"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

208 | gennaio 2024

97888948401

“Quasi fudesse ecce homo de paese” 

Sulla vicenda compositiva dell’Ambleto di Testori

Chiara Pianca

English abstract
I percorsi dell’Ambleto

Pagina dal quaderno manoscritto contenente il rifacimento del secondo atto. Archivio Giovanni Testori – Regione Lombardia.

Didascalie in pastiche (foto da una stesura dattiloscritta appartenente alla seconda fase redazionale). Archivio Giovanni Testori – Regione Lombardia.

I

Le ragioni dell’interesse di Testori per la figura tragica di Amleto sono già contenute nel manifesto Il ventre del teatro (Testori 1968), dove l’autore scrive di un teatro dal “valore di vitalizzazione per direzioni atrocemente inconsce e negative”, un teatro che sia tentata verbalizzazione monologante e “orrendamente (insopportabilmente) fisiologica” del mistero di sangue e fango al fondo, comunque indicibile, dell’esistenza, in polemica con la “corrosione (o diminuzione) borghese che ha insistito sul valore di ‘spiegazione’, direi di ‘teorema’, del teatro” – l’attacco esplicitamente detto è al teatro epico di Brecht e alle derive artificiose del pirandellismo, assunti quali idoli polemici in senso generale e infatti poi riconsiderati, strada facendo. Coerentemente col manifesto, in cui si individua il significato dei personaggi tragici nella intrinseca riproposizione, da sempre, dello “stesso, antico, luminoso tentativo; (del)la stessa, antica, luminosa bestemmia” (“il personaggio tragico cade nella trappola della fine e si spegne per sempre; in apparenza per morte, soppressione o suicidio, in verità per la dimostrata impossibilità di realizzare quel tentativo”), il personaggio di Amleto si configurerà in Testori al di fuori di ogni dialettica quanto alieno a ogni idea di sviluppo psicologico. Non a caso nell’Ambleto i personaggi potranno parlare tutti sostanzialmente la stessa lingua, per quanto potentemente caratterizzata: una lingua d’invenzione, come vedremo, svincolata da volti e situazioni, ma la cui qualità fondativa è ciò che tutti e tutto sostanzia nella pièce. Non solo, allargando il campo visivo, quella degli Scarozzanti e le trilogie teatrali a venire, fino all’atto di chiusura scandito dai Tre lai, potranno essere percepite come tutte ossessivamente dette da una stessa voce insieme ur- e iper-monologante. Una voce che riesce a rinnovare la densità tragico-esistenziale di quel composito monologo nella misura in cui, nei diversi testi, evolve la violenza espressionistica grazie a una lingua capace di rimodulare di volta in volta il proprio “balbettio” “carnale” e d’urto. L’istituzione di un rapporto di sovrapposizione tra voce monologante e voce trasversale – sia ai personaggi che alle opere – è utilmente interpretabile ricorrendo alla categoria dell’“eroe” proposta da Enrico Testa (Testa 2009) in un saggio che ha per oggetto i protagonisti dei romanzi novecenteschi e le “tante possibilità di esistenza e di mondo da ess[i] rappresentate”.

Quella dell’eroe è per Testa la categoria del personaggio ab-solutus, slegato, cioè posto, nella sua assillante aspirazione alla verità, al di fuori di una dialettica col mondo esterno, rispetto al quale si pone, e permane, in una condizione di “insanabile dissidio” (di contro alla categoria dei “figuranti”, personaggi relativi, in dialogo con l’esterno e, conseguentemente, in divenire). Lo studioso, riferendosi in particolare ai protagonisti dei romanzi beckettiani, parla di una “voce assoluta e totalizzante”, “in un discorso sconfinato e interminabile, privo di argini e libero dai limiti istituiti dalla presenza degli altri”, descrizione che ben si presta a dire anche la stessa torrenzialità monologante testoriana. Sul timbro specifico di questa voce totalizzante nell’Ambleto, come sulle sue implicazioni, avremo modo di tornare più volte nelle diverse sezioni di questo lavoro.

A ridosso della pubblicazione del manifesto su “Paragone” – 1968 –, l’interesse di Testori per il personaggio shakespeariano si materializza in un primo tempo – tra il 1970 e il 1971 –, in forma di sceneggiatura, pubblicata postuma (Testori 2002), per un film, Amleto, da ambientarsi in una cupa valle alpina. Il film non verrà mai realizzato, ma la sceneggiatura contiene battute e, soprattutto, immagini espressionistiche che diventeranno di fatto materiale preparatorio per L’Ambleto scritto e pubblicato l’anno seguente –, dramma teatrale in una lingua d’invenzione, nato sotto il segno della collaborazione fra il drammaturgo e l’attore Franco Parenti. Nel rifacimento teatrale di Testori la questione della lingua è centrale quanto lo appare, del resto, nel contesto teatrale italiano del tempo, in cui il dialetto si fa presenza ricorrente in termini di ripresa della tradizione, come all’interno di un diffuso sperimentalismo plurilinguistico. Si vedano per l’impiego di dialetto e pastiche nelle esperienze drammaturgiche del secondo novecento, il riferimento a una funzione antirealistica in Luca D’Onghia (D’Onghia 2014) e il richiamo in Piermario Vescovo (Vescovo 2009) a una funzione regressiva, non nel senso di regressione come “ambientazione “in costume” (ed espressione di una lingua acconcia, o creduta tale, secondo la fissazione di una “maniera”), del teatro delle bautte e dei mandolini”, ma “distanziamento dal presente dell’ambientazione che è insieme storico e antropologico, che recupera una funzione di alterità nella familiarità e nel patrimonio una distanza che, non potendo avvenire nello spazio, avviene nel tempo”, che per il pastiche degli Scarozzanti si fa però regressione “assoluta” (dunque, più che in un abisso temporale, nel “pantano iniziale”, con riferimento al manifesto testoriano). Nella definizione della lingua “neo-medievale” dell’Ambleto conta sicuramente anche l’uscita nelle sale cinematografiche dei due film sulla sbrindellata armata Brancaleone di Monicelli (L’Armata Brancaleone, presentato al Festival di Cannes nel 1966, e il seguito, Brancaleone alle crociate, distribuito dal dicembre del 1970).

Col suo sperimentalismo linguistico in bilico tra arcaismo e parodia L’Armata Brancaleone è premessa a molte sperimentazioni linguistiche della seconda metà del ’900, fra cui lo stesso Mistero Buffo di Fo (Vescovo 2017). Il suo impasto linguistico è stato puntualmente analizzato in un saggio (Franceschini 2016) posto a introduzione della sceneggiatura recentemente pubblicata, in cui lo studioso dimostra come la lingua ricreata da Age, Scarpelli e Monicelli sia, più che il prodotto di un’operazione inventiva senza riferimenti reali, una “simulazione piuttosto convincente dell’italiano antico” su cui agisce però la ricerca di effetti comici ed espressivi (i più evidenti quelli che, nel caso del protagonista, prendono di mira la “pompa retorica”). Così i personaggi di rango si esprimono in una lingua basata sull’italiano lettarario che ha effettivi riscontri nella letteratura antica e in quella macaronica rinascimentale, mentre in soldati, contadini e artigiani predomina “un netto colorito dialettale, pur con elementi arcaizzanti”. L’intento non è certo quello di fornire una rappresentazione filologica della lingua realmente parlata, ma di restituire in chiave comica un quadro comunque credibile. Lo stesso regista (Monicelli 2005) così sintetizza l’operazione: “A monte c'erano molte letture, una dimestichezza con la lingua italiana del Quattro e Cinquecento. Al momento di trasporre queste conoscenze in una sorta di lingua rozza, arcaica ma in certi aspetti aulica, è subentrato uno spirito goliardico. L'invenzione del linguaggio è un punto di forza del film”.

Se, insieme a L’Armata Brancaleone, il Mistero Buffo, col suo “pseudo antico lombardo maccheronico con imprestiti da altri dialetti” (M. D’amico, cfr. D’Onghia 2020a), per il quale Folena parla di “superdialetto” (Folena 1991), va considerato come elemento determinante in quel vivacissimo fermento teorico e sperimentale (si veda al riguardo anche il saggio di Marzia Pieri, Ead. 2010) che, per tornare al caso nostro, fa da substrato all’esito dell’incontro tra Testori e Parenti, nelle soluzioni linguistiche ambletiche, non esenti da provocatorie e anacronistiche interferenze dell’uso contemporaneo, andrebbe indagata anche l’influenza di Queneau, i cui Fleurs bleues tra l’altro erano usciti solo qualche anno prima.

Dopo la sceneggiatura cinematografica, l’idea di un rifacimento teatrale dell’Amleto viene a Testori a partire da una prova ben precisa di Parenti alle prese con la Moschetta e la sua lingua arcaica (il pavano, cioè il padovano rustico del Quattro e Cinquecento, e il moscheto, parlato dal contadino Ruzante nel tentativo di imitare la lingua dei colti). La nuova edizione della Moschetta di Gianfranco De Bosio, prodotta dal Piccolo Teatro di Milano, con l’attore milanese nei panni di Ruzante e con scene e costumi di Emanuele Luzzati, debutta al qui nell’ottobre del 1970 e viene rappresentata anche nella stagione 1971/1972 con diverse repliche nei teatri di quartiere, a cui Testori ha modo di assistere – la stesura dell’Ambleto inizia del resto a giugno del ’72 –, tant’è che, secondo il racconto retrospettivo, mentre ancora siede tra il pubblico, inizia a prendere forma nella sua testa quel passaggio dal Parenti-Ruzante al Parenti-Amleto che si configura, prima di ogni altra cosa, come testo parlato e in una lingua altra (D’Onghia 2017):

Una sera lo vidi in teatro mentre recitava La moschetta del Ruzante, e subito capii che aveva qualcosa in più. Ora, a me capita sempre, quando un attore mi conquista, una cosa strana: non sento più le parole che dice, ma comincio a sentirne altre – esattamente quelle che vorrei che dicesse. Tanti miei testi per il teatro nascono così, ossia da ciò che la voce e la consistenza di un attore suscitano in me. Così accadde mentre guardavo Parenti recitare il Ruzante. Mi dicevo: “Le sue parole non sono quelle lì, sono altre”. E di colpo cominciai a vederlo parlare una lingua che, poi, sarebbe diventata quella dell’Ambleto. Prima di uscire andai da lui e gli dissi: “Franco, adesso so che cosa devo scrivere per te”.

Una precisa individualità attoriale alle prese con una lingua rustica e arcaica si fa vettore, nel rifacimento della vicenda del principe di Danimarca, dell’innesto di una lingua su base dialettale, ricreata, come si dirà, per via di “risciacquatura” nella provincia comasca e milanese. Il dramma “scarno, rotto, ruttante, violento e violatore, quasi trogloditico”, porta già nel titolo, attraverso l’epentesi nel nome – l’aggiunta di ‘b’, forse per simulare la parlata di dialettofoni non abituati a pronunciare il nesso -ml – e la presenza dell’articolo determinativo maschile, il segno del mutamento avvenuto rispetto alla sceneggiatura. “Amleto di Lomazzo” (forse nel toponimo anche un accenno al facchinesco di Giovan Paolo Lomazzo?), il cui castello dunque è spostato nella provincia di Como – nei pressi della periferia milanese –, parla ora una lingua d’invenzione, un pastiche che ha per base il dialetto rustico extraurbano (non a caso la lingua madre del suo autore). Il fatto che il dialetto sia presente già a partire dalla prima stesura, ci dice quanto la sua valenza espressionistica (per una disamina del concetto di espressionismo in Contini, si veda D’Onghia 2022b) sia connaturata alla vocazione dissacratoria e parodistica con cui nasce il dramma. Se Pier Vincenzo Mengaldo (Mengaldo 2017) nella “corsa verso il parlato, o lo scritto-parlato” (che in Italia non può prescindere dal dialetto o dall’italiano regionale) della prosa novecentesca riconosce “forti limiti” tra cui “la scarsa scioltezza, la non-naturalezza del dialogato, che può diventare involontariamente comico, anche in scrittori tutt’altro che sostenuti o idiosincratici”, nella drammaturgia Testori può fare di quel limite il mezzo per rendere ancora possible una ripresa della tragedia shakespeariana, perseguendo appunto il tragicomico con un’invenzione linguistica costantemente modulata sul dato dialettale.

Oltre all’idea di spostare l’ambientazione in una periferia lombarda (presupposto alle scelte linguistiche) e di dare connotazione erotica al rapporto tra Amleto e Orazio, ciò che fa individuare nella sceneggiatura cinematografica dell’Amleto un primo gradino nell’ideazione del primo testo della Trilogia degli scarozzanti, è il fatto che nella prima stesura del dramma cospicue porzioni di dialogo risultano da lì attinte. Ma l’italiano non caratterizzato espressionisticamente del testo cinematografico viene completamente rimpiazzato nel testo teatrale da quel pastiche linguistico a forte impronta dialettale che rappresenta, come anticipato, il principale volano nella riscrittura della vicenda del principe di Danimarca, sicché tale travaso dalla sceneggiatura al testo teatrale si accompagna a un’esasperazione drammatica e a un sovrappiù grottesco raggiunti appunto, nel dramma, soprattutto per via linguistica. Si veda, per esempio, il discorso di Claudio sul trono, nella sceneggiatura, dal quale viene mutuato palesemente il discorso ufficiale di Gertrude, nella pièce, entrambi qui a confronto:

CLAUDIO: V’abbiamo qui riuniti, voi che siete della nostra stessa famiglia e di quella più gran famiglia che è la corte, per rendervi partecipi di una decisione che abbiamo preso pel bene nostro, ma soprattutto pel bene del nostro regno e di voi, nostri sudditi. Gertrude, la moglie diletta del nostro fratello testé morto, è stata assunta da me come mia legittima sposa. Benché il nostro cuore fosse morso ancora dal dolore e dal lutto, ci è parso che questa unione avrebbe portato più velocemente nel nostro regno, scosso da tante sciagure e da tanti rischi, forza, dignità, vigore e pace (35, 36).

Così la ripresa nella prima stesura dattiloscritta (in questo lavoro indicata con Ad, come si vedrà nella sezione dedicata alla presentazione degli inediti delle prime fasi redazionali) della pièce teatrale:

GERTRUDE: Vi ho qui riuniti, voialtri che siete della nostra stessa famiglia e di quella, ancamò più granda, che è la Regia Corte Imperiale, per essere io l’angelo annunziante e, disarei, l’istesso Gabriele, e rendervi incosì partecipi d’una decisione che ho preso per il bene nostro di noi, ma soprattutto per il bene sommo ed eterno del Regno e del Regname che è sì, come ha da essere, nostro di noi, ma che è anche vostro di voi; e per il bene, anca se ai sobillanti pare no vera, di tutte le nostre amatissime sudditanze e di tutti i nostri amatissimi serventi, servi, militari, militanti, pastori, paesani e ischiavi. Claudio, fratello dilettissimo del mio testé defunto marito, testé defunto emperò senza miseria e senza fine compianto, come avete potuto vedere e come vedere potete ancamò adesso; Claudio è stato da me alzato e, per incosì dire, assunto all’altare del Dio uno e trino come mio legittimo sposo; legittimo sposo e, dunca e nel contempus, legittissimo Re (così dicendo depone lo scettro nelle mani di Claudio): Re mio di me e Re vostro di voi. Anca se il cuore di me è scombussolato, lacerato e, direi ancora di più e di meglio, squartato come il fideco d’una poara oca quando devono tirarcelo fuora per fabbricare il patè; scombussolato, lacerato e squartato dai piangimenti, dai deliqui dai treni, dalle lamentazioni e dagli straziamenti; anca se tutto nella mia anema è una marceria di lutto, di doglianza e di voglia, e domà quella, di pesegàre a raggiungere nell’eterna quiete il mio adorato sposo, m’è paruto che questa unione e questo incoronamento arebbero portato più di pressa nel nostro Regno, turbato da tanti infami sobillatori e sindacanti, diviso da tante lotte e da tante battaglie di partitici partiti, blessurato dall’arrivo repentinissimo di tutte queste bande di irregolari e di extra; arebbero portato, disevo, in questo nostro Regno, che per me era ed è una Via crucis da portare, cos’è che dico? Un Monte, eccola, un Monte da pellegrinarci sopra com’è quello che c’è in della montagna di Varallo, detta anca Varade, e che, preso da sé e per di sé, e cioè par di lui solo, è una vera e propria Madonna dei sette dolori, tutta insanguenata, dove non ci manca una spada che è una; arebbero potuto portare, disevo e diso ancora, la tranquillità, la forza, le fruste la galera e il taccarli sù per quei malvagi e per tutto il loro tanquant, e alla fine delle fini la distensione delle aneme e la loro e nostra totale certitudine e pace.

