“In exitu” di Giovanni Testori
Riduzione teatrale
Edizione e Nota a cura di Piermario Vescovo
English abstract
Si offre, a partire dalla cortese messa a nostra disposizione da parte di Franco Branciaroli del ‘copione’ (si veda, in questo stesso numero di Engramma, la parte finale della conversazione presso il Teatro Nuovo di Verona), la riduzione teatrale di “In exitu”, realizzata da Testori, su richiesta dello stesso Branciaroli, nell’estate del 1988, dal ‘romanzo’ omonimo, pubblicato da Garzanti nel marzo di quell’anno. Pensiamo non sia inutile mettere il testo a disposizione del lettore, poiché, se si tratta di una ‘riduzione’ nel senso letterale del termine (ovvero di una versione da rappresentare realizzata attraverso tagli del testo di partenza), essa si configura indubbiamente, nel disegno o nell’articolazione che mostra, come un testo d’autore. Presso l’Archivio di Casa Testori a Novate è conservata sia la copia dell’edizione Garzanti sulla quale Testori condusse la riduzione (in via di inventariazione), sia il ‘copione’ di partenza (SEGNATURA AT = 1.8.6.6=1988.V1.GTAT 6), formato nella prima parte da fotocopie ricomposte da pagine del volume e nella seconda da un testo dattiloscritto. Segnaliamo servendoci dell’ultima edizione del testo di partenza (quella del “Meridiano” Mondadori, a cura di Giovanni Agosti, Milano, 2023) le parti di questo tagliate da Testori per l’adattamento teatrale e i brevi passaggi di raccordo da lui introdotti. Ci limitiamo qui a una semplice indicazione dei punti d’intervento, segnalati nel testo dal simbolo <>, con numerazione progressiva. Per un’illustrazione più puntuale si rinvia alla Nota che segue qui al testo.
Ringraziamo per la grande disponibilità e la cortesia Giuseppe Frangi e l’archivista Alice Boltri, che hanno consentito e facilitato il controllo della piena documentazione conservata presso l’Archivio di Casa Testori. Per la riproduzione dei materiali si ringrazia l’Associazione Giovanni Testori.
Franco | Et vidi. Di presso avèa…
Et…
Giovanni | Lì, è. Lui (nessuno). Li fu. Lui (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno).
F | Lettore. Tu. Sai tu. Che è. Era. Fu. Per sempre. Mai. Lui. Lì (nessuno).
Lettore. Ciò che qui, cominciando, finisce. Ciò che qui, finendo, comincia. Sai. Forse non sai. Saprai. E se non sai. Se, ecco. Se. Se.
G | Era. Anzi, è. Lì. Lui (nessuno).
F | Nella notte (marcia). Lui. Nessuno. Coperta di nebbia (marcia) sulla groppa della città-cavalla. Viola. Nella notte. Marcia.
Asina chimica (marcia). Nella nebbia. Cementizia asina (marcia). Sulla di lei groppa. Il post-dicunt-industriale; post-capitale; et nunc sic post-d’ogni-post che verrà, passerà, si disferà.
“È venuto. Possibile non è stato. Che rivenisse”; lei dice questo signore, ma, in verità…;
G | In verità?
F | Mia città! Mia contristata, mia umiliata, mia derelitta, mia assediata, mia esacerbata città! Costituitosi in altare, l’economico imperio (e imperativo, anche) (anca) esigendolo, epperò privo d’ostie (e sacramenti, anche) (anca) (“Tu es sì bon”; Mi?: “Ti, sì”; “Toi, ouì”)... Ebeti, provettati altari (e putrefatti, anche) (anca). Il progresso anca (anca). Il progresso (anca) partorito avea nell’ingresso…; “del rest, ’sculta, anca se…”; anca, cosa? Partorito, dicèvasi, avea enormità elevantesi ai cieli (ad coelos) smissili, slaser, disacciaiesche, schimiche, post-schimiche escatologie (lei parla e scrive troppo alto; troppo difficile, parla e scrive, signore…); vèdasi, poi, classi, iperclassi, castrazioni e distruzion delle medesime (classi) (di àsen). E ti? Eccuta, ti? Mi? Nissùn. Nemo.
G | S’era, poi, piano, piano, rilasciata: essa, la putrefatta bestia.Del sociale. Sgonfiata, s’era. Rana enorme, trafitta anche (anca) dalla siringa; ben oltre la Cerchia; di loro, i Navigli; e anche (anca) dell’infangato Lambro.
F | El Làmber! Lu, el me Làmber, cunt el Lambrèt ch’el ghe va dent, là, a Lasnìgh…;
“perchè tornerò. Allora, voi, sì, voi,...”. E te? E ti? Eccuta, ti, lì, in quel cantùn (in canton quel)?
G | “Si preleva, ragazzo. S’introduce, poi, in la siringa”.
F | Cosa?
G | Il seme
F | Pane al pane: la sbora. Lui l’ha. Lì. Lui (nessuno). L’ha (nessuno). Lì. L’oggetto entro cui farla scivolare. La semente. Solo che non per quello l’ha. Lì. Pallido. Ebbro. La stringe. Lui. Ora. Mancano pochi passi, ora. L’ombre, lo guardano. Che, impietose e indifferenti, incontra. Nell’antistanti aiuole. Ancora esiste, quaggiù? Qualcuno esiste quaggiù, che s’incontri? Oggidì, chièdesi. Oggidì, richièdesi. Hodie. Cotidie. Di noi. Di voi, leggenti e non leggenti i volumi che più mai stampati, ancorchè editi, saranno. Saranno? Ebbero a essere. E a vardàrlo (anca). Un tempo. Diverse ed uguali. A chiedergli, ebbero, tutte, o quasi, loro, l’ombre, senza riguardo – e perchè, perchè, poi, riguardo usar dovuto avrebbono? – se accettava. Di far cosa? L’autosalente. Il levantesi giù tutto. Anche (anca) gli (i) sllp. Di far la troia, èccota. Se accettava. O il tròio. Lui, Riboldi Gino.
G | “Gino!” – l’urlo della madre; vomito di sangue; emorragia di partoriente; da sopra i chiodi trapassati, in lei, dal Golgota; dalla croce. Quand’avèa saputo. L’occhio. Atterrito sui violacei fori; benchè pesti; benchè marci. Nere tombe, lì, nella carne-cancrena. “Fa vedè, Gino!”
F | Aveva fatto vedere. E, lei, avèa. Vist’avèa. Qualunque, avrebbe fatto, cosa. Qualunque. Per poterlo ascoltare. L’urlo. Di lei. Non avèa potuto. Potuto non avrebbe. Nè allora. Nè dopo. Mai. Chi? Lui. Ello. Riboldi Gino. L’avèa scritto (“scrìv, su, scrìv”). Riscritto, l’avèa (“riscrìv, su, riscrìv”). Di sopra le sovracoperte dei quaderni (di sopra). I manoscritti più veritieri che esistano. Nel globo. L’uniche forme, Dio degli assediati. L’unicissime, anzi, Dio, dei procreati in vitro, Dio dei pederasti, Dio degli assassinati ammò prima che’ podano frignare. Huè! Huè! Huè! Tach! Abort! Via! In, del cès! Cunt la merda! E, Ti? Rispùnd, Crist d’un Crist de la Madòna! E, Ti? Più veritieri anche (anca), come forme, di (del) Dante. E di. Del. Del coso, anca. Del, lì, là… ’Me si chiamava l’albionico? Amen. D’hiscola. I quaderni. Elementar, prima. Media, poi. Anzi dell’hiscole. Onde fornirsi della necessaria, civile, nonchè social coscienza. Et scienza (“cunt la i, Gino!, cunt la i!”) Quasi un iddio. Nerissimi, i capelli. Nerissimi, gli occhi. Nerissimo-pece. Nerissimo-inchiostro. Nerissimo-menagramento. Nerissimo-morte.
Gliel’avèan detta. Essa. Lei. La parola. Della finale abiessiòne. Et a lui, gli toccò. Di sentir scivolare su di sè anche (anca) quella. Essa. Lei. La parola. Il verbo. Mentre che lo gettavano sui letti. Viscidi e gentili. Quasi fossero di già. Bagnati di già dalle salive. Dalle baùscie. Dalle biancastre colle sfacèntesi. In coaguli sfacèn… In… Giallastre poco più. Lievi poco più. Del chiaro degli ovi (di öv). E dalle catarrose, espettorali sostanze. “Ti, vàrda qui smàcch lì, sul fassulèt… La sarà minga sbora?”. L’èva, sì, l’èva. E ’lora? Sei anni. Dicesi sei. Sei, cosa? An. L’an. L’ano. El me. El to. El di loro. “Guardati, Gino – gli aveva sussurato, d’un subito, molcendone la psiche, dentro l’ossa, lei, la voce – Guardati: un iddio sei” – mentr’era adulescens ammò. Ancora. E qual voce quale? Da che gola da? Proveniente da? Vox populi? Vox dei? Vox culis? Tropp’era. Mielosa trop. Epperò. “Imprigioni in te – proseguito avèa ess’ella – Il lembo imprigioni del lago. Dalle cui magre rive la madre tua sces’era”. A nome: Annone. El làch. Tuo padre era (è) della Porta. A nome: Cicca. Non ne rimase cica. E lei, adesso? Grida, lei, ancora? Vòsa, ammò, in del letto? E come se, ’desso, in del letto? È stato didendro del? È stato didendro del? Disìmel! Almèn in quel mumènt! Èccuta. Almèn in quel mumènt! Quale? Quello del? Forse del? De il sboràmento? Tutto avrebbe dato.
