"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Bildkritik a Firenze

Note su alcuni dei temi affrontati da “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”, Firenze, Gallerie degli Uffizi, 19 settembre / 10 dicembre 2023

Giovanna Targia

English abstract

1 | Immagine dell’allestimento. Sala III: Laboratorio. ©Ufficio Stampa delle Gallerie degli Uffizi.

Presento qui una lettura personale di alcuni dei temi affrontati dalla mostra “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”, ideata da Gerhard Wolf e organizzata dalle Gallerie degli Uffizi e dal Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut in collaborazione con il Warburg Institute di Londra. Prospettive e interpretazioni diverse si sono rivelate armoniche in un gruppo curatoriale variegato di cui ho avuto il piacere e il privilegio di far parte. La composizione dell’allestimento e del catalogo evidenzia e valorizza i numerosi punti di vista offerti da aree di specializzazione anche molto distanti tra loro. La mostra prende spunto dalle più recenti ricostruzioni dell’Atlante Mnemosyne e invita a ripensare l’opera di Warburg combinando analisi storiche e riflessioni contemporanee in un allestimento che apparirà forse a tratti inatteso.

Inattesa è la selezione di quattordici tavole del progettato Atlante, ricostruite con materiali di archivio in uno dei musei più visitati al mondo, così come inattesi sono gli accostamenti, nelle sale degli Uffizi, tra fotografie storiche e pratiche artistiche sperimentali basate su immagini prodotte in epoca post-digitale [Fig. 1]; inattesi sono inoltre alcuni degli episodi che tornano alla luce a proposito dei soggiorni fiorentini di Warburg, grazie alla pluralità di angoli visuali proposti.

Rileggere Warburg a Firenze

Un mosaico di dettagli caratterizza il rapporto tra Warburg e Firenze. Molto resta ancora da ricostruire, pur nel recente proliferare degli studi warburghiani: dalle vicende biografiche dei vari protagonisti della vita della città tra Otto e Novecento allo sviluppo delle istituzioni internazionali (come il Kunsthistorisches Institut in Florenz, che ha un ruolo decisivo anche al di fuori della storia della disciplina), dagli itinerari degli oggetti fino alla costruzione e trasformazione delle raccolte d’arte fiorentine, pubbliche e private.

I numerosi intrecci fra la biografia di Warburg, la storia del Kunsthistorisches Institut in Florenz e quella degli Uffizi fanno emergere tracce di progetti avviati e interrotti. È il caso della programmata pubblicazione integrale degli inventari medicei, di cui si parla nel catalogo della mostra. Ed è il caso dell’approfondimento sui disegni di costumi teatrali per gli Intermezzi di tema mitologico messi in scena nel 1589 in occasione delle nozze tra Ferdinando I de’ Medici e Cristina di Lorena: dopo lo studio pubblicato negli Atti dell’Accademia del Regio Istituto Musicale di Firenze, uno dei suoi primi saggi fiorentini, Warburg avrebbe avuto intenzione di approfondire e pubblicare l’intera raccolta di fogli, conservati in un volume della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ma il progetto non fu realizzato; una piccola scelta di questi materiali si trova esposta in una delle sale della mostra.

Rileggere Warburg a Firenze significa insistere sui dettagli intesi come frammenti, tagliati intenzionalmente (come materiale di studio) o tramandati in forma accidentale, incompleta, ricostruita nell’ambiente mai neutro degli archivi. In mostra è presente anche una piccola antologia di fogli tratti dagli Zettelkästen, i densissimi schedari di Warburg, finora esplorati solo in minima parte, e in grado di far luce su numerosi dettagli (cfr. su questo il saggio di E. Marchand in catalogo, oltre a Zumbusch 2022). 

Il tema degli archivi come infrastrutture del sapere e della ricerca storico-artistica è al centro di un’altra mostra che affianca quella nelle Gallerie degli Uffizi ed è ospitata dalla biblioteca del Kunsthistorisches Institut in Florenz. Con il titolo Aby Warburg, il Kunsthistorisches Institut in Florenz e il laboratorio delle immagini, si espongono libri, fotografie e documenti donati da Warburg anche con dediche autografe. In parallelo, opere di Armin Linke e di Alexander Kluge con Katharina Grosse offrono una riflessione artistica sul tema. Infine, una app per dispositivi con geolocalizzazione, realizzata dal Digital Humanities Lab dell’Istituto, invita a seguire tre itinerari lungo le strade di Firenze ascoltando le voci di chi ha abitato in tempi diversi la città, dal Quattrocento agli anni di Warburg.

