Apostasia della carne
Fatica e liberazione della materia in Giovanni Testori e Francis Bacon
Filippo Perfetti
English abstract
A Gianfranco, “In exitu…”
Per gli inquieti abbiamo scritte queste righe.
G. Testori, Segantini
L’arte ha un corpo, è fatta di tele, di colori,
di tubetti, di fogli, di pietre, di mattoni.
Insomma, ha una sostanza fisica
che rende più precaria
qualunque operazione intellettualistica.
G. Testori, Conversazioni
Facile, quasi tautologico, e se appena indicato lampante, il connubio estetico, poiché ideologico, tra Giovanni Testori e Francis Bacon. Non è neppure da ricostruire in quanto posto da sempre, ripetutamente, in evidenza dallo stesso Testori. Eppure, in questa evidenza, appare una zona d’ombra che cela il punto – sottile ma sostanziale – dell’inestricabile legame che vi è fra loro. Un punto che si può evincere leggendo una lettera di Testori e che in queste righe si vorrà esporre nel suo essere forma e meta nella pittura dell’uno e nella scrittura dell’altro, comunque sempre presente nella loro ricerca estetica in quanto messa in questione della condizione esistenziale – ontologica sarebbe più corretto – dell’uomo.
Caro Ferrero,
le lascio in portineria tanto la “Suite” rilavorata, quanto quel che c’è della Monaca. Aspetto il suo giudizio che, comunque sarà, mi servirà moltissimo. Le sarò grato se vorrà aiutarmi a trovare un titolo alla “Suite”, volendo lasciare quello di “Suite per F.B.” come sottotitolo; è un consiglio che m’ha dato anche Longhi, il quale pensa che ci sia dell’altro di quanto non vi si trovi (e, per precisare, lui non sia riuscito a trovare) in Bacon. Per me il titolo dovrebbe essere qualcosa come Crocefissione e, meglio ancora, contenere il senso che spero d’essere riuscito a dare, in questa specie di poesie, all’aggettivo “apostatico” e al nome “apostasia” (riferito alla materia, anziché alla teologia). Non è facile, ma sono certo che se, a lettura finita, penserà che ne valga la pena, lei saprà indicarmelo.
Grazie di tutto e abbia la riconoscenza e l’affetto del suo
Gianni T.
Questa è la manciata di parole da cui partire, una lettera che Testori, che in amicizia si firma “Gianni”, scrive a Sergio Ferrero, scrittore scelto come lettore particolare e privato delle bozze di Testori nel periodo attorno a questa lettera, che data il 1965 (Panzeri 2003, 110-111). Testori lascia in lettura due opere: la “Monaca”, ovvero La monaca di Monza, poi pubblicata e messa in scena nel 1967 e la “Suite” dedicata all’opera di Bacon rivisitata in una seconda scrittura. Se della Monaca è più utile parlare in seguito, è dalla Suite che occorre partire. La Suite vorrebbe essere una plaquette di brevi liriche rivolte e ispirate alle opere di Bacon, testi in forma poetica a metà tra l’ecfrasi e il crogiolo di pensiero da cui pare prenderanno sostanza i quadri stessi, come se invece che ispirati a loro fossero a quelli precedenti. Ed è allora da individuare in questi componimenti quale funzione eserciti, anzi come si presentifica, l’aggettivo “apostatico” e il sostantivo “apostasia” che sono appunto quel nodo a cui si vuole porre accento e su cui far chiarezza. Sono da rintracciare e leggere questi due termini: cioè l’apostasia, e come specificato nella parentesi, un’apostasia che bagna il suo significato nell’ambito lessicale religioso, di fede, ma che si sposta sul piano della materia: della carne. Capire cosa significhi l’apostasia della carne è infatti il punto in questione che funge da cardine tra Testori e Bacon e epicentro ultimo per entrambi.
Per prima cosa la poesia
Per prima cosa la poesia. I testi spediti a Ferrero sono rintracciabili nel secondo volume di Bompiani dedicato a Testori, Opere 1965-1977, dove sono preceduti dalla prima versione e seguiti dalla forma successiva che poi prenderanno, dove si slegano dal nome di Bacon restandovi aderenti nel tema (così nelle notizie sui testi, Testori 1997, 1500-1507). Nella prima stesura, le liriche indicano in testa l’opera pittorica di riferimento (ad esempio, per la prima, Three studies for figures at the base of a crucifixion – 1944); elemento poi perso nella seconda versione; nell’ultima che poi trova – dopo un’ulteriore revisione – edizione presso Scheiwiller nel 1966 con il titolo Crocefissione, già presente come ipotesi di titolo nelle prime versioni, il riferimento a Bacon è solo implicito, di rimando: è un riflesso d’immagine suggerito dalle liriche. Le diverse versioni sono tra loro coerenti per forma e tema. Ovunque è sangue, carne, sfacimento. Ogni foglio e ogni rigo grondano di umori e liquidi, sempre è impressa una erotica della morte, che è sorella di una ferita sempre ieratica; sempre è presente l’atto tragico della croce di Cristo. Un concentrato del Testori più cruento nel lessico e violento nel discorso. I versi, come gli è solito, a cascata, affilati come una lama che taglia la pagina per l’ansia che monta giorno dopo giorno nell’anima (Murena per Campo, Giorno). Parola verso, esposta singolarmente: come cellula. Enjambements a legare la catena di sangue, a farla cadere a piombo il tema.