Il discorso sul trono pronunciato da Gertrude nel testo teatrale germoglia a dismisura per la pressione di una lingua incontinente e la retorica del potere si fa caricaturale grazie alla deformazione dissacrante operata da toni pseudoaltisonanti e iperboli autoincensanti detti in una parlata, d’invenzione, modellata su un dialetto lombardo dal sapore arcaico, dove registro rustico, lessico corporale e idiotismi s’impastano con formule cerimoniali. Il portato eversivo della lingua si associa in modo esplicito a un’ironia acre nei confronti della “piramida” iniqua e nell’elenco degli spauracchi evocati dalla regina a giustificazione di un potere violento, non mancano rinvii a quegli antagonismi sociali coevi alla stesura del dramma, gli anacronistici “sindacanti” ed “extra” di cui risulta invece del tutto priva non solo la battuta di Claudio, ma la sceneggiatura cinematografica nel suo complesso.

Tornando all’influenza del film di Monicelli, questa ha pesato sull’Ambleto anche in termini di parodia della recitazione enfatica del grande attore (Vescovo 2017), nello specifico di un Vittorio Gassman che viene calato, con L’Armata Brancaleone, in un immaginario contesto medieval-scalcagnato nel ruolo di un capitano di ventura dagli improbabili toni pomposi. È proprio Monicelli a riconoscere per primo le potenzialità comiche di Gassmann inserendolo nel cast dei Soliti ignoti, esperienza che media poi il ritorno dell’attore al registro alto-tragico dei ruoli teatrali, rivisto in chiave parodica, nel film de L’Armata Brancaleone. Un “Medioevo cialtrone, fatto di poveri e di ignoranti, di ferocia, di miseria, di fango, di freddo”, come lo definisce lo stesso Monicelli (Fava 2005), che rovescia le immagini stereotipe legate alla narrazione epico-cavalleresca (come del resto già Calvino nella Trilogia degli antenati): “allora avevamo voglia di raccontare questo Medioevo alternativo a quello epico che ci propongono i romanzi cavallereschi di Chrétien de Troyes. Che fosse quindi una parodia, ma allo stesso tempo, una contrapposizione a quest’immagine finta di un’epoca eroica e favolosa che si vede nei kolossal hollywoodiani” (Casali s.d.).

Un’ultima osservazione legata alla lingua richiede un accenno alla struttura metateatrale in cui è inscritta la vicenda del principe di Danimarca, la quale si dà all’interno di un ulteriore livello diegetico, vale a dire la cornice in cui si muove una compagnia di scarozzanti alle prese con la messa in scena della tragedia. Come ricorda Giorgio Taffon (Taffon 1997, 165), è ancora Parenti a giocare un ruolo nell’ideazione di una riscrittura del mito shakespeariano in una prospettiva guittesca, non a caso collegata a quella sovversiva, quando ricorda a Testori delle compagnie di guitti che, negli anni Trenta, giravano la periferia milanese recitando brani “memori delle interpretazioni dell’Amleto di un Ruggeri o di un Moissi” e proiettando sofferenza e senso di ribellione, legati alla propria condizione, nella sofferenza del principe. Prospettiva che ha trovato realizzazione attraverso l’inserimento della tragedia dell’Ambleto in una struttura metateatrale fattasi a sua volta ‘giustificazione’ dell’adozione di un linguaggio “pidocchiale” con una componente molto marcata di affettazione. Con “pidocchiale” ci riferiamo all’espressione di Tommaso Landolfi ripresa da Testa per individuare:

una modalità dell’italiano che, in sintonia col ruolo degli interlocutori e i loro rapporti, attraversa l’intera storia della nostra lingua: una sua varietà che, magari assai grezza, affiora quando non si fa ricorso per i più vari motivi (incapacità o sprezzatura, urgenza di dire o intento mimetico) alle formule della compostezza letteraria o ai parametri di un togato autocontrollo espressivo (…) in cui l’aspetto predominante è in qualche modo comunicare. Ed è quindi necessariamente connesso – a vari gradi di attuazione – con gli usi parlati della nostra lingua […] (Testa 2014, 3, 4).

Nel caso delle scritture dei “semicolti”, che valgono anche come “indizi” del parlato, in soggetti la cui madrelingua è il dialetto e “che, pur alfabetizzati, non hanno raggiunto una piena competenza della scrittura rimanendo così legati al dominio dell’oralità”, il tipo di italiano impiegato si definisce anche per un fattore di inglobamento di “formule, schemi, stereotipi” mutuate dai registri amministrativi, commerciali, ecc., insomma “latamente burocratici” che fungono da “nuclei agglutinanti e centripeti della lingua”. Nel caso dell’Ambleto, al “pidocchiale” andranno aggiunte alla lista anche le formule ecclesiastiche. L’avvertenza, come abbiamo già detto accennando a una voce ur- e iper-monologante – con un riferimento peraltro sempre a Testa e alla categoria del personaggio assoluto –, è che, per l’Ambleto, non esiste alcuna possibile variabilità sociolinguistica determinata dalla situazione comunicativa in cui il protagonista e gli altri personaggi si pongono. La stessa struttura metateatrale è semmai strumentale, di contro alla possibilità di una discorsività dialettica e di una plurivocalità, all’emersione di una voce o, meglio, della Voce monologante detta in una lingua dai tratti ‘scarozzanti’ (intendendo per questi appunto una pidocchialità su base dialettale e molto sbilanciata sul versante dell’affettazione).

Se la soluzione metateatrale permette di spostare il “tragico dalla zona aristocratica in cui la cultura l’ha come imbalsamato, affidandolo a un ceto in smobilitazione, nella dimensione popolare” (Cascetta 1983, 99), l’attitudine contestataria che dagli scarozzanti si riversa nella furia del prence, volta a rovesciare la “piramida” del potere, assorbe, potremmo dire per via di metalessi (con riferimento all’analisi narratologica di Genette, qui si vuole alludere allo sconfinamento della realtà extradiegetica nella realtà diegetica in cui ‘vive’ la compagnia di scarozzanti e da qui, con un ulteriore salto tra i livelli narrativi, data la struttura metateatrale, nella realtà del prence e degli altri personaggi interpretati dagli scarozzanti), alcune istanze dal contesto coevo: sono in generale anni in cui un’intensa fase teorica (su ragioni, modalità e prospettive del teatro nel tentativo di dare risposta a una situazione di stallo in cui un peso non indifferente sembra averlo anche l’intromissione della politica nella gestione dei teatri) si inserisce in un periodo di forte antagonismo sociale e politico, sfociando in un’avanguardia teatrale italiana di grande vitalità. Rotti i rapporti con il Piccolo, in seguito alla mancata rappresentazione di Erodiade (Frangi 2023), Testori, come ricorda Cascetta, “si lega a lungo con un gruppo che si è dato a Milano, quasi contraltare rispetto allo Stabile, una organizzazione cooperativa: il Pier Lombardo, antigerarchico, antiautoritario, con uno stile di lavoro severo, con spese contenute, antidivistico” (34), una cooperativa, di cui lo stesso Testori è socio fondatore con Parenti e Shammah. Secondo il racconto di Testori, nessuno vuole assumersi il rischio di ospitare nella propria programmazione la messa in scena dell’Ambleto, finché nell’agosto del 1972, in una zona fuori dal centro cittadino, spunta l’opportunità nei locali in precedenza del cinema Continental, che diventeranno appunto quelli del Salone Pier Lombardo (Doninelli 2012). Ancora sul carattere inedito e popolare che si vuole dare all’iniziativa, Laura Peja (Peja 2019):

L’operazione (della riscrittura tragicomica dell’Amleto) non era ovvia e suscita attenzione e un certo dibattito, così come l’apertura (proprio col debutto del testo) di una nuova realtà teatrale, di una compagnia stabile “‘diversa’ da quelle tradizionali della scena milanese, che farà cioè un teatro di satira politica, ma anche un teatro popolare lontano dai famosi intellettualismi, carichi di simboli e di sottintesi comprensibili solo agli iniziati, all’élite”, come annunciava nelle conferenze stampa Parenti, anima dell’operazione insieme a Testori e a una regista, Andrée Ruth Shammah, che, per quanto incontrata da Parenti proprio alla ‘corte’ di Strehler, rappresentava quanto c’era di più lontano dall’immagine del regista: giovanissima e perdipiù donna! Il carattere popolare dell’attività era ribadito anche da una annunciata politica di prezzi bassi.

Lucia Lazzerini (Lazzerini 1973) osserva la conformità tra l’agire della compagnia degli scarozzanti e “i principi del teatro radicale” coevo – profondamente contestatario nei confronti del sistema –, che invitano a muoversi su un piano metaforico sufficientemente comprensibile da produrre choc destabilizzante, ma al contempo abbastanza vago da consentire di evitare lo scontro diretto. “Opportunismo ‘strategico’” che di fatto, sempre secondo Lazzerini, maschera in modo “pseudorazionale” quella vaghezza ideologica propria dell’”avanguardia contestataria” che ha preso le mosse da un “originario anarchismo misticheggiante”, rispetto al quale si sta evolvendo in direzioni “più positive”, ma che sembra ancora ispirare l’autore dell’Ambleto (per i rapporti di Testori con gli anarchici milanesi si veda ancora Frangi (Frangi 2023)), che ricorda anche come il poeta anarchico Giorgio Sanvito abbia firmato un testo nel programma di sala dell’Ambleto).

II

Il lungo e travagliato processo che ha preceduto la pubblicazione della pièce è testimoniato dalle carte d’autore conservate sia nell’archivio Giovanni Testori di proprietà della Regione Lombardia che in quello omonimo di proprietà dell’Associazione Giovanni Testori. I due fondi contengono materiali relativi a tutti i diversi ambiti in cui si è cimentato l’autore, compresi manoscritti e dattiloscritti di stesure preliminari delle opere edite, tra cui appunto quelli dell’Ambleto. Si tratta, come si andrà a dettagliare nello specifico in un’altra sezione, di alcuni quaderni manoscritti e delle stesure dattiloscritte che da questi discendono, che si pongono tra loro in un quadro di rapporti piuttosto complesso da ricostruire. A iniziare dalla prima stesura dattiloscritta, che è restituibile solo ricomponendone il testo a partire da testimoni parziali e distribuiti in entrambi i fondi (il dattiloscritto originale del secondo atto sottoposto a diversi prelievi, in forma di ritagli incollati in un quaderno manoscritto, va integrato con un dattiloscritto fotocopiato contenente il primo atto e parte del secondo), nella ricostruzione delle relazioni tra i testimoni la linearità può risultare interrotta da rifacimenti di una sola porzione del testo, come nel caso del rifacimento del secondo atto, o difficilmente riconoscibile a causa di un intenso lavoro di revisione che può sovrapporsi a strati, in penna, su porzioni anche conservate sparsamente, con testimoni smembrati per essere riutilizzati. A complicare la situazione concorrono la leggibilità, che spesso si fa davvero ostica, della scrittura di Testori nei quaderni manoscritti, ma anche la mescolanza di dattiloscritti originali e di copie, con modifiche aggiunte a penna anche sulle seconde. Ad ogni modo, nel loro insieme, gli inediti presenti nei due fondi, a partire da un’operazione di riordino cronologico, di cui si da qui conto, consentono di delineare l’intero percorso che porta alla definizione del testo che viene dato alle stampe. Sappiamo, anche grazie alla videoregistrazione della prima rappresentazione dell’Ambleto al Pierlombardo (disponibile nel canale YouTube. https://www.youtube.com/watch?v=d4iYdJFD7n0), come il processo compositivo non sia in realtà giunto a definitivo compimento con la pubblicazione del 1972, in quanto la pièce allestita e messa in scena l’anno seguente, sotto la supervisione dello stesso Testori, presenta notevoli varianti, per cui un confronto ulteriore con il testo consuntivo può rivelare aspetti di interesse.

Una volta riordinati cronologicamente gli inediti (ricostruzione che sarà dettagliata in una delle sezioni seguenti), si è presentata l’utilità descrittiva di strutturare le rilevanti discontinuità tra le riscritture attraverso l’individuazione e la definizione di tre fasi redazionali (che indicheremo rispettivamente con A, B e C). Di queste tre fasi redazionali, le prime due rappresentano l’oggetto del presente lavoro determinandone la circoscrizione, sebbene gli accenni a soluzioni successive non manchino, dove il confronto sia funzionale a una messa in prospettiva di tipo evolutivo. Tali materiali preparatori, riconducibili alla fasi redazionali indicate con le sigle A e B, sono di interesse variantistico per le ragioni che qui si vanno preliminarmente a sintetizzare. Se, rispetto alla prima redazione, nel testo edito si possono riconoscere anticipazioni e condensazioni nella fabula legate anche a un completo rifacimento del secondo atto, i termini che sembrano maggiormente motivare la restituzione di un’analisi di tipo variantisco – nelle sezioni a seguire in questo lavoro – stanno in una progressiva evoluzione nella lingua messa in bocca agli scarozzanti (di particolare interesse sono le varianti più precoci, in cui figurano frasi strettamente dialettali alternate al pastiche con forte impronta dialettale) e in differenze riguardanti natura e lingua delle didascalie (incursione diegetica nelle didascalie delle stesure iniziali a fronte di didascalie ridimensionate e meramente prescrittive nel testo dato alle stampe).

In questo studio le sezioni successive saranno quindi dedicate all’analisi variantistica, per mettere in evidenza sia la complessa gestazione della lingua attraverso le redazioni che le questioni didascaliche appena dette. In particolare, le varianti relative all’alternanza, nella prima stesura, di dialetto e pastiche, per cui useremo come termine di riferimento le polarità del moschetto e del dialetto rustico in Ruzante, forniscono dati a complemento dei rapporti tra la lingua d’invenzione testoriana e il moschetto già messi in luce da D’Onghia (D’Onghia 2017) – a partire dall’intuizione di Taffon che “l’italiacano” degli scarrozzanti ha per “progenitore” la lingua parlata dal contadino Ruzante nel tentativo di imitare, “stravisandola”, la lingua cittadina (Taffon 1997, 164) –, mentre, sul versante delle didascalie, hanno carattere di eccezionalità le varianti della seconda redazione, per la presenza al loro interno, come si dirà, della stessa lingua d’invenzione che caratterizza le battute.

Per quel che riguarda la questione linguistica, nella prima redazione si assiste a una prima messa a punto del pastiche, che sappiamo caratterizzare i dialoghi dell’Ambleto, derivante da una mescolanza di diverse lingue (dialetto, latino, francese, inglese e spagnolo si infilano nell’italiano in varia misura, anche se, per gli ultimi due, le occorrenze sono minime) che, più che mediante l’inserzione di termini integralmente non italiani, pure presenti, è giocata soprattutto attraverso incroci maccheronici che investono fonemi, morfemi e la stessa sintassi, dove sono i termini soprattutto dialettali e, con minor frequenza, francesi, a essere costretti in forme che Lazzerini (Lazzerini 1973) definisce “italo-barbariche”, sebbene non manchino interferenze nella direzione opposta, come nel caso delle desinenze latine giustapposte ai nomi italiani. L’interesse di questa prima fase redazionale sta però, come anticipato, anche nel dato di un dialetto che, inizialmente, accanto alla forma ‘ibridata’ che costituisce il timbro prevalente nell’impasto linguistico d’invenzione, conosce anche un proprio impiego privo di commistioni macaroniche, sicché battute – o porzioni più o meno ampie di queste – in dialetto stretto si inseriscono nella prima redazione fra quelle, pur maggioritarie, dette invece in quel pastiche che in seguito si fa onnipresente nel testo. Le varianti che testimoniano quest’originaria alternanza tra dialetto e lingua inventata, oltre a segnare una forte caratterizzazione rispetto al testo edito, consentono di tradurre in modo più definito i termini suggestivi con cui Testori rievoca l’influenza esercitata, nella genesi dell’opera, da Parenti alle prese con la Moschetta, a integrazione del parallelo, già evidenziato da D’Onghia, tra moscheto – la lingua impiegata da Ruzante nel tentativo di imitare la lingua ‘istruita’ – e pastiche testoriano. Nella lingua di questi fogli inediti l’influsso originario si rivela infatti più composito, e cioè legato non solo all’italiacano parlato dal personaggio Ruzante, ma più estesamente alla compresenza di questo e del dialetto, il pavano, rispetto a cui si pone a contrasto, come vedremo nella sezione dedicata alla lingua.