Tutto (tut), mamma! T’el giùri! Tut! Tut!
Mia città, mia cuna, mio falansterio, mia latrina, mia bara!
G | Cercatelo! Chi? Cercatelo! Chi? Cercatelo! Chi? Cercatelo! Cercatelo! Cercatelo! “Non è qui” – l’angelo disse. Di scolta. Fermo. Quasi marmore. Al sepolcro. Niente sarà più. Niente. Qui. Niente – ripetè l’eco flebile, gemente… ente… Non ne rimase ente.
F | Cica. Non ne rimase. Non. De ti, papà. Cica non. De ti, uperàri specializzato. Anzi: specialissàto. Smangiato dal carcinoma (anca). Ridotto a scheletro (anca). L’ultima poltiglia gialla sulla bo… bo… Bocca, èccota (anca). Sigillato. In la cassa. In. E lui (ti) davanti di lei, la cassa, a vusà (in silènsi): perchè? Rispùnd, bestia d’una bestia! Rispùnd, crus del porcu Dio!
Glien’avevano messa una. Di croci. Lì, tra i, le. I dida. I zii. Un’altra, di bronzo, era stata infissa. Chissà da chi. Di sopra il coverchio. “Da chi?”. El legnamè. “Cosa vorrebbe dire quella parola? Anzi: ce mot là?” Falè… “Et après? Vada avanti, Gino”. E verso indove, signora maès? Uperàra anca. La genitrice anca. Cinquasett’anni. Ma era come venuta su. Era. Lucertola grigia (“Santa Agnès, Santa Agnès-la lusèrta in de la scès-in de la, in de la… in de… in… in…”).
G | Dai secoli dei secoli dei secoli dei secoli. Era. O giù. Dal Cranio. Il sito del sangue. Il sito dell’Infamia. Della strage.
F | Uperàra anca. Anca le. Anca. Per darci (a tu) (a ti) (a te ti) la possibilità d’essere, o divegnire, altro da quello che eran stati loro. Di fatti. Altro. Esattamente questo. Nell’immensa bagna della nebbia (nella, anzi, immensa baùscia) lentamente, issima, issimissimamente (anca), si profila l’elefantesca pietra. Lei. Ti. Tu. Te… “La grammatica, Gino! Ti, tu, o te?”. Per l’appunto, signora maès. “E, allora, scegli. Con esattezza”. Invece no. Scelgo no. A meno ne. Vuol vedere che si può? Farne a meno sì? E, allora, incomincio. Ti, tu, te, stazione! Ti, tu, te, gigantessa! Ti, tu, te, porta del progresso vieppiù regrediente! Ti, tu, te, arrivo! Ti, tu, te, partenza! E per indove? Lei che è dietro a leggere, delle volte, il sa? Il sa? Il sa? E se il sa? Se il sa? Lì. Proprio lì. Esattamente lì.
G | E cosa, poi?
F | Lì. Aveva accettato lì.
G | E cosa, poi?
F | Lì. Esattamente lì. La prima volta.
G | Di far che?
F | Di farsi fo. Fottere. Farsi. Nel vicì. Cesso, intèndasi. Dell’elefantessa stazione. Papà? Papà? Parla! Parla ammò d’una vòlta! Vùna! La costruzione egizia del Ramsesse secondo. “Celeste Aida”. Mai vista. Mai sentita. Tranne l’aria che cantava il. Lo. Il. Anche (anca) quand’uno, dei tanti, l’avèa voluto, ai bei dì dei dì, portare. Alla Scala. Non questa. Che l’attende. Di baselli. Da salire. Uno dopo l’altro. Sensa cadute (se fa per di’). Sensa Veronica. Sensa Cireneo. A quest’ora i tapis-roulants se ne stan fermi. Bloccati se ne. Tutto se ne. Fermo. Bloccato. Se ne. Se ne. Anca. Se ne. La nebbia anche (anca). L’umida bagna, anca. Se ne. Se ne. Anca. Se ne. La nebbia anche (anca). L’umida bagna, anca. Se ne. La saliva dell’ano smisurato, spalancato (anca) su di te. Su di te. Su di te, città! Città! Città! E, poi? Cala. Essa (smisuratone l’ano). La baùscia cala. Cola, anzi. Come l’acqua sui gres dei vesp, dei vesp, dei vespà… <1>
Che biglietto prendere, adesso? E verso dove l’avrebbero poi portato il biglietto e carrozza? Verso dove, adesso? Verso dove? Verso dove? Sta lì, lui. Fermo. Immobile. Sui treni saliscono. Nella notte. Viola. Marcia. Loro saliscono. Nella notte. Viola (marcia). Quelli pei quali viaggio è viaggio, vita est vita. Santa, santissima (anca) mia pulvis mia! Unica mia bianchezza! Conquistata mia! Tagliata mia! Per farmi sortire prima, subito, adesso, qui, da questa latrina! Da questa. Da ques… Da ques… Da ques… Da ques…
G | Una piega, gli torce, ora, la bocca. Et dire… Non dice, invece. Niente dice. Del niente. Et dire che v’era stato. Infinite volte. Baciato. E lui vi s’era. Lasciato.
F | Anche sul buco. Del culo. Anca. “Se poi sa di merda, meglio”. Nel vici. “Che bocca, Gino!”. In ’taliano antico: “qual mai bocca e rosei labbri, Gino! Cosa sarebbe, anche (anca) per lei, se lei solamente…”. Se io, solamente? Se io solamè? Se io? Se io?
Gino! – l’urlo della partoriente. Davanti ai buchi. Della carne. Di lui: il venduto, il comprato, il latinante, il cessante. Cessante anche (anca) dell’esistere; del vivere; del palpitare: e persino et anche (anca) dell’usmare. Il casso. Altrui.
G | L’altrui anale foro. Una scarica. “Ma perchè, adesso? Cosa c’entra, adesso?”. Una scarica. Una mitragliata, lì, nel ventre: ot addome. Un chiodo per ogni mano. Un altro sui due piedi. La corona di spine didentro le tempie. E nelle orecchie (anca). Nelle. Et poi.
F | La Tua pelle tutta scarbontita. Dai peccati, Gesù! Gesuìno! Un Cristo del Cristo! Anzi, un’ostia di un’ostia del Cristo troia! No! L’ostia del Cristo, no! Non ne parli! Pur s’è troia! Non ne scriva! La supplico! Nè adesso! Nè mai! Quanto al senso, ecco. Quanto alla Giesa. Trattasi, per certo – gli avevano insegnato – di dilatata fantasia. Inlordata, come se il resto non bastasse, di sangue. E delle di lui (del sangue) croste. Onde tener buoni i servi, i venduti, i comprati, i pederasti obbligati, i dementi accecati, i culi che han da servire a sfogarci dentro i desiderata dei possenti dopo che ne sia uscita la merda...
Dila! Dila su, mamma! Mèdica via no! La verità, èccuta! La verità! Se la gh’è, dila! Vùsela!