Riportare Warburg a Firenze significa anche reinserirlo in una ‘rete di relazioni’, se così si può dire riadattando in vari modi una celebre espressione longhiana. Con la metafora della rete è possibile alludere a una molteplicità non gerarchica di piani e direzioni: alle relazioni orizzontali e spaziali tra le diverse tipologie di opere in mostra occorre aggiungere relazioni pensate nella profondità storica, fra i diversi piani temporali indagati da Warburg, e fra gli strati successivi della sua stessa ricerca. Il complesso tema della dimensione temporale – emergente, anacronica o anacronistica – delle immagini è uno dei nodi centrali della discussione su Warburg negli ultimi decenni (da Didi-Huberman 2002 a Nagel/Wood 2010 ad Alloa 2021, per fare solo tre esempi). Appare quanto mai appropriato, dunque, sottolineare la complessità della dimensione temporale anche all’interno del lavoro di Warburg, senza appiattirlo sulla sua opera più iconica e singolare, ma anche più sfuggente – Mnemosyne.

Aprire l’Atlante

Volgendo al plurale il titolo del romanzo di E.M. Forster, la mostra “Camere con vista” propone di riflettere su un articolato “laboratorio delle immagini” immerso nell’ambiente sensibile, sfaccettato e reattivo della Firenze tra Otto e Novecento. Uno dei fili conduttori dell’allestimento e del catalogo della mostra si può riassumere nel motto “aprire l’Atlante” – allo scopo, da un lato, di indagare la genealogia e la trama orizzontale in cui si inseriscono gli esempi illustrati sulle tavole, dall’altro, di esplorare le traiettorie ulteriori suggerite dalle strategie argomentative di Warburg alla luce del discorso transculturale, post- e de-coloniale contemporaneo (cfr. su questi temi il saggio di G. Wolf in catalogo).

Di fatto, l’attenzione talvolta ossessiva per l’Atlante, constatata o lamentata nella storiografia più recente, può rischiare di coprire, per una sorta di paradosso, una lacuna tra le più evidenti: manca ancora un’edizione critica di Mnemosyne, che sarà probabilmente da concepire come un’edizione genetica commentata, fondata sul corpus eterogeneo e complesso delle fonti conservate.

L’iniziativa di Roberto Ohrt e Axel Heil, che con il loro gruppo di ricerca hanno rintracciato circa l’ottanta percento dei materiali montati sulla cosiddetta ‘ultima versione’ di Mnemosyne per poi proporne un nuovo allestimento in grado di ‘trascrivere’ o ‘ricostruire’ quello realizzato da Warburg, ha fatto riflettere in questo senso, innescando un ulteriore filone di discussione sullo statuto delle ‘riproduzioni originali’ conservate nel lascito dello studioso amburghese. Si può leggere questa ricostruzione come un passo necessario, un desideratum degli studi sull’Atlante, e allo stesso tempo come un esempio utile a chi lavora in ambito teorico, anche nel campo dei media studies o degli studi sulla natura degli archivi. Considerata sia come oggetto che come dispositivo visuale, Mnemosyne resta un’opera controversa che presenta ancora molte domande aperte, continuando a suscitare grande entusiasmo o radicale scetticismo tra gli interpreti (cfr. l’ampia rassegna bibliografica nella “Rivista di Engramma” 201*, aprile 2023, e il fascicolo realizzato in occasione della mostra “Warburg manebit!”, Venezia 24 e 27 febbraio 2023), oltre a stimolare in special modo la pratica artistica e curatoriale.

2 | Goshka Macuga, Untitled 5 (Aby Warburg Photograph, April 1896, Pueblo Woman Escaping into her House at the Sight of Warburg’s Camera), 2008, gelatina bromuro d’argento, 80 × 80 cm (fotografia), 100,9 × 98,4 cm (supporto). Collezione privata.

Nelle sale della mostra agli Uffizi, opere come i video sincronizzati su tre schermi di Alexander Kluge o la composizione di pannelli con stampe colorate su alluminio, realizzata da Kluge con Katharina Grosse, riprendono e in qualche caso citano letteralmente alcune delle immagini raccolte sulle tavole di Mnemosyne, proseguendo ad libitum singole catene associative. Iniziative simili a queste, realizzate da artisti che si lasciano ispirare dall’Atlante warburghiano, sono diventate più frequenti negli ultimi decenni, proprio mentre si affermava nell’ambito della storia dell’arte il progetto scientifico chiamato Bildkritik: una considerazione critica delle immagini, un pensare con e attraverso le immagini, legando studi sulla percezione visiva e associazioni concettuali, per valutare e ponderare le relazioni reciproche tra la dimensione sensibile e quella intellettuale (Boehm 2011). In questa prospettiva, la Bildkritik ha posto l’accento non sulla generalità dell’‘immagine’ al singolare, ma sulla diversità storica e materiale delle ‘immagini’, al plurale – guardando dunque con interesse anche alle tavole dell’Atlante di Warburg (per es. Thürlemann 2013).

Di fronte alla crescita esponenziale della quantità di immagini disponibili oggi in una grande varietà di media e dispositivi, accostarsi a Mnemosyne significa esercitare una lettura lenta (cfr. su questo Ginzburg 2015), in certo senso invertire la tendenza dell’“innominabile attuale” elevando la soglia di attenzione in una sorta di filologia visiva, impegnata a considerare anche varie declinazioni della pragmatica iconica, l’uso delle immagini e il suo mutare lungo le epoche. Attento alla circolazione delle immagini, intesa in modo non gerarchico come un trascorrere continuo tra l’alto e il basso, lo sguardo di Warburg fa riflettere anche dalla prospettiva degli studi di cultura visuale (Mitchell 2015; Pinotti, Somaini 2016; Cometa 2020). 