In ciascuna stesura è facile prendere brani dalle poesie dove evidente è lo sfrangiarsi del corpo:
Sul ventre sfatto, obeso
cade la difesa;
crollano attorno al lago
le papille:
muta penzola la lingua;
la piaga annienta l’essere,
slabbra il tessuto,
frana.
L’ironia è talmente pervasiva da comprendere se stessa:
[...]
La ferita dell’essere
non tiene;
si stacca la crosta
crepitando
dalla ragna lisoformica,
biancastra;
dai cicli ricadono
gemme turgide,
vane.
Procede nel silenzio
l’orrenda spoliazione.
Il midollo deverte
dal suo corso;
si rilascia il ventre
nella roggia violastra
del suo sangue.
[...]
O come recita la sua versione antecedente:
[...]
La ferita non tiene;
la crosta si stacca
crepitando;
i labbri ricadono
dai denti;
cerca la mano un moto;
s’alza
il marmo canceroso,
vana apoplessia nel corpo
del servo
degli schiavi
– e tu,
stella incarnata
nella melma,
quale senso domandi ancora
atroce,
disperato?
Perfino la ferita non regge, si sfa. Dal corpo dell’uomo è poi di ogni materia il cedere allo sfacimento, fino a raggiungere una dimensione cosmica:
L’universo si stacca
dall’essere,
penzola,
marcisce.
Fino a mettere in scacco l’ontologia stessa delle cose:
[...]
Piangi,
se ancora puoi;
se esisti più,
materia disperata;
non più in te esiste
la ragione.
La piaga annienta l’essere,
slabbra il tessuto,
frana.
In questo panorama, che nasce dallo sguardo alle tele di Bacon, non può restare a parte la materia del dipinto:
L’ombra del verbo incauto
sulla pasta rabbiosa,
sul colore,
sulla tela del folle,
Vincent di sangue
E la pelle e la tela vivono la stessa condizione nel loro comune essere materia:
Lino di demenza,
trama inappagata,
cresce la bestemmia
sul tuo sangue;
ultima saliva,
disperazione vana,
filigrana,
aria.
Verticale disfacimento del lino: da demente è poi mancante nell’ordito della trama; il sangue si assottiglia in saliva, la disperazione cresce nel suo essere vuota: prima filigrana e poi aria.
Sono parte del massacro, della frana, tanto la tela che il colore, e dove Testori scrive: “prelevata dal fondo, / la goccia reverte il suo cammino, / urlando si fa suicida”, la goccia è tanto quella del sangue che del colore: giungono alla morte e all’annullamento, toccano l’apostasia di sé da cui si è partiti. Per entrambe la malattia, che dalla superficie intacca la sostanza, è “lebbra apostatica”, a cui l’ultimo tentativo dato è un soffocato urlo esiziale:
Urla,
materia apostatica,
nella landa disserrata,
urti, boati,
scheletri volanti,
latrine accecate
dai binari,
cieli partorienti ombre;
sterchi, fango;
urla
nelle bende atroci,
soffocanti.
Il nulla, la rovina, come un cane, attende chi provi a svincolarsi da questo fato:
Vigili
nel nulla;
addenti
la mano creatrice
se assassina ritenta
la nostra oscena forma.
A nulla più è dato di darsi forma.
Il colore per materia
Per Testori la genesi di un dipinto è una questione di incarnazione. E da qui l’uso di espressioni e lemmi che affratellano la nascita di un quadro a quella di un uomo, dove la materia è “mater-materia” (Testori 1988), dove il liquido seminale sostituisce il pigmento, magari ad olio, non per un’efficace formula metaforica, bensì per severa convinzione che si sta parlando di fenomeni legati dalla stessa natura (si veda Bazzocchi 2015, 77). Così è nella genesi e così poi nell’esito a cui sono destinati. È in questa prospettiva che nasce e prosegue – la parola sviluppo porterebbe fuori strada – lo sguardo di Testori sull’arte pittorica e non soltanto. Tutto è già posto nel suo primo articolo chiestogli da Longhi per le pagine di “Paragone”, nel 1952. Il celebre saggio sul Cairo è concentrato per temi, stile e ricerca del suo intero cursus critico e letterario artistico. In quelle pagine esprime questa sua concezione dell’opera come corpo e della superficie pitta come materia: della cellula-colore. Si legga Testori:
Da qui l’iterazione nell’esistenza tutta di quella dialessi, la quale naturalmente cerca, ora, un’oggettivazione (il noumeno tenta, da che s’è incarnato, il suo proprio coagulo, che non altro sarà se non il gesto). Questa circolarità irriducibile in cui si trova ridotta ogni traiettoria (pensiero e gesto: causa ed effetto: reversibili, per giunta), s’esprime in quella tal figura ossessiva (circolare, appunto) cui già prima accennavo, che è il punto d’inizio più lontano che, quanto alla forma (stile), m’è accaduto di rintracciare in Francesco. Abbastanza profondato, tuttavia, se si pensa che l’effettuazione pratica è una cellula del quantum cromatico di cui si compone, materialmente, ogni opera pitturale (Testori [1952], 2023, 14).