G | “La gh’è, Gino! Dam a tra’ a mi. La gh’è! la gh’è”. <2>
F | L’ultim’era. Fu. L’ultima. La dernièr. Lettera – letterarum. La dernièr. Fuit. Sua fuit. Del munito. Dell’incollato (dal Cristo porco). Di loro. Le (i) al (ali). In sulla scièna (ali). Ripètesi: scièna. Ripètesi: al, ali. Et anca (anca). E, ’lora, provi. A scriverne una, scrivano. Lei. D’ultime. Vuna. Domà vuna. Com’era (’me fu) quella che mi ha scritto ad io. Proprio ad io. Il papà mio di. Una volta, forse. Gliel’ho detto. Già glièl. Dissi. Una volta. Lei ha da ricordàr. Lei ha. Lei. Pensi, lei. E vedrà e. Lei, sì. No? Lei ricorda no? Lei rammenta no? Lei ricorda e rammenta domà? Lei è troppo occupà? No, lei no. Lei è no. A lei ci piace domà nella bocca Quant’al padre. Lui. Quant’al lui, ecco. Èccota. Quant’al lui... “Mi faccia – disse – li mio papà – una trasfusione ammò, suora. Ha gho de. Ho da finir di...”. Così: di finir di scrì. A chiuder, non ce l’ebbe. A chiuder, no. Il verbum. L’orale. Et ora. Ora pro. Ora pro. Ma lei, la lettera, sì. L’arèva. Finita l’arèva. Anche (anca) l’arèva piegata. Messa (anche) (anca) in della propria busta. Le dida non eran più state. Altro non eran più state che. Che. Più state che. Oss. Mia mamma ’rivata sarebbe. Mia mamma. La sira. Sira est. L’orario est. Erat anzi. Pei uperàri pei. Erat. Quello dei. Quello dei. Maledetta Ninguarda! Maledetto stradòne-figa che vi ci (ci) porti (ci) (ci)! Maledetto sangue che metti addosso la rogna, l’amore, et amor (anca), tra quelli che t’hanno in del comune! Maledetta tutankamica pietra! Ti vedevo, te! Spuntar, ti vedevo, pietra dei malati, dei fregati, dei destituiti, dei ostiati, dei carcinomati! Di marmore, ti vedevo spuntar! ’Me l’angelo che disse (l’ha detto, l’ha detto, l’ha vosàto, viventi di mèr!). ’Me l’angelo che disse: “Non è qui, non è qui”. Ti vedo venir avanti ’ammò, maledetta coda, cùa, ansi, cùa porca, cùa danada, cùa dei disgrassiàti fermi, disgrassiàti li, a specciàre, fermi, sudanti ’me rane o ranette in del caldo, gementi ’me feti o fetini in del frecch, con in delle mani i aranz (i ’ranci), i biscòt (i cot), el ciculàt (el lat), el Porto, i giurnài (ai) (et anche) (anca), et i (gli) ebdomadèr (anca) èr, èr, èr. In attesa che le porte della pietà vigliacca di essa lei, sì, di essa lei, si dervissero! Qual pietà? Eh, qual pietà quale? Quella di ’sta terra-tomba ’sta? Quella? E ’lora, se non? Quella se non? Del cosmonauta che? Dell’oppio che? Dell’oppio che op, che op, che ор? Mia mamma, lei vede, scrivà, lei. Vede. Mia mamma dice, almeno, su. Lei. Il rosario. Almeno. Nella saletta-cucina. Dice. Il mobilio acquistato a Cantù. Lissone. Lis. Lis. Tu. Ti. Tu che lis, l’inno. A noi canti, tu. Tu che. Quando sposàssi. Quando. Quand s’èren spusà. Quand. Et talis restato. Talis. Il mo. Il mobì. Il mobì. Con le fortune, tutte, che piombate in su la câ eran – erano. A incominciar dal. Carcinoma dal. Ciàpel, Diu troia! Ciàpel, Diu vacca! Ciàpel! Ciàpel. In del to cu! Se te ghe l’è! Stelle filanti. Stelle cadèn. Stelle cadèn. Che necesse. Necesse dicunt. Dicunt che biso. Dicono che il post-industriale dicunt. Che sarebbe la civilizzazione. Capitata al, al. Al noi. Et anche (anca) al lei. Di lei che scrive (amen). Amen. Et anche (anca) al lei. Di lei che legge. Vacche! Vacche ambo! Scrivens et legens! Amen. Amen. Un Cristo, amen! Vacche di! Vacche di! Vacche d’ambo di! Bussate, ’lora! Bussate, vacche d’ambo! Bussate! Vi sarà aperto vi! Aperèbuit! E da chi, eh? Da chi! La porta da chi? Et el purtùn? Di Ninguarda di? Delle gràssie? Di che quelle che l’annonèse avèa dimandate? Di quelle? Di quelle? Di quelle, ecco, nissuna. Nissunissima. Era stata nissuna. Concess’era. Nissùna. Nissunissima. Ma, lei (le). Ma, lei (le). Era, lei, andata. Avanti era. L’istesso. L’istès. Va avanti (anca). Anzi, ammò. Ammò pussè. Et ammò pussè di. Prima di. Pussè ammò. Mammetta? Va’, avanti, mammetta! A domandarcele, va’! Stasìra! Propri stasìra! Propri ’dès! Dès! Dès! Va’ avanti, sventrada di dal. Di dal carcinomato-to. Nemmen più disponendo, stasìra, lei, le, (ti), d’un singhiozzo. D’un singhiò. Lei. Le. La mia ma. “Ci tenevo la testa per via che orademài il fiato (el fià)...”. “La grassia. Stasira. Èccuta. Fàm la. Gràssia fàm. Fàmela. Per el …” (sarei il me) (inteso? il me-culo, il me-drò). Ed ha avuto, lei, il coraggio di scriverlo? Ne ha trovato, lei? Per la bisogna ne ha, trovato ne ha la cara forma, il caro stile? Forma del! Stile del! La stilo. Se de mai, ella. Èccota. Ella. “... et anca, la grassia, per el me mort” (che, invece era come se fosse lì (qui). “Perchè lù l’è chì; el me guàrda; el me tegn fin cumpagnìa”. Cum. Cum. Cum. Conosce, queste, di cose? Di cose, lei, conosce, lei, queste? Queste, dico. Queste. <3> Dopo delle ore che son qui, alla Gar. Un quadrello è. La gamba di me è. Di stagno è. De stàgn. De piùmb, anzi. De stàgn-piùmb. Mi tocca di muoverla mi. E, dopo, ecco. Un altro passo, dopo. Ogni due secoli, vuno. Ne faccio tre e ’rivo, qui ’rivo. Fino ai Sborgia. Oppur su. Fin a quando andranno (chi?) da Marte (chi?) a Venere (chi?). Chi? Come se fosse da Lo. Lo. Lo. Lodi, chi? A Milàn chi? O vicevèr (chi?). Vicevèr. La Russia è incosì. Visìna incosì. E l’America anche (anca). Troie! Vegniva a piedi. Sì, a piè! La bella Gì. A piè, vegniva! A piè! La mia mama! A Ninguarda, vegniva! A piè la vegniva! Guài! Guài a te, Corazìn! Guai! Guài a te, Betsaì! Guài! Da dove ’rivano a? Da dove ’rivano a? Da dove ’rivano a? Vado in. In avanti, va. Non che. Lei, forse, non. O, forse, lei. Posso darle del tu, ’desso? Parlo a lei (anca), a lei, scrivàn. E soprattutto (anca). Quelle parole. Da dove ’rivano da, al nottante qui? Al centralante nell’antistanza dell’aiuole ricovertate di bruma. La bruma, la... Nella nebbia della porca troia. E la Madonna ’riva no! ’Riva no, mamma! ’Riva no, a portar ammò il suo pondo. Ascoso il. In la nebbia et brumis. Ascoso in. Qui. Qui, in dove non ci si scernièra più. Qui, in dove non ci si tira fuori più il casso per far vedere ’me l’è mai gros. E bel. Dove non si lecca più. Gnanca la semplice bocca. La bo. El pumpìn del pumpinàr. Almèn per. Per quello, che mi, almèn. Chè io. Per quello che io. Chè me. Almèn per. Riguarda e concerne me io. E, ’lora: scriva. Riguarda et concerne. Riguarda et concerne il. Il Ri. Riboldi Gi. Perchè, forse. A quello là – lo vede, lei che legge che? Lo vede in della bruma in della? A quello là, forse. A quello là, forse, ci domandano ammò di dervir la pàt. Di dervir la pàt. Guài! Guài a te, Coraì! Guài a te, Betsaì! È, forse, lei, signor scrivà? È lei che me le mette met? Lei è, in tès, ’desso mi, in tès, in tès? O son le guardate in sui? Son esse sui libri del Pa? Padre Emì? Padre Emì? Mi rimontan su, Padre Emì . Mi rimontan su, Padre. E, Padre E! ’Me fossero aglio mi! O scigùla! Quanti volt, mamma, ha gho de dìt ch’el me tùrna su? “No, Gino. Spurifica la circolassiòne. Et tìen via. Lontan tiene. Lontanissimo, ansi, il carcinò”. Tien? Tien lontano? Lontanissimo, ansi? E cosa? Te le vìst no? “Chi?”. Il sposo. Di te, il…
G | Gino… – fu, quella volta, dalle labbra della madre, non un urlo. Un’implorazione. Un belato. Forse ancor meno. Fu talmente che, ecco, non.
F | Si sbaglia, scrivano. Iì sentii. Il. Et ploratus sum. <4>* Il sentii.
G | Cosa?
F | Chi, in la buca.
G | Cosa? Gino?
F | El Gesùcri.
G | In che manèra?
F | Nella manèra…
G | Va’ avanti, Gino!
F | Nella manera d’un... Nella manèra d'un... Nella manèra d’un... Ho dervìto la bocca: è venuto. Dentro m’è.
M’è. Entrato m’è. Dentro. Dentro m’è. La prima volta. Là, sui baselli. Della gièsa. La mia mamma mi. Guardàvammi. Et anche lui, il mio papà. Comperato m’avèan il vestito apposta. Apposta per la co. Per la co. Per la prima co. Per la prima co. Per la prima co. Per la prima co.
No, sconfòndomi. La prima volta stato. Là è. Nel vicì. Senza baselli, nè gièsa. Biòt. Che nella materna lingua è biòt, cioè nudo. ’Me ’desso. Qui. Nessun v’era. E l’ignoto fece: “Sbàsses, sù, sbàsses!”. Non gli bastavan più ora. Le mani non. Con cui pur. Trafficando pur prima. Gnanca gli. Gli bastava gnanca che fossi. Già fossi. Sbassato fossi. Voleva lui che me. “Abbi no pagura. L’è net”. Pulit’è – dicesi. Tanti, al fatto, dan avvio coi gigolò e i bìgoli dell’altrui classe. lo me, avvio ho dato cunt. Un upèrari cunt. “Ne podi pu de ciavà la mia dona. ’Lora fai anca te ’me fa lei. Ciàppumel in buca”. Tremai (anca). Anca. ’Desso anca. Tremens. ’Lora, però... Men d’un attimo fu. Fuit. No. Est. Il gigantesco capite vedendo. Esso egli. Vedendo verso la di me bocca venire o ’prossimarsi. Quasi immòbil. Turgens. Viànd. Come. Carna. Come la carna de l’eucà…
G | Riboldi! Riboldi Gino!
