e volgare di Falugi, può essere suddiviso in tre sezioni:
a) vv. 1-24: la massima morale (la labilità della ricchezza e la sicurezza della povertà);
b) vv. 25-28: l’exemplum (la rovina della casa di Eolo);
c) vv. 29-34: il “congedo”.
O stolta e vana cura de’ mortali,
ch’al principato ognor, corona e ‘mpero
col corpo spesso, e sempre col pensiero
sudando sali!
Non sai che quanto è l’omo più sublime,
tanto più casca in infima bassezza?
Perché più facilmente el vento spezza
le maggior cime.
Raro si vede da l’ardente fulmine
esser percosso el rustico tugurio:
ma bene spesso, e con orrendo agurio,
di rocca el culmine.
Raro per l’uscio ove non sia portiera
né di ferro la piastra che ‘l legno armi,
né ianitori, e stipiti di marmi,
entra Megera.
Rare volte in cubiculo di fronte,
non d’auro coperto, e drappo vario,
alcun notturno ladrone o sicario
suoi ferri asconde.
Più presto in vaso di murrina o d’oro
si mesce e sparge la cicuta e ‘l tosco,
che d’acerto in un nappo fatto al bosco
semplice e soro.
Felice reputasti Eolo già:
or la figliola è morta, è ‘l suo nipote
degli orsi in preda, e ‘l figlio più che puote
fuggendo va.
Però, spirti gentil o alme dive,
s’alcuna fede è in voi
perché sperti siàn noi,
credete al nostro detto:
che maggior pace vive
e più felicità sotto umil tetto.
L’apertura dell’ultimo coro con la vituperante apostrofe agli inutili affanni dei mortali alla ricerca di un riconoscimento nella dimensione politica (la triade principato, corona e impero ai vv. 1-4) riprende un altro noto incipit dantesco altrettanto rimproveroso e incentrato sulle inutili e biasimevoli aspirazioni degli uomini, l’inizio di Paradiso XI (vv. 1-9):
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio […].
Il primo verso del canto dantesco subisce in Falugi alcune minime modifiche: la “insensata cura” dantesca si trasforma nella “stolta e vana cura” falugiana; l’elenco diffuso di interessi mondani rincorrendo i quali l’uomo si perde (lo studio del diritto, della medicina, la ricerca dei benefici ecclesiastici) si condensa nella Canace nel nucleo della corsa al potere politico: Dante aveva chiamato “regnar” (v. 6) ciò che Falugi tripartisce in “principato […], corona e [i]mpero”, a sottolineare come la smania che la sua tragedia condanna non è così generica come quella vituperata da Dante (che investe una molteplicità di desideri umani, da quello della corona a quello dello studio del diritto), ma colpisce specificamente un certo tipo di cupidità umana che è appunto la brama di sovranità. È inoltre da segnalare la ripresa della rima in -ali, che da “mortali”/”ali” (in Dante) passa in Falugi a “mortali”/”sali”, invertendo idealmente la ben precisa direzione in cui nel testo di Dante le aspirazioni materiali spingevano l’uomo (cioè dall’alto verso il basso). Falugi riprende il concettto evidenziando non tanto lo sprofondamento dell’aspirazione (conseguenza dell’innalzarsi), quanto il pretenzioso innalzamento verso le mete da parte dell’aspirazione stessa (presupposto della caduta), tema particolarmente attuale nel momento dell’ascesa di Ippolito al soglio cardinalizio (occasione della tragedia, supra, 2.).
I versi successivi (vv. 5-20) costituiscono una fedele ripresa del motivo oraziano della maggiore esposizione al pericolo delle alte vette rispetto alle umili capanne, un motivo che attraverserà copiosamente la lirica italiana (es. Tasso, Canzone alla Bruna, vv. 104-107, “L’umil fortuna mia sicuro rende. / Vil capanna dal ciel non è percossa, / ma sovra Olimpo ed Ossa / tuona il gran Giove e l’alte torri offende”; sugli echi latini, soprattutto ovidiani, in questo carme tassiano vd. Berti 1996) e che all’interno della poesia di Orazio trova una delle sue più celebri espressioni nelle Odi (Hor. carm. II, 10, 9-12):
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
Più spesso il grande pino è agitato dai venti e le torri più alte crollano più rovinosamente, e le folgori colpiscono le vette dei monti.
La ripresa di Orazio, anche metrica (visto che Falugi riutilizza la strofe saffica in cui è composto carm. II, 10 rendendo i tre endecasillabi latini con endecasillabi italiani e l’adonio finale latino con un pentametro italiano), conosce una sorta di triplicazione nella Canace. Le tre strofe successive (vv. 9-12, 13-16 e 17-20) sono legate dall’anafora dell’aggettivo “raro”, modificato in “rare” nell’ultima strofa, v. 17), ed enfatizzano il motivo oraziano di partenza espandendo la concettualizzazione iniziale fino a ricavare un’opposizione più diffusa tra la sicurezza che è data dalla povertà e la pericolosità generata dal fasto; nella strofa centrale peraltro Falugi adatta espressamente il motivo classico alla sua tragedia, introducendo il nome di Megera (assente nel modello oraziano) che costituisce la forza motrice del dramma (supra, 2.).