Riallacciandosi invece alla questione delle didascalie letterarizzate (non deputate quindi alle sole prescrizioni di scena, ma segnate da tracce più o meno marcate di procedimenti ‘diegetici’, propri cioè del racconto indiretto – distinto da quello ‘mimetico’ degli attori che prestano la loro voce e i loro gesti ai personaggi sulla scena), si può qui preliminarmente precisare anche come questa vada a incrociarsi con quella linguistica nelle carte della seconda fase redazionale, dove la lingua d’invenzione arriva a coinvolgere le stesse didascalie, con un’estensione dunque del pastiche fuori campo rispetto all’ambito della rappresentazione mimetica, parti strettamente prescrittive comprese. Didascalie investite di espressionismo linguistico a forte marca dialettale rappresentano probabilmente un unicum nella letteratura teatrale italiana, per cui vale senz’altro la pena restituirle (nella redazione finale vengono cancellate dall’autore, a favore di mere indicazioni prescrittive, date in italiano).

Ma, prima di tornare al dato linguistico che riguarda le didascalie della seconda redazione, vediamo l’aspetto di interesse che hanno anche le didascalie della prima redazione rispetto a quelle del testo pubblicato. Se nel testo edito le didascalie si limitano a comunicare l’entrata e l’uscita dei personaggi dalla scena, la loro disposizione e qualche altra minima prescrizione in merito alle azioni da rappresentare, nella prima redazione, qui il primo dato di interesse nelle didascalie degli inediti, abbondano indicazioni relative alla scenografia spesso corredate di specificazioni di tipo soggettivo, così come, sempre in questa redazione, l’ingresso dei personaggi in scena si accompagna di frequente ad atteggiamenti e stati emotivi resi con aggettivazioni, similitudini o metafore difficilmente o per nulla scenificabili – da analizzarsi, come vedremo, anche in relazione a quei procedimenti, nella didascalia, non passibili di restituzione scenica, che Silvia De Min ha definito di carattere ecfrastico (De Min 2018). Anche nella seconda redazione permangono le didascalie con funzione diegetica e impensabili come istruzioni sceniche, in più con l’aggiunta della caratterizzazione linguistica che si è descritta e cioè la sovraestensione dell’espressionismo a forte caratterizzazione dialettale prima circoscritto al solo dominio mimetico dei dialoghi. Questo il secondo dato di interesse (ancora maggiore, come detto, per l’aspetto di unicità che lo contrassegna) a motivare, nella sezione dedicata alle didascalie, la restituzione delle varianti di questa redazione intermedia.

L’espunzione delle didascalie letterarizzate dall’ultima redazione invita a fare supposizioni in merito all’intenzione, nei tempi ideativi precedenti, di una lettura delle didascalie in scena. Il fatto che solo una didascalia (con un’immagine che diventerà peraltro elemento intertestuale), venga riassorbita nelle battute del testo edito, potrebbe essere preso come dato a supporto. A possibile conferma le dichiarazioni in cui lo stesso Testori sostiene che ogni suo testo trae beneficio dall’essere detto a voce (nell’intervista di Doninelli (Doninelli 2012, 54) così Testori: “sempre, qualunque sia l’argomento trattato – saggio, romanzo o testo teatrale vero e proprio –, io sento che la parola che scrivo ha bisogno di essere detta, pronunciata. È come se, messa così, sul libro, non avesse ancora detto tutto quello che ha ancora da dire. Solo il teatro la libera completamente”). Il passaggio, nella seconda redazione, a didascalie caratterizzate dall’espressionismo linguistico acquista un diverso spessore se letto anche in funzione autoparodica, come si dirà nella sezione dedicata all’ecfrasi, a partire da alcune intuizioni, sempre di Vescovo (Vescovo 2021), che pone in relazione l’espressionismo nella didascalia con funzione ecfrastica presente in un passo giovanile di Longhi, “ai limiti dell’autoparodia inconsapevole”, con un suo possibile ritorno nell’allievo, riconoscibile nell’incipit dell’Ambleto. La questione acquista rilevanza in seno a un posizionamento di Testori, nel panorama letterario novecentesco, tra i più vistosi continuatori di Longhi meglio che tra i “nipotini” di Gadda (per cui una “’funzione Longhi’” dovrebbe essere chiamata in causa in sostituzione della ‘funzione Gadda’), ma è illuminante anche ai fini di considerazioni interne alla tendenza novecentesca e tipicamente italiana – ricordata, come si dirà, da Mengaldo (Mengaldo 2017) – a una lettura stilistica della scrittura saggistica.

Torniamo ora alla prima stesura dattiloscritta, per alcune considerazioni a partire dalla versione del secondo atto qui contenuto, che ci aiutano a chiudere questo capitolo introduttivo con alcuni appunti tematici sempre in relazione alla suddivisione redazionale. Più vicino nella trama al testo shakespeariano, per la presenza della scena dello spettacolo volto a smascherare i regicidi, che non figura invece nel testo edito, questo secondo atto rivela una costruzione claustrofobica che merita attenzione, sempre come dato di partenza: specie nei dialoghi del prence coi due personaggi femminili, si registra una crudezza stilizzata attorno a cui il dramma tende a rimanere avvitato. Una ferocia senza sbocco, che si potrebbe dire programmatica ripensando alle parole del manifesto. E che potrebbe anche apparire misogina, se non vista come sfogo rancoroso rispetto alle subite aspettative sociali di una sessualità etero e legata alla riproduzione (sessualità, in questo secondo aspetto, avvertita nel dramma come disperatamente insensata). Anche da questo punto di vista lo scarto rispetto al testo edito è notevole: nella versione pubblicata il farsi strada di una pietas, non sempre soffocata dal protagonista, determina quell’articolazione nelle sfumature dei dialoghi tra il principe e le due donne, che, senza intenzioni di rappresentazione naturalistica, resta funzionale a spostare il baricentro, comunque tragicomico, più verso un polo tragico-esistenziale universalmente esperibile.

La lingua della prima redazione

Nei primi venti fogli del dattiloscritto (di seguito indicato con Ad si veda in appendice la sezione dedicata alla ricostruzione dell’ordine cronologico degli scritti ascrivibili all’avantesto) in cui viene ricopiato il manoscritto del primo atto, sotto all’ultimo strato di modifiche a penna, si riconoscono frasi in dialetto alternate ad altre, maggioritarie, in pastiche. Prima di sostituire quelle prime battute integralmente dialettali – con modifiche a mano nell’interlinea – per riproporle nella lingua d’invenzione, Testori fotocopia quei fogli, sicché ce ne resta traccia ben leggibile (nella cartella D22 in GTRL). Quell’originaria alternanza fra il dialetto lombardo (il milanese di periferia degli scarozzanti) e un italiano sottoposto a deformazione espressionistica (la lingua affettata dei personaggi interpretati dagli scarozzanti) riflette l’alternanza, presente nella Moschetta, tra pavano (dialetto rustico) e lingua moschetta (imitazione della lingua cittadina), per cui, come detto, darne conto precisa l’influenza del testo del Beolco nei termini di un’articolazione.

Fin dalla prima battuta, in cui viene svelata la concezione metateatrale del dramma, lo scarozzante che interpreta Ambleto, dal di fuori della scena, prende a dare istruzioni in dialetto ai pittori di scena. Quando entra in scena, annuncia l’inizio della tragedia con la tipica formula d’apertura in latino (“Incipit Ambleti tragoedia”, la cui solennità – anche nel rinvio a un genere codificato – si pone in contrasto con la dichiarazione, che subito la segue, di non necessaria determinatezza del luogo) e poi prosegue in un italiano recante alcune prime tracce della deformazione espressionistica, un pastiche non ancora pesantemente connotato, anche se una prima patina regionale con virate arcaiche e pseudoaltisonanti è già ben riconoscibile. Chiude infine col dialetto sentenzioso a sigillo del senso di inevitabilità livellatrice enunciato (“quand s’è ciavà sù in la cassa, cassa e ciavada l’è per tucc e in tucc i sit”):

(Qualche resto di croce, una fossa aperta con, a lato, i cumuli di terra bagnata, sotto un cielo che va, via, via, diventando di tramonto tempestoso, livido, funesto)
AMBLETO (extra scena): Pusè scur! Quanti volt go de dìvel! Pusè scur! Ross, sì; ma ross come l’è ross el sangh di purcei quand ghe spàchen la gula! / E là, in bas, su quei nigur, un po’ de viola… / Ga de ves l’aria d’una cantina! Ga de ves l’aria d’un bus, d’un inferna! (entrando e portandosi verso il proscenio, le spalle rivolte al pubblico)

Eccu, insci. Pusè gunfi, qui nigur; pusè gunfi e inciustrà… E quela lus là, sulla fossa… Dimiuire, diminuire. Sèm minga al cine, chi… No! No! Su la crus, no! Su la crus lasìla cume l’è! Ultimi resti, frattaglie ultime ed estreme della fede. Abbondanza, abbondanza, che l’ecunumia ghe la làssum all’ingles…

(Ambleto continua a guardare, mentre da fuori principia a venire il rullio soffocato di alcuni tamburi e l’eco d’un coro funerario.
Quand’è convinto che la scena corrisponde veramente a quel che deve essere, si porta al proscenio, guarda a lungo il pubblico e incomincia ad affondare e insieme ad erigersi nella sua tragica, orribile parte)

AMBLETO Incipit Ambleti tragoedia. Incipit, qui, a Elsinore. Incipit a Elsinore o in n’importa che altro paese. L’autore mi ha assicurato che ogniduno di voi può pensare d’essere a Elsinore o, invece, nel paese che preferisce meglio e di più; mettiamo, a Camerlata; mettiano, a Lomazzo; o anche, un po’ più in basso; a Caronno; Tanto l’è l’istess: quand s’è ciavà sù in la cassa, cassa e ciavada l’è per tucc e in tucc i sit. (erigendosi, di nuovo)

Alla presentazione della tragedia segue quella del proprio personaggio, dopodiché lo scarozzante-Ambleto dà l’ordine che il corteo funebre abbia inizio. All’italiano subentra subito il dialetto, anticipato da rullez, il roulez francese, scritto con grafia irregolare (con la ‘u’ all’italiana e il raddoppiamento della laterale - nel testo edito diventerà rullé), secondo un procedimento tipico della scrittura ambletica, che per i vocaboli stranieri concorre agli esiti deformati e grotteschi della lingua con un compromesso fra la grafia corretta e una grafia che rende la pronuncia. Si noti peraltro l’assonanza con il tronco vusè, con cui si avvia il prosieguo del discorso in dialetto:

Avanti! Se merda deve essere, merda sia! Rullez, tamburi! Vusè trumbett de la Regia Guardia Imperiale! Cantì ceregh e cereghett. Pizè lum e lumitt! Pret e vescuv, metè sù i sutan viola dela quaresima e di mort! E ti, regina, sù, sù! El vel negher, la negra broderia, l’è belle che prunta. Vestìset, sù, pelanda! Vestìset, figa scunsacrada! Tira di fuori dal forziere la parure, gli saffiri, i brillanti, le incastonate perle e gli incastonati esemeraldi. Metti sù tucc per cumpagnà in la tumba l’usel che m’ha sgiacà in sta latrina chi…
Amici che state lì, in di basso, a vedere e a sentire: il mio papà è dietro a venire. L’ho guardato giusto adesso: fermo ‘me n’ assa: tutto bianco, non fudesse che per i spurghi che ci venivano fuori dai buchi del naso e da quello della bocca, almeno fintanto che Polonio non gliel’ha stoppatata sù con della bambagia…
Papà, re, capo, dux, Benito, anca per te l’è finida… E se vuoi savere quello che penso, se vuoi proprio saverlo… (scatenandosi, come se la bara fosse già lì, davanti a lui…)
Chi t’ha fa passà dell’altra part? Parla! La storia dell’angina, del gropp e dell’infartus podèn tegnessela di per lur! (riprendendosi)
No! Adès no, Emblet. Dopu. Quan te sarà lì, ti, lu e la cassa. Adesso ci è da fare l’annuncio… E, allora, avanti, amigos!

In dialetto si susseguono le incitazioni dello scarozzante, in un crescendo sottolineato da ripetizioni e accumulazioni. La frase in italiano regionale alla fine dell’elenco mette in risalto il successivo vernacolo nella frase che chiude il discorso e conferisce un tono insieme di accusa e sentenza (“Metti sù tucc per cumpagnà in la tumba l’usel che m’ha sgiacà in sta latrina chi…”) per dire una lacerazione che va ovviamente oltre quella del protagonista Qui, dove viene nominato per la prima volta il morto, la sintassi si rifà ipotattica allentando la tensione precedente in corrispondenza del vuoto della disperazione. Si noti la sineddoche attraverso cui i due genitori sono ricondotti ai rispettivi organi genitali, “figa sconsacrada” e “usel”, anticipando il concetto della maledizione della nascita, subito dopo esplicitamente detto, ma anche sotto il segno dell’insitenza su termini afferenti al campo semantico del “realismo fisiologico” – per riprendere un’espressione di Lazzerini – come evidente anche nella descrizione del cadavere. Continua, poi, la rapida alternanza di frasi in dialetto e frasi in cui nella lingua d’invenzione la mescidazione si fa costitutiva.

Come stesse dando voce a una didascalia, lo scarrozante annuncia la prima scena ricorrendo prima alla forte marcatura del latino e poi al dialetto. Inizia a descrivere una scenografia che non si vedrà con un bellissimo cenno agli elementi del paesaggio, investiti dal tramonto, dove espressionismo linguistico e visivo si intersecano con mutua amplificazione:

Sera est; anzi, crepusculorum crepuscula dilagant. De chi e de là ghè in gir ammò di tuchelit de nev… Totus est negher; negher ‘me un bus…Il cielo rona… A me mi pare di vedere indappertutto trasù de cioch e sangh; sangh in la tera; sangh in di nigur; sangh in di öcc…; sangh e marmelada o pissa che la ven giò, ‘me la narigia, come se fosse che anche le nivore avessero le loro robe…

Nell’insistenza sul cielo grondante rosso da tutte le parti (l’espressionismo della mescidazione linguistica s’intreccia all’effetto impressionistico delle costruzioni nominali), si osservi il crescendo dato dal cumulo, com’è tipico di tutto il testo, ma qui martellante sulla stessa parola sangh ripetuta cinque volte, delle quali le tre centrali ‘testa’ di un sintagma che si ripete identico nella struttura: nome (sangh) + preposizione (in di) + sostantivo (quest’ultimo ogni volta differente). La prima e l’ultima occorrenza di sangh racchiudono invece a chiasmo la catena anaforica: cioch e sangh; sangh…; sangh…; sangh…; sangh e marmelada. La resa espressiva, insieme potente e controllata, viene alla fine suggellata dalla visione antropomorfa delle nuvole mestruate. In totus est negher l’accento cupo si interseca invece al comico ‘abbruttimento’ dato dalla prossimità del dialettale negher al suo originario latino. Non a caso nella lezione ultima della stesura troviamo ancora negher, e così sarà fino al testo edito, senza dunque l’intervento di quell’italianizzazione in funzione del pastiche, cui sono tendenzialmente soggetti i termini dialettali, come vedremo, spesso addomesticati attraverso l’inserzione di morfemi dell’italiano.