Da questo punto di vista, la scelta di far dialogare le tavole dell’Atlante con oggetti fotografici, pittorici e plastici nelle sale degli Uffizi è un modo per sottolineare la funzione ‘indessicale’ della stessa Mnemosyne e delle immagini in generale, senza isolare l’Atlante dalla longue durée della pratica warburghiana di studio e uso delle immagini. Alcune delle fotografie in mostra possono essere considerate nella loro funzione di ‘indici’ delle condizioni in cui sono state prodotte e trasmesse – come le due istantanee della cosiddetta ‘contadina di Settignano’ scattate da Warburg, o come la fotografia dell’esposizione di sculture in terracotta in un’asta della collezione Bardini – oppure fare resistenza a ogni forma di classificazione intesa in senso lato come disciplinamento, come l’istantanea in cui una donna Pueblo si sottrae all’obiettivo fotografico di Warburg, ripresa nel 2008 da Goshka Macuga [Fig. 2]. Questo scatto in apparenza non riuscito – perché il movimento repentino della donna durante il tempo di esposizione ha determinato un effetto di sfocatura rendendo l’immagine poco leggibile – risulta in realtà affascinante da varie prospettive. La resa così poco nitida del soggetto sembra catturare il movimento stesso, un movimento (letterale) di Apostrophē (Despoix 2013 e il suo saggio in catalogo).

Laboratorio e museo

3 | Immagine dell’allestimento. Sala della Primavera ©Ufficio Stampa delle Gallerie degli Uffizi.

Secondo una scelta forse poco convenzionale, la mostra non si trova delimitata in modo rigido negli ambienti degli Uffizi: un breve percorso tematico è concentrato nelle cinque ex sale dell’Armeria, in fondo al primo corridoio di levante, fra la Sala delle Miniature e la Tribuna; ulteriori interventi e installazioni si incontrano però in altri punti del percorso museale. La Galleria dei capolavori ospita così anche materiali di norma invisibili: manoscritti, fotografie storiche e riproduzioni suggeriscono percorsi di ricerca e associazioni ulteriori (come nel caso della tavola 39 dell’‘ultima versione’ di Mnemosyne, esposta nella sala della Primavera di Sandro Botticelli [Fig. 3]). Si intende sottolineare in questo modo non solo la straordinaria congenialità del luogo alle riflessioni di Warburg, ma anche l’emergere quasi spontaneo di un dialogo tra l’allestimento delle collezioni del museo e l’allestimento sperimentale di un Atlante di immagini della memoria (Gedächtnisbilder) ideato da Warburg.

4 | Aby Warburg, Bilderatlas Mnemosyne, 1929 (ultima versione), pannello 5, ricostruzione (2020) di Roberto Ohrt e Axel Heil. Foto: Tobias Wootton © The Warburg Institute, London / fluid.

Anche da una prospettiva storica, la mostra invita a riflettere sul rapporto tra le costellazioni di immagini argomentative che caratterizzano Mnemosyne e l’avvicendarsi dei modelli museografici che hanno determinato nel tempo forme di percezione e di attenzione anche molto diverse per gli stessi oggetti da parte del pubblico (oltre che le narrazioni e i giudizi degli storici dell’arte). Questo rapporto è, in realtà, un aspetto presente fin dall’inizio nel laboratorio delle immagini di Warburg. Basti pensare a uno degli incunaboli di Mnemosyne: il fascicolo realizzato come un semplice montaggio di riproduzioni e distribuito al pubblico in occasione della conferenza dell’ottobre 1905 su Dürer e l’antichità italiana, che Warburg tenne presso il Konzerthaus di Amburgo. Strumento parallelo – e non alternativo – a un’esposizione di disegni e acqueforti originali provenienti dalla Kunsthalle, questa forma mediale si ritrova montata, tavola nella tavola, nel pannello 5 dell’‘ultima versione’ di Mnemosyne (ricostruito in mostra [Fig. 4]). 

L’operazione più recente che ha messo di nuovo in rilievo questo aspetto risale all’autunno del 2020, quando Neville Rowley e Jörg Völlnagel, curatori presso la Gemäldegalerie a Berlino, hanno proposto un’interessante mostra parallela alla ricostruzione delle tavole di Mnemosyne ospitata presso l’Haus der Kulturen der Welt. In due sale della pinacoteca si trovava radunata gran parte della selezione di oggetti delle collezioni berlinesi riprodotti in vari luoghi dell’‘ultima versione’ di Mnemosyne (Zwischen Kosmos und Pathos 2020). Nel percorso del museo, si interrompeva così la consueta disposizione dei dipinti ordinati per scuole geografiche, per innescare un dialogo tra oggetti di diverse tipologie e riproduzioni delle relative tavole dell’Atlante. Il ragionamento dei curatori sottolineava anche l’attenzione di Warburg per artefatti per loro natura riproducibili (stampe, monete, medaglie), in grado di diffondersi e di viaggiare; ci si interrogava inoltre sul ruolo che le opere d’arte ‘originali’ possono aver avuto sul suo modo di pensare e comunicare. 