La florida e complessa prosa di Testori sta raccontando come nascano i quadri di Francesco (al tempo chiamato del) Cairo. La dialessi, il gioco delle forze, cerca di farsi oggetto: l’idea, il noumeno, di prendere corpo, coagulo. Pare, questa lotta, per giunta circolare, vivere delle contrazioni di un parto, tra doglie e ansimi e fatica. Da qui, oltre la particolarità del caso del Cairo, il comune denominatore di ogni opera: la “cellula” “cromatica” di cui ogni quadro è composto “materialmente” (“Il termine ‘colore’ sottointende infatti una ben precisa sostanza materica, materiante e materiale. A sua volta tale sostanza sottointende un’irruente e precisa inevitabilità carnale”, Testori [1989] 2011, 127). E subito sotto scende ancor più nel dettaglio, quasi guardasse al microscopio e la vedesse prima che si formi e nasca, allo stadio staminale:
La natura di questa cellula, di questo primo groppo, è di vitalità indifferenziata: cioè a dire che questa cellula contiene un sommovimento degli atomi di cui è composta, sommovimento non diretto nei riguardi della sua futura formulazione espressiva (che è appunto, in sede estetica, l’incubazione demenziale che conduce al parto: dopodiché l’opera è determinata, cioè vivente nella sua autonomia, più o meno perfetta, e tuttavia perfetta mai, essendo il mito dell’arte assoluta, o, come si dice, “pura”, tepida menzogna, inane sogno). Talché, qualora fosse possibile isolare una di queste cellule, si avrebbe l’impressione dello sprigionarsi di una carica innominata e, in effetti, innominabile: dell’ansimare dei suoi atomi, del rotear loro attorno a sé medesimi (il moto circolare essendo proprio di chi non ha possibilità di scegliere la direzione, toccandole in potenza tutte, ma in effetti alcuna: esistenzialmente di chi non ha scampo) (Testori [1952] 2023, 14).
Atomi, cellule, che nella loro energia posseggono il possibile. Il realizzarsi di un possibile è l’unico loro giogo, la libertà di essere ciascuna forma è allo stesso tempo l’unica regola a cui sottostanno, quella di farsi, di essere. E in questo gioco di forze seminali, di cellule staminali pronte a prendere forma e funzione, appare lo stesso miscuglio, lo stesso “ragno o sputo” che è dell’informe (termini, ragno e sputo, che parrebbero da Testori, e sono di Georges Bataille, Id. [1929] 1974, 165). In Bataille, nella sua concezione di informe, paiono abitare queste cellule-cromatiche pronte a dare forma:
Dobbiamo piuttosto pensare all’informe come qualcosa che è creato dalla forma stessa, secondo una logica che agisce logicamente contro se stessa, dall’interno, per cui la forma produce un’eterologia. Consideriamolo non come l’opposto della forma, ma come una possibilità che opera nel cuore della forma, per eroderla (Krauss [1993] 2008, 172).
E come visto nell’après-coup poetico, la materia che germina è colei che stermina se stessa, è “materia apostatica”:
Poi, più più il lutto grande del broccato, d’una sostanza nenufarica, palustre: e la chiusura delle mani che schiacciano tra le dita (ma una mano pare già da lungo defunta) l’invertebrato uccisore: in quella stretta la materia riconosce la sua demenziale analogia: la reversibilità comune dell’essere, dell’elemento: come prima d’ogni differenziazione… Qui la sostanza si fa marcia e livida, come forse non fu mai: quasi di corpo che si disfi nell’acqua: quasi per dire: “cenere mi fé, disfecemi la cenere…”: o il fango, la lutulenta palude (Testori [1952] 2023, 25).
Eccola già sulle tele del Cairo, riconosciuta da Testori a mangiare e sfare la propria materia. Reversibilità circolare notata anche da Rosalind Krauss:
Agendo cioè in modo strutturale, preciso, geometrico, come il movimento di un orologio. Il termine francese che coglie al meglio questo meccanismo è déjouer, in inglese qualcosa come foil, o baffle, in italiano “sventare”, “eludere”, ma dove si perde la parte dell’azione che si riferisce al gioco, alla sue regole e alla sua struttura; una struttura che destabilizza il gioco per il fatto stesso di osservarne le regole. “Dis-giocare” in qualche modo, ma in modo legale, all’interno del sistema. Con la molla che torna sempre indietro, come in un movimento d’orologio (Krauss [1993] 2008, 172).
La dialessi che porta le cellule a fare di sé forma, si rovescia in un’istiocitosi-cromatica. L’esito è mortale per la forma, per il corpo-dipinto. Dove però, in questa nuova dimensione, la forma, in qualche modo permane: “Nell’informe, la forma non è semplicemente negata, né tanto meno dissolta: è sacrificata” (Didi-Huberman [1995] 2023, 498-499). Bataille, illuminando il transitare della forma all’informe, è riconoscibile in quella sua posizione tragica (vedi Didi-Huberman [1995] 2023, 502) che si può ritenere la stessa postura, il medesimo punto di vista, che Testori ha di fronte all’arte: un fenomeno sì estetico ma per questo per nulla ininfluente nella vita.
Tuttavia, è bene tornare sulla formazione di questo corpo di cellule-cromatiche, perché alcuni anni dopo il Cairo, trattando di Matthias Grünewald, Testori precisa il processo di formazione della forma e quanto sia ad essa proprio e quanto concerne ciò che la precede.
