L’atto innominabile e furente; il precipizio verso il centro dell’essere, verso il suo nucleo, verso la quantità di vero precoscienziale e irreversibile; lo scandalo (ecco, forse, la parola che più propriamente è adibita a designare tale gesto), lo scandalo, dicevo, dell’intera storia delle immagini (e delle forme) s’è perpetrato una volta per tutte e resta quindi contenuto tutto e per sempre nel magro catalogo che s’è andato radunando attorno alla persona (rimasta, per altro, quasi giustamente e vendicativamente, enigmatica anche per quanto concerne la certezza delle notizie e delle date) di Grünewald: il solo pittore, si badi, per il quale sembra, non dico impossibile, ma addirittura inimmaginabile qualsiasi lavoro od ipotesi attribuzionistica; tanto il suo percorso risulta esterno alle regole del grande, tragico gioco o cammino dell’arte; ed esterno proprio nel tempo stesso in cui più vi precipita dentro e tutto l’assume, implica e torce in sé e nella direzione del proprio gesto.
Uno scandalo che all’arte, con le sue nari da cagna, era pur accaduto alcune volte d’annusare e persino di avvistare; ma da cui s’era sempre ritratta come se, pur restandovi ai soli bordi, e quindi in zone ancora di qualche sicurezza o di sopportabile minaccia, sentisse che per procedere la temperatura era troppo alta; troppo grave e, anzi, diciamolo subito, mortale la posta in gioco; e che, comunque, una volta postovi il piede, il ritorno sarebbe stato impossibile. Al punto di fare quel passo; al punto di quelle percezioni e di quegli avvistamenti, il grande, tragico gioco ebbe la sapienza (e la comprensibile, umana carità e vigliaccheria) di voltare la difficoltà in simboli di quello che, non avendo percorso e abbracciato, non aveva veramente conosciuto; simboli che, com’è facile immaginare, si trovavano già pronti (salva la necessità d’accordarli al mutar dei tempi e dei luoghi) nella tautologia delle varie religioni.
Così il rischio mortale, il mortale precipizio, la caduta nel pantano e nella gloria della vegetalità generante e generale, venne ogni volta esorcizzata con un suo doppio figurale che avrebbe dovuto attutire, se non proprio spegnere, le voci, gli stridii e i lamenti, insomma le chiamate soffocanti e inesauste che da quello scandalo (perennemente sul punto di farsi e, invece, perennemente rimandato) continuavano a provenire; proprio come se si levassero dall’intrico arrovellato e crudele delle radici di un’immane foresta; o dal fondo del ganglio fisiologico primario, quand’esso è sul punto di farsi da incongruente demenza, incerto coagulo, incerto respiro, incerta carne, feto.
Sarà bene a questo punto chiarir subito come, paragonata a quella di Grünewald, anche l’opera di Bosch risulti (ove pure, com’è giusto, le si voglia riconoscere la lenticolare penetrazione periferica) un esorcismo; e, per di più, di svolgimento altissimamente ma altrettanto chiarissimamente enumerativo e narrante. Quasi che quell’azione o quello scandalo potessero, invece che verificarsi, elencarsi, pezzo per pezzo, e poi mettersi dentro le fila o le trame di un racconto!
Malgrado l’apparenza, conosco pochi pittori davanti ai quali risulti difficile perdersi o ricevere il senso d’una possibile perdizione, come Bosch; ed io mi chiedo se questo non accada proprio perché, essendosi avvicinato più di tutti ai termini di quello scandalo e avendoli, almeno teologicamente, pressoché tutti avvistati, più che a tutti gli fu giocoforza tentar d’annullarne il rischio in una liberazione figurativa che avesse il ritmo, la credibilità e la sopportabilità d’una rappresentazione; se non, come a me par di scorgere, d’una vera e propria esemplificazione parabolica.
Non dico questo per la quantità di sapienza, di nitore e di bellezza, quasi a bolla di cristallo, della sua arte; lo dico perché nulla fa meno paura all’uomo, nulla riesce a metterlo meno in allarme, del vedersi spianati davanti, in una panoramica millesimale fin che si vuole, ma pur sempre elencativa e simbolica, non solo gli affanni psichici, i vizi e le paure, ma persino le difformità incolpevoli e le infinite possibilità di ancor più perverse e incolpevoli deformazioni della sua natura; della sostanza, insomma, di cui è composto.