Raccogliendo questi spunti, la mostra degli Uffizi suggerisce anche di porre in relazione il paradigma della Bildkritik con la storia degli oggetti. A partire dai primi anni Novanta, vari musei hanno ospitato riproduzioni e ricostruzioni di Mnemosyne, nella maggior parte dei casi considerando l’Atlante come un segmento autonomo e separato dalle rispettive collezioni permanenti. Così era avvenuto nel 1994 anche agli Uffizi, in una delle stazioni della mostra itinerante concepita dal gruppo Daedalus di Vienna. Quasi trent’anni dopo, non solo l’orizzonte degli studi warburghiani è ben diverso e si estende su scala globale. Anche gli obiettivi con cui ci si accosta all’Atlante sono profondamente mutati, le domande si moltiplicano e si fanno più varie. 

D’altra parte, parlare del rapporto tra Warburg e Firenze implica necessariamente un confronto con il medium Atlante. La mostra dell’autunno 2023 alle Gallerie degli Uffizi si misura con questo compito e, oltre a decine di opere eterogenee, presenta anche le ricostruzioni di quattordici tavole tratte da tre diverse versioni di Mnemosyne: due tavole dalla «prima» e dalla «penultima» versione dell’Atlante sono ricostruite in mostra per la prima volta a cura di Katia Mazzucco. La selezione delle tavole deriva dall’impostazione generale della mostra, che pone a tema tre concetti chiave, a partire da questioni urgenti del nostro presente: luogo, media, Bildkritik. Tre concetti che formano i tre capitoli del catalogo, composto come un mosaico di molti punti di vista diversi.

Luogo (Firenze)

Non solo ricostruzione storica e biografica, la sezione tematica sul rapporto tra Warburg e Firenze si articola in una pluralità di piani: combina approfondimenti sulla città come spazio reale, luogo dell’esperienza vissuta tra la fine dell’Ottocento e i tardi anni Venti, e saggi sulla città ricostruita dall’immaginazione storica, scrigno di tesori d’arte, sottoposta a contemplazione, interpretazione, talvolta trasfigurazione, in vari dialoghi a più voci. Dopo le prefazioni di Eike D. Schmidt, Bill Sherman e Gerhard Wolf, la prima sezione del catalogo fa luce su questi aspetti, con saggi e brevi note di Marzia Faietti, Fabrizio Paolucci, Silvia Contarini, Hana Gründler, Giada Policicchio, Marino Biondi, Hannah Baader e Costanza Caraffa, Fulvio Conti, Lunarita Sterpetti, Giovanna Targia, Katia Mazzucco, Paula Nuttall, Claudia Wedepohl, Stephanie Heremans, Linda Báez Rubí e Horst Bredekamp. Attingendo a una letteratura già molto vasta sulla storia della Firenze post-unitaria e fin de siècle, la mostra induce a riflettere anche su episodi meno noti, come il sequestro di una rivista illustrata durante i ‘moti del pane’ del maggio 1898 (esposta in una sala della mostra, proviene dall’Archivio di Stato di Firenze, conservata tra le carte di polizia). La Firenze vissuta da Warburg è una città interessata da grandi cambiamenti nel tessuto urbano e sociale. Il ritmo sempre più rapido dei trasporti, del commercio e del turismo produce modernizzazioni radicali e altrettanto radicali conflitti. 

D’altro lato, la Firenze storica studiata da Warburg coincide in gran parte con la civiltà artistica del tardo Quattrocento, con le sue pratiche sociali, il diffondersi di temi profani, il moltiplicarsi delle forme dell’immagine in una pluralità di media artistici, che le rendono ‘veicoli’ di atteggiamenti morali e visioni del mondo. Con gli anni, lo sguardo di Warburg su Firenze si amplia e si complica: da un lato, in direzione di una vasta comparazione antropologica (all’epoca del viaggio americano, ripensato e rielaborato in vari momenti proprio a Firenze), dall’altro, in forma di riflessione critica sul presente, sulla base di analogie profonde osservate nella politica visiva e nelle pratiche dell’immagine. Perno della riflessione diventano, con accento sempre più marcato, le varie forme di migrazione, e le trasformazioni che recano con sé.

I cenni alla storia delle collezioni fiorentine e al tema warburghiano degli scambi artistici puntano in questa direzione, dove convergono teorie critiche contemporanee dello spazio urbano e riflessioni sulla mobilità e sul trasferimento di oggetti e persone – e, non da ultimo, sul tema delle trasposizioni intermediali.

Nel catalogo, la sezione del repertorio delle opere esposte in mostra offre una panoramica sugli esempi scelti, con schede sintetiche di Roberta Aliventi, Linda Báez Rubí, Julia Biel, Laura Da Rin Bettina, Marzia Faietti, Katia Mazzucco, Jessica Murano, Margherita Naim, Pierluca Nardoni, Mandy Richter, Raimondo Sassi, Lunarita Sterpetti, Giovanna Targia, Claudia Wedepohl, Gerhard Wolf.