Il terrore che ci prende davanti all’equazione che, nelle sue opere, Grünewald va via via mostrandoci come atto perenne ed esclusivo della verifica esistenziale e, probabilmente, come sua unica dannazione e salvezza, deriva dal fatto che tale equazione avviene sempre e contemporaneamente su due piani: quello concettuale e quello sensoriale; per arrivare a termini più figurativi, quello della forma e quello della materia. Nessuna preminenza né dell’una né dell’altra; ma il rilancio continuo della responsabilità d’esistere tra la cellula primaria (la cellula materica) e l’intelligenza prematerica (che potrebbe essere una inconoscibile casualità demenziale); quella responsabilità cui l’agglomerato materico rinfaccia ad ogni attimo l’insulto d’aver immesso nella propria struttura il bisogno di farsi; di prendere, insomma, un significato, una riconoscibilità, una forma, una figura. Ma quell’insulto a prendersi tale responsabilità passa con altrettanta decisione e costanza nella traiettoria che va dall’intelligenza (o demenza) prematerica alle cellule della materia, cui viene rinfacciato d’attirarla, tentarla e adescarla con la sua oscena vitalità d’embrione sì insignificante, ma possibilitato di diventar forma e significato (Testori 1972, 7).
Ecco che alla cellula che qui chiama “prematerica”, cioè quella colore, succede – per destino, salvezza o dannazione che sia – la forma. La materia precede la forma, questa prima è sensoriale, prende in sé la dimensione organica, laddove è solo nella forma che assume la dimensione figurale che le dà corpo, e in questo trova – al di là del sensibile – significato. Il tutto agito, mosso, da quella forza che gioca alla formazione e dis-formazione (più che de-formazione) del dipinto, dell’opera. E trattando di questo processo di formazione della materia dipinta per via cellulare, Marco Bazzocchi nota qui lo smarcamento di Testori da Longhi: “Testori è colore, cioè materia, prima che forma (se dobbiamo vedere un iniziale distacco da Longhi è da qui che sembra necessario muoversi)”(Bazzocchi 2012, 68).
Per cui, tornando a ritroso alla lettera di partenza, se Testori vede qualcosa in Bacon che Longhi non ha saputo, o meglio potuto, per via dei suoi strumenti di analisi differentemente attenzionati, vedere, è proprio nel colore; laddove in Loghi è superficie, luce e prospettiva a segnare l’oggetto (Cfr. Bazzocchi 2015, 75-76).
Passando a Bacon, la questione che coinvolge l’intera sua pittura, e che egli stesso sente, riconosce, come primo e fondante, il problema della figurazione. Figurazione in funzione della rappresentazione di corpi e specialmente dei volti (Cfr. Chiappini 2008, 32). La carne, qualunque essa sia, è però sempre colore, è in questo che Bacon trova il fondamento e la base della sua creazione: forza e materia che lo precede e a cui è sottoposto.
Per Bacon la pittura rappresenta il recupero dell’uomo e della sua centralità, è innanzitutto un’ossessione della vita, un tormento della carne e dello spirito, obbedisce alla necessità di trasferire su tela i fantasmi di un’esistenza fragile e disperata, fonte primaria del suo universo immaginifico (Chiappini 2008, 25).
Il mezzo, che è la pittura, attraverso cui tenta questo recupero disperato non è solo fatto di colore, ma è deciso dal colore; come dichiara in uno dei confronti con David Sylvester:
Magari anticipo, mi prefiguro mentalmente la cosa che voglio dipingere, ma non la realizzo mai come l’ho vista. Si trasforma da sé, col colore.
Una delle ragioni per cui uso pennelli molto grandi e, per il modo di lavorare, spesso non so cosa succederà. Il colore, per conto suo, fa cose che sono molto meglio di quelle che gli vorrei imporre (Bacon [1987] 1991, 18).
Ecco che la volontà è piegata a una forza che come detto la precede e le soggiace, a cui sottosta a favore del fine, e questa forza è appunto il colore. La cellula-cromatica che nel gioco di forze che la anima muove la materia a farsi forma. Non è mai secondo volontà di Bacon, ma seconda la sua volontà. Utile idiota, il pittore è quale medium:
Francis Bacon | [...] più che un pittore, io penso di essere un medium.
David Sylvester | Perché?
FB| Perché in questo forse sono unico. Sarà presuntuoso dirlo, ma io non credo di avere talento, credo solo di essere ricettivo.
DS | A qualche energia dell’etere?
FB | Sì. Sono convinto di avere dell’energia e di essere molto ricettivo. Spero non ti farai l’idea che mi credo uno ispirato. Dico solo che so ricevere. (Bacon [1987] 1991, 106-107).
Attento, piegato a servire questa potenza del colore che sulla tela agisce. Non c’è altro:
DS | Vuoi dire che non c’erano dei ritratti di Velázquez altrettanto belli che avrebbero potuto ossessionarti allo stesso modo? Sei sicuro che per te non conta il fatto che sia un papa?
FB | Conta il colore, che è magnifico (Bacon [1987] 1991, 25).