Il monologo di Ambleto prosegue con un intensificarsi di frasi in dialetto fino a quando si giunge alla presentazione di Gertrude. A partire da questo momento le inserzioni dialettali (presenti anche nelle battute degli altri personaggi) si fanno più rade e più brevi, segno di come la soluzione linguistica data dall’alternanza tra dialetto e pastiche vada progressivamente a perdere presa nel testo, tanto che l’autore, come detto, decide di tornare sui primi fogli ‘traducendo’ nel pastiche in via di definizione le porzioni in dialetto che prima facevano da controcanto. Si veda appunto come vengono modificate le righe iniziali in seguito a questa decisione (a: lezione col dialetto; A: ultima lezione):

a: Pusè scur! Quanti volt go de dìvel! Pusè scur! Ross, sì; ma ross come l’è ross el sangh di purcei quand ghe spàchen la gula! / E là, in bas, su quei nigur, un po’ de viola… / Ga de ves l’aria d’una cantina! Ga de ves l’aria d’un bus, d’un inferna ] A:Più iscuro! Quante volte ho da dirvelo? Più iscuro! Rosso sì; ma rosso com’è rosso el sangue dei porcelli quando ci spaccano la gola! / E là, in di basso, su quelle nigore, un po’ di viola…/ Ha da esserci in dappertutto l’aria d’una cantina! Ha da esserci in dappertutto l’aria d’un buso, d’un inferna

a: Eccu, insci. Pusè gunfi, qui nigur; pusè gunfi e inciustrà… E quela lus là, sulla fossa… Dimiuire, diminuire. Sèm minga al cine, chi… No! No! Su la crus, no! Su la crus lasìla cume l’è ] A: Ecco, incosì! Più gonfiate quelle nigore; più gonfiate e inciostrate… E quel luzore là, in sulla fossa… Diminuire, diminuire. Siamo no al cine qui… No! In sulla crose, no! In sulla crose lassàtela income l’è

Nell’ultima lezione l’intenzione di conferire carattere insieme arcaizzante e ricercato, ovviamente sempre in chiave parodica, è subito segnalato da iscuro con la prostesi della ‘i’ davanti a ‘s’ seguita da consonante (altra prostesi arcaizzante, più avanti nel testo, è quella di v in vuno e vuomini, come già Gadda in Eros e Priapo (Lazzerini, 1973), mentre in luzore la ricerca arcaizzante si associa a un recupero del dato ruspante per via dialettale (non a caso nell’ultima lezione ne aumentano le occorrenze). Il carattere marcatamente regionale si ottiene in queste prime righe attraverso una fitta serie di fenomeni: la forma della preposizione articolata (in sulla) ma anche la sovraestensione dell’uso di in rispetto al dialetto con storpiatura arcaica in funzione altisonante (in di basso, income, in dappertutto, che più sotto ricorrerrà univerbato, indappertutto, secondo un dispositivo che tende a stabilizzarsi, ovviamente nel gioco dell’invenzione linguistica, e più avanti ricorreranno indidentro, indidietro, indavanti, ecc., veri e propri contrassegni del pastiche ambletico, confermati anche nelle redazioni successive); l’articolo el (più sotto ‘i spurghi’); il ci dativo per la terza persona (“el sangue dei porcelli quando ci spaccano la gola”); la presenza dei dialettali nigore (col tipico rotacismo milanese), buso, incosì, inciostrate (con la desinenza però del participio passato dell’italiano) e inferna; l’aferesi in letricisti; la costruzione col verbo avere seguito dalla preposizione da, in sostituzione del modale dovere (“Quante volte ho da dirvelo?”); la costruzione della negativa, invece che con non, con il no postposto al verbo (“siamo no al cine”) e l’inserzione di fonemi settentrionali come /s/ in luogo di /ʦ/ in abbondansa e /s:/ in luogo di /ʃ/ in lassàtela.

La rinuncia all’alternanza tra dialetto e lingua che si registra nell’ultima lezione di questa stesura, va di pari passo con un intensificarsi della patina dialettale nel pastiche per quel che riguarda fonemi, desinenze, lessico e costruzioni sintattiche. Nella tirata monologica di Ambleto che segue le righe appena citate, dopo l’arcaico prence, le scelte letterarieggianti splenetica, maschile bellezza toccata dalla malinconia o, ancora, tempo già fu, rimarcate anche dal latino temporibus illis, vengono subito beffate da infiltrazioni dal registro più basso (fottuta, merda), dai regionalismi (ogniduno, in tra le mani, se mettiamo di), così come da un maccheronico ambleticus Ambletus. Elementi tutti confermati nella lezione ultima di questa stesura, ma con ulteriore insistenza sui tratti dialettali per cui vanno qui ad aggiungersi la già osservata sovraestensione di in (‘in lo stesso [ lo stesso’), l’espressione metaforica ‘ha ciavato sù i battenti [ è finita’, in cui ritroviamo compresenti due elementi ricorrenti nel pastiche testoriano e cioè il verbo sintagmatico (verbo + ‘su’) e l’ancor più frequente participio passato del verbo dialettale con la desinenza dell’italiano, mentre, a livello fonetico, le lenizioni (‘assigurato [ assicurato’, ‘diso [ dico’), e, ancora per le consonanti, anche altre forme tipiche settentrionali (‘bellessa [ bellezza’). Nelle righe che seguono, sempre di questo primo frammento, l’influenza dialettale, sta anche nelle perifrasi verbali (è dietro a venire, aresse da dormire [ dormisse’ – di contro, nell’italiano standard, la prima a ‘stare per + infinito’ e la seconda, già osservata sopra, a ‘dovere + infinito’) frequenti anche nelle stesure successive, testo edito compreso, e, sempre a testimonianza di soluzioni che verranno adottate diffusamente nell’intera stesura e nelle successive redazioni, si registrano l’aferesi (‘me per ‘come’, ‘desso) e l’apposizione di morfemi italiani, già notata per il participio passato, qui diffusa anche ad altri modi e tempi verbali del dialetto (fudesse, ‘podeno [ podèn’) ma anche ai sostantivi (tochellini). Per il conteggio dei vocaboli dialettali integrali, qui alcuni (’anca [ anche’, ammò, sangua) che in tutte le tre redazioni si fanno presenza costante – specie le congiunzioni, alle quali più avanti si aggiungeranno cont e donca.

Se un italiano a spinta caratterizzazione lombarda costituisce la base costante, non manca una porosità del pastiche nei confronti di altre lingue “col che si arriva a un effetto caleidoscopico che ha qualche riscontro, in anni vicini, soltanto nei testi più sperimentali di Dario Fo” (D’Onghia 2017). In questo primo frammento troviamo lo spagnolo amigos nell’esclamativa con cui lo scarozzante segnala che deve iniziare la tragedia, del resto lo sproloquio spagnolesco è già nel moschetto di Ruzante (II, 37 “Se volìs essere la mias morosas, ve daranos de los dinaros”) e nelle successive due redazioni dell’Ambleto figura la stessa “imitazione grossolana dello spagnolo mediante l’abuso di -s finale” (D’Onghia 2017). Più avanti molto presente e caratterizzante diventa il francese, ma compaiono anche l’inglese, certo molto meno frequente, e qualche altra minima occorrenza dello spagnolo. Ingrediente fondamentale è sicuramente il latino, che tende a intersecarsi all’italiano più di frequente nella forma, tipicamente maccheronica, della desinenza latina che si appone al termine italiano (dilagant, itiamo più avanti e il caso particolare di trenus dal termine treno derivato dal greco threnos). Se innesti di questo tipo si rivelano particolarmente produttivi, nella libertà di quest’operazione restano comunque tendenze, per cui è possibile incontrare, nelle pagine seguenti, il confiteare dal deponente confiteari, con un incrocio dunque di tipo contrario (ma analogo a quello nei termini dialettali dove, come sappiamo, è la forma del lessema dialettale con desinenza italiana a essere maggioritaria). Vocaboli latini non soggetti a deformazioni punteggiano del resto tutta la stesura (voluntas dei, imperia, sufficit, in pacem aeternam, veritas veritatis, templa templorum, caritas, verba, acta, exempla, accipe vestem candidam, castitas, lilium, ecc.), con una particolare densità di espressioni provenienti dal latino ecclesiastico, dove la ricerca di un tono altisonante e arcaico non basta a esaurirne le sfumature d’impiego, poste come possono essere tra l’irriverenza e una familiarità forse neanche priva di qualche punta di tenerezza. Nell’ultimo passaggio il sintagma genitivo intensivo di derivazione ecclesiastica (crepusculorum crepuscula) va comicamente insieme ai macaronici sera est e dilagant. Alla matrice ecclesiastica vanno ricondotti anche termini dell’italiano antico come certitudine.

Di linguaggio alto è costellato l’intero testo, si vedano ad esempio l’antico e letterario daddovero, ancora attestato in Gadda nei Viaggi della morte (GDLI; dal “rubalizio degli ori” del Pasticciaccio probabilmente anche rubaliziato), ma anche gramaglie, doglianza, colendissimo, lucore alternato al dialettale luzore, in un gioco ambiguo tra registro alto e basso. Un gioco più esibito tra le due opposte direzioni, nel senso di un pretenzioso da pollaio, lo si trova invece nella campionatura di suffissi affibbiati a sproposito (dettagliumi, pollaria, politicale, aiutazione e trattatamento, peraltro mescolati a vocaboli in -ude e -ade attestati nella lingua letteraria) da Polonio in questa battuta:

POLONIO: Dettagliumi, filius carissimus meus. Aressi dato sempre tratto anca io, nella mia gioventude e, in di poi, nella mia maturitade, a questi strani piegamenti della natura, a quest’ora qui, invece d’essere in qui, alla Corte, sarei in qualche pollaria o stalla o cassina o stabiello, come i più. Ma né io, né la tua sorella tua di te, né tu te oremai facciamo più parte di quelli; bensì dei pochi: ansi dei pochissimi, ovverosia degli eletti ed elettissimi.
Metti, donca, nell’intrapresa che sei dietro a intraprendere tutta la tua anema, tutta la tua galiardia e la tua politiacale sapiensa. Il patto, o convensione, o trattato di belligerante, balistica, missilistica e reciprocissima aiutazione che tu hai da stringere con quelli della Voltolina… Guardami, Laertus! Hai, vuol dire hai; come se dicessi che in te hai da avere di sotto di te tutto l’apparato di cui la tua mente t’ha dotato. Ecco: quel patto, o convensione, o trattatamento, che tu puoi no e in nissuna maniera non fare, sarà presso il re la prova provante, la reussita resuscitante che ti farà fare d’un sol colpo più e più baselli, ovverosia più e più stassioni di quel giù citato Calvario. Va’, donca. E non abbi melanconia verunissima; né per me, né per Lofelia, né per le tue terre e per i tuoi patrii liti… Presto tornerai; e arà da essere per te e per tutti un trionfo infinitissmo e trionfantissimo. In sul lago si pisseranno i fochi dell’artifizio como si pissano alla festa del Santo Joanne e le lodi saliranno da terra sù, sù in fino all’Altissimo e anca in di oltre.

Se la tensione all’abnorme passa anche attraverso i superlativi assoluti costantemente ribattuti lungo tutto il testo, la battuta di Polonio mostra in particolare aggettivi in replicazione amplificante o intensiva (eletti ed elettissimi, prova provante). In questa pomposità da pollaio replicazioni sono anche nel ridondante uso del complemento di specificazione e nell’accostamento incalzante di due o più sinonimi come nel caso di belligerante, balistica, missilistica (con sineddoche) in terna aggettivale, altra scelta ricorrente nella pièce – e già nell’amato Alfieri. Il già citato discorso sul trono di Gertrude trabocca di esempi: angelo annunziante e Gabriele; nostro di noi (uso tipico del dialetto per il possessivo, ben presente peraltro nella Moschetta); del Regno e del Regname; serventi, servi e ischiavi; di più e di meglio; scombussolato, lacerato e squartato dai piangimenti, dai deliqui dai treni, dalle lamentazioni e dagli straziamenti; ecc. Si veda in aggiunta la marcata insistenza sui participi presenti, anche ricavati da sostantivi e aggettivi con esiti alquanto anomali (in altri luoghi del testo dittanti – da ditta –, tacchinenta, stortolente e regalente) e strafalcioni vari per assonanza (reussita resuscitante).

Tornando agli inserti stranieri abbiamo detto delle numerose occorrenze del francese (non solo nelle battute di Orazio, ma sicuramente da mettersi in relazione anche alle dichiarate origini francesi di questo personaggio, interpretato in scena da Alain Toubas e nell’ultima redazione non a caso chiamato il Franzese), seguito solo a lunghissima distanza da inglese e spagnolo, e della resa grafica del lessico non italiano molto libera, spesso una sorta di compromesso fra quella corretta e una trascrizione del termine da parte di un orecchio italiano, tendente a far corrispondere grafema e fonema (giamè per jamais o aite parate per hit parade). Lazzerini (Lazzerini 1973) osserva che l’”italianizzazione dei vocaboli stranieri” (a titolo di esempio anche broderia e rienno dal francese o norse per l’inglese) colpisce “assai più per l’alta frequenza che per l’audacia delle soluzioni, vaccinati come siamo dalle entraglie, dai pappié e magari dal faivoclocco di Gadda, con l’ormai folto stuolo dei suoi epigoni”. In realtà non mancano interessanti esempi, strafalcioni nella bocca dei personaggi testoriani, come nel caso di suadisente, ibridismo a partire dal francese soidisant e dall’italiano sedicente (con soi trascritto ‘all’italiana’ e dicente reso con patina dialettale), ma, soprattutto, nei giochi di parole nel già citato ‘reussita resuscitante’ e in desillusioni nella battuta di Gertrude “Ne fet pa vu delle desillusioni”, dove, nella mancata distinzione del partitivo dal sostantivo nella pronuncia, la regina univerba e fa precedere desillusion da un ulteriore partitivo, restituendo un significato contrario rispetto a quello voluto (‘non si faccia delle disillusioni’ invece che ‘non si faccia delle illusioni’ – qui il riferimento a Queneau si fa puntuale).

La lingua nel passaggio tra le redazioni

Se l’elenco delle soluzioni adottate già a partire da questa prima redazione non si esaurisce qui (aggiungiamo ancora solo le storpiature delle voci verbali per analogia con le forme regolari – mettuto – o col presente indicativo – capiscerai), nel passaggio alla seconda fase redazionale e poi da questa al testo edito la lingua d’invenzione è soggetta a successive messe a punto con ulteriore intensificazione espressionistica delle quali cercheremo di dare ora testimonianza ponendo a confronto le evoluzioni delle tre fasi redazionali a partire da frammenti dello stralcio iniziale del primo atto già citato.

Allo scopo di non appesantire inutilmente questa descrizione, per ogni stesura sarà riportata l’ultima lezione (quindi della prima stesura dattiloscritta, Ad, daremo l’ultima lezione, dove, come detto, del dialetto rimane traccia solo in quanto ingrediente del pastiche). Per la seconda fase redazionale (B) faremo riferimento al dattiloscritto del primo atto (qui indicato con B-Id, si veda in appendice la ricostruzione dell’ordine cronologico degli scritti preparatori), mentre per la terza fase redazionale (C) si ricorrerà al testo edito.
 

A

B

C

Più iscuro! Quante volte ho da dirvelo? Più iscuro! Rosso sì; ma rosso com’è rosso el sangue dei porcelli quando ci spaccano la gola!
E là, in di basso, su quelle nigore, un po’ di viola…
Ha da esserci in dappertutto l’aria d’una cantina! Ha da esserci in dappertutto l’aria d’un buso, d’un inferna! (…)
Ecco, incosì! Più gonfiate quelle nigore; più gonfiate e inciostrate… E quel luzore là, in sulla fossa… Diminuire, diminuire. Siamo no al cine qui… No! In sulla crose, no! In sulla crose lassàtela income l’è! Ultimi resti, frattaglie ultime ed estreme della fede. (…)
Incipit Ambleti tragoedia. Incipit, qui, a Elsinore. Incipit a Elsinore o in n’importa che altro paese. L’autore mi ha assigurato che ogniduno di voi può pensare d’essere a Elsinore o, invece, in del paese che preferisce meglio e di più; mettiamo, a Camerlata; mettiano, in del Lomazzo; o anche, un po’ più in di giù; mettiamo a Caronno… Tanto l’è l’istesso: quando s’è ciavati sù in la cassa, cassa e ciavata è per tutti e in tutti i siti dell’universo mondo. (…)
Sera est; anzi, crepusculorum crepuscula dilagant. Per di qui e per di là ci sono in giro ammò dei tochellini di neve… Totus est negher; negher ‘me un buso…Il cielo rona… A me mi pare di vedere indappertutto trasù di ciocco e sangua; sangua in la tera; sangua in delle nigore; sangua in degli occhi…; sangua e marmelada o pissa che viene in di giù, ‘me la narìgia, come se fudesse che anche le nivore avessero le loro robe…
 

Più in dell’iscuro! Quante volte ho da dirvelo? Più in dell’iscuro! Rosso sì, rosso; ma com’è rossa la sanguaria dei porchi e dei porcelli quando ce spaccheno la gola!
E là, in del basso, su quelle nigore, un po’ de viola! Ha da esserci in dappertutto l’aria d’una cantina! Ha da esserci l’aria d’un crotto, d’un buso, d’un inferna! (…)
Ecco, incosì! Più gonfiate quelle nigore; più gonfiate e anca più inciostrate. E quel luzzore là, in sulla fossa… Deminuire, deminuire. Siamo no al zine qui… No! Zulla croze, no! Sulla croze lazzàtela income è! Ultimi resti, frattaglie ultime et estreme della fede. (…)
Incipit Ambleti tragedia. Incipit, qui, ad Elzinore. Incipit ad Elzinore o in n’importa che altro paese. L’autore m’ha ‘sigurato che ogniduno di voi pode penzare d’essere a Elzinore o, invece, in del paese che preferisce del più e del meglio; mettiamo, in della Camerlata; mettiano, in del Lomazzo; o anca, un po’ più in di basso, squasi alle porte della Mediolanenzis urbis! Tanto fa l’istezzo: quando si è chiavati indidentro della cassa, cassa e chiavata è e resta per totos e in totos i loca locorum dell’univerzo mondo. (…)
Sera est; anzi, crepusculorum crepuscula dilagant. Per di qui e per di là ci sono in giro ammò dei tochelli di neve. Totus est negher: negher ‘me un buso. Il cielo rona. A me me pare de vedere indappertutto trazzù de briaco e sangua; sangua in de la terra; sangua in delle nigore; sangua in delle occhiaie; sangua e marmelada o pissa che vien giù, ‘me la nariggia, come se fudesse che anche le nivore aressero le loro robe…
 

Più in dell’iscuro! Più in dell’iscuro! Rosso, sì. Ma rosso com’è rosso el sanguo dei zinghiali e dei porchi quando ce spaccheno in de su la gola!
Ha da esserci in dappertutto l’aria de un crotto! Ha da esserci l’aria d’un buso, d’un inferna!
Più ingravedate quelle nìgore! Più ingravedate e anca più inciostrate! No! Sulla crose, no! Sulla crose, lassatela income è! Ultimi resti, frattaglie ultime et estreme della fede. (Ambleto entra)
Inzipit Ambleti tragedia. Inzipit, qui, a Elzinore. Inzipit a Elzinore o in n’importa che àltero paese. Mettiamo in del regno de Camerlata. Mettiano in de quello de Lomazzo. O anca un po’ più in de giù, squasi alle porte della illustrissima e magnificentissima Mediolanensis urbiz! Tanto fa l’istesso. Quando si è chiavati indidentro della cassa, cassa è e chiavata resta per totos quantos e in totos quantos i loca locorum dell’univerzo mondo.
Sera est. Anzi, crepusculorum crepuscula dilagant. Dilagant in della porpora, in del vometo e in del vino. Per de qui e per de là ci sono in del giro ammò dei tochelli de neva e de brina. Totus est negher. Negher e rododendro e porpora e mortadella marcita. El cielo rona. E a me, me pare de vedere in dappertutto brindelli de carna e de sangua; carna e sangua in della terra; carna e sangua in delle nìgore; carna e sangua in delle foreste, in dei pollàri, in delle stalle; carna e sangua in delle cassìne e anca indidentro del lago; carna e sangua, marmelada, violame, confittura e macellaria che iscolano giù, ‘me fudesse che anca i muri, la cassìne, i làrezzi, i moròni e imperzìno le nìgore aressero le loro robe…
 

Di seguito una selezione di varianti seguite ciascuna da un commento in relazione alla definizione della lingua:

A: Più iscuro ] B e C: Più in dell’iscuro → in B e C patina dialettale (‘in + preposizione del’ tipica del dialetto) sul dato letterarieggiante.