Media

Il focus sui media prende avvio da una rinnovata analisi del ruolo della fotografia nell’opera di Warburg, inserita nel quadro di una complessa visual economy (Poole 1997) nella Firenze del tardo Ottocento, tra mercato dell’arte e connoisseurship, fotografia documentaria ed etnografica, pubblicistica e pratica di artisti, fino alle fotografie scattate dallo stesso Warburg durante il viaggio in America. La seconda sezione del catalogo affronta questi temi, in saggi e brevi note di Bernd Stiegler, Monika Wagner, Davide Stimilli, Roberto Ohrt e Axel Heil, Katia Mazzucco, Eckart Marchand, Tiziana Serena, Lynn Catterson, Jessica Murano, Isa Wortelkamp, Anne Spagnolo-Stiff, Steffen Haug, Akram Zaatari, Costanza Caraffa, Kylie Thomas, Tullio Viola, Philippe Despoix.

Affascinato dalle nuove tecnologie del suo tempo, Warburg ha attratto a sua volta l’attenzione di storici e teorici dei media. Karl Sierek, per esempio, leggeva la sua opera come quella di un Medientheoretiker (Sierek 2007). Se è vero però che nel trattare delle varie tecnologie dell’immagine è più corretto parlare di storie dei media al plurale – per alludere alla complessa rete di dispositivi e tecniche dimenticati e poi ripresi in una molteplicità di applicazioni (Schröter 2014) –, è utile anche sottolineare sensibili mutamenti d’accento – paralleli al rapido sviluppo delle tecnologie – negli studi che Warburg dedica, nel corso degli anni, alla medialità dell’immagine. L’attenzione per i nuovi media contemporanei si riflette peraltro nelle sue analisi delle rivoluzioni mediali del tardo Quattrocento e del Cinquecento.

La mostra pone l’accento su vari tipi di ‘oggetti fotografici’ (Caraffa 2019) di epoca contemporanea a Warburg: stampe all’albumina e aristotipie, gelatine bromuro d’argento e stampe al collodio umido, litografie e manifesti. Per ragioni non esclusivamente filologiche, espone riproduzioni tratte dalla Photographic Collection del Warburg Institute, che manifestano, con la loro materialità, anche le tracce degli itinerari percorsi.

Anche la Firenze studiata da Warburg offre spunti per un’indagine storica sui media: grazie allo studio degli inventari medicei, per esempio, Warburg riesce a seguire l’affermarsi dei panni dipinti (le opere su tela), accanto a dipinti su tavola e affreschi, arazzi e cassoni, incisioni su rame e xilografie. Approfondisce così il tema della circolazione e del movimento delle immagini in termini mediologici ante litteram. Lo stesso può dirsi per i suoi studi sulla cultura delle feste (Festwesen), ricostruita attraverso acqueforti, dipinti e arazzi, pagine di manoscritti, ma anche francobolli, medaglie, disegni. Al carattere sperimentale del disegno, e al suo ruolo cruciale per il ragionamento sulle trasposizioni intermediali e sulla Bildkritik è dedicata un’intera sala nel percorso della mostra.

5 | Immagine dell’allestimento. Sala di Gentile da Fabriano, sulla parete di fondo: Małgorzata Mirga-Tas, Trittico, Senza titolo (After Gentile da Fabriano), 2023, tessuti e materiali vari, 220 × 222 cm. Opera di proprietà dell’artista. ©Ufficio Stampa delle Gallerie degli Uffizi.

Gli interventi contemporanei aggiungono un ulteriore piano temporale alle osservazioni sulla medialità dell’immagine. Una videoproiezione di Akram Zaatari interviene in una lacuna della decorazione sul soffitto di una delle ex sale dell’Armeria: su questa lacuna, provocata da un bombardamento aereo dell’agosto 1944, appare proiettata la fotografia di cronaca di un jet da combattimento tratta da un quotidiano libanese del 1982. In un altro punto della Galleria, tramite un’opera su tessuto creata appositamente per la mostra fiorentina, Małgorzata Mirga-Tas compie un gesto non solo di trasposizione mediale, ma di ‘riappropriazione artistica’ rispetto all’immagine dell’‘Oriente’ costruita nel trittico con l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, nella collezione permanente degli Uffizi [Fig. 5]. 

Bildkritik

Un altro tipo di riflessioni critiche, sul mutare dei dispositivi e delle prassi fotografiche nel contesto della digitalizzazione e della disponibilità delle immagini nella rete, è alla base di opere come i Googlegrams di Joan Fontcuberta, e del lavoro di Lebohang Kganye sul concetto di memoria. In epoca post-digitale, l’immagine ha acquisito uno statuto non solo mobile, ma ‘fluido’ e interattivo, ampliando lo spettro di fenomeni ‘iconici’ con cui ci confrontiamo oggi. 