F | Così! Il ’desso d’allora! Così! Esso! La scirèsa che poi era (è)! Esso! Il càpite! La cervice del sesso! Se non mi sconfondo. Perchè? Perchè? Perchè ho chiuso no? Perchè gli occhi, no? ’Lora, perchè no? Quasi incantàt. Fascinàt, quasi. Nel vici. L’ora era che non. Veniva nemo. M’assicurò egli. Nemo. Nella bagna (nebbiosa-àscia) che colava. Giallastro reso avèa il. Dicesi anca (anca) gres. Lo ero di già. Vegnir di fila, ’Lora, volte tante potèa. Lo me. Dipendeva da come poi. Astante il. L’astante astante. Enormissimo. Cald’anche. “Dervela ’sta buca…” – sussurràvami. Ormai pressando. Di già i labbri (nanammò marci). Nemo essendo che noi. Et io iniziato avea. Usmavo. I calsòni. E, di sotto i peli, lo (il) scroto. “Ma se usmi già lì, usma anca (anca) qui”. Avèa poco prima. Dett’avèa. Mentre che seduti stàvasi. La testa piegata sul ventre suo – “Pusè in bas, pusè in bas, pusè in bas, pusè in bas” – m’avea. Di forza, poi, sbassàto ancor più. Ancor più. Papà! Papà! Papà! <5>
G | Ma cosa vai dicendo, Riboldi?
F | Vado dicendo. Fu Ecco. Et. Per semper et. Mentr’usmavo. L’odor del. Del paradiso che odorava. ’Lora il parfumo del mio papà sudante nel letto di Ninguarda. Quello. Perchè negarlo, perchè, perchè, perchè più o meno…
G | Più o meno, cosa?
F | Squasi. Ecco. L’ugualità dei sessi sotto i slip o le coltri. Quello del papà o quello dell'ignoto. Nel cesso o a Ninguarda. Non levài. Usmài. Seguitài a. L’ignoto, intèndasi. L’uperàri.
G | Ma tutto questo che senso ha?
F | L’ha! L’ha! L’ha! L’ha!
G | Ma, allora, scriver dèbbolo!
F | Dèi! È un ordine! Se vuoi che. Se vuoi che. Il Cristo. Lui. ’Riva a questo punto, Lui. A questo precisissimo punto, Lui, ’riva! Lui! Il Cristo! Esso! Scrivi che ho detto che il Crì. Mentre che pressando l’ignoto sui labbri il rospo-rosa, la scirèsa, il glande... L’esìgo! L’esìgo! <6> Mamma!
Dìla, mamma. Anzi, dìl el rusari! Anca cunt l’artrìtiga, dìl! Anca cunt la bestèma del Ginetto-troia, del Ginetto-figa! Dìl! Dìl, mamma! Dìl! Dìl!
G | Perchè stat’era. Per lui. Là. In la gièsa. Per la prima volta. No, non un’idea. Non un’immaginassiòne.
F | Il Cristo m’era. Entrat’era in. Entrat’era in. In. E si ripetette. Dopo. Volte infinite. Dopo. Finchè: basta! – dissi. Basta! – urlai. Basta! Basta, carne troia del Cri! Carne troia del Dio incarnà ’me l’ùngia! Che da me vuoi? Che? Che? O dimandi che? O cerchi? E ’lora? Questo dir vuoi? ’Lora ’riva che potendo non? Altrimenti essendo che. Fame. Più ammo che. Et sitis. Sizio. Sì, sizio! Siziài. E la mia mamma che mi. Disèvami lei: “’turna ’na quai volta”. Intendeva là, sui baselli dell’eucà. E savèva no che a un punto. Un certo. Avèo già. L’altra carne, ego. lo. Lo stroiàto. Il pompinàro. Ego. Savèva no che assunto avèa. Ego. <7> E uguali savèva no che erano nella scirèsa. E che nella bestemmia nella. Nella. Trascinabo vitam meam. Trascinerò – le dissi – intrèga la mia vita.
G | Indove? Gino? Indove? Indove?
F | Nella sbora-droga. Nell’over. Nell’over. Nell’over… Et vidi, et la vision vidi. Foràron. D’un subito. D’un subit’ ecco. Foràron. Perforàron, anzi. Qual eserciti. Qual lance. Qual spade. I cieli foraron. Perforàron. Nudi. Qual angeli. Gettaron, appena apparsi, dai crani lor, i caschi. Lunghissimi, seppur ricci, i capelli si disciolsero al terribile vento, da cui eran generati e spinti e ch’essi medesimi generavano e spingevano. Occhi avèan. Di fuoco. Imperdonanti. Le Yamaha su di cui cavalcavan, si precipitarono nell’immense strade dell’inumano vuoto. Urlàvan. Tutti, urlàvan. Tutti. Nell’urlo dei motor loro. “L’ora è! L’ora è! Chi può! Chi può! Chi può! Gèttisi, chi può, in ginocchio! Chi può, chi può, s’umilii! Gèttisi, chi può! Gèttisi di dentro! La terra didentro! Gèttisi didentro la materna carne! Didentro l’Annòn, gèttisi! Gèttisi, sì! Gèttisi e piagna! Si laceri! Strappisi i capelli, le labbra, i capezzoli, i denci, gli occhi, le giangìve!”.
<8> Sangh. Sangh.
Perciò gli anghèlos non cessavan di procombere, moltiplicarsi, precipitàr, volare. E, nel di lor non cessare, la ferita, lo squarcio, il foro, l’ano celeste, l’oltraceleste ano, benchè pienissima fosse notte, benchè vist’avessi, fin da prima, la Diana; il varco, ecco, che avèan da sè e, tuttavia, non per volontàde loro, aperto, ingrandìvasi. A dismisura, ingrandìvasi. Le Yamaha continuavano ad avanzar, procombere, precipitar, volare. E così le Guzzi e le Kamasaha. O l’altre, diversissime, infarcite di potenza american-giapponese. Ma non eran più, non eran più, ecco, non eran più, non eran più, nè Yamaha, nè Kamasaha, nè Guzzi, nè l’altre! A nessuna appartenevano fabbrica, o marca, che, sulle strade di qui, bench’io mai n’avessi avuto desire, arèvo pur viste! Erano, ecco, erano! Sì, erano! Erano! Erano! Come se fatte di carne anch’esse. Fossero anch’esse. E di lei, si mostravono. L’opposiziòn medesima, erano, di quanto qui accadeva. Qui. Di quanto qui accade. E accadrà. Vieppiù. Vieppiù. Vieppiù. E lor, gli angeli. Lor… Finchè s’arrestaron.
Ognuno, con a fianco, quasi fosse, ed era, parte di sè, il nudo, cavalcato motore. Pur esso, di sangue, di martoriata e ricomposta carne. D’un colpo fu che lì. Là. Per ogni dove fu che s’arrestaron fu. Omnes. Così fu. Testifica. Lì. Là. Omnes. E te, scrivano, te? Testifica anche. Allora, sì, un coro. S’alzò, ecco. Un co. Levòssi un. Altissimo. Ordinato. Ordinato dall’incomprensibile regola cui obbedivano. Regola da cui provenivano. Di cui eran parte. Di cui figli eran. Per cui avèano, stavano, o avrebbero, essi pur figliato.
“Ecco! – fece – Ecco! Ecco lei! Ecco lei! Ecco la Goccia ! Eccola! Eccola! Eccola! Sbarrate le labbra, le mani, gli occhi, voi! Voi, che odiata l’avete! Voi, che l’avete! Voi, che bestemmiata! Voi, che rifiutata! Voi, che cancellata! Voi, che vomitata!”.
La terra, il Parco, i monti, le valli, i mari, Annon, la Porta, l’eterne nevi, l’eternissime anche, le cime, gli oceani, le tombe, le piane, Ninguarda, le rocce, presero, allora, a scuotersi. Tutto, prese. L’universo intrègo, prese. A scuotersi, prese. Terremotato dall’annùn. Digrignaronsi. Digrignaronsi, ’lora. Gli sconfitti, sì. I denci. Digrignàron. Che denti non più, non più eran. Ma enormi eran. Protesi eran.
“Dov’è la carne? Dov’è? E dove, l’ossa? E dove, dove, li sangue? Dove, li sangue che? Il sangue che? Gettato, dove? L’avete, dove? Al pasto di chi? Di chi, al pasto? Infami, di chi? Di chi? L’avete, di chi? E a quali trenta, l’avete? A quali, vermi d’acciaio? A quali?”.
Una luce. Liquida una. Illimite pur. Come se. Nell’immensità come. Nell’immensità in cui il varco trasformato s’era, fosse principiata. Un’emorragia fosse. Precipitò giù, lei. La luce. Si diffuse. Divenne infinità infinita di cascà. Di cascà. Di cascà. Di cascà. Alluviòn d’alluviòn, divenne. Et coprì. Di sè. Coprì. Rendendoli ancor più splendidi e grandi. Gli angeli. Le Yamaha. Le Guzzi. E l’altre. Tutte. Ogni cosa. Coprì. Di sè, coprì. Di sè, coprì. E infiammò. Ogni cosa in. Ogni cosa, là. Nell’in del. Nell’in del. Nell’in del.