A: rosso el sangue ] B: rossa la sanguaria ] C: rosso el sanguo → in B suffisso in -aria con effetto ruspante; in C sanguo per analogia col maschile in -o (comunque sotto anche il dialettale sangua).

A: dei porcelli ] B: dei porchi e dei porcelli ] C: dei zinghiali e dei porchi → in B replicazione intensiva con accostamento di sinonimi; in C zinghiali con ‘z’ al posto dell’affricata palatale per aumentare la marca dialettale.

A: quando ci spaccano la gola! ] B: ce spaccheno la gola ] C: ce spaccheno in de su la gola → B intensifica il dato dialettale, col ce (mancata chiusura di ‘e’ protonica) e spaccheno, che è il lessema dialettale con desinenza -o italianizzante; C anche, con aggiunta però di ‘su’ nel sintagma verbale, già visto, tipicamente settentrionale e con anomala frapposizione di ‘in de’ che qui amplifica l’effetto ruspante probabilmente in un senso arcaizzante.

A e B cantina ] C: crotto → in C crotto riconoscibile come regionalismo.

A e B: gonfiate ] C: ingravedate → in C metafora con lessico corporale.

A: inciostrate ] B e C: anca più inciostrate → in B e C aggiunta della congiunzione dialettale.

A: In sulla crose lassàtela income l’è ] B: Zulla croze lazzàtela income è ] C: Sulla crose, lassatela income è → in B soppressione di in e soppressione anche del pronome dialettizante in ‘l’è’, mentre ‘z’ molto insistita per affettazione → in C le stesse caratteristiche di B, ma non figura ‘z’ in luogo di ‘s’.

A e B: e ] C: et → in C congiunzione letterarieggiante.

A e B: Incipit Ambleti tragoedia ] C: Inzipit Ambleti tragedia → In C ‘z’ ancora in sostituzione dell’affricata palatale sorda, ma in un termine latino.

A: Elsinore ] B e C: Elzinore → in B e C sempre sovraestensione di ‘z’.

A e B: altro ] C: àltero → in C inserzione della ‘e’ che può indicare dialetto o latino italianizzati, per cui prevale l’effetto arcaicizzante.

A e B: in del Lomazzo ] C: in de quello de Lomazzo → in C aggiunta del dimostrativo a imitazione della locuzione ‘in quel di’, insieme arcaico, letterarieggiante e dialettale.

A: mettiamo a Caronno ] B: squasi alle porte della Mediolanenzis urbis ] C: squasi alle porte della illustrissima e magnificentissima Mediolanensis urbiz → squasi in B e poi in C (prostesi di ‘s’- di cui qualche occorrenza comunque già nella prima redazione -, dialettale, anche nel moscheto, non assimilabile al valore privativo che avrà più avanti in Sfaust ecc; peraltro nella registrazione della prima messa in scena figura ‘Slaerto’ ] C: Laerto ] A e B: Lerte); inserzione della ‘z’ nel latino in B in Madiolanenzis mentre in C in urbiz, oscillazione a testimonianza dell’arbitrarietà dell’operazione; in B sostituzione di Caronno con la perifrasi latina per indicare il capoluogo lombardo a cui si aggiungono in C aggettivi la cui pompa è amplificata dal suffisso del superlativo assoluto.

A: Tanto l’è l’istesso ] B: Tanto fa l’istezzo ] C: Tanto fa l’istesso → in B e C ancora soppressione del più dialettale ‘l’è’ a favore di ‘fa’, per equilibrare il ruspante con un dettato più compatibile anche con l’effetto altisonante; in B di nuovo sovraestensione di ‘z’ alla doppia ‘s’, sempre soluzione abnorme, per imitare la ricerca di affettazione nell’italiacano, poi arginata in C.

A: s’è ciavati sù in la cassa ] B e C: si è chiavati indidentro della cassa → in B e C sia il passaggio a ‘si è’ che a ‘indidentro’ – al posto del ‘su’ della dialettale soluzione con verbo sintagmatico –, ascrivibili sempre alla tendenza di ricalibrare la patina ruspante col tentativo di affettazione.

A: cassa e ciavata è ] B: cassa e chiavata è e resta ] C: cassa è e chiavata resta → in B insistenza sul concetto, mentre in C analoga insistenza all’interno di maggiore distensione.

A: per tutti e in tutti i siti dell’universo mondo ] B: per totos e in totos i loca locorum dell’univerzo mondo ] C: per totos quantos e in totos quantos i loca locorum dell’univerzo mondo → le inserzioni latine – compreso totos ibridato con lo spagnolo – in B sono confermate in C, ma ulteriormente insistite con quantos. Il tono altisonante è in entrambe le redazioni comicamente sbugiardato dallo spagnolo; in entrambe la comica sovraestensione di ‘z’ arcaicizzante e altisonante.

A e B: crepusculorum crepuscula dilagant ] C: crepusculorum crepuscula dilagant. Dilagant in della porpora, in del vometo e in del vino. → in C l’immagine evocata si dilata e anche si ispessisce per via della metafora col degradato (‘vometo’ in associazione a ‘vino’ con rimandi più meno diretti alla sfera digestiva, quindi corporale).

A: tochellini di neve ] B: tochelli di neve ] C: tochelli de neve e de brina → in C patina settentrionale ulteriore (de) e replicazione con quasi sinonimi.

A e B: negher ‘me un buso ] C: Negher e rododendro e porpora e mortadella marcita → ancora in C insistenza sull’intensità del colore e sul degradato.

A e B: Il cielo rona ] C: El cielo rona → in C l’articolo settentrionale.

A: A me mi pare di vedere indappertutto trasù di ciocco ] B: A me me pare de vedere indappertutto trazzù de briaco e sangua ] C: E a me, me pare de vedere in dappertutto brindelli de carna → in B e C me e de; in C ‘in dappertutto’, non univerbato, altra oscillazione (a testimonianza ancora del fatto che nell’invenzione di Testori ci sono tendenze ben definite e costruite, ma certo non norme che prevedano rigida applicazione); in B trazzù con la solita estens di ‘z’; in C però il vomito è sostituito da ‘brindelli de carna e sangua’, in senso ancora più corporale e truce.

A: in la tera ] B: in de la terra ] C: in della terra → dal più dialettale gradualmente in direzione del più affettato arcaicizzante/altisonante.

A: sangua e marmelada o pissa che viene in di giù, ‘me la narìgia, come se fudesse che anche le nivore avessero le loro robe ] B: sangua e marmelada o pissa che vien giù, ‘me la nariggia, come se fudesse che anche le nivore aressero le loro robe ] C: carna e sangua, marmelada, violame, confittura e macellaria che iscolano giù, ‘me fudesse che anca i muri, le cassìne, i làrezzi, i moròni e imperzìno le nìgore aressero le loro robe → a riprova della maggiore densità di aberrazioni nell’ultima redazione, qui C condensa moltissime delle soluzioni viste (termini dialettali integri o ibridati con l’italiano, tra cui icongiuntivi fudesse e aressero, suffissi storpianti -ame e -aria, ‘i’ prostetica, aferesi in ‘me, in làrezzi vocalismo settentrionale, ‘z’ in luogo dell’affricata palatale e, dopo ‘r', in luogo della sibilante – con una certa frequenza più avanti anche dopo ‘n’, come in inzomma, ecc.), ma anche moltiplica i sostantivi, che erano già ribattuti, fino a stendere elenchi, per insistere in particolare sul lessico visceral-truce e su quello rustico.

In sintesi nell’evoluzione della lingua dell’Ambleto la fisionomia, già riconoscibilmente abbozzata nella prima redazione, viene portata a compimento attraverso un progressivo crescendo di intensità e ricalibrazione dei diversi fattori caratterizzanti: il rinforzo della patina dialettale dove la redazione precedente sia meno marcata in quella direzione, la riduzione del dato dialettale dove non controbilanciato da quello altisonante, l’ulteriore iniezione di vocaboli stranieri e latini, la maggiore frequenza sia di sostantivi che si addossano gli uni sugli altri che di aggettivazione ribattuta – specie i superlativi assoluti –, l’aggiunta, dove poco accennato o mancante, di un lessico appartenente ai campi semantici nell’intersezione tra il corporale, il degradato e il truce, ma anche di quello legato a vita e ambiente rustici. Nell’invenzione che investe gli aspetti fonetici è in particolare l’uso sovraesteso della ‘z’, da leggersi secondo il solito tentativo di darsi un tono, a essere particolarmente caratterizzante nel passaggio tra le redazioni: nella seconda si assiste a un sistematico ricorso a ‘z’ in sostituzione dell’affricata palatale e della sibilante (anche nella forma molto marcata della doppia ‘z’ in sostituzione della geminazione di ‘s’, italiana o dialettale che sia), uso presente ma piuttosto ridimensionato in C, che lo mantiene “solo” in sostituzione dell’affricata palatale oppure dopo ‘r’ o ‘n’ (lo stesso prence passa a prenze). Nell’ultima redazione aumenta anche la tendenza a presentare sostantivi e aggettivi sgrammaticati per analogia con classi diverse (è il caso del maschile singolare in -e che passa a -o in sanguo o, più avanti in virilo), a imitazione dell’ipercorrettismo di chi non padroneggia ancora la lingua. Si tratta ovviamente sempre di un procedimento aperto, in cui i dispositivi, anche quelli più produttivi, non diventano esclusivi, nemmeno nella fisionomia più compiuta di C, per cui oscillazioni tra forme diverse per uno stesso vocabolo o una stessa costruzione sono sempre presenti, nella prima redazione come nel testo edito. In chiusura è bene mettere in rilievo anche un meccanismo meno evidente, poggiante sulla valenza arcaica dei termini dialettali – dato il carattere maggiormente conservativo dei dialetti, specie quelli di provincia (si pensi ai lombardi dunca e cont o alle forme ‘in + di’). Sempre nel contesto del gioco parodico e in relazione ai diversi elementi concorrenti, nel carattere arcaico delle scelte dialettali si condensa tendenzialmente una strana convivenza di rozzezza e apparente letterarietà, la quale va a incidere nel tentativo di affettazione più sotteraneamente rispetto a quanto facciano in modo esibito le storpiature grammaticali dell’italiacano e delle inserzioni latine e straniere. Ed è proprio il mantenimento di una decifrabilità ambigua, delle diverse sfumature, l’aspetto generale che probabilmente si affina, nell’evolversi dell’invenzione linguistica testoriana, fino ad arrivare al bilanciamento definitivo dell’invenzione destabilizzante.

Didascalie ed ecfrasi nell’Ambleto

Così viene detta la prostrazione del prence in una didascalia della prima redazione:

(mostrandosi al pubblico, come un “Ecce homo” di paese, ferito e sconciato)

L’ecfrasi, qui, descrive un’immagine pittorica che ovviamente non comparirà nella rappresentazione, in quanto richiamata solo come similitudine all’interno di un’ecfrasi ulteriore, la didascalia teatrale, che per suo tramite invoca un’immaginazione extrascenica per veicolare un contenuto semantico a complemento di quello delle battute (l’ecce homo “di paese”, “ferito e sconciato”, è termine di paragone per assimilare la tragica fragilità del principe a un sacrificio che è esemplare anche per l’umiltà della figura che lo assume in sé), anche se gli aspetti connotativi, riversati dall’immagine pittorica al personaggio, in quanto tali, non saranno restituibili dall’attore sulla scena. Questa didascalia, come tutte le altre segnate da procedimenti letterarizzanti presenti nella prima redazione, non sopravviverà fino alla pubblicazione, perché, nelle ‘parentesi’ tra le battute del testo edito, l’autore inserirà solo sintetiche indicazioni di carattere prescrittivo.

De Min (De Min 2018), a partire dal concetto generale di ecfrasi come “forma del discorso che compone e scompone immagini, immettendole nella dimensione temporale del linguaggio”, individua, tra le possibili direzioni secondo cui si dispiega il rapporto tra scena ed ecfrasi, in primo luogo “le prefigurazionni della scena teatrale rese in forma ecfrastica, per come esse vengono assunte dalle didascalie teatrali: la scena viene scomposta e ripercorsa nei suoi elementi di dettaglio, preventivando in forma scritta una forma che diventa spettacolare solo in un secondo momento” (142). La seconda dimensione indagata, relativa ai “discorsi ecfrastici in scena”, fa ugualmente al caso nostro, per cui ne diremo in seguito. Per ora ci soffermiano sulla prima – l’ecfrasi nelle didascalie – dove il dato da sottolineare è l’insinuarsi, tra le pieghe delle descrizioni oggettive di ambienti e personaggi, di allusioni “a spazi altri” dettati dall’immaginazione dell’autore – a sua volta implicante quella del lettore –, che fanno delle didascalie “uno spazio testuale di espressione autoriale”. È il caso appunto della didascalia che ricorre alla descrizione dell’immagine dell’ecce homo, come anche di buona parte delle didascalie nelle prime due redazioni dell’Ambleto.

Didascalie che esulano da una funzione prescrittiva certo non stupiscono, specie nella drammaturgia novecentesca in cui la componente diegetica che si allarga al loro interno, più o meno estesamente, tende di frequente a farsi commento. Alla costante crescita dell’elemento letterario entro i confini didascalici, si affianca del resto un’espansione dell’intromissione diegetica nella mimesi delle battute. Per questa seconda direzione, è il caso, nello stesso Ambleto, degli sconfinamenti tra i livelli del racconto (con riferimento alla metalessi nell’analisi genettiana) che consentono ad esempio al personaggio di Lofelia di affermare che l’autore le ha concesso di mettere da parte per un attimo la sua pazzia o, restando ancora nella drammaturgia testoriana, è il caso dei procedimenti stranianti di matrice brechtiana nei Promessi Sposi alla prova (la trasposizione alla terza persona, la trasposizione al tempo passato e il pronunciare didascalie e commenti ad alta voce – a dispetto peraltro delle dichiarate prese di distanza di Testori dal drammaturgo tedesco). Tornando invece alla prima direzione, che è quella che qui interessa, e cioè all’intrusione delle istanze narrative nelle didascalie, Thierry Gallèpe (Gallèpe 1997), a proposito di contenuti didascalici inscenificabili, sottolinea come la loro presenza concorra a offuscare i confini fra generi letterari, facendo del testo teatrale, che viene a perdere la propria peculiarità di testo concepito per un pubblico di spettatori, un qualcosa di non necessariamente opponibile al testo narrativo rivolto specificatamente a un pubblico di lettori.