Lo studio critico delle immagini assume anche i tratti di un’educazione visiva, ed è chiamato ad affrontare serie questioni etiche e politiche relative alle possibilità di falsificazione e all’intricato nodo giuridico dei diritti d’autore. Anche per Warburg la critica delle immagini poteva coincidere con una critica delle ideologie, come mostra il progetto della “Rivista illustrata”, perseguito tra 1914 e 1915 come strumento di (contro-)informazione teso a prevenire l’entrata in guerra dell’Italia contro gli imperi centrali. Due saggi in catalogo ricostruiscono e discutono la crisi del 1915 e il ruolo assunto dal Kunsthistorisches Institut in Florenz in quel delicato frangente.

Calibrare lo sguardo sulle peculiarità delle immagini e sulle forme di esperienza e di persuasione loro proprie aiuta inoltre a leggere in questa stessa chiave anche le pratiche di riproduzione, taglio e scalatura evidenti sulle tavole di Mnemosyne. Ingrandimenti e riduzioni in funzione argomentativa, comparazioni che superano ogni gerarchia di generi artistici, disposizioni geometriche regolari e costellazioni asimmetriche dei materiali illustrativi sui pannelli dell’Atlante sono elementi essenziali per cogliere i vari strati di significato che si offrono solo a una lettura ravvicinata – una lettura di immagini, quindi, ‘de-auratizzate’.

Nella terza sezione del catalogo, si approfondisce il ragionamento sull’immagine e la Bildkritik con saggi e brevi note di Georges Didi-Huberman, Kylie Thomas, Salvatore Settis, Daniela Schmid, Marzia Faietti, Katharina Sykora, Peter J. Schwartz, Joan Fontcuberta, Alexander Kluge, Pierluca Nardoni, Wojciech Szymański, Anke te Heesen, Gerhard Wolf.

Gli accostamenti proposti sulle pareti della mostra e in catalogo intendono esporre genealogie o ‘etimologie’ di motivi: per esempio ponendo in dialogo, dalle collezioni degli Uffizi, un rilievo in marmo con tre Menadi danzanti, copia romana di un originale greco di V secolo a.C., e alcuni esempi di figure femminili dipinte e disegnate da Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Giuliano da Sangallo. Si allude così a un estratto di un più complesso ragionamento sul “movimento nello spazio e nel tempo” articolato visivamente da Warburg, ma anche da artisti come William Kentridge (cfr. Settis 2020 e il suo saggio in catalogo). Allo stesso tempo, si enfatizzano tensioni e assenze: due contributi in catalogo riflettono su omissioni e lacune, evocando il termine Lesmosyne (oblio), contrapposto a Mnemosyne.

La struttura compositiva di alcune delle tavole dell’Atlante più dense di esempi fiorentini indica già visivamente – tramite un’articolazione simmetrica, bipartita e dialettica – un fenomeno ricorrente nella storia delle immagini: quello che Warburg definisce “polarizzazione” o “inversione energetica”, il mutamento radicale di significato che un’identica formula può assumere al mutare di un contesto, di un’epoca, o dell’intenzione di un artista. E il più celebre dei motivi fiorentini indagati da Warburg, la Ninfa, manifesta tramite l’apparenza visiva – linee ondeggianti e contorni frastagliati – tutta l’ambivalenza di un motivo di mobilità fugace, in bilico tra leggerezza e frenesia, su un nucleo magmatico di pathos. A un estremo dell’oscillazione “polare”, il movimento è danza; all’estremo opposto, furore dionisiaco. 

Sguardo antropologico

Esempi come questi inducono a riflettere sui presupposti antropologici della produzione e considerazione critica delle immagini, ampliando il metodo di Warburg alla luce del discorso contemporaneo sull’ibridazione di culture, sulla migrazione e sulla ‘de-occidentalizzazione’ del concetto di immagine (Elkins 2015). Uno degli accostamenti proposti in mostra sottolinea con forza questo punto essenziale: a un’estremità del corridoio di ponente, accanto alla replica del Laocoonte di Baccio Bandinelli è esposto un vaso Pueblo dal bordo a gradini, decorato con un motivo a serpenti, dalla collezione di Warburg oggi al MARKK di Amburgo (e tra gli oggetti esposti nella mostra Blitzsymbol und Schlangentanz 2022-2023).

Rileggere Warburg a Firenze significa anche ripensare aspetti problematici e spunti straordinariamente attuali del suo interesse per l’arte e la cultura Hopi e Pueblo. Un interesse variamente ripreso e approfondito in vari momenti del suo percorso intellettuale: dal viaggio del 1895–1896 ai Frammenti sull’espressione degli anni fiorentini a cavallo del 1900; dalle prime fasi del dialogo con Ernst Cassirer alla conferenza di Kreuzlingen, fino ai progetti di viaggio non attuati alla fine degli anni Venti. Alcuni oggetti in mostra e due contributi in catalogo (di Linda Báez Rubí e di Horst Bredekamp) pongono a tema in particolare il ruolo di Firenze in rapporto alle “prospettive amerindiane”.