“Giunge! – gridò, allora, il coro – Se avete ancor forza! Se avete ancor! Se avete! Se! Guardate, se! Giunge! Giunge! Anzi, è! È! È! Qui è! Già qui! Già qui! Già qui! Sul varco, già! Sul varco! Qui! “Dei tempi sul! Sul varco dei e delle! Delle dimensioni delle! E! E! E!”.
Una goccia, a quel punto. Anzi, lei, lei, la Goccia! L’unica! La sola! Quella come quella. Gettato, m’ero, sui ginocchi. M’ero, Iì, sull’erba. Mentre, di presso a me, la sirin stava aprendosi. Sfacendosi, stàva. Allora la Go.
No, scrivano! Così, no! La maiuscola, necesse! La maiuscola! La maiuscola! Perchè non! Era non! Anzi, no! Perch’era! Perch’è! Lei, era! Lei, è! Da prima! Da sempre! Ma, in quel momento. In quel momè. Solo in quel. Si rivelava. In quello in cui. In quello in cui. Perchè vidi. Sì. O, forse, presagii. Senza niente capii. Niente. Demente, vidi. Idiota, vidi. Carne sfatta, vidi. Culo spompinàro e inculato, vidi. Drogato, stradrogàto, eroinòmane, straeroinòmane, vidi. Non usciva, non! Da sesso, non! Ma, era! Quell’era. Per cui. Simil, sì! Benchè eterna! Simil, sì! Benchè eterna! Eterna!
Aprendosi qual forno, qual vagina medesima dell’esistenza, qual sua bocca, urlò: “Falsità, tu! Falsità, tu! Or’è! Or’è! Or’e che! Or’è che sfarinerò! Or’è, il di te regno! Or’è che da lì, dalla terra, contro di te contro, come dai cieli lor, si, lor, l’ànghelos, l’ànghelos! S’alzeranno, or’è, i resti! I resti s’alzeràn dei figli che furon da me! I tuoi, regno dell’anticarna, regno dell’antisangue, regno dell’antisperma, verranno, da me verràn, da me verràn! Assunti pur! Verranno pur! Per ch’io li porti, io, coi cadaveri altri! All’essenza li, dell’eterna car! All’essenza li, dell’eterno san. E tu! Sarai, tu! Lì, sarai! Perduta, tu! Vinta, tu! Ancorchè vincente. Ma sol in ciò ch’è. In ciò ch’è. Mort’è. Et finis”.
Fu lì! Fu lì! Fu lì, che disse! Il nome, disse! Quello dell’infamia, disse! Quello della gloria! Dìsselo! Cantòllo! Urlòllo! “L’ostia son! – urlò – L’eucà! – urlò”. “L’eucà! – riurlò – L’eucà! L’eucà!”. ’Lora... Un lampo, ’lora. Scese. Su di me, scese. Trafìssemi. Come là. Sui baselli. No, di più. Infinitamente di più. Caddi. Da alzato. Come da me m’ero. Per veder m’ero. E scoltar anca. Forse, riscivolai. Forse. Ma lì, restai. Lì. Qual morto, restai. Corpo qual. Morto. Finchè. Un ansimar finchè. Un urlar finchè. Da terra. Mio, anche. Mio, sì. Anche. Anche. E d’infiniti altri. D’infiniti, sì. Di dai secoli dei secoli vegnenti et orum vegn. Pietà! – feci. “Pietà!” fecerunt. Pietà! – feci. “Pietà!” – fecerunt. Pietà! – feci. “Pietà!” – fecerunt. Pietà! Pietà! <9>
G | Strascicando, tentò di portarsi innanzi. Ben radi erano, ormai, i viaggiatori: in arrivo o in partenza. Avea salito, per intero, cadendo, sollevandosi, ricadendo, risollevandosi, il lungo, marmoreo scalone. Non dice più. O forse, dice, sì. Ripete. Ma senza, ecco, più voce più.
F | Civis! Civis, te! Civis, te! No! ’Des, basta. ’Des basta, civis! Vo’, ’des. Vo’. M’en vo’. ’Des. Dirìgommi, ’des. Borlo giù no, ’des. ’des, no. Mai. Più mai. Giamè. Giamè più. Plus più. Borlo giù più. Scarlìgo più. Plus mai. Trop sun ’des. Visìn trop. Trop. Trop. Trop. All’Empireo trop. All’Empì. All’Empì. All’Empì. Tremens in del. Vicinarmi in del. Tremens. Perchè tremens? Perchè tremens et? Tremens perchè et? Ha gho de. Ha gho de. Besuèn de. Nosingh de. Ha gho de. Capi, cus’ha gho? Ha gho de. Cosa et cus’è ha gho de? Nosingh. Nosingh. Nosingh. Sì! Nosingh! Ma, le! La! Le! La! La gha sarà sì! La gha sarà sì, mamma! Le! La! La gha sarà! La lus che! La lus che! La gha sarà! Le! La lus! La lus! La lus, scrìvens! La lus, lègens! La gha sarà! La lus che mi! La sbora che mi! De chi a. A un mument de chi. A un mument de chi. ’Rivat’è. ’Rivat’è. Il temp’è. Di portar di. Di portar di. Di là portar. Il pondo mio portar. L’oscuro ascoso tuo che fui. Te, genitrix. Del culattùn, te. Del culattùn–drugà, te. Del culattùn troia e spumpinàr, te. Città! Città! Città! Guai e te, civis! Guai a te, Annò! Guai a te, Ribò! Guai a te, Ribò! A gho i me mort, là. A gho i me mort. Visìn al lach. Visìn al laghèt. D’Annò del. Del niènt. Nosingh. Perchè? Perchè? Imperchè? Sarèm tucch. Bagnà e succh. Sarèm tucch. Bagnà e succh. ’Me là. In quella sira–sera. In quella sira–sera. Quando che vidi quando. L’anghelos. Mamma! Mamma! Mamma!
G | Al grido, soffocato, anzi, strozzato, come da sè, come, ecco, per vietàrselo con le proprie mani e così negarlo, nessuno ebbe a voltarsi. Del resto, se qualcun pure voltatosi fosse, possibile non gli sarebbe stato scorgerlo per entro la densa, vagante nebbia che, colata o salita per ogni dove, regnava fin sotto l’alte cupole e tutto, di sè, ormai, avvolgeva e copriva.
F | Sun sta mi, mamma! A ciamàt, sun sta! Mi sun sta! Mi sun sta, mamma! Ho vusà mi, mamma! Mi, el tò! Mi, li di te! Il de te nàim, mi! E perchè ho vusà no: papà? Perchè ho vusà no: Dìu bestia! Perchè no: Dìu troia?
G | Si staccò dal muro. Anzi, prende, egli, ora, a staccarsi. E vede. O intravvede. Un loculo. Socchiuso. Di latrina. Alla di lei porta s’appoggia. L’apre.
F | L’apro.
G | Poi, la richiude. Quindi, lo slabbrato catenaccio serra. Raccoglie le forze. Tutte. E così si prepara.
F | Poggiandomi sto. ’Desso. Su di lor, sto. Su di lor su. Su di lor su. Le piàs. Le piàs... I piàstrei. I piàstrei. Che frecch, mamm! Che frecch che! Ma cos’è che impòr? Cos’è che impòr? E, papà? Cos’è che impòr quand'uno, et, et? Cos’è che impòr quand’uno et, et? Quand’uno è passato, et, et, et, ’me te, et, et, in per Ninguarda, et, et? Cos’è che impòr, se uno là, ’me ’rivato a te, lasciat’ha, ’me ’rivato a te, lasciat’ha, la pelle la sciat’ha e i calsèt anca, i calsèt anca, i calsèt anca, i calsèt anca? In dov’è? In dov’è?
G | Cosa, Gino?
F | Lu, el post. El pustisìn, an si. El pustisìn per. Per farmi. Orademài eva. Sol quello eva. Liber sol quello eva. Orademài. Nell’intero corpo. Il sol che nannamò. Nanammò sbusàto avèa.
G | Sotto l’inguine, si trovava. E, infatti, così sapendo, estrasse la sirì…
F | Ma, come? Di come, scrivà. Un re, come. Un dannato, come. Un pirla, come.
G | Slacciò la cintura. Scesero, nella debil luce, i calzoni. Poi, gli slip. Quindi,servendosi dell’acqua, si dispose a preparar la miscela.
F | Ho dervìto. Tremens, no. Il rubinetto ho. D’un subito fu. Pronta fu. La cara. La carissima. L’orrenda. Di plastica. ’Me la terra. ’Me l’universo intrego contro di cui apparir vist’ avea li Dio. La presi. Nei di da, la pre…
G | S’udì un urlo. Forse si trattava d’una disperata maledizione. L’ago entrò.
F | E verso di chi, quell’urlo? Verso di chi, quella maledizione? Testifica.
G | Verso l’empireo.