Di come sia un gioco interno al colore stesso, a cui il pittore deve solo prestarsi, è nelle spiegazione del metodo di lavoro tutto volto a farsi sorprendere, a piegare il desiderio, ciò che si vuole, al caso, a quanto deve accadere perché si compia l’opera:
FB | [...] Ora maneggio il colore in un modo tale che non mi capita più di sprofondare in quelle paludi da cui poi non riuscivo a risalire. Continuo a lavorare al quadro, ma affidandomi al caso molto più di quanto facessi da giovane. Per esempio, lancio un gran malloppo di colore sulla tela senza sapere che succederà.
DS | Col pennello?
FB | No, lo lancio con la mano. Spremo il colore nella mano e poi lo lancio sulla tela.
[...]
DS | Getti il colore quando l’immagine ha già raggiunto una certa consistenza e la vuoi portare più avanti?
FB | Sì. Però in questo caso non con la volontà, ma con la speranza che gettando il colore sull’immagine già fatta o fatta a metà, sarò capace di manipolarlo in modo tale da ottenere una maggiore intensità .
[...]
FB | Ma la pittura ad olio è così malleabile che non si sa mai… Non si riesce mai a sapere cosa succederà. Neppure quando la si stende intenzionalmente, col pennello, si sa se poi continuerà allo stesso modo.
[...]
DS | Con l’esperienza sei diventato più consapevole di ciò che può accadere quando lanci il colore?
FB | Non è detto. Spesso lancio il colore, poi prendo una spugna e uno straccio, lo asciugo e ne risulta una forma del tutto inaspettata (Bacon [1987] 1991, 75, 77).
Nel colore preso e gettato, nel grumo e coagulo della materia colore che prende forma nel corpo-figura sulla tela appare in Bacon l’accorgersi di quella forza cromatica che da suo riconosceva Testori. In Bacon è allora la forza colore protagonista:
Il “senso della vita” si esprime per Bacon nelle possibilità di movimento entro il mezzo statico della pittura: in primo luogo e soprattutto il movimento della materia cromatica, quando non solo l’artista applica con il pennello il colore umido, ma lo spazzola e lo lavora, lo toglie con lo straccio o lo spalma in uno strato sottile, lo accumula in grumi o lo spruzza sulla tela. Il movimento della materia cromatica (paint) appartiene quindi alla dinamica immanente al mezzo come l’interazione con dei toni cromatici (colour), come quando Bacon cerca l’intensità dei contrasti complementari, quando applica il rosso carico sul verde scuro. Questa vita propria del colore determina la qualità vibrante e quindi la vitalità che ci colpiscono nei ritratti di Bacon, con la loro fugacità e mutabilità. E l’effetto è più intenso quando il colore insorge contro la prevedibilità del materiale da illustrare (Heinrich 2008, 64).
Il colore insorge contro la prevedibilità e la raffigurazione. Così nei dipinti di Bacon è attraverso il colore che le figure perdono distinzione, grazia, e sfocano e si disfano verso una deformazione: striscio, schizzo e grumo, come volto, corpo, figura, sono sempre colore. Il colore cioè la materia, di questo è innamorato Testori:
Giovanni Testori | [...] E poi, di Géricault amo immensamente la materia: una materia che, soprattutto negli studi per la Zattera e nelle teste tagliate, egli riesce a far risplendere proprio nel momento della corruzione, del dissolvimento della sua struttura.
Luca Doninelli | Quanto dici non si potrebbe ripetere anche per Bacon?
GT | Sì, anche in Bacon c’è questo (Doninelli 1993, 114).
La materia nel suo sfarsi: accanita divoratrice di sé, forza ironica. Forza che è la forza nei dipinti di Bacon: loro maniera e potenza figurativa. Dove quanto è figura cerca compimento in un regresso: “In Bacon, l’intera serie degli spasmi è di questo genere: amore, vomito, escremento; regolarmente il corpo tenta di fuggire attraverso uno dei suoi organi per raggiungere la campitura, la struttura materiale” (Deleuze [1981] 2023, 26). Gli spasmi del corpo-dipinto, composto della cellula-colore, danno figura al processo stesso di disfacimento che coinvolge la figura nella sua manifestazione, laddove l’avvenimento di rovina è invece interno alla materia stessa. Si disfa un volto, perde riconoscibilità un urlo, un sorriso, perché cade, cede, frana la materia che lo forma. Perde la figura e resta, spesso, il contorno, la campitura retrostante e fondante: “la zona di offuscamento o di pulitura, che faceva emergere la Figura, avrà ora valore di per sé, indipendentemente da ogni forma definita, apparirà come pura Forza senza oggetto” (Deleuze [1981] 2023, 40). Testori avverte in Bacon il manifestarsi chiarissimo – la dimostrazione – di un processo del vivere che trova inevitabile ed essenziale. Ne scrive Testori a più riprese, ma in particolare trattando di Bacon, in un articolo, Ecce Bacon. Così scrive:
Ma, dimostrative di che? Della fatalità alla corruttela, più che alla corruzione, cui l’uomo e, in totale, la creazione, da sé e per sé (o per la connessa colpa), sono destinati. A tratti, il memento baconiano parve troppo insistito perché non autorizzasse di venir letto come un enorme, osceno, ustionato e ustionante sberleffo; su e contro ogni velleità umana che tendesse, lumaca retrattile, infima e bavosa, a una qualunque significazione; se non, addirittura, a una qualunque salvezza (Testori [1985] 2023, 1122).