Un dettaglio in apparenza marginale in un’interessante opera pubblicata nel 1901 per la prestigiosa serie del Peabody Museum di Harvard (presente nella biblioteca di Warburg) sembra riassumere questa e altre coordinate fondamentali della mostra fiorentina. 

L’archeologa americanista messicana Zelia Nuttall (1857–1933) si riferì a Warburg in un passo di un ampio saggio delle sue ricerche comparative, pubblicate con il titolo The Fundamental Principles of Old and New World Civilizations: A Comparative Research Based on a Study of the Ancient Mexican Religious, Sociological, and Calendrical Systems:

By means of a photograph taken by Dr. A. Warburg of Berlin, whilst witnessing the Humis-katshina dance of the Moqui Indians at Oraibi, in May, 1896, I am able to affirm that the native dancers wear masks and high head-ornaments, partly of wood, on which reversed and upright tau-symbols are painted, the first in a light and the second in a dark color. As the name of the ceremonial dance was explained to Dr. Warburg as signifying “helping the sprouting of growing maize,” and celebrated the advent of the rainy season, it is obvious that the two forms of tau which were displayed in alternate order on the heads of the dancers in the procession symbolized the juxtaposition of the Above and Below, of Heaven and Earth (Nuttall 1901, 119).

Si tratta di un passo rivelatore sotto molti aspetti, inserito nel contesto di un’analisi di varie occorrenze di un simbolo trasversale alle culture, quello del tau. Nuttall analizza, tra molti altri esempi, l’organizzazione territoriale dei villaggi Pueblo, il loro modo di rappresentare i luoghi e le relazioni spaziali in rapporto a una determinata idea di orientamento nel cosmo: un sistema che Cassirer avrebbe definito negli anni Venti come una delle più chiare forme di simbolizzazione proprie del pensiero mitico o totemico (Cassirer [1925] 2002, 26). Il simbolo del tau dipinto sulle maschere e sui copricapi dei danzatori Humis-katshina è anche indice del grande interesse suscitato da danze e rituali in un periodo in cui modelli e metodi dell’etnologia mostravano aspetti anche molto problematici (Vollgraff 2022). Le danze del serpente e Humis-katshina, in particolare, sono oggi riconosciute come temi culturalmente sensibili: come spiega il sito del Warburg Institute, chi volesse oggi esporre questo tipo di fotografie scattate da Warburg infrangerebbe i divieti dei rappresentanti delle comunità Pueblo. 

L’accenno di Zelia Nuttall evoca dunque una situazione da rileggere con sguardo critico: con molta probabilità si riferisce a un incontro organizzato nel marzo del 1897 dalla Freie Photographische Vereinigung di Berlino, dove Warburg presentò quasi un centinaio di diapositive da fotografie prese durante il suo recente viaggio americano (Warburg 2010, 496). Tuttavia, il dialogo tra i due studiosi era iniziato a Firenze, come lo stesso Warburg avrebbe ricordato in una lettera a Franz Boas del 13 dicembre 1924 (Warburg 2021, 617; cfr. Bredekamp 2019, 53), ed è interessante che si sia svolto in parte attraverso il medium della fotografia. Questa traccia di dialogo può intendersi forse come una delle prefigurazioni di quel “Laboratorium kulturwissenschaftlicher Bildgeschichte”, quel “Laboratorio di storia culturale delle immagini”, che Warburg avrebbe evocato tra le conclusioni del suo saggio sulla divinazione nell’età di Lutero (Warburg [1920] 2010, 485).

La fotografia, il moltiplicarsi delle possibilità dell’immagine tramite diverse forme mediali, e l’attenzione costante per l’elemento transitorio della vita in movimento (anche nelle arti performative e nei rituali) sono solo alcune delle idee-guida scelte per discutere il rapporto tra Warburg e Firenze nella mostra che si è aperta agli Uffizi il 19 settembre e resterà visibile fino al 10 dicembre.

Ringrazio Monica Centanni e la redazione di Engramma per avermi invitata a tratteggiare alcune idee-guida della mostra “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”. La mostra è a cura di Costanza Caraffa, Marzia Faietti, Eike D. Schmidt, Bill Sherman, Giovanna Targia, Claudia Wedepohl, Gerhard Wolf, il coordinamento scientifico di Katia Mazzucco con l’aiuto di Julia Biel, e l’assistenza curatoriale di Lunarita Sterpetti. Il catalogo è pubblicato da Giunti in versione italiana e inglese a cura di Marzia Faietti, Eike D. Schmidt, Giovanna Targia, Gerhard Wolf, con Bill Sherman, Katia Mazzucco, Lunarita Sterpetti, Claudia Wedepohl. Sono molto grata alle colleghe e ai colleghi che hanno discusso con me i vari aspetti di questo lavoro, esito di un costante dialogo tra i componenti del gruppo curatoriale. Un grazie particolare a Marzia Faietti, Salvatore Settis e Gerhard Wolf per i loro commenti a una versione precedente di questo testo.