F | Verso di lui, sì! Verso di lui! L’empireo dei disoppiatori oppianti! L’empireo dei anticristi regnanti! L’empireo dei libertari imprigionanti!
G | Un fuoco gli salì, dall’inguine. Fu un attimo. Si rizzò, quasi obbedisse a un comando inevitabile. O come se una scarica l’avesse, per intero, percorso. Restò lì, immobile, per un altro attimo. Poi, crollò. Giù. Nella conca. Del water. E, nel crollarvi, rovesciò quanto, dentro di sè, aveva.
F | Il vomì. Nel vo. Gesù! Gesù! Gesuìno! Nel vomitar che. Che feci che. Nel. Nel. Tutto di me. De mi, tut. Tut de. De mi, tut. La crappa giò. Dedènt. Didentro di. L’oculos. El nas. La frunt. I làber. Il vomitar che. Cessava no che. Nel cès. Cessava no che. Nel. Didentro nel. Didentro nel. E ’lora. ’Lora. ’Lora ch’ero domà una vacca che vomì, che vomì. ’Lora, sentend ch’el sangh. Udii. De cielo vegnente. Di dal san gh anca. E dè busècch il vo. De sbora, anca. De furmènt. Quel della. Quel della. Della gièsa d’Annò. Quel! Quel, mamma! Quel! Quel della prima co! El vestì per! ’Lora el temp el, gnanca, el temp, gnanca, de vedèt, de ciamàt: mamma! Sun drè a crepà, mamma! E de dit: dìl su, dìl su, dìl su! ’Lora, ello, lui, ’me vist’avèa. Didentro. La Goccia didèn. Di dentro l’apparùta, là, nel Parch. Mentr’ansimavo. Mentr’ans. Mentr’ans. Mentr’ans. E le, la vita–vitae, s’arrè. S’arrè. S’arrè. ’Lora, le, la Go, la Goccia! la Guta! Le, mamma! Le, papà! Uverta s’è. E da di dentro. Incollato tutto della di lei. Della di lei. Della di lei sostanza ch’era miele. E sbora anca. Della creante sbo. Sorti fuori. Fuori venne. Per ciappàrmi. Sortiron, anzi. Ricordo no. Perchè ’des. ’Des che lu el cunta, finit’è. Finit’è. Et per semper. Sortiron, ecco, le di lui. Le di lui mani, sì! V’eran due. Sui palmi. Buchi due. V’eran. El m’ha ciappà in di! El m’ha ciappà in di! In di so brasch, mamma! El m’ha ciappà in di! Lu! Lu! Il mà pri dan! Dan sè brà il mà! Il mà! Anca se io son ’pena ’rivato a dirci: ti faccio schifo no? Merito no che te tiri l’acqua e vada giù con la merda? Ma i suoi bracci! I so! I so! I so! E i dida! I so! I so! Mi stringevan su, mamma! Mi stringevan su, papà! Fu, ecco, fu. Come quando, fu. La prima volta. In la gièsa. D’Annò in. La prima volta che. Dervii che. I làber. Per ciappàl in la. In la bucca in. Lu! El Crist de tucch i assassìn, de tucch i vacch che sèm! Ma ’des. ’Des che eva la dernièr. ’Des, lu. Tucch i àlter volt cunt i usèi! ’Des lu i a scancellava! Tucch! Eren i so làber, eren! Eren i so! I so eren che ciappàvano didentro di loro me! Didentro di loro me! Me ego, ciappàvano! Me ego, papà! Me ego, mamma! Scancellavano! Scancellavano! Anca se mi s’eri dumà sbora, merda, sangh... ’Lora. ’Lora. Una vertigo, ’lora. Oh, mamma! Oh, papà! Oh sanguis meus! O sanguis del Gesù! O sanguis Christi! Un squeicòs cume quand. Pussè ammò! Pusse ammò de quand! Pussè ammò de quand te me. Te me basàvet ti mamma! Pussè! Pussè! Pussè! Et così fuit. Così. Lo testi. Egh’io lo. Sull'eterne, testifico, pietre. Così fu. Che l’ultimo trassi. L’ultimo. Il dernièr. Respir ultimo. E sospir anca. L’ultimo. Il dernièr. E poi, più. Più non. Più. Me non. Mossi non me. Egh’io. Per l’eterno. Nella Goccia. Serrato su. Imbracciato. ’Me in una cuna. Pussè ammò. ’Me in una cà. La sua. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu, mamma. La sua de lu, papà…
G | Quanti, l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andaron oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benchè neppur possibile fosse ritener notte.
<1> Come l’acqua sui gres dei vesp, dei vesp, dei vesp…: p.1133: Come l’acqua sui gres dei orinatoi, segue un taglio fino a metà di p.1134, poi ripresa da quanto segue.
<2> La gh’è! La gh’è”: taglia passaggio successivo, da p.1135 (da Può, la storia. Andarsi può) fino a metà di p.1147 (…Lecca, troia d’una troia! / L’ultim’era. Fu), con eliminazione di episodi e circostanze della vita del personaggio.
<3> Queste, dico. Queste / Dopo delle ore che son qui: taglia passaggio a p.1149 (da E a che numero è ’rivato del vicì. A Un casso! No! dir volèo).
<4> Et ploratus sum: taglio passaggio da Mia città! Mia serranda, p.1151, fino a p.1159, ma introducendo una riscrittura nel raccordo alla continuità tra i lontanissimi Il sentii, che abbrevia le successioni di botta e risposta tra la seconda voce e Gino (modo e maniera del testo di partenza, per esempio, raccorciati in manèra), e stralciando in particolare le richieste della voce esterna a trovare le parole (Ma per poter trascrivere e farmi intendere, trova un paragone. Sfòrzati su, sfòrzati a dir come, ecc.). Indubbia la volontà di risolvere in una più serrata evocazione dialogica o contrastiva ciò che nella pagina di partenza emergeva più lentamente, in un rapporto non di interrogazione, ma di messa in campo della scrittura.
<5> Papà! Papà! Papà!, con una più esplicita risoluzione nell’appellazione diretta (Ma cosa vai dicendo? > Ma cosa vai dicendo, Riboldi?, assunta da Testori-voce), il testo viene rivisto con brevi aggiunte, per procedere in dialogo più serrato (p.1221: Fu. Ecco. Et. Per sempre et. Mentr’usmàvo. L’odor > Vado dicendo. Fu. Ecco. Et. Per sempre et. Mentr’usmàvo. L’odor; oppure: L’ugualità dei sessi sotto i slip o le coltri. Nel cesso o a Ninguarda. > L’ugualità dei sessi sotto i slip o le coltri. Quella del papa o quello dell’ignoto. Nel cesso o a Ninguarda).
<6> L’esìgo! L’esìgo!, p.1221, taglia quanto segue, fino a p.1223, introducendo un Mamma, e Dìla, mamma. Anzi, dìl el rusari!, che riprende il Dìla, mamma. Anzi, dìl! del testo di partenza. Ancora la ripresa in forma dialogica (battuta in rosso, che si assegna Testori) trasforma il Perchè stat’era. Per me. Là. In la gièsa. No, non un’idea. in Perchè stat’er. Per lui. Là. In la gièsa. Per la prima volta. No, non un’idea.
<7> breve aggiunta e taglio, così il testo di partenza: E uguali savèva no. Savèva no. E che nella bestemmia nella. Indove? Nella. Quanto segue, con aggiunta di Gino?, è assunto dalla seconda voce. Dopo il triplice Nell’over, segue taglio, p.1224, da E finalmente. Ecco. Ci fu., a p.1227, la lux-lucis stendèvasi. Della diana. Riprende da Foràron. D’un subito., introducendo come raccordo la frase Et vidi, et la vision vidi.
<8> le giangìve!”, taglio, p.1228, da S’era, da dietro, appiccato., fino a Oltre ogni oltre: Perciò essi non cessavano di precombere, variato in Sangh. Sangh. / Perciò gli anghèlos non cessavan di precombere. Alla fine del paragrafo, dopo Erano! Erano! soppressa l’interrogazione Erano? Procedi. Dopo Sfacendosi, stàva, a p.1230, taglio da Quella come quella che, poco prima, fino a E la goccia? (abbreviato in Allora la Go.).
<9> Pietà? / Pietà! Pietà! Pietà! Pietà scrivens! p.1231, è concentrato in Pietà! Pietà!, con ampio taglio, fino a nell’esser suo, nell’esser suo…, p.1235, e ripresa da Strascicando, tentò di p. 1236, fino alla fine del testo. Segue dopo la prima frase ripresa (fino a in arrivo o in partenza), un altro taglio, da La ricerca di una possibilità a poco più su di dov’era all’inizio. E ancora, dopo marmoreo scalone, da Lì dove. Adess’è. fino a Potuto aver niente. No. Altri tagli scorciano il paragrafo, qui attribuito alla seconda voce (Automa dell’auto. e Dìl, mamma, Epperò senza più. Dìl. Dìl. Dìl.). Segue un ampio taglio da Somigliava non più, scriva! a Perchè? Perchè? (p. 1237). La lunga tirata che comincia con Civis! Civis, te! (ivi), è interrotta verso la fine del paragrafo, dove Quando che vidi quando. L’aquila-sirì. Diventa Quando che vidi quando. L’ànghelos, con ripresa da p.1240 (Mamma! Mamma! Mamma! / All’urlo, soffocato, anzi), e attribuzione alla seconda voce, con piccola variazione (Al grido, sofficato, anzi). Segue altro taglio, da p.1240, L’ultim’è. L’estrè., a p,1241, i calsèt anca, i calsèt anca?; riprende da Si staccò. Anzi, prende, con attribuzione alla seconda voce e minima variazione (Si staccò dal muro. Anzi, prende). Abbreviazione attraverso la domanda, attribuita alla seconda voce, aggiunta di Cosa, Gino?, con taglio fino a Dir ecco che. Esso lui, lu, el post. (p.1242), Lu, el post. Segue un’ultima abbreviazione (con taglio di La magrezza, tant’era che non gli fu necessario sforzo alcuno.); quindi il finale, col congedo fatto pronunciare alla seconda voce, è conservato intatto.