Non si dà salvezza alla forma, e così tutto perde “significazione” nel suo intelligibile e materiale disfarsi. Per Testori, questo è l’avvertimento ultimo che deve abitare un’opera d’arte: ogni forma, anche la più perfetta, è tale, è precisa, se si piega al suo compito, destino:
Io da quello che vedo quando vedo i quadri che mi interessano, i pochissimi libri che ancora mi interessano, sento che han tentato tutti di passare il limite della forma e di non restarne al di qua. Mi ricordo che questo è stato oggetto di una lunga discussione tra Pietro Citati e me, quasi una lite, appunto, perché lui difendeva la forma (Testori 2004, 30).
Cade la forma e cade il corpo, sempre della medesima struttura sono composti: la fine, come il principio dell’incarnazione, li affratella nuovamente. Precipita, con loro, il senso. E Bacon, per la sua forma che grida la propria natura nel suo esito, nella sua corruttela, è in questo maestro:
Fa sì che la sua opera risulti, oggi, una sorta di contorta, amputata, ferita ma enorme epopea dell’umano corpo; e, in lui, dell’umano destino; inteso come luogo della nostra stessa incarnazione marchiata dalla colpa e dalla incolpevolezza della cenere finale cui è chiamata e destinata (Testori [1985] 2023, 1123-1124).
“La più grande arte ti riporta sempre alla vulnerabilità dell’esistenza umana” (Bacon [1987] 1991, 67), chioserebbe Bacon prosecutore dei “pestanti”, del Cairo: “ché nell’infinita penetrabilità della materia si insinua e diffonde appunto l’annuncio di strage e si verifica la reciprocità dei destini” (Testori [1952] 2023, 21). Dell’uomo e di ogni creazione – sarebbe più esatto dire creatura.
Dal corpo al verbo
Eppure, in questo esito che parrebbe definitivo, ultimo atto di un finale che non potrebbe essere che tale, senza appelli né ricusa; nel momento in cui è già caduto ogni senso e ogni forma, Testori individua questo evento ultimissimo – come detto – certo irrevocabile, come parte di un’economia più vasta, dove c’è un passaggio successivo, postumo. Per Renato Rinaldi, Testori si ferma “all’impasse in cui si crogiola: la carne, il sangue, seguiti nel loro decomporsi filamento per filamento, cellula per cellula [...] la scomposizione si ferma, ciò che resta in mano è pur sempre carne” (Rinaldi 1985, 72); non è invece così, c’è un punto successivo aperto da questo rinnegamento della materia nella sua dimensione ultima e totalizzante. L’apostasia, che Testori afferma, che Bacon pratica senza riconoscerla, è qui. Non è tanto l’annullarsi della materia nella sua vocazione all’annichilimento di sé; non è nell’abrogarla, rifiutarla, per un qualche gnosticismo anti sensoriale, dove tutto è impalpabile e aereo. È nel riconoscerla parte necessaria ma non definitiva. Di questo, sempre in Ecce Bacon, riconosce Testori:
Nello stesso tempo Bacon ha definito, con un’assunzione che mi sembra ben più sacra di quanto non possa dirsi stoica, che la disperazione dell’uomo a esistere come uomo e l’inabilità della vita a lasciarsi abitare come vita, sono conditio sine qua non; dove il “non” sta, a questo punto, per fedifraga menzogna. L’ultimatività dell’enorme inno alla corruttela del corpo umano che s’alza dall’opera di Bacon si muove, per l’appunto, contro tale menzogna. Ma è proprio nell’assumere tale ruolo o, come abbiam detto prima, tale mandato che la corruttela permette a sé stessa di farsi gloria (Testori [1985] 2023, 1125).
Il disfacimento come Calvario della forma, della carne, per farsi gloria. Questo è ciò che Testori trova in Bacon, nelle tele dove i suoi corpi maciullati, sfregiati nel colore, sono strappati alla loro rovina per una forza che pur insediata nella loro materia va al di là di questa. E di questa forza che strappa il corpo-dipinto verso una dimensione spirituale, in Bacon, ne trova una traccia anche Deleuze: “Dal momento che a condurla fuori dall’organico, alla ricerca di forze elementari, è una volontà spirituale, essa dà prova di un’alta spiritualità. È la sola spiritualità di cui il corpo è capace; lo spirito è il corpo stesso, senza organi…” (Deleuze [1981] 2023, 55). Un corpo artaudianamente senza organi è quanto Deleuze può riconoscere come spirituale; ma per un cattolico quale Testori, spirituale è un termine da maneggiare con maggiore proprietà, per capire così in modo più sottile l’arte di Bacon e di quanto essa – l’arte tout court – sia compromessa con l’uomo in maniera viscerale, tanto nella carne che nello spirito.
Testori lo vede nelle opere ma anche nella persona di Bacon, come riporta nel suo articolo scritto in articulo mortis, dove racconta del suo ultimo incontro col pittore a Londra, occasione in cui:
Se ne stava lì di lato alle opere, con quel leggero impaccio che deve provare chi sente d’essere catturato dalle voci dell’eterno. Bacon le guardava e sembrava, più che felice, quietato; una sorta di cosciente sorriso che aveva fatto finalmente cadere a pezzi il grifagno becco da corvo disperato di sempre (Testori 1993).