Ai versi successivi (vv. 21-24) tornano le immagini di ricchezza e di fasto presentate all’inizio della tragedia, nella dedicatoria ad Ippolito (v. 18, “e murrin vasi e l’oro e ricchi Parti”, supra, 3.), che si rivelano le sedi predilette in cui Megera instilla il suo veleno (v. 22, “la cicuta e ‘l tosco”). In particolare, il tassello “la cicuta e ‘l tosco” – interpretabile come endiadi – richiama l’attenzione sulla vita falsificata e pericolosa per eccellenza, quella della corte (in piena sintonia con il noto ritratto negativo che della corte verrà dato nell’Aminta di Tasso nelle parole di Tirsi, vv. 565-652), caratterizzata dall’impossibilità di fidarsi dell’altro e dalla potenziale dannosità di ogni cosa. Questo binomio compare più volte nell’opera di Luigi Alamanni, in abbinamento a riflessioni ben compatibili con quella qui sviluppata da Falugi. Nella nona satira alamanniana, ad esempio, indirizzata a Tommaso Guadagni, l’autore prospetta come nell’ultimo coro della Canace un doppio modello di vita: da un lato quella cortigiana, cittadina e pericolosa, e agli antipodi quella rustica, umile e sicura. A caratterizzare la vita cortigiana occorre proprio il richiamo alla cicuta e al veleno:
Non teme di trovar l’empio lavoro
tra le vivande di cicuta e tosco
da chi cerchi il suo regno o ‘l suo tesoro.
Or per questa campagna or per quel bosco
cogliendo frondi e fior suo giorno spende,
fin che la notte il vieti o il tempo fosco (Alamanni, Satire IX, 43-48).
In aggiunta a questa occorrenza, il sintagma “cicuta e tosco” ricorre altre tre volte nell’opera di Alamanni: ancora nelle Satire, nella prima (v. 30, “cicuta et tosco nel gustar gli assembra”) e nella quarta (v. 146, “per l’adultera man cicuta e tosco”), e nel poema didascalico Della coltivazione (I, 1007 “ivi, senza temer cicuta e tosco”). La morale oraziana di partenza, rifunzionalizzata da Falugi e Alamanni, si trova in consonanza con l’analoga morale alla quale approda anche Ariosto nelle sue Satire e specificamente in quel passaggio della terza satira, indirizzata ad Annibale Malaguzzi, in cui la preferenza verso una vita riparata e sicura si impone chiaramente sugli incomodi di una vita condotta alla mercé del signore, tra mille condizionamenti e fastidi (Ariosto, Satire III, 40-57):
Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,
che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.
Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
Nelle sue evidenti consonanze moralistiche con la posizione di approdo di altri intellettuali quali Alamanni e Ariosto, anch’essi poeti cortigiani, si può affermare che anche la Canace falugiana riconfermi il proprio statuto di opera fittamente implicata con le dinamiche politiche della medesima temperie culturale: la morale stoicheggiante di rinuncia alle ricchezze e preferenza per una vita umile di cui la Canace si dichiara portavoce nel suo coro finale tradisce la ricerca di un orizzonte alternativo a quello della corte, di cui la tragedia stessa, di fronte agli occhi di Ippolito, ha proiettato la rovina raccontando il crollo della prosperità di Eolo e dei suoi figli. È anche in questo senso che il coro finale si ricollega alla dedicatoria dell’opera, in cui proprio la ricchezza e il fasto con cui tutti i popoli della terra erano venuti a celebrare Ippolito si contrapponeva al dono apparentemente misero del poeta (supra, 3.): di quella ricchezza e di quel fasto Falugi ha dimostrato l’inutilità e anzi la pericolosità, contrapponendo, a tragedia conclusa, tutta l’importanza del contributo morale anziché materiale che la sua Canace apporta e rappresenta. E, proprio considerando il proposito falugiano di consegnare al signore un ben preciso modello etico, si può affermare che anche questo defilato e troppo a lungo ignorato prodotto del genere tragico del Cinquecento italiano rivendichi il proprio ruolo latamente ‘politico’ di mezzo di istruzione del potente.
Fonti | Edizioni di riferimento
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- L. Alamanni, Tragedia di Antigone, a cura di F. Spera, Torino 1997.
- D. Alighieri, La Divina commedia, a cura di P. Venturi, Roma 2021.
- L. Ariosto, Satire, a cura di C. Segre, Torino 1987.
- L. Ariosto, Satire, a cura di E. Russo, Roma 2019.
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Riferimenti bibliografici
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English abstract
This essay deals with a tragedy written in the first half of the sixteenth century, the little-known Canace by Giovanni Falugi (1529 ca.), dedicated to Ippolito de’ Medici on the occasion of his election as cardinal; this tragedy, bound to be totally eclipsed in less than fifteen years by the far more renowned Canace by Sperone Speroni (1542), took up the ancient myth of the incestuous sons of Aeolus, Canace and Macareus, which had already become the subject of the lost Aeolus by Euripides and of the eleventh epistle of Ovid’s Heroides. In his own re-writing of the story, Falugi took into account the Ovidian source and was also fascinated by the Senecan tragedy, whose themes and motifs he abundantly resumed. The author’s classicism is also evident in the recovery of other ancient writers (such as Horace and Virgil), which have been highlighted when relevant to the present discussion. Starting from the definition of Renaissance tragedy as a ‘political’ literary genre and a brief historical contextualization of Giovanni Falugi and his work, this paper will focus on three aspects of Canace which can be related to the sixteenth-century theoretical koinè as regards political matters: 1) the idealised depiction of prince Macareus; 2) the tyrannical portrait of Aeolus; 3) the moral of the tragedy, which reveals the courtly gift made by the author to the dedicatee as the proposal of a model of virtue.
keywords | Giovanni Falugi; Canace; Tragedy; Myth; Classicism; Renaissance; Power.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: M. Di Bello, La tragedia del Cinquecento come “specchio de’ Principi”.
La virtù, il principe e il tiranno nella Canace di Giovanni Falugi , ”La Rivista di Engramma” n. 205, settembre 2023, pp. 43-66 | PDF