Lo scandalo in cui ebbe a configurarsi l’opera di Grünewald contenne (e non poteva essere altrimenti) anche il senso dell’agghiacciante “oportet enim” pronunciato da Cristo; anzi, per così dire, partì proprio da quello e dalla carnalità e dal sangue delle labbra che lo pronunciarono; ma seppe poi gettare le sue sonde ben più indietro di quell’evento; così come, nella direzione opposta, seppe rimandare i suoi cerchi, i suoi lamenti e i suoi foschi gaudii, insomma i suoi echi, ben aldiquà, fino a giungere e a contenere, per far un esempio, le minacce più crudeli che sovrastano il nostro tempo: quelle della completa snaturalizzazione della natura medesima; e, poiché nel processo risulta chiaramente compreso ogni regno, della completa snaturalizzazione o, se si preferisce, della completa denaturalizzazione dell’essere “sic et simpliciter”; dell’essere preso, insomma, nella sua complessa totalità.
L’“oportet enim” riferito alla storia dell’arte figurativa sta a significare (e a significare profeticamente) che quello scandalo era in essa implicito da sempre; che da sempre vi immaneva; che la circondava e l’attorniava, ora premendovi con turgore, quasi da carne a carne, anzi da carne in carne (momenti, questi, in cui più si arrivò a presagire l’immane, svergognata oscenità, ma anche l’immane, svergognato splendore che l’evento avrebbe assunto una volta che si fosse verificato); ora, per contro, con stilettate di chiodi e di torture, con risa, urla e allusioni mostruosamente avide e demoniache.
Di fronte a tutto questo, risulta quasi risibile (e le proposte fatte in proposito raggiungono solo questo risultato) reperire, di Grünewald, i termini della partenza figurativa; poiché se davvero i primi dipinti che gli si possono riferire con giustezza sono i due scomparti dell’Altare di Lendenhardter (1503), il maestro si mostra a noi già a cavallo della tigre; la partenza per il gran viaggio è, insomma, già avvenuta.
Che a quella data il goticismo dei due scomparti possa sorprendere sta tutto (mi si conceda di dirlo) dalla parte dell’interpretazione che qui si vuoi tentare: esso significa che, cominciando, la ricerca s’era subito spostata in altra direzione che non quella della procedura formale; o del formale procedimento.
Ove fosse possibile svuotare i due pannelli del loro significato e del loro allarme, nei termini precipui della forma essi finirebbero per esprimere una strana e quasi abnorme unificazione; come se, per via di un’ipotesi a rigore impossibile, l’insurrezione liberatoria ed evertitrice del barocco più cieco, più sanguinante e carnale si fosse avocati a sé quegli stilemi e v’avesse iniettato dentro le sue maledizioni: sempre continuando sul piano di tale ipotesi, il risultato andrebbe a coincidere con una sorta di agglomerato tipologico e, quasi, di dizionario o d’enciclopedia delle allusioni.
Sennonché quello che subito colpisce in questi due dipinti è che tutto (persone, animali, abiti, decoro e cose) ci si va svelando come se fosse composto d’una sola, identica sostanza; e concediamo pure che, in queste prime opere, la sostanza risulti ancora troppo stilistica per potersi fare complessità e totalità di cellule e, insomma, natura; concediamo pure che il grumo, il germe, la cellula unica e primaria non sia ancora toccata; che ancora la mente e la mano del pittore non l’abbiano agguantata. Ma, poi?
Già la piccola Crocifissione di Basilea sembra fabbricarsi e lenticolarmente crescere e proliferare, ogni volta che la guardiamo, da e verso una sorta di unicità muschiosa; un’unicità da lichene che si costruisce e insieme si rode (e corrode); un muschio e un lichene che mostrano, nello stesso tempo, la durezza d’una pietra e la prensilità sudaticcia e repellente di una bava, d’uno sputo uscito da un violento attacco d’etisia clorofillica (e cromatica). Il problema è poi come questo strano ed abnorme lichene; questa strana e abnorme incrostazione; questo crachat, nel momento in cui si dichiara, non tanto quale sostanza unificante, bensì quale sostanza unica ed esemplare dell’essere, riesca ad acquistare lo splendore sulfureo e daviddico, demonico e celeste da evento che accada in zone da crepuscolo non più terrestre, ma cosmico e plenario; uno splendore che timbra tutta la tavoletta; e la timbra fibrillarmente, cioè dall’interno.
Non c’è volta che m’accada di visitare questo primo, piccolo e terrificante capo d’opera, che esso non mi dia l’impressione d’espellersi d’emblée dal contesto del museo che lo ospita (e che pure, è da riconoscere, gli gira sufficientemente attorno); ovvero di vanificare esso stesso, pur nelle sue modeste dimensioni, l’intero museo.