Forse consapevole anch’egli di aver raggiunto il traguardo auguratosi, di dipingere come Monet:
G. T. | [...] Il suo sogno [di Bacon], che, come lui disse più volte, era quello di dipingere le ferite o le labbra dei suoi ritratti come Monet dipingeva i fiori, secondo me si è realizzato. Anche le sue prime prove, dove non manca una certa imperizia (Bacon non aveva compiuto studi regolari, originariamente era un decoratore), riviste oggi colpiscono per la loro grande bellezza, che davvero ricorda le “ninfee” di Monet. Bacon ammanta la maledizione di una sorta di porpora regale (Doninelli 1993, 115).
Ferite e labbra sono le sue ninfee e fiori: non solo sostanza, la materia “nenufarica” già del Cairo, ma ora anche la nenufarica maniera che libera il corpo-dipinto del fardello della sua carne peritura. Una maniera capace di raccogliere il grado ultimo di rinnegamento della materia, di abiura, nel suo farsi come spirito, dove:
Dentro le sue tavole e le sue tele, destinate anch’esse a farsi cenere e a sparire nel niente (e ci mancherebbe che così non fosse!), seppure con qualche maggior durata nei confronti di quanto non sia concesso alle nostre esistenze e ai secoli delle nostre misere storie; anche nell’arte, dicevo, è proprio dalle abitazioni che, al punto di spalancare le loro porte, ci eran parse stipate solo di negatività, d’urli e d’infamante insondabile niente, che riesce a salire verso di noi la testificazione più credibile e, dunque, affidabile, di ciò che chiamiamo speranza; e di ciò che chiamiamo luce (Testori [1985] 2023, 1121).
Dalla stessa cavità dell’urlo che è più fragoroso e potente di qualsiasi terrore, sorge una possibilità, una speranza. Sempre in un urlo, Testori stesso aveva non solo trovato ma lasciato lui quella speranza. Nel secondo testo dato in lettura a Ferrero: “le lascio in portineria tanto la ‘Suite’ rilavorata, quanto quel che c’è della Monaca”. Alla Monaca di Monza, al suo finale bisogna andare, quando Marianna de Leyva, in faccia al pubblico – che la forma, la finzione, del teatro, è caduta – dice le sue ultima parole, e le dice da sopravvissuta, da morta tornata in vita, ché è sempre questo il personaggio in Testori:
Perché gli eroi di Testori sono dei risorti, persone che sono già morte, e la resurrezione avviene con morti risorti in scena. La scena è il luogo dove la carne può risorgere e se la carne può risorgere, allora la carne diventa verbo. La teoria teatrale di Testori è proprio questa: l’attore dovrebbe tendere a fare della carne verbo (Branciaroli 2004, 45).
Così spiega l’attore prediletto da Testori nella sua ultima stagione, Franco Branciaroli. Ma si torni alla Monaca: è davanti alla platea, o meglio: alla città. Davanti a lei “Monza è devastata dai binari che ne percorrono il ventre e dai fetori che l’assalgono notte e giorno”. Il suo fiume ridotto a un canale di scarico: “Il Lambro è diventato uno scolo di fabbriche e opifici”, e soprattutto, lei è sola: “Della nostra storia, ormai, non è restato più nessuno”. Ed è qui che il suo corpo cerca di svincolarsi, abiurare alla sua carne, farsi apostata in quanto attore e colore che sia in uno straziante grido.
La carne fatica troppo a ridiventar parola. E poi, se il verbo che abbiamo saputo esprimere dalle nostre ossa è solo questo, che senso ha aggiunto a quel che già sapevamo?
Parlo anche di me. Mi senti? Di me, di te, in te, contro te, nella tua ombra, nel tuo sangue, nella tua croce, nel tuo impietoso inseguimento. Perché, se son arrivata fin a dirti l’ultimo atto della mia vita e la finzione e la sfida che, attraverso le sue labbra, ho assunto in me e fatte mie, che luce posso presumere d’aver gettato su questo sfacelo di vite, su questo nodo di carni, di felicità proibite e di pianti disperati? (una lunga pausa, come nell’attesa d’una risposta) Tutto sta per finire. L’ultima possibilità che ci resta è qui, in questo momento, in questa parola. Te la grido per me e per tutti quelli che furono e saran vivi. Guardaci. Punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne; liberaci dal nostro sangue; liberaci dalla nostra morte. O distruggiti anche tu nella nostra carne, nel nostro sangue nella nostra morte. Ci senti? E allora, liberaci, Cristo! Liberaci! (Testori [1967] 2023, 502-503).