Nel caso dell’avantesto dell’Ambleto la considerazione delle varianti relative alle didascalie è dettata però da una duplice ragione: alla marcata intrusione diegetica, propria della didascalie della prima fase redazionale, si aggiunge infatti, nella seconda fase redazionale, la presenza del pastiche a forte impronta dialettale, caratteristica d’eccezione, probabilmente un unicum nella letteratura teatrale italiana. La lingua delle battute si estende quindi anche alle didascalie, per cui la didascalia appena citata assume la seguente fisionomia in B:

(mostrando se medesmo ai paganti, quasi fudesse “ecce homo” de paese, tutto ferido, fustigado e sconzato)

Occorre precisare che per il primo atto il confronto tra A e B è possibile perché le didascalie in B sono la ‘traduzione’ di quelle di A, mentre per il secondo atto, rifatto ex novo nella seconda fase redazionale, tale confronto non è possibile.

Se nella prima didascalia del primo atto (A: Qualche resto di croce, una fossa aperta con, a lato, i cumuli di terra bagnata, sotto un cielo che va, via, via, diventando di tramonto tempestoso, livido e funesto ] B: Un qualche luredo e smangiato resto de croze, una fossa ‘verta, cont in del lato, povere montagnette de terra inumedita, indisotto de un cielo che va dietro a deventare de tramonto lividissimo, tempestoso e funesto) a corredare la prescrizione registica figura l’aggettivo funesto in cui è implicito un commento dell’autore non rappresentabile e la cui percezione di fatto sarà possibile al solo lettore del testo, nella didascalia successiva lo sguardo dell’autore si restringe alla prospettiva di un personaggio, arrivando a mostrarci anche ciò che sta dentro la sua mente:

A: Ambleto continua a guardare, mentre da fuori principia a venire il rullio soffocato di alcuni tamburi e l’eco d’un coro funerario. // Quand’è convinto che la scena corrisponde veramente a quel che deve essere, si porta al proscenio, guarda a lungo il pubblico e incomincia ad affondare e insieme ad erigersi nella sua tragica, orribile parte. ) B: Ambleto continova a vardare la scena, mentre che da fuora principia a vegnire el rullio soffegado dei tamburi e l’eco de un coro de esequie e de funeralia. // Quando s’è convenzuto che la scena corrisponde indelvero a quella medesma che ha da essere, se porta al prozzenio, varda a longo i paganti e principia a sfazzarsi e insieme a fabbricarzi in della sua tragichissima et orribile parte.

Considerando per un momento solamente A, il restringimento dello sguardo in questa didascalia allo spazio, anche mentale, dello scarozzante (con le consuete tinte forti, nel passo intraducibile sulla scena ‘incomincia ad affondare e insieme ad erigersi nella sua tragica, orribile parte’, qui date anche dai verbi, che sono per di più in accostamento ossimorico – da notare come la traduzione in pastiche, comporti anche uno spostamento semantico dovuto a una scelta lessicale, su cui ritorneremo, legata al campo semantico meno ‘nobilitante’ dei mestieri), non implica che la prospettiva dell’autore arrivi a coincidere con quella del suo personaggio, perché, sempre con riferimento a Genette, chi osserva e commenta è il narratore onnisciente, in grado di entrare nella testa dei suoi personaggi – focalizzazione di grado zero. Se guardiamo invece la stessa didascalia in B, come si concilia l’estensione del pastiche, proprio dei dialoghi tra i personaggi, con il fatto che lo sguardo rimane quello dell’autore? La questione va naturalmente estesa anche alle altre didascalie di B – comprese quelle solamente prescrittive – tutte caratterizzate da deformazione pluriliguistica espressionistica. Nella seguente didascalia di A – e nella corrispondente di B –, sono tre le similitudini, con contenuti connotativi inscenificabili a corredo, per dire il ripetersi ossessivo di un discorso che ha luogo nello spazio esclusivamente mentale del personaggio Claudio:

A: Preceduto da uno squillo di tromba flebile e scombinato, entra Claudio. Come uno scolaro che ripeta la propria lezione, un chierico fissato su di una onanistica giaculatoria e, insieme, un automa che continui a confermare a se stesso la sua unica verità e ossessione, attraversa la scena per porsi poi al fianco di Gertrude. B: Prezzeduto da uno squillare de trombe assaissimo flebile e scombenato, entra Claudio. Come un ‘scolaro* che repeta la sua propria lezzione, un chierego fissato in una onanistica, iaculatoria e, indisieme, ‘me un automa che continovi a confiteare a se medesmo la sua unichissima veritde et ‘sessione, traversa la sena per porsi in di poi su del fianco de Gertrude.* (A: scolaro ] b: iscolaro ] B: ‘scolaro), dove b = prima lezione in B-Id

Torniamo alla domanda posta poco sopra: come può essere interpretata la fuoriuscita della lingua d’invenzione dalle zone convenzionalmente mimetiche del testo? Per spiegare perché nella didascalia, pur sotto il dominio dello sguardo autoriale, irrompa l’espressionismo occorre dichiarare l’emancipazione del pastiche dalla relazione biunivoca con la lingua dei personaggi in cui lo abbiamo finora considerato, operazione che acquista un senso sempre in relazione alle parole del Ventre del teatro, da cui si deriva a corollario come la lingua vada a perdere ogni funzione connotante in seno a una caratterizzazione psicologica del personaggio e, soprattutto, venga ad assumere una consistenza comunicativa che si spinge ben oltre lo scambio tra i personaggi nella finzione scenica, quale entità autonoma in rapporto diretto con lo spettatore – e dimensione che rende possibile la qualità tridimensionale, “carnale” della parola. Meglio intendere dunque il pastiche testoriano quale lingua di una voce genericamente scarozzante che può estendersi identica a tutti i personaggi, all’interno delle battute, cioè dello spazio deputato al loro sguardo e alla loro voce, ma che può prendere contemporaneamente corpo nello stesso drammaturgo, all’interno delle didascalie, deputate appunto allo sguardo e alla presa di parola autoriali. Voce scarozzante da intendersi, allargando lo sguardo, come il particolare concretizzarsi, nell’Ambleto, di quella voce ur- e iper- monologante di cui abbiamo detto e diciamo qui ancora in abbozzo, che si muove trasversale tra le opere testoriane segnate da una deformazione linguistica di tipo espressionistico; voce ab-soluta (sempre con riferimento alla definizione di Testa per il personaggio dell’eroe) per la prima volta scatenata dal fagocitamento della voce di Parenti e, ancora con un’invenzione linguistica che si allarga alla voce dello “scrivano”, riattivata e rigenerata con esiti originalissimi – facendosi vero e proprio codice apocalittico – per “In exitu” a partire dall’impossessamento della voce franta del giovane tossicodipendente che lo stesso autore aveva conosciuto e tentato di aiutare. L’estensione del pastiche alle didascalie assume però un valore ulteriore in quanto autoriferita, come vedremo nelle prossime righe, con riferimento all’attività produttiva – quella presente in relazione con quella passata –, del suo autore.

La seconda dimensione individuata da De Min nel rapporto tra teatro ed ecfrasi è data dai “discorsi ecfrastici in scena, ossia quei discorsi riconducibili a voci che contengono visioni o quelle forme spettacolari che, unendo parole e gesti, indirizzano l’immaginazione dello spettatore nella composizione di immagini mentali”; un’ecfrasi dunque “performata”, di cui l’Ambleto offre, come vedremo, esempi che ancora acquistano importanza in relazione all’impiego espressionistico della lingua. Per poter comprendere il caso specifico, vanno fatte alcune considerazioni preliminari legate al rilievo che in Italia ha avuto la scrittura saggistica. Mengaldo (Mengaldo 2017) ricorda al riguardo i due casi emblematici di Croce – con la sua prosa “magistrale anche se tutto sommato ancora ottocentesca” che “reagisce” all’egemonia della prosa d’arte “proprio in quanto è ancora ottocentesca” – e Longhi – la cui scrittura, che “apparve subito miracolo e scandalo”, è invece “implicata con la prosa poetica anche francese e dannunziana”. E ancora Mengaldo osserva l’influenza profonda dello stile di Longhi (“che nel tempo svilupperà sempre più le sue potenzialità narrative”) nei “confratelli (…) come Cecchi” ma anche “nella prosa di narratori venuti dopo di lui, direttamente legati al suo insegnamento oppure no”, tra i quali Gadda (in un rapporto “di dare e avere”), Arbasino, Pasolini e lo stesso Testori, per cui “non è un caso che, a partire da Contini, in Italia si studi sempre più, come non avviene in nessun altro paese, lo stile dei critici e saggisti e filosofi, alla stessa stregua di quanto si fa coi poeti e i narratori, anche nel presupposto che questo tipo di accostamento può fornirci notizie interessanti sul loro pensiero” (62). Vescovo in uno studio (Vescovo 2021) rilevante anche per la stessa definizione di ‘espressionismo’ in relazione a “una “funzione del discorso rappresentativo” posta dentro a una funzione di “discorso referente””, a partire dalla ricostruzione della categoria negli scritti continiani compiuta da D’Onghia (D’Onghia 2020b), riprende la categoria dell’ecfrasi ‘performata’ di De Min precisandola, in rapporto alla scrittura nella critica d’arte, come “non la descrizione di un’opera d’arte immaginata e per cui, appunto, la parola gareggia con l’immagine che evoca, nel senso della tradizione dell’ut poeta pictor, ma in cui lo stesso “atto critico” si pone sostanzialmente a partire da un’operazione di ricreazione dell’immagine – qui un’immagine reale, oggetto di analisi e commento – nel sistema della parola”. La distinzione serve a Vescovo per inquadrare il richiamo, in uno scritto continiano dal titolo Rinnovamento novecentesco del linguaggio letterario (Contini 1976), a un passo del Longhi quale esempio di rinnovamento del linguaggio poetico:

un passo di un Longhi che in un saggio del 1927 riprendeva le punte di “prosa d’arte” di sé stesso giovane, del 1914. Si tratta della descrizione della Vittoria di Costantino su Massenzio di Piero della Francesca (anzi, in dizione scelta e snobistica, di Piero dei Franceschi). Tra l’altro la ripresa risulta virgolettata non solo in quanto citazione, ma come una sorta di battuta pronunciata, appunto, da una voce implicata nel “discorso referente” (la voce del critico che si riprende come se si trattasse di parole di un personaggio o che sembrano provenire dallo stesso dipinto come “imperativo” che guidò la sua realizzazione). L’uso dell’imperativo, che tramuta la descrizione di ciò che si vede nel dipinto in dettato di “creazione”, si potrebbe dire sostituisce il “performativo” del presente indicativo (nel senso degli speech acts dei linguisti) coll’assertivo, ovvero la modalità dell’enunciato che “descrive uno stato di cose esterno” (oggettivo e compiuto, come nel perfetto o “preterito epico”, o in divenire e in movimento, come nel presente) con un “comando”:

E, o voi, incorruttibili sfere di candido feltro, bilicatevi sul peltro degli elmi fino a che, nella luce abbacinata, ne diveniate sul petto cerulo del cielo, medaglie – di valore cromatico! (Contini, 1988, 113).

Ciò che un lettore appassionato di Longhi – compresi i grandi critici che hanno analizzato la sua “prosa” – trova elemento caratterizzante i suoi saggi maggiori (dove appunto la “traduzione” in “prosa d’arte” si suppone mezzo per la comprensione profonda dell’oggetto dell’analisi, in quanto “ricreato” in forma verbale), appare qui in una forma estrema (nel senso anche di eccessiva e ai limiti dell’autoparodia involontaria).

Con una presa di distanza dalla collocazione di Testori tra gli eredi di Gadda (in relazione anche alla concentrazione espressiva e di violenza – stilistica – nelle opere che seguono la produzione giovanile), Vescovo sottolinea per i testi drammaturgici degli anni Settanta semmai la necessità di ricorrere a una ‘funzione Longhi’, richiamando nello specifico proprio le prime righe dell’Ambleto (in cui lo scarozzante che impersona Ambleto, dal di fuori della scena, si rivolge a immaginari pittori di scena con comandi – da notare appunto l’uso dell’imperativo – per l’esecuzione di uno sfondo che non comparirà sulla scena), a testimonianza di “un reinvestimento, diciamo “creativo”, da parte del Testori maturo della prosa del precedente Testori critico d’arte (quello del “Gran teatro montano”) e soprattutto del suo maestro”.

L’espressionismo linguistico entra in campo in questo passo dell’Ambleto nella duplice dimensione del discorso rappresentativo e della mescidazione linguistica a forte marca dialettale, due dei fattori considerati da Contini nella sua definizione di espressionismo. Trattandosi di testo teatrale quel ‘rappresentativo’ è da intendersi proprio nel significato di ‘legato alla rappresentazione scenica’ ed è in particolare il contesto metateatrale a consentire di dare un senso all’atto creativo di generazione di un’immagine nelle parole del capocomico-Ambleto. La funzione parodica che finora abbiamo associato all’espressionismo linguistico nella pièce, assume allora, come detto, un ulteriore ‘bersaglio’, la prosa del Testori critico d’arte e indirettamente quella del suo maestro, investendo peraltro, osserva acora Vescovo, proprio quei meccanismi mutuati dalla prosa d’arte individuati da Contini come fattori di rinnovamento del linguaggio letterario.

Alla luce di quanto detto sopra, possiamo osservare come, nelle didascalie della seconda redazione dell’Ambleto, l’estensione delle soluzioni espressionistiche alla voce dell’autore venga ad acquistare probabilmente una valenza anche in chiave autoriferita, nel rapporto tra la qualità formale della scrittura passata e l’impossibilità di un suo reimpiego nella riproposizione della vicenda amletica a quell’altezza temporale, se non deformato – in direzione del tragicomico – anche in funzione autoparodica. Nella didscalia sopra citata nel passaggio:

A: incomincia ad affondare e insieme ad erigersi nella sua tragica, orribile parte ] B: principia a sfazzarsi e insieme a fabbricarzi in della sua tragichissima et orribile parte

la traduzione da “affondare” e “erigersi” a, rispettivamente, “sfazzarsi” e “fabbricarzi” – peraltro in accostamento dissonante a quel “tragichissima”, a maggior ragione significativo per quel che stiamo dicendo – comporta un abbassamento di tono in cui la parodia dell’autore sulla sua scrittura pre-scarozzante risulta evidentissima. Peja nel saggio già citato (Peja 2019) pone in relazione lo stesso abbandono del progetto dell’Elettra, alla quale Testori lavora presumibilmente nel 1970, con l’incontro fra Testori e Parenti e il rinnovamento che ne consegue a livello di sperimentazione linguistica e, attraverso questa, delle stesse modalità di riproposizione dei miti tragici. Possiamo però, a questo punto, spingerci oltre, con riferimento a Testori, prendendo in considerazione la sceneggiatura cinematografica dell’Amleto – e le coordinate temporali diventano significative anche in relazione alla sovrapposizione con la composizione dell’Elettra in fase immediatamente precedente a quella ‘scarozzante’. Abbiamo già detto come la pièce mutui immagini e dialoghi dalla sceneggiatura. Si veda ad esempio la descrizione del cielo al tramonto fatta dallo scarozzante-Ambleto:
 

Sceneggiatura

Pièce(Ad)

Le nuvolaglie rosso sangue, gialle, ocra, arancione, in qualche punto d’un colore che dà verso i brividi d’oro, s’incontrano, si scontrano, si fondono, s’abbracciano, si gonfiano come muscoli d’un solo corpo che stia agonizzando sul letto blu e nero, inzuppato di tempesta, del restante cielo.

Totus est negher; negher ‘me un buso…Il cielo rona… A me mi pare di vedere indappertutto trasù di ciocco e sangua; sangua in la tera; sangua in delle nigore; sangua in degli occhi…; sangua e marmelada o pissa che viene in di giù, ‘me la narìgia, come se fudesse che anche le nivore avessero le loro robe…

Se consideriamo alcuni passaggi della sceneggiatura come didascalie da tramutarsi in immagini scenografiche nella pièce, immagini dipinte verbalmente come fossero attinte dalla mente dello scarozzante-Ambleto, possiamo vedere come l’espressionismo linguistico attraverso cui Ambleto le restituisce ai “paganti”, mentre si fa principale strumento di un rinnovato modo di proporre il mito, contemporaneamente reagisce anche alla qualità formale della prosa della sceneggiatura. A suggerire questa lettura in termini di parodia autoriferita, anche il fatto che, nella prima redazione, Testori stesso alluda a una qualche forma di identificazione, da restituirsi in scena, tra l’autore della tragedia che stanno mettendo in scena gli scarozzanti e il ‘suo’ personaggio: 

L’autore arebbe voluto che mi tirassi via anche questa specie d’erba seccata che m’è restata impastata in sulla testa, perché, dice, che in un interminato e inedito romanso fa esplicito riferimento ad un Amleto calvo, calvo come il teschio che il prence, temporibus illis, amava tenersi in tra le mani; e per simpatia, diso io, col suo vivente, ma levigatissimo cranio.