Sembra che qualcosa marci in senso contrario a quello verso cui va marciando tutto ciò che, nelle sale, lo precede, lo accompagna e lo segue; un senso che il prima, il contemporaneo e il poi sembrano sottintendere ed implicare, senza mai rivelare.
In effetti, la marcia non s’è mutata; bensì totalmente e atrocemente invertita; e non solo sul piano dei sensi, ma su quello dei concetti; e sull’altro, ben più rischioso, compromesso e compromettente, delle ragioni in cui l’essere lievita, compone se stesso e si fa forma.
Sarebbe una lettura esterna credere che questa sensazione, questa inversione di marcia derivi dalla impietosa atrocità fisica che, proprio in questo dipinto, comincia a formulare il corpo di Cristo; o, come si sente dire così di frequente, dall’urlo che se ne vorrebbe far promanare.
Se c’è una pittura silente, anzi, nella sua mutezza, addirittura agghiacciante (ed abbagliante), questa è proprio quella di Grünewald. L’urlo, se esiste (e sicuramente esiste), viene di continuo ricacciato nella gola; anzi, nel buio più riposto del ventre; nei sotterranei dove s’annida la gloria dell’esistere e, insieme, la sua sconcezza, dove si verificano le sue nozze, i suoi pasti, ma anche i suoi coiti osceni e i suoi atti da stalla e da latrina.
Il terrore che ci prende davanti all’equazione che, nelle sue opere, Grünewald va via via mostrandoci come atto perenne ed esclusivo della verifica esistenziale e, probabilmente, come sua unica dannazione e salvezza, deriva dal fatto che tale equazione avviene sempre e contemporaneamente su due piani: quello concettuale e quello sensoriale; per arrivare a termini più figurativi, quello della forma e quello della materia. Nessuna preminenza né dell’una, né dell’altra; ma il rilancio continuo della responsabilità d’esistere tra la cellula primaria (la cellula materica) e l’intelligenza prematerica (che potrebbe anche essere una inconoscibile casualità demenziale); quella responsabilità cui l’agglomerato materico rinfaccia ad ogni attimo l’insulto d’aver immesso nella propria struttura il bisogno di farsi; di prendere, insomma, un significato, una riconoscibilità, una forma, una figura. Ma quell’insulto a prendersi tale responsabilità passa con altrettanta decisione e costanza nella traiettoria che va dall’intelligenza (o demenza) prematerica alle cellule della materia, cui viene rinfacciato d’attirarla, tentarla e adescarla con la sua oscena vitalità d’embrione sì insignificante, ma possibilitato a diventar forma e significato.
È per questa via che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il mondo di Grünewald porta il ganglio materico, il ganglio potenziale delle proprie cellule, a una tensione massima di tornitura e di esattezza formale; ed è così che le sue forme, nell’oscillazione perenne di questa responsabilità primigenia e di questo primigenio vanto, si prolungano, si abbracciano e s’identificano nell’unicità della materia di cui si compongono.
Ma unicità di materia non sarà anche unicità di figure?
Qui, proprio qui, risiede la grandezza (così vertiginosa da rasentare l’indicibile); qui il rischio, il pericolo e l’abisso dell’arte grünewaldiana; in questo stato di unificazione e di unicità, per cui ciò che è vegetale riesce nello stesso tempo torvamente e bovinamente animale; mentre ciò che è animale risulta tragicamente e fin psicologicamente umano; e ciò che è umano ritrova in sé la sostanza clorofillica e la ramificazione dell’erbe e, insieme, l’hantise opaca e muta delle bestie (oltre alla loro dannazione al servizio; anzi, alla servitù). Ma se il vegetale e l’animale hanno avuto nel contempo i nervi e i meccanismi dell’intelligenza, il dialogo fra i vari momenti e le varie incarnazioni dell’essere non si farà, per via di questa coscienza carnale che sta alla base (ovvero di questa carne coscienziale), una sorta di terrificante esaltazione? Non sarà, per caso, un pauroso trionfo quello che aspetta l’essere a verifica ultimata del suo stato di scandalo?
La legittimità della domanda è provata dal fatto che quasi mai la pittura è riuscita a far salire i propri mezzi e i propri strumenti espressivi ai vertici e alle magnificenze plenarie cui Grünewald seppe portarla.
Che questo trionfo ultimativo possa essere, per la storia dell’uomo, un disastro e, quasi sicuramente, la fine d’ogni “distinguo” e d’ogni speranza a salvarsi come parte e non come tutto, lascia imperterrito l’artista; anzi, sembra atrocemente inorgoglirlo. Ciò che gli preme non è la forza, fin lì creduta dominatrice dell’uomo, bensì la forza unificante dell’essere, che egli finalmente libera dalle croste dei timori e dalle consuetudini dei simboli infinitamente ripresi e variati, per lasciar che esploda in tutta la sua carica, proprio come in un incendio sfolgorante, profetico e apocalittico.