Nota
Il ‘copione’ conservato presso l’Archivio di Casa Testori si compone di due parti: la prima utilizza fotocopie di pagine dell’edizione Garzanti 1988, a cui segue poi, con una riscrittura della seconda parte (ivi comprese le ultime, più tormentate, pagine del blocco precedente), una ribattitura a macchina a partire dalla frase Si sbaglia, scrivano. Il sentii il. Et ploratus sum (il punto è indicato nel testo che qui pubblichiamo col segno *). La trascrizione dattiloscritta indica le parti del testo destinate alle due voci con le sigle F. e G. (ovviamente FRANCO e GIOVANNI), che adottiamo quindi nella presente edizione.
Già su una sua copia dell’edizione Garzanti 1988 Testori contrassegna sul margine sinistro con la sigla G. (ovvero Giovanni) le parti del testo che si assegna. Questa, in effetti, la dimensione più rilevante in funzione teatrale, in una scansione dove una seconda voce, soprattutto nell’interrogazione del personaggio di “Riboldi Gino”, acquista un ruolo, non in una semplice, meccanica, trasposizione dello “scrivano” che nel testo viene ripetutamente appellato. I tagli sacrificano soprattutto episodi rammemorati, benché nell’emersione frammentaria, dal personaggio, e lo snellimento riguarda specialmente la seconda parte del testo, con una successione più serrata. All’interno della forma del discorso indiretto libero si delinea così una scansione a due voci, con due presenze, dove la seconda mette a carico dell’autore come persona in scena la regolarità sintattica e semantica delle descrizioni esterne finali, che scandiscono l’agonia di “Riboldi Gino” e riferiscono del rinvenimento del suo cadavere all’alba che segue la notte dell’overdose alla Stazione di Milano.
Un’eventuale, ulteriore, analisi potrà meglio riflettere sul senso di questa differente scansione a due voci, considerando anche le parti dell’originale eliminate da Testori. Ci limitiamo qui a qualche breve osservazione di carattere generale.
La funzione di una lingua franta, triturata, singhiozzante, la rottura sillabica e la ripetizione di ogni enunciato, si inquadrano indubbiamente in una mimesi del parlare e pensare sconnessi del tossico giunto all’ultima siringa: al personaggio va dunque riferito questo estremo flusso di coscienza, che comprende insieme forme basse quanto enfatiche e impropriamente ricercate. Ciò è dichiarato, del resto, dallo stesso Testori nell’intervista di Antonio Ria Maestro no, che ripubblichiamo in questo stesso numero di Engramma:
Questo linguaggio rotto, afasico, spezzato, dove si mescolano l’italiano, un po’ di ricordi di latino di quando il protagonista è stato a scuola, un po’ di francese: questo linguaggio dell’ultima spiaggia, credo che mi sia nato in quanto per natura, per me, la parola va come sottomessa, va come fatta entrare nel ventre del personaggio, dell’avvenimento.
Gli stessi inserti di latino e francese su base lombardo-italiana possono ricondursi in tale direzione, richiamata da vari accenni nel testo (la memoria scolastica e parrocchiale, posto che la nascita di “Riboldi Gino” è collocata ad Annone, in Brianza, nella provincia di Lecco, ma anche l’esperienza parigina, tra la stanza a San Germèn e la pratica dei cessi del Bulevàr Sebastò). Ma è evidente che la mimesi offre al proposito una copertura o giustificazione solo parziale. La doppia e interagente prospettiva, tra abbassamento turpe e sgrammaticato e dizione elevata e ridicolamente enfatica, si offre con evidenza come costitutiva del pastiche testoriano nelle prove precedenti, soprattutto in quelle destinate al teatro e in particolare nella Trilogia degli scarozzanti. Il rapporto con Franco Parenti, a partire dalla sua esperienza legata a Ruzante, mostra tra l’altro una direzione in cui la caratterizzazione dialettale, ovvero il riferimento a una lingua rustica, interagisce con l’articolazione di un italiano affettato, con connotazione grottesca, ove gli attori scarozzanti, i guitti lombardi, assumono dei personaggi e un eloquio da repertorio alto, in rapporto alla tragedia shakespeariana e a quella greca. Ma evidente già in questo caso che è l’autore ad affacciarsi continuamente dietro alla complessiva scrittura (si veda, in questo stesso numero di Engramma, l’approfondimento di Chiara Pianca, dedicato appunto alla complessa redazione dell’Ambleto, ivi compresa la scrittura in pastiche delle stesse didascalie, poi eliminate nell’edizione a stampa). L’intreccio o il rapporto tra questi due livelli determina ancora l’impasto linguistico di testi drammatici successivi, da Sfaust e Sdisorè, scritti per Branciaroli, fino ai Tre lai. E si potrebbe, per esempio, puntando ad elementi minimi che si fanno procedimento totalizzante, investire il principio di deformazione e capovolgimento semantico a partire dall’uso della della s prostetica, ricordando un suo possibile retroterra in Ruzante, secondo la poetica dello snaturale, e si considerino appunto in “In exitu” forme quali smissili, slaser, schimische ecc.).
Dunque, e proprio nell’attenzione ai procedimenti di deformazione e negazione, la questione va posta, in generale, più oltre al livello mimetico, dove semmai – riprendendo le parole di Testori sopra citate – il rapporto o il corpo a corpo col personaggio si definisce nel senso di una lingua “fatta entrare nel suo ventre” e insieme nel ventre “dell’avvenimento”. Qui si colloca la funzione attribuita allo “scrivano”, o addirittura al romanserànte, che il personaggio continuamente interpella, pretendendo alcune peculiarità stilistiche con tratti di enfasi parodistica, dall’uso del maiuscolo fino, per citare un passo particolarmente evidente, all’impiego della g anticheggiante, nella pretesa della forma assimilata gastigo a castigo (si veda p. 1178 del Meridiano, passaggio ovviamente tra quelli soppressi nella drammatizzazione, perché rinviante specificamente al libro: “Gastigato. Con la gi, raccomàndomi, romanserànte! Con la gi degli antiquariali e classicali testi! Con la gi di quelli che stampati saranno, per l’eterno, in le Bur delle tavole litterarie!”).
Oltre al fatto che “Riboldi Gino” è una sorta di revenant e che la sua allucinata agonia si presenta sotto specie di resurrezione, la sua piena affermazione come ‘voce’ prende spazio via via all’interno di una costruzione che intreccia focalizzazione esterna (l’autore che vede e descrive, benché attraverso l’assunzione iniziale di un’articolazione a propria volta spezzata e franta, che solo può mettersi in rapporto col personaggio e la situazione) a focalizzazione interna, ovvero racconto dal punto di vista del personaggio, pressoché dominate dopo le premesse, muovendo sostanzialmente dalla penetrazione nel primo livello del registro dialettale, che comincia col singolo raddoppiamento di avverbi o congiunzioni (a partire dalla forma anca, tra parentesi, di seguito all’italiano regolare anche). Dunque, rispetto al panorama complessivo della drammaturgia testoriana di definizione e destinazione primaria, “In exitu”, in quanto ‘romanzo’, presenta un’emersione più complessa, dove la parola attribuita al personaggio comanda la propria dettatura e trascrizione nel libro che il lettore, pure continuamente appellato, tiene in mano, ma che ancora lo stesso dettatore scongiura non venga letta da sua madre (“Una sola, ti chiesi, promessa. Che lei, l’annonese, legger potesse non il romansèro che da me. Deriva, da. Mai, anca. T’implorai. Rammèntati. Mai.”: p. 1189, dove è significativa la spezzatura e l’inversione della linea semantica dell’enunciato, più o meno “Ti ho chiesto solo di promettermi che mia madre non possa leggere mai il romanzo ispirato dalla mia storia; ti ho implorato”).
Far assumere la mimesi o meglio l’incarnazione del personaggio a un attore – la caratterizzazione del suo eloquio e della funzione espressiva e deformante di questo – provoca parallelamente un distacco della funzione-autore, o di quella più in generale di chi vede, a partire da un’attribuzione a se stesso da parte di Testori, si direbbe quasi casuale, di porzioni iniziali del testo, fino a una piena polarizzazione, mentre l’attore, qui indicato espressamente come F(ranco), assume il personaggio di “Riboldi Gino”. Il ruolo di una ‘seconda voce’ acquista progressivamente presenza e senso, dall’interrogazione fino alle prese di parola in un’articolazione sintattica e semantica regolare nella parte finale del testo, che offre infatti il resoconto esterno dell’agonia e del rinvenimento del cadavere del giovane tossico presso la Stazione di Milano.