Per concludere, l’ecfrasi performata entra in campo in un passo notevole del primo atto per rendere visibile la regressione di Ambleto da feto, nell’utero della madre, a spermatozoo risucchiato nello scroto paterno, condizione che rende possibile l’incontro con lo spettro del padre, ma che è soprattutto metafora per dire della nascita come ferita insanabile e maledizione, in una dimensione esistenziale che travalica ovviamente l’esperienza del principe. La regressione viene raffigurata solo attraverso il racconto di Ambleto che la subisce su di sé proprio mentre la narra. Il tempo dei verbi è quello del presente, ma è necessario anche il ricorso alle interrogative per rendere, attraverso l’incognita che tenta di anticipare quel sta per succedere, il senso di un’azione che si sta subendo. Il susseguirsi delle sequenze è scandito anche attraverso la descrizione di dettagli visivi degli organi riproduttivi dei genitori, nei quali il principe viene risucchiato (l’immaginazione del principe li restituisce quindi come se fossero visti dall’interno). Nella tabella che segue se ne riporta un frammento per ognuna delle tre redazioni:

A-Id

B-Id

C

AMBLETO: È come ‘na grotta, ‘na cassa de carna, ‘na chiaveca di ventraia… fa caldo, caldissimo, che squasi fadigo a respirare… Fadigo a respirare o respiro no del tutto? Orescio, indove sei? È te che tocco o è il brasso della signora mia madre che mi tocca in del suo ventre?
(urlando)
Porca! Porca! Tremila volte, porca! Ingravidàrti di io me!
(una pausa)
Vado indidietro, Orescio; indidietro e indidentro… Fra un momentino non farò neanca più “uè, uè”… La vose mi si ferma in della gola… poi mi si ferma qui, in del grembo benedetto…
(Ambleto, come se fosse preso da una improvvisa paura infantile, si segna due o tre volte)
Santa Maria della noce, Santa Maria dello scurolo, Santa Maria del Tremezzo…
(urlando)
Santa Maria, cosa? Che Santa e bisanta Maria? È domà lei, lei, la puttana, la porca!
(una pausa)
Slungo la manina e inditorno sento tutta sta membranatura, come se fudessi un legorino che è dietro a far fatica per venire in la luce… Oh che fadiga che fasso… E se il legorino stesse indidentro? Se il legorino stesse indidentro e diresse a quelli che lo specciano fuora, al genitore padre e al genitore Dio eterno e potentissimo: “cipperimerlo, me voialtri mi vedarete col casso” Se stesse qui, bello al caldo e fatto su ‘me in una conigliera… Se stesse qui e bugiasse solo quando bugia la real signoria della real madre?
Che caloria, Orescio! Sarà mica ‘na sauna, ‘sta ventraia… Sarà mica che sono capitato in delle grotte del Bormio, sù, in la Voltolina…
 

AMBLETO: È come un crotto, ‘na cassa de carna, ‘na chiavega de scolamento e de ventraia... Fa caldo, incozì caldissimo, che squazi fadigo a respirare. Fadigo a respirare o respiro no del tutto? Orescio? Indove zei, Orescio? Zei te che tocco o è il brazzo della zignora mia madre che mi tocca indidentro del zuo ventre?
(vozando)
Porca! Porca! Tremila vorte, porca! Ingravedàrti di io!
(un relazzo)
Vado indidietro, Orescio; indidietro e indidentro... De qui a un momentino non farò neanca più “uè, uè”… La voze me se ferma in della gora... ‘desso me se ferma qui, in del grembo benedetto…
(Ambleto, come se fudesse ‘ferrato da una improvvisissima pagura, se zegna due o tre volte)
Zanta Maria della noze, Zanta Maria dello zcurolo, Zanta Maria del Tremezzo…
(vozando)
Zanta Maria, coza? Non ezziste nizzuna Zanta Maria! È domà lei, lei, la puttana, la chiavega, la porca!
(un relazzzo)
Slungo la manina e inditorno zento tutta ‘sta membranatura, come ze fudezzi un legorino che è indidietro a far fatiga per venire in la luce… Oh, che fadiga che zono indietro a fare… E ze il legorino stezze indidentro? Se stezze indidentro e direzze a quelli che lo specciano fuora, al genitore padre e al genitore Dio eterno e potentizzimo: “zipperimerlo, me voialtri mi vedarete col cazzo”? Se stezze qui, bello al caldo e fatto zu ‘me in una conigliera? Se stezze qui e bugiazze inzolo quando bugia la real zignoria della real matre? Che caloria, Orescio! Zarà mica ‘na zàuna, ‘sta ventraia… Zarà mica che zono capitado in delle grotte zù del Bormio, zù, in la Voltolina…
 

È come se fudessi in un crotto, in una cassa de carna, in una chiavega de iscolamenti e de verminamenti. Fa caldo. Incosì caldo che squasi fadigo a respirare. Fadigo a respirare o respiro no in del tutto? Indove sono, anema?
Sei ammò te che tocco o è il brazzo della signora mia madre che me tocca in del suo ventro?
Porca! Tremila volte, porca! Ingravedarti de io! Ingravedarti de io! 
Vado indidietro, franzese. Indidietro e indidentro. De qui a un momentino non farò neanca più: "uè, uè." La vose me se ferma in della gola. 'Desso me se ferma qui in del grembo benedetto... Santa Maria della nose! Santa Maria dello scurolo! Santa Maria del Tremezzo!
No! Non existe nessunissima Santa Maria! È domà lei, la puttana, la chiavega, la porca!
Slungo la manina e indetorno sento tutta 'sta membranatura, come se fudessi indidietro a far fadiga per vegnire in la luce...
Oh, che fadiga che sono indidietro a fare! E se il legorino stesse indidentro? Se stesse indidentro e diresse a quelli che lo specciano fuora, al genitore padre e al genitore Dio eterno e potentissimo: "Zipperimerlo, me voialtri me vedarete col cazzo?" Se stesse qui, al caldo fatto sù, 'me 'na conigliera? Se stesse qui e bugiasse solo quando bugia la real signoria della real madre? Che caloria! Sarà mica 'na sauna, 'sta ventraia? Sarà mica che sono capitato in delle crotte del Bormio, sù, in la Voltolina? Indove sei 'desso, anema? Indove? 
 

Rispetto alle prime due redazioni nel testo edito la redistribuzione della fabula in una differente struttura scenica, comporta smembramenti ma anche fusioni, delle quali la più significativa è probabilmente quella tra la sesta e la settima scena in A e B, che vanno a costituire, con un cambio di ambientazione, la quinta, e ultima, in C. Ciò comporta che la regressione di Ambleto e il dialogo col padre avvengano in cortile, con soppressione dell’ambientazione nella stanza del francese e nella latrina. L’accostamento tra scroto e latrina in A e B mette sullo stesso piano nascita e defecazione (si pensi al riguardo anche alla ‘nascita’ della strega mediante il parto anale di Macbet nel Macbetto) con amplificazione nel fatto che lo stesso spettro nelle prime due redazioni non è presenza incorporea, sola voce, come in C, ma corpo visibile e per giunta in putrefazione, “povero resto di defecazione e di morte” contro cui Ambleto può scagliarsi fisicamente (l’incontro col padre, “involucro rannicchiato su di sé, gonfio e pulsante”, nel gabinetto è presente già nella sceneggiatura filmica). In C invece la regressione del principe e l’incontro col re defunto avvengono in una dimensione puramente allucinatoria, mentre nella messa in scena dello spettacolo al Pierlombardo, sotto la supervisione dello stesso autore, il Franzese esce di scena e la voce del fantasma sparisce, lasciando definitivamente il campo ad Ambleto e al suo racconto. Nel passaggio tra le redazioni lo strazio assume un’intensità crescente nella misura in cui racconto e portato metaforico vengono, via via, sempre più affidati alla capacità creante della parola del prenze, con conseguente – e drammatica – rarefazione dello spazio scenico.

Mentre completavo la redazione di questo contributo, ho avuto modo di ascoltare il recentissimo intervento di Giovan Battista Boccardo, Note sulla lingua di Testori critico d’arte. Dall’esordio su “Paragone” – 1952 – alla mostra del “Seicento lombardo” – 1973, al convegno di studi “Per Giovanni Testori. Nuove letture” (Udine, 20-21 novembre 2023), che riprendo qui per i diversi incroci coi discorsi appena fatti, benché abbia per oggetto la scrittura saggistica di Testori. L’influenza della prosa di Longhi su quella del Testori critico d’arte informa l’analisi dello studioso, che chiama in causa caratteristiche linguistico-formali per evidenziare, nei testi di entrambi, la scarsa tenuta di un discrimine fra opera saggistica e letteraria, con messa in rilievo per i saggi testoriani – per limitarci alla categoria dell’espressionismo che qui interessa – sia delle inserzioni dialettali che di quelle stesse caratteristiche che hanno a che fare con la restituzione dell’immagine attraverso la parola (la prevalenza di una sintassi di tipo nominale o verbale), che poi sono le stesse chiamate in causa da Contini nella distinzione categoriale tra impressionismo ed espressionismo.

Osserva Boccardo, a proposito del saggio introduttivo di Testori alla mostra di Tanzio del ’59, come nell’episodio immaginato dell’incontro tra l’artista bambino e San Carlo (riscritto in versi nei Trionfi nel ’65) ai protagonisti si associno i verbi di modo finito, mentre i comprimari siano appena “lumeggiati” sullo sfondo attraverso una sintassi nominale. Ma, a proposito di queste scelte, Boccardo rileva la non congruenza con le dichiarazioni conclusive dello stesso autore, secondo il quale il dato innovativo introdotto da Tanzio è l’aver conferito una certa plasticità anche ai personaggi posti sullo sfondo – un invito allora si potrebbe cogliere, tra le righe, alla cautela nell’istituire legami, nei saggi di critica d’arte, tra scelte stilistiche della prosa e comprensione dell’opera d’arte? 

Significativo peraltro come lo stesso autore, negli anni a venire, per la sua raccolta (Testori 1989) di componimenti concepiti come commenti alle opere di diversi artisti che hanno raffigurato Maria Maddalena, al titolo, Maddalena, aggiunga il sottotilo Didascalie in versi, a sottolineare quindi l’idea stessa di scrittura letteraria che prende vita come atto ricreativo di un’immagine artistica, in questo caso compiuto attraverso una parola detta in versi (forse anche sulla scelta della versificazione ci sarebbe da riflettere in merito appunto alle aperture – o ai limiti – della scrittura che mutua procedimenti letterari in ambito saggistico di contro alle possibilità che si aprono invece proprio in ambito letterario attraverso il confronto fra scrittore e immagine artistica).


 

Appendice*

Per una ricostruzione dell’ordine cronologico dell’avantesto

Pagina dalla prima stesura dattiloscritta. Archivio Giovanni Testori – Regione Lombardia.

Pagina della terza fase redazionale: sotto ai segni di cancellatura si vedono le didascalie in pastiche caratterizzanti la precedente fase redazionale. Archivio Giovanni Testori – Regione Lombardia.

Paola Gallerani segnala tra gli inediti di Testori la presenza di “elenchi e progetti per opere e testi, utili a orientare lui stesso nella selva delle proprie attività” (Gallerani 2007) e a corredo pubblica anche alcune foto, tra cui quella di una pagina dal quaderno autografo di Interrogatorio a Maria, con data 25 dicembre 1978, che contiene una schematica “proposta” in cui l’autore organizza le proprie opere per categorie (narrativa, teatro e poesia) e, per quel che qui interessa, sotto alla voce relativa alla Trilogia degli scarozzanti annota: “+ varianti e aggiunte per l’Ambleto” (108) manifestando quindi l’intenzione di un recupero di queste ultime. L’interesse variantistico degli inediti ascrivibili all’avantesto, del resto riscontrabile a un primo rapido esame, data una divaricazione rilevante tra le prime versioni e il testo pubblicato nel novembre del 1972 (nei termini a cui si è preliminarmente accennato in fase introduttiva), ha suggerito l’opportunità di restituire una descrizione di tipo diacronico-redazionale, con particolare riferimento a quelle che si sono identificate come le due prime fasi redazionali. Un consistente nucleo di quaderni manoscritti e di fogli in larga parte dattiloscritti, essenziali nel delineare il percorso evolutivo del nostro testo, è confluito nell’archivio Giovanni Testori, presso Casa Testori, grazie a una recente acquisizione da parte dell’Associazione omonima, andandosi ad aggiungere al materiale del fondo Giovanni Testori in Fondazione Mondadori, acquisito nel 2001 dalla Regione Lombardia, che per l’Ambleto raccoglie diversi fogli, per lo più dattiloscritti. Al lavoro di ricostruzione della traiettoria dell’avantesto resosi così possibile, è sotteso quello, cui è dedicata questa sezione, di preliminare riordino cronologico delle stesure, lavoro che, per ragioni di perimetrazione del discorso, non può che essere qui rendicontato se non per gli elementi funzionali a restituire le articolazioni interne alle prime due fasi. Anticipiamo che, per l’Ambleto, nei documenti manoscritti e dattiloscritti provenienti dai due archivi l’autore ha inserito solamente due date (“1-6-‘72” nel quaderno che contiene il manoscritto del primo atto e “1-7-’72” in un quaderno contenente una delle due versioni manoscritte del secondo atto), per cui, a partire da questi dati esterni, nella ricostruzione dell’ordine cronologico, il confronto ha riguardato la variantistica.

Con riferimento alle schedature con cui sono stati rispettivamente inventariati i due fondi, per L’Ambleto i diversi documenti, dattiloscritti e manoscritti, sono contenuti: a) nel faldone n. 3, contrassegnato dalla segnatura V5.FAT, del fondo dell’Associazione Testori (archivio d’ora in poi indicato con FAT, come da inventario di Nicolò Rossi, a cui si fa qui riferimento); b) nelle cartellette archiviate nella sezione “Fogli” con la segnatura D22 e D23 e D43 del fondo Giovanni Testori in Fondazione Mondadori (segnatura della sezione “Fogli” ad opera di Paola Gallerani; archivio qui d’ora in poi indicato con GTRL).

Nell’Ambleto – come altrove (Gallerani 2007) – l’autore procede scrivendo inizialmente di proprio pugno il testo in un quaderno, per poi, man mano che avanza, ribatterlo a macchina più volte inglobando progressivamente modifiche aggiunte anche a penna sopra il testo o nell’interlinea dei dattiloscritti che via via redige. Per consentire di individuare gli inediti oggetto di questo studio e dar conto del loro posizionamento nel percorso genetico del dramma, inizieremo dunque dai quaderni manoscritti, che per l’Ambleto sono quattro, tutti appartenenti al FAT e conservati nel faldone V5.FAT. Sul dorso di tre di questi quaderni è stata apposta un’etichetta su cui si leggono, inseriti a mano dall’autore di fianco ad “Ambleto”, ripettivamente gli ordinali “I”, “II” e “III”, mentre il rimanente quaderno è privo di qualsiasi forma di etichettatura. I testi dell’Ambleto che sono contenuti in questi manoscritti sono stati rispettivamente così inventariati: 1972.V5.FAT001, 1972.V5.FAT002, 1972.V5.FAT003 e 1972.V5.FAT004.

Aprendo il quaderno con l’ordinale “I” scritto sul dorso, il 1972.V5.FAT001, sotto al titolo (“L’Ambleto”, con prima lezione in penna “Ambleto” e successiva apposizione a matita dell’articolo caratteristica anche del testo edito) e sotto alla data “1-6-’72”, troviamo l’elenco dei personaggi e, ancora, voltando pagina l’indicazione “Parte prima”. Coerentemente con queste indicazioni il testo che segue contiene il primo atto del dramma, che va dalla scena del funerale all’incontro con lo spettro del padre. Dal momento che si tratta dell’unica versione manoscritta relativa alla prima parte dell’Ambleto, la si può identificare anche come prima stesura in assoluto di questo primo atto. E volendo identificare con A la prima fase redazionale dell’Ambleto, possiamo indicare il testo 1972.V5.FAT001 con A-Im (dove ‘I’ indica il primo atto e ‘m’ sta per manoscritto), in quanto prima parte manoscritta di A.