Dovessi indicare verso quale regno o, almeno, verso quale timbro sembra propendere l’unicità dell’essere grünewaldiano, additerei quello vegetale (e, del resto, qualcosa, in proposito, ebbi ad accennare all’inizio). Non dico questo per l’allegoria, appunto, “vegetale” che è nel suo nome; ma perché sembra che proprio nella vegetalità si stabilisca come un’incarnazione, non dirò primaria, ma certo maggioritaria; il titolo dell’essere sembra, insomma, avere una qualche preponderanza di marchiatura clorofillica e di struttura lichenica.
Ora la summa di questa poetica grünewaldiana nessun dipinto riesce a mostrarcela come e meglio del Polittico di Colmar: certo uno degli esiti supremi non che della storia dell’arte, della storia dell’uomo presa nel suo totale: un passo obbligato, anche se tenuto prudentemente nascosto e come in riserva, non tanto per imitarne la solitaria dislocazione geografica, quanto per timore che il dopo non possa più essere davvero come il prima. E non possa più esserlo, non tanto nel dominio delle forme e della loro storia, quanto in quello dei sensi e dei significati dell’essere.
Non è a Grünewald, insomma, che andremo a chiedere le ragioni dei mutamenti di rotta formale; ma è a lui e con lui che ha luogo il cambio di rotta dell’atteggiamento dell’esistenza nei confronti della sua natura. Formalmente può anche essere che l’opera di Grünewald (accostata a quel che succedeva attorno e lontano da lui, nell’Europa) segni come un tempo di stasi e d’immobilità (quanto a me, suggerirei addirittura che questo tempo d’immobilità fosse indispensabile perché l’operazione potesse verificarsi compiutamente); quel che resta certo è che, dopo Grünewald, nelle ragioni dei rapporti interni dell’essere non s’è potuto più procedere come se Grünewald non fosse esistito.
Quanto, in questa operazione, abbia gravato (e giovato) l’ideologia e la pressione centripete della Riforma, non è qui luogo a dimostrarsi coi termini che la complessità dell’argomento richiederebbe; tuttavia, prima di chiudere questa parte generale del discorso, mi par necessario indicare tale debito e tale rapporto; anche se, a verifica espletata, esso dovesse limitarsi (e sarebbe già gran cosa) alla formazione del terreno e dello stato di possibilità più adeguato per il formularsi di quel che ho cercato d’esprimere.
* * *
Il discorso particolare, quello che il lettore potrebbe giustamente richiedermi perché anch’io incarni nella misura in cui m’è possibile il discorso generale, vorrei che principiasse, e, quasi, s’appendesse all’“oportet enim” pronunciato da Cristo. Chi m’ha letto attentamente ricorderà come avessi esordito dicendo che sarà proprio sulla figura di Cristo, dentro la sua carne, che Grünewald aprirà e compirà tragicamente il suo scandalo; adesso vorrei aggiungere che sarà proprio in Cristo, nello strazio del suo corpo, nella coesistenza, in esso, dell’atemporalità più assoluta e abbagliante e della temporalità più caduca e sanguinante (del verbo, insomma, e della materia) che Grünewald realizzerà il sunto, la figura tipica o, diciamolo pure, il prototipo, rovesciato e arrovesciante, insieme vindice e schiavo, prono e vittorioso, di quello scandalo.
Per difficile (e blasfemo) che possa sembrare il discorso esemplificativo, il discorso particolare, va preso proprio da questo punto; e condotto avanti senza paura d’arrischiare, non tanto qualche contraddizione, quanto ciò che non sembra riferibile, ciò che non sembra dicibile.
Il lettore dovrà darsi la pazienza necessaria a una simile avventura. Non si richiede forse pazienza quando l’atrocità d’una sciagura ci costringe a inchinarci e a prendere tra le braccia il corpo sconciato d’un ferito? E così, ancora, non è pazienza quella che ci si richiede per sopportare qualche ora, davanti a noi, il cadavere, in cui lentamente s’insinuano la morte e il nulla, di chi pure fu nostro padre?