È stato recentemente osservato per il discorso indiretto libero di Carlo Emilio Gadda – per Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ma il referto si può applicare anche al pastiche lombardo-ispanico de La cognizione del dolore – un carattere differente rispetto al modello più evidente e dominante di “flusso di coscienza”, quello di Joyce, ovvero una diversa tramatura dell’“approfondimento percettivo del personaggio” che parla o pensa, con una sorta di inversione delle parti. Ha osservato Gabriele Frasca:
Si tratta insomma di un indiretto libero in cui però s’invertono le parti, se solitamente è chi scrive che gonfia il palloncino del personaggio fino ad arrivargli alla testa, per fargliela alfine perdere nei suoi pensieri. Nell’indiretto del Pasticciaccio è invece l’autore stesso, proprio come nello stream of consciousness – ma restando autore, e dunque non onnipotente, semmai “onnimpotente” – a farsi bruttare non solo dai pensieri ma dalle abitudini linguistiche di luogotenenti che, prima ancora di essere punti di vista, sono punti di ascolto […] come se quest’ultimo venisse assoggettato a una nuova e più radicale comprensione. (Gadda con Freud, Schrodinger e Joyce, Bologna 2023, 32-33).
Qui al luogotenente “Riboldi Gino” (nella forma, da elenco scolastico o di altra schedatura, dal casellario giudiziario alla nominazione da cronaca nera, che fa precedere il nome al cognome) sono riferite le altre voci evocate (quelle della madre, del padre, della maestra, di un amante o dei clienti delle ‘marchette’), mentre l’autore resta assai meno ‘autore’, e proprio per questo, appunto, diversamente ‘onnimpotente’, tanto più quanto più immedesimato e partecipe, nella mente e nel ventre del personaggio, fino alla separazione finale da esso che il referto registra.
Credo, ma non è questa la sede per proseguire oltre un’analisi di tale tipo, che questa ‘riduzione’ posta l’evidenza della sua dimensione principalmente orale in una forma di romanzo, meritino una particolare attenzione, e specialmente in rapporto alla categoria di espressionismo, nel senso del bilinguismo di lingua bassa e lingua alta, secondo la fortunatissima categoria di Gianfranco Contini, qui tra impasto basso-dialettale e lingua antiquariale e classicale.
Se la categoria di espressionismo fu sottoposta dallo stesso Contini negli anni Settanta del secolo scorso a un profondo ripensamento, sarebbe necessario reinterrogare la collocazione che nel 1963 iscriveva il primo Testori, proprio nel celeberrimo saggio di accompagnamento a La cognizione del dolore, in un campionario di seguaci o nipoti di Gadda, anche per la sua collocazione lombarda, ragionando peraltro su prove non ancora investite da oltranza stilistica e contenutistica. Contini mostra nel decennio seguente di avere presenti Ambleto e Macbetto, menzionati però senza particolare attenzione negli anni in cui egli appunto ripensava la categoria di ‘espressionismo letterario’ in una dimensione europea e complessiva, riferendosi a scritture non necessariamente investite dalla funzione dialettale o plurilinguistica né di violenza al sistema. Testori risulta nel 1973 rapidamente menzionato tra “i pregevoli prodotti epigonici di Gadda”, in una formulazione in cui l’apprezzamento appare tuttavia ristretto a un’appartenenza secondaria. Una più attenta comprensione deve invece rivendicare all’ultimo Testori, quello degli anni Settanta e Ottanta, una posizione primaria, e una fortissima originalità, proprio perché nelle prove decisive della sua maturità (che sono, ad un tempo, quelle più forti ed estreme) la lingua espressiva, la mescidanza violenta e oltraggiosa, si intrecciano all’altra, opposta, funzione (per la storia della categoria continiana di espressionismo letterario si vedano i contributi di Luca D’Onghia, in particolare Per l’espressionismo di Contini, in Studi di filologia offerti dagli allievi a Claudio Ciociola, Pisa 2020, 79-96).
Mi sono altrove rifatto alle indicazioni di Gianfranco Folena riferite alla riformulazione continiana di espressionismo, allargata intanto a una definizione europea e ‘polare’, in espressivismo (Il linguaggio del caos, Torino 1991, 214). Di espressivismo o funzione espressiva si può infatti propriamente parlare solo per quelle opere in cui violenza linguistica e deformazione verbale si accompagnano a quella esercitata sui contenuti semantici o della rappresentazione. Ciò che non si applica affatto ad alcuni scrittori del Novecento e del secondo Novecento prediletti da Contini (per esempio, insieme, a Roberto Longhi e Antonio Pizzuto, inseriti nel canone ‘polare’ dell’ espressionismo letterario europeo, che comprende sì Céline ma anche l’“espressionismo lirico” di Pessoa: si veda la ‘voce’ Espressionismo letterario, 1973, per l’Enciclopedia del Novecento Treccani, ristampata nel volume sotto citato), ma perfettamente al Testori di cui stiamo trattando. L’ultimo Contini – in interventi peraltro molto discussi alla loro apparizione – indicava nel preciso riferimento alla scrittura di Longhi, fuori dall’ambito ristretto della critica d’arte o di una ‘prosa d’arte’, un esito, anzi l’esito più alto e a suo giudizio esemplare, del rinnovamento novecentesco del linguaggio letterario, messo appunto sotto il segno della categoria allargata, o ‘polare’, di espressionismo, non di quella iniziale di “ristretta proprietà cronologica e territoriale”, ovvero riferita alla tradizione italiana (si vedano i saggi compresi in Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino 1988). Si condivida o meno questo riferimento (e chi qui scrive, si sarà compreso, non lo condivide), resta il fatto che la diversa discendenza di Testori dal suo maestro Longhi – ma ben oltre le sedi o i luoghi dell’esercizio della critica d’arte – si combina, ovvero si integra e viene travolta, in questo sistema, o almeno nelle opere dove regna l’incessante deformazione nel segno del bilinguismo costitutivo, nell’altra spinta, nel senso della prosa d’arte, che vuol dire tensione ecfrastica stilisticamente alta, fino agli estremi della funzione che abbiamo visto parodisticamente indicata come antiquariale e classicale (ho brevemente ragionato di questo e del suo diverso utilizzo della scrittura longhiana, per esempio nell’Ambleto, nei miei: Istruzioni per l’immaginazione. Tra didascalia ed ecfrasi, “Quaderns d’Italià”, 26, 2021, 19-36 e Folena, il teatro, la questione della lingua, in Gianfranco Folena. Presenze, continuità, prospettive di studio, a cura di G. Peron, Padova 2023, 213-228).
Il rapporto evocato da “Riboldi Gino” nel suo estremo ‘flusso di coscienza’ conosce, allora, nella ‘distribuzione’ teatrale una decisiva estrinsecazione. Ciò, come abbiamo già detto, non per una ripartizione schematica della parola del personaggio e di chi lo interroga ed osserva, ma nella determinazione di un’altra voce assunta da una seconda presenza sulla scena, ovvero in uno spazio di emersione dell’autore. Una voce che appare, a distanza di trentacinque anni, diversamente forte nelle esecuzioni di Branciaroli del ‘testo’, dove la voce di Testori, ascoltata in registrazione, non è più quella di un vivente presente, ma di un assente, e dunque si colloca in una diversa prospettiva rispetto a quella di un personaggio morto che rievoca la sua fine, in una sorta di ‘resurrezione’ affidata all’attore che dà voce al suo flusso di coscienza e lo incarna.
Crediamo che la prospettiva qui brevemente tracciata possa consentire analisi più puntuali, ad implicare non solo il senso della ‘riduzione’ teatrale ma la natura stessa dell’opera di partenza, ovvero del ‘romanzo monologico’ intitolato “In exitu”, rivelandone alcuni nessi profondi. Analisi che potranno riguardare – per quanto concerne il rapporto di Testori con Branciaroli – tanto la completa riformulazione del ‘contenuto’ o delle istanze del primo testo drammatico concepito per l’attore (Confiteor, privo di mescidanza linguistica di sorta, metteva in scena, in una chiara distinzione, anzi giustapposizione, i personaggi del figlio e della Madre, un tema peraltro che riguarda come ‘mito personale’ la stessa Cognizione del dolore di Gadda), quanto, osservando, su diverso terreno, i testi per il teatro di Testori che seguono. Non solo quelli destinati all’attore ‘da solo’, ma l’ideazione di un testo ‘originale’ a due, Verbò, che vede la prosecuzione del coinvolgimento diretto dell’autore in scena.
We publish for the first time the text of the theatrical reduction, or rather of the script of "In exitu", created by Testori at the request of Franco Branciaroli, in the summer of 1988, which is undoubtedly configured, in the drawing or in the articulation it shows, as an authorial text.
keywords | Giovanni Testori; Franco Branciaroli; “In exitu”; Script.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Testori, “In exitu”. Riduzione teatrale, Edizione e Nota a cura di Piermario Vescovo, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 123-144 | PDF