Un primo problema si pone invece per il secondo atto, perché testimoniato in due differenti versioni delle quali una sola datata. Ciò che si è appurato, come si dirà, è che la prima redazione manoscritta del secondo atto, prima cioè che Testori decidesse di rifarlo da capo, è rappresentata dal testo 1972.V5.FAT4 (nel quaderno, come si ricorderà, sprovvisto di etichetta e relative specificazioni sul dorso), che qui indicheremo con A-IIm, e non la stesura 1972.V5.FAT2, di cui 1972.V5.FAT3 è la continuazione, a dispetto di quanto potrebbe indure a ritenere a prima vista il fatto che i quaderni che contengono questi ultimi, come detto, recano sul dorso, accanto al titolo, l’uno l’ordinale “II” (confermato dalla dicitura “parte II” nel frontespizio) e l’altro l’ordinale “III” (con dicitura “parte seconda/seconda parte” nel frontespizio).

Quali gli indizi in base ai quali si è considerato opportuno posizionare 1972.V5.FAT4, A-IIm, in una prima fase redazionale e posticipare invece in una seconda, che chiameremo B, il rifacimento ex novo del secondo atto rappresentato in successione dai testi 1972.V5.FAT2 e 1972.V5.FAT3 (d’ora in avanti rispettivamente B-IIm1 e B-IIm2, dove i numeri in pedice stanno a indicare l’ordine in cui si pongono tra loro)? Nel frontespizo di A-IIm compare la data “1-7-’72”, posteriore a quella del primo manoscritto oltre che seconda e ultima data che figura nell’insieme di tutti i documenti relativi all’avantesto dell’Ambleto (si ricordi che la pièce viene data alle stampe nel novembre dello stesso anno). Sempre nel frontespizio di A-IIm si può leggere “II parte” ed effettivamente di secondo atto si tratta, benché incompleto, dato che muove dall’allestimento della messa in scena volta a smascherare i regicidi fino a comprendere il preambolo del suicidio di Lofelia. Va al riguardo osservato che in B-IIm, analogamente al testo pubblicato, la scena dello spettacolo risulta invece assente. A-IIm si avvia dunque con una scena che avvicina la riscrittura testoriana all’originale shakespeariano, ma che, non figurando né in B né in C (= fase del testo edito), ne determina una maggiore distanza dal testo pubblicato rispetto a B-IIm. E, ancora, lo stesso titolo dell’opera potrebbe contenere un segnale: se, come detto, in A-Im la scelta di apporre l’articolo, con effetto dialettizzante, interviene in un secondo momento (non figura cioè come prima lezione), l”Ambleto” senza articolo in A-IIm potrebbe essere indice del posizionamento precoce di questo manoscritto rispetto a B-IIm, in cui figura il titolo “L’Ambleto” come prima e unica lezione. Si tratta di una serie di elementi – data, soppressione dello spettacolo per mettere in scena l’omicidio del re-padre e assenza dell’articolo nel titolo – di cui tenere conto per il loro valore indiziale, ma che non possono essere considerati come probanti, di per sé, una maggiore precocità di A-IIm. Per tradurre anche in termini temporali la maggiore distanza di A-IIm da C, rispetto a B-IIm, abbiamo bisogno di prendere in considerazione anche le stesure dattiloscritte.

La conferma è deducibile dal fatto che il primo atto nella sua versione manoscritta, A-Im, è ricopiato in un documento dattiloscritto in cui viene ribattuto come suo prosieguo non il testo del manoscritto con “II” sul dorso (B-IIm), ma il secondo atto del quaderno privo di numerazione (A-IIm). In altre parole nella prima stesura dattiloscritta del dramma, che indichiamo con Ad, individuabile come prima perché composta per il suo primo atto ribattendo a macchina l’inequivocabilmente primo manoscritto, A-Im, come secondo atto viene ricopiato il manoscritto A-IIm. E per risolvere quindi l’incognita in Am = A-Im + x ponendosi due possibili soluzioni alternative (A-IIm o B-IIm), si deve ricorrere alla deduzione che se il primo e il secondo atto di Ad (d’ora in poi rispettivamente A-Id e A-IId), discendono direttamente il primo da A-Im e il secondo da A-IIm2, sarà il manoscritto A-IIm ad essere stato concepito in origine quale secondo atto del dramma (cioè se Ad = A-Id + A-IId e se A-IIdA-IIm significa che Am = A-Im + A-IIm) e quindi, tornando al nodo iniziale, che B-IIm deve essere stato redatto dopo di A-IIm. Esiste però anche un ulteriore riscontro di cui diremo a stretto giro, la prova che rende letteralmente visibile come ‘tutto torni’, ma che non si sarebbe potuta presentare come tale senza prima questa messa a nudo delle carte in gioco.

Abbiamo però bisogno prima di offrire al lettore anche le coordinate attraverso cui identificare in archivio i fogli dattiloscritti che recano Ad, stesura che è testimoniata in entrambi i fondi, ma in nessuno dei due nella sua interezza, condizione che la rende ricostruibile integralmente solo attraverso la ricomposizione dei frammenti sparsi. Per dare una prima idea della suddivisione delle carte tra i due fondi, con riferimento alla numerazione di pagina data dall’autore, Ad è testimoniato in forma di copia fotostatica nella cartella D23 del GTRL fino alla pagina numerata 63 (l’intero primo atto, A-Id, seguito dalla prima scena di A-IId), mentre dalla p. 52 alla p. 90 (il secondo atto, A -IId), è testimoniato in 1972.V5.FAT.007 nel FAT. Per quel che riguarda la porzione nel FAT, la ricomposizione parrebbe complicata dalla constatazione di alcune lacune nel dattiloscritto, non fosse che queste sono in realtà colmabili in toto: quattro pagine intermedie mancanti (secondo la numerazione dell’autore da p. 85 a p. 89 compresa) sono recuperabili nel fascicolo 1972.V5.FAT.008 in cui sono state erroneamente inserite tra le pagine di una stesura posteriore, mentre, per alcune pagine che presentano evidenti sforbiciature (sempre con riferimento alla numerazione di Testori, le p. 54, 55,), le porzioni ritagliate e asportate sono reperibili in buona parte nel quaderno in cui Testori ha redatto B-IIm (alcuni ritagli sono andati presumibilmente persi, ma riguardano pagine precedenti alla 63, delle quali come detto è conservata copia della cartelletta D23 in GTRL). Qui infatti le ha incollate per integrarle nella nuova versione del secondo atto, la quale (al netto di alcune prime righe con cui inizialmente si avviava il manoscritto, successivamente però cassate dall’autore – con evidenti segni di cancellatura) prende avvio proprio da uno di questi ritagli di A-IId incollati, testimoniando come B-IIm sia stato redatto successivamente ad A-IId e quindi prova inequivocabile di come lo stesso manoscritto sia posteriore all’altra versione manoscritta della seconda parte dell’Ambleto, da A-IIm, dal momento che A-IId, come detto, discende da A-IIm, con il riposizionamento dei manoscritti che ne consegue.

È importante qui sottolineare come sia proprio la perfetta sovrapponibilità tra le pagine fotocopiate di Ad nel GTRL e le corrispondenti pagine originali di Ad presenti nel FAT (quindi per forza relative al secondo atto, visto che nel FAT del documento originale di Ad – l’unico originale tra tutti i documenti di entrambi i fondi – è conservato solo A-IId) a suggerire senza ombra di dubbio come il primo atto della stesura nella cartella D23 del GTRL deva necessariamente essere copia del primo atto mancante, in originale, ad Ad nel FAT. In altri termini, sempre facendo appello alla numerazione di pagina dell’autore, se il frammento di Ad nel GTRL si estende da p. 1 a p. 63 (il primo atto termina a p. 51), mentre quello nel FAT, che riguarda il solo secondo atto, va da p. 52 a p. 90, le pagine dalla 52 alla 63 dei due testimoni sono confrontabili e appunto dal confronto risultano, come detto, con ogni evidenza perfettamente sovrapponibili.

Nei due fondi compaiono altre due stesure dattiloscritte appartenenti a questa prima fase redazionale. Si tratta di testi posteriori ad Ad, il più completo dei quali si interrompe un paio di scene prima dello spettacolo inscenato per smascherare gli assassini del padre di Ambleto, precisamente cioè, e con ogni probabilità non a caso nel processo di riscrittura, la stessa estensione con cui è testimoniato Ad in GTRL. Quest’ultima stesura (d’ora in avanti Ad+, mentre il suo primo e il suo secondo atto saranno indicati con A-Id+ e A-IId+) è conservata in una cartellina dal contenuto composito, inventariata 1972.V5.FAT.009 (nella descrizione di Rossi, relativa alla cartellina in oggetto, corrisponde alla stesura nei fogli evidenziati qui in grassetto: “Descrizione: Cr: intest. ms. “Ambleto” e il disegno di due grandi I disposte in verticale; f. (I)a: frontespizio ds. L’Ambleto; f. 28: fotoc. da 1972.V5.FAT.006, f. C28; f. (II): intest. ds. Parte seconda. Si ripete la stessa s. di ff. ma con un elenco dei personaggi al posto del frontespizio”). Si tratta di una stesura il cui testo, a parte varianti poco significative quantomeno in un’ottica di suddivisione redazionale, è lo stesso Ad ribattuto a macchina (come detto, però, fino allo stesso punto del testo in cui arrivano le fotocopie di Ad in D23 - la parola “ganso” nel secondo atto), sicché sulla linea del tempo possiamo collocarla immediatamente dopo Ad, come del resto prima dell’avvio di B, cioè ancora in una prima fase redazionale, dato che la pur esigua porzione del secondo atto che contiene, A-IId+, non discende dalla nuova versione manoscritta, B-IIm1. Rilevante, ai fini del riordino cronologico delle carte, è però il fatto che Ad+ sia immediatamente identificabile e distinguibile da Ad per via dell’impaginazione del testo su due colonne, con collocazione a sinistra di didascalie e nomi dei personaggi e a destra delle battute. Impaginazione che ci aiuta, in prima battuta, a individuare il documento che immediatamente segue, perché Testori fotocopia Ad+, che così viene messo per così dire in salvo, mentre sulla copia inserisce varianti aggiungendole a penna. Quest’ultima stesura, con modifiche che riguardano in particolare una iniezione di francese specie, ma non esclusivamente, nelle battute in cui parla Orazio, rappresenta il punto estremo di A, per cui d’ora in poi sarà indicata con Ad++. Ci è però testimoniata come tale solamente per il secondo atto, A-IId++ (più precisamente, avendo come base A-IId+, per le medesime pagine del secondo atto), sempre conservato in 1972.V5.FAT.009 (stesura evidenziata qui in grassetto: “Descrizione: Cr: intest. ms. “Ambleto” e il disegno di due grandi I disposte in verticale; f. (I)a: frontespizio ds. L’Ambleto; f. 28: fotoc. da 1972.V5.FAT.006, f. C28; f. (II): intest. ds. Parte seconda. Si ripete la stessa s. di ff. ma con un elenco dei personaggi al posto del frontespizio”).

Che fine ha fatto il primo atto di Ad++? Se Testori mette da parte e conserva A-IId++, così non fa per il primo atto, A-Id++, del quale invece riutilizza le pagine, facilmente riconoscibili per l’impaginazione a due colonne, sottoponendone il testo a nuovi rimaneggiamenti in penna i cui esiti conducono ormai al di fuori della prima fase redazionale. Ma, prima di seguire le vicende della stesura che Testori deriverà da A-Id++, questa sì portatrice di varianti di rilievo (specie per la penetrazione della lingua d’invenzione nelle stesse didascalie), sarà utile rievocare la sequenza secondo cui si dispongono le diverse stesure che compongono A, la prima fase redazionale, attraverso questo schema:

Consideriamo ora la linea di discendenza che, a partire da A-Im, attraversa A e continua in B: la prima stesura del primo atto in B deriva da A-Id++, l’ultima stesura dattiloscritta ascrivibile ad A, relativa al primo atto. Come abbiamo detto A-Id++ non è stato conservato di per sé, ma riutilizzato per essere sottoposto in penna a una revisione che dà come esito ultimo una stesura ascrivibile nella successiva fase redazionale. È in questo momento infatti che l’italiano delle didascalie viene sottoposto a distorsione e dunque tradotto nel pastiche delle battute. L’esito di quest’operazione è la stesura che qui indichiamo con B-Id, la quale è testimoniata come tale – tenendo conto dell’ultima lezione nel dattiloscritto – però solo per una prima porzione in 1972.V5.FAT.006, mentre per le restanti pagine è testimoniata, sotto a ulteriori strati di modifiche in penna (comprendenti la cassazione delle didascalie in pastiche e dunque nell’ultima lezione posizionabile nella redazione successiva), in un primo atto inserito in 1972.V5.FAT.009 (qui evidenziato in grassetto: “Descrizione: Cr: intest. ms. “Ambleto” e il disegno di due grandi I disposte in verticale; f. (I)a: frontespizio ds. L’Ambleto; f. 28: fotoc. da 1972.V5.FAT.006, f. C28; f. (II): intest. ds. Parte seconda. Si ripete la stessa s. di ff. ma con un elenco dei personaggi al posto del frontespizio”), che, tenendo conto dell’ultima lezione, si situa in una nuova fase redazionale (della cui articolazione non si darà quindi conto in questo studio), in cui l’autore decide di inserire nelle didascalie solo secche indicazioni prescrittive in italiano – fatta eccezione per le formule ‘exit’ ed ‘exeunt’ replicanti le didascalie delle antiche edizioni shakespeariane –, oltre a fare numerosissime altre modifiche, più o meno invasive, ai dialoghi, compresi ulteriori ritocchi alla lingua, che non ha ancora raggiunto la forma definitiva.

Per il secondo atto invece la linea di discendenza non oltrepassa il confine della prima redazione, a causa del più volte ricordato rifacimento del secondo atto. Con B-IIm (il nuovo secondo atto manoscritto, che sappiamo dato dal contenuto dei quaderni che sul dorso recano ‘II’ e ‘III’ in successione e cioè da B-IIm1 + B-IIm2) si avvia la seconda redazione e una nuova linea di discendenza che ha come passo successivo B-IId, il dattiloscritto in cui viene ricopiato appunto il nuovo testo manoscritto del secondo atto. Di fatto nemmeno B-IId è testimoniato come tale, ma va riconosciuto sotto ai successivi interventi a penna che pongono il dattiloscritto, se si tiene conto dell’ultima lezione, nella fase redazionale successiva, in cui le didascalie letterarizzate vengono rimpiazzate da mere didascalie prescrittive. Tale dattiloscritto è conservato nella cartellina 1972.V5.FAT.008 (nella descrizione di Rossi sono indicate due stesure, in realtà si tratta di una sola in cui sono stati erroneamente inseriti alcuni fogli appartenenti alla prima stesura dattiloscritta – in 1972.V5.FAT.007 – dei quali si è detto sopra e cioè i fogli che vanno, secondo la numerazione dell’autore, da p. 85 a p. 89 compresa appartenenti ad A-IId).. Nella prima lezione di questo dattiloscritto si trovano didascalie letterarizzate ancora in italiano; in un secondo momento, corrispondente all’apice della seconda fase redazionale (B-IId), vengono modificate in penna per essere tradotte in pastiche; infine, e qui si avvia la terza fase redazionale, vengono cassate e rimpiazzate da secche didascalie di tipo prescrittivo. A differenza del manoscritto B-IIm che è completo, questo dattiloscritto è privo della scena finale, giunge infatti solo al diverbio a parole tra Ambleto e Laerto.

Di seguito lo schema con la disposizione degli inediti della prima e della seconda fase redazionale secondo la successione ricostruita.

La presente ricerca sui materiali preparatori dell’Ambleto è stata condotta prima del mese di settembre 2023, cioè prima che l’Archivio Giovanni Testori di proprietà della Regione Lombardia (GTRL) – fino a quel momento presso la Fondazione Mondadori – trovasse nuova sede presso Casa Testori a Novate, insieme al fondo dell’Associazione Testori. La segnatura ad opera di Paola Gallerani, alla quale si fa riferimento in questo lavoro, è stata mantenuta anche in seguito allo spostamento dell’Archivio.

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English abstract

In this contribution, the author makes an in-depth analysis of the preparatory drafts of Giovanni Testori's Ambleto. The study of the preparatory materials for Ambleto, in addition to shedding light on the refinement of a linguistic device with “neo-Barbaric” outcomes, also bringing new insights into the influences of Ruzante's language mediated by the actor Franco Parenti, brings to light the founding feature of the scarozzante voice. Such a voice not only runs through all the characters and can also ekphrastically create the scene, but thanks to its parodic quality still makes the re-proposition of tragedy possible in the second half of the 20th century. The emergence of a redaction containing the extension of the pastiche to the captions, and thus to the author's word, confirms the even self-parodic feature of the operation

keywords | Testori; Ambleto; plurilingualism; parody; Scarozzanti.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Pianca, “Quasi fudesse ecce homo de paese”. Sulla vicenda compositiva dell’Ambleto di Testori, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 11-53 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.208.0002