Bibliografia
Fonti
  • WEB
    A. Warburg, Werke in einem Band. Auf der Grundlage der Manuskripte und Handexemplare, hrsg. v. M. Treml, S. Weigel, P. Ladwig, Berlin 2010.
  • GS Briefe
    A. Warburg, Briefe, hrsg. von M. Diers, S. Haug mit T. Helbig, Berlin/Boston 2021.
Riferimenti bibliografici
  • Alloa 2021
    E. Alloa, Umgekehrte Intentionalität: über emersive Bilder, “Vorträge aus dem Warburg-Haus” 15 (2021), 31-51.
  • Blitzsymbol und Schlangentanz 2022
    Blitzsymbol und Schlangentanz. Aby Warburg und die Pueblo-Kunst, hrsg. von Ch. Chávez, U. Fleckner, Hamburg/Berlin 2022.
  • Boehm 2011
    G. Boehm, Ikonische Differenz, “Rheinsprung 11 – Zeitschrift für Bildkritik” 1 (2011), 170-178.
  • Bredekamp 2019
    H. Bredekamp, Warburg der Indianer: Berliner Erkundungen einer liberalen Ethnologie, Berlin 2019.
  • Caraffa 2019
    C. Caraffa, Objects of value: challenging conventional hierarchies in the photo archive, in J. Bärnighausen, C. Caraffa, S. Klamm, F. Schneider, P. Wodtke (eds.), Photo-objects. On the materiality of photographs and photo archives in the humanities and sciences (Max Planck research library for the history and development of knowledge. Studies, 12), Berlin 2019, 11-32.
  • Cassirer [1925] 2002
    E. Cassirer, Ernst Cassirer Werke (Hamburger Ausgabe, ECW), hrsg. von B. Recki, Bd. 12: Philosophie der symbolischen Formen. Zweiter Teil. Das mythische Denken [1925], Text und Anmerkungen bearbeitet von C. Rosenkranz Hamburg 2002.
  • Cometa 2020
    M. Cometa, Cultura visuale: una genealogia, Milano 2020.
  • Despoix 2013
    Ph. Despoix, Apostrophe. Aby Warburgs fotografischer Zwischenraum, in H. Lethen (hrsg. von), Katalog der Unordnung, Wien-Linz 2013, 64-67.
  • Didi-Huberman 2002
    G. Didi-Huberman, L’image survivante: histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris 2002.
  • Elkins 2015
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    C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore: cinque saggi di iconografia politica, Milano 2015.
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    W.J.T. Mitchell, Image science: iconology, visual culture, and media aesthetics, Chicago-London 2015.
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    A. Nagel, Ch.S. Wood, Anachronic Renaissance, New York 2010.
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  • Schröter 2014
    J. Schröter (hrsg. von), Handbuch Medienwissenschaft, Stuttgart-Weimar 2014.
  • Settis 2020
    S. Settis, Incursioni: arte contemporanea e tradizione, Milano 2020.
  • Sierek 2007
    K. Sierek, Foto, Kino, Computer: Aby Warburg als Medientheoretiker, Hamburg 2007.
  • Thürlemann 2013
    F. Thürlemann, Mehr als ein Bild: für eine Kunstgeschichte des “hyperimage”, München 2013.
  • Vollgraff 2022
    M. Vollgraff, “…durch die Augen eines Anthropologen”: Aby Warburg und das Bureau of American Ethnology, in Blitzsymbol und Schlangentanz 2022, 51-57.
  • Warburg [1920] 2010
    A. Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten [1920], in WEB, 424-491.
  • Zumbusch 2022
    C. Zumbusch, Neugier und Methode. Aby Warburgs Zettelkasten, in L. Crasemann, B. Fellmann, Y. Hadjinicolaou (hrsg. von), Seismographen und Orientierungsspiegel. Bilder der Welt in kurzen Kunstgeschichten, Berlin/Boston 2022, 320-326.
  • Zwischen Kosmos und Pathos 2020
    Zwischen Kosmos und Pathos. Berliner Werke aus Aby Warburgs Bilderatlas Mnemosyne, für die Staatlichen Museen zu Berlin hrsg. von N. Rowley, J. Völlnagel, Berlin 2020.
English abstract

Giovanna Targia presents a personal interpretation of some of the themes addressed as a co-curator of the exhibition “Camere con vista. Aby Warburg, Florence and the Laboratory of Images”, organised by the Uffizi Galleries and the Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max-Planck-Institut in collaboration with the Warburg Institute in London. The composition of the exhibition layout and catalogue highlights and valorises the numerous points of view offered by areas of specialisation that are also very distant from each other. The exhibition takes its cue from the most recent reconstructions of the Mnemosyne Atlas and invites us to rethink Warburg’s work by combining historical analyses and contemporary reflections.

keywords | Camere con vista; Gallerie degli Uffizi; Mnemosyne; Bildkritik.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Targia, Bildkritik a Firenze
Note su alcuni dei temi affrontati da “Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini”, Firenze, Gallerie degli Uffizi, 19 settembre / 10 dicembre 2023
, “La Rivista di Engramma” n. 206, ottobre/novembre 2023, pp. 229-243 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.206.0013