Seppur “la carne fatica troppo a ridiventar parola”, Testori e Bacon, “in passione socii” – così scrisse in commemorazione di Bacon Testori (Id. 1992) – è questo l’ultimo passaggio – certo ferale e doloroso – che per lei scorgono e fissano dopo averla costantemente predicata, professata nella sua realtà. Abiura che non nega la realtà della materia, ma anche non la lascia a sé stessa, che le nega il ruolo egemone e totalitario facendola diventare una parte fondamentale, decisiva, seppur non ultima. In questo ordinamento, che è riconoscibile come meta-fisico, alla materia – o carne – è dato, prendendo a prestito le parole di Lévinas, un preciso ruolo: “Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore” (Lévinas [1934] 1996, 31). È in questo paradosso che viene professata, esercitata, l’apostasia della carne. È quel “vincere la morte con la morte” che Testori ripesca da Gongora e trasforma in “vincere la materia tramite la materia”. Carne e materia – scriveva a proposito dei Teschi di Morlotti – “dovranno arrivare, per esistere veramente, per essere veramente tesoro e luce, alla fossa” (Testori 1978, s.p.). Dove:
Il continuo, colmo e calmo passare dall’esistere al non esistere, dall’apparire al disparire, dal farsi al disfarsi, dall’azione all’inazione, emblematizza la necessità che ogni realtà, per iniziarsi davvero, deve partire dalla sua fine; emblematizza, anzi, l’incontestabilità di come, principio e fine, pur nei loro significati, coesistano e coincidano; certo, non siano l’uno dall’altra separabili; e, men che meno, pensabili; in quanto risultano reciprocamente necessitati; e, dunque, necessari (Testori 1988, 10).
Un finale che nega e ingloba il suo presupposto, tornando a lui per sconfessarlo e al contempo ridefinirlo, per mezzo di un grido. Proprio qui – come, anzi, proprio nel finale della Monaca, proprio nelle tele di Bacon – è dove appare e si sente “quel silente grido di vittoria che dovrebbe accompagnare il lento traghettarsi da questa buia riva all'altra, cui non è necessario credere perché esista; il traghetto di un grande poeta che il dolore e l'insipienza della nostra vita ha vissuto, partecipato e rappresentato fino all'ultimo respiro; creando così, per tutti, una terribile forma di nuovissimo e atroce splendore” (Testori 1992). Dopo la forma, ecco la materia, anch’essa sacrificata. Apostasia della materia: liberata forma oltre alla carne.
Bibliografia
Opere di Testori
- Testori [1952] 2023
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G. Testori, Grünewald, la bestemmia e il trionfo, in Grünewald, Milano 1972, 5-10. - Testori 1978
G. Testori, L’orafo fedele e disperato, in Id., Morlotti. “Teschi” 1974-1977, Busto Arsizio 1978, s.p. - Testori [1985] 2023
G. Testori, Ecce Bacon [“FMR”, a. IV, n. 34 giugno-luglio 1985], Id., Opere scelte, a cura e con un saggio introduttivo di G. Agosti, cronologia di G. Frangi, notizie sui testi di G.B. Boccardo, Milano 2023, 1119-1126. - Testori 1988
G. Testori, Mater-materia, in Courbet e l’informale (catalogo dell’omonima mostra, Torino, Mole Antonelliana, 15 dicembre 1988- 19 febbraio 1989), a cura di Id., Milano 1988, 9-18. - Testori [1989] 2011
G. Testori, Le ferite dell’uomo. Via crucis di Vertova [1989], in Davanti alla croce. Parola, arte e vita, a cura di F. Panzeri, Novara 2011, 121-133. - Testori 1992
G. Testori, Disperata umanità dell’ultimo maledetto, “Corriere delle sera”, 29 aprile 1992, 7. - Testori 1993
G. Testori, Gli assalti del destino, “Corriere della sera” (7 marzo 1993). - Testori 1997
G. Testori, Opere. 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano 1997. - Testori 2004
G. Testori, Maestro no. Intervista e fotografie su «In exitu», a cura di A. Ria, Novara 2004. -
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M. Bazzocchi, Nel buio della carne, nella carne delle immagini, “Arabeschi” n. 5 (gennaio-giugno 2015), 69-78. - Branciaroli 2004
F. Branciaroli, Morti che parlano, in G. Testori, Maestro no. Intervista e fotografie su «In exitu», a cura di A. Ria, Novara 2004, 45-48. - Chiappini 2008
R. Chiappini, “La bellezza sarà convulsa o non sarà”, in Bacon (catalogo dell’omonima mostra, Milano, Palazzo Reale 5 marzo- 29 giugno 2008) a cura di Id., Milano 2008, 25-39. - Crespi 2012
S. Crespi, Testori e l’arte del Novecento, in Testori e la grande pittura europea. Miseria e splendore della carne (catalogo dell’omonima mostra, Ravenna, Loggetta Lombardesca 12 febbraio - 17 giugno 2012), a cura di C. Spadoni, Cinisello Balsamo 2012, 107-115. - Didi-Huberman [1995] 2023
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C. Heinrich, Il corpo come ricettacolo: i piccoli ritratti, in Bacon (catalogo dell’omonima mostra, Milano, Palazzo Reale 5 marzo- 29 giugno 2008) a cura di R. Chiappini, Milano 2008, 55-67. - Krauss [1993] 2008
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R. Rinaldi, Testori o della profondità, in Id., Il romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, Milano 1985, 63-177.
The contribution relates the writings of Giovanni Testori and the works of Francis Bacon, showing, in their different practices, a common conception of art and life. In particular, the conception of paint as flesh, and form as destined to fall. But in this undoing of flesh-colour there is no negation of material but the realisation of what can be considered its destiny. In these terms it is possibile to speak of an “apostasy of the flesh”, a definition given by Testori himself.
keywords | Giovanni Testori; Francis Bacon; Shapeless; Colour; Paint; Flesh; Apostasy.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Perfetti, Apostasia della carne. Fatica e liberazione della materia in Giovanni Testori e Francis Bacon, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 81-97 | PDF