Che nel corpo di Cristo dovesse contenersi il massimo d’unicità e quasi di concentrazione della natura vegetale, di quella animale e di quella umana (ritenute normalmente per divise o divisibili), mi pare oltretutto logico, attesa la posizione religiosa, non solo di Grünewald, ma di tutta la cultura che egli aveva alle spalle e in cui era chiamato a operare. Non so; anzi, m’è impossibile sapere se nelle storie dei correlati figurali di altre religioni sia accaduto qualcosa d’analogo; so che, qui, da noi, nella nostra, è certamente accaduto.
Cristo, in Grünewald, non scende a incarnarsi solo come uomo; s’incarna come scandalo dell’unità e dell’unicità dell’essere.
Grünewald non fa nulla per esibire questo; ma non fa altrettanto nulla per nascondere la sublime atrocità di tale operazione.
Il Cristo di Colmar non è più soltanto un colosso umano; e neppur più soltanto un toro indomabile, anche se vinto; le piaghe che maculano la sua pelle non sono più e solo cicatrici o ascessi dovuti alle spine e agli attrezzi della flagellazione e della tortura; esse sono anche, e nello stesso tempo, escrescenze e oscuri morbi di natura tipicamente vegetale, ferite di tronchi strappati, croste di clorofille malate; così come sono anche infezioni di tessuti, spurghi e corrosioni di sifilidi e di altre malattie legate ai vizi e alle profanazioni dell’uomo.
È sufficiente che il lettore sposti l’occhio sul povero mostro che nello stesso tempo è forse un povero, osceno malato, della Tentazione di sant’Antonio, per toccar con occhi, se non con mani, la verità di quanto sto dicendo.
Né il rapporto tra la testa di Cristo e la corona di spine è quale risulterebbe se la corona fosse stata veramente infilata sul cranio del Crocifisso; esso è quale sarebbe se la corona ne fosse uscita come una gemmazione spontanea e necessaria; né più né meno di come vi sono usciti e cresciuti i capelli con cui, del resto, s’intreccia e si confonde in modi del tutto vegetali, oltre che nelle maniere proprie ai rettili e a qualche specie di lumaca bavosa dei prati, dei boschi (e delle piogge).
Non era forse scritto da sempre che Cristo sarebbe stato coronato di spine? Ma questo “sempre” è, nello scandalo di Grünewald, talmente reale che la corona si sarebbe sviluppata da sé per ferirlo e torturarlo, anche se attorno a lui non ci fosse stato nessun carnefice.
Così è assai difficile capire se le spine che fuoriescono, qua e là, lungo tutto il corpo vi sian state immesse o non siano invece spuntate per una sorta di mostruosa e folgorante capacità vegetale dei suoi stessi muscoli e del suo stesso sangue. L’atrocità dell’atto viene, del resto, subito ribaltata dalla maggior quantità, anzi dal massimo di desiderio, di bisogno e di necessità di sofferenza e di morte che si leggerebbe in Cristo, attraverso questa sua folle, animalesca e divina autospinazione.
Considerato poi nel suo totale, il corpo del Crocifisso non solo raggiunge, come niente prima e dopo di lui, lo stato di fatalità e di destino agonico del suo essere, ma congloba e dilata quella necessità a un tipo di sofferenza che supera se stessa; un tipo che è ciclico non solo nell’ordine delle qualità, ma altresì nell’ordine dei tempi e delle estensioni. Esso riguarda Cristo ma anche la muta, inesplicabile e come strozzata angoscia di ogni tronco nell’acconsentire al suo crescere dentro il giro degli anni; al suo erigersi e al suo torcersi; al crollare dei suoi rami e delle sue braccia e, quindi, di tutto il suo corpo roso e smangiato. Ma riguarda con la stessa intensità il modo di ingigantirsi della propria morte dentro i mattatoi costruiti dall’uomo o pei vasti, liberi spazi della natura, che è proprio ed esclusivo delle bestie: braccate dal destino, l’urlo, anzi il muggito, si spegne in loro come se l’“ubi eras, Jhesu bone, ubi eras? Quare non affuisti ut sanares vulnera mea?” (che a Colmar si trova scritto nel pannello della Tentazione) riguardasse non solo i santi che si trovano effigiati nel Polittico, ma, ad esempio, i cani, i caprioli, i rettili, i draghi e qualche orrenda e perduta specie d’uccello, il cui stridio ribelle e convulso sembra schiantarsi e gelare nella memoranda morsa dei palmi e delle dita del Crocifisso.
In questo senso, del tronco colto nel punto del suo procombere su di sé e della bestia colta nel punto d’esser condotta al macello e di venir appesa all’uncino dell’infamia, mi pare che vadano ancora più innanzi i due pannelli di Karlsruhe.
Qui la difficoltà di resistere e spiegare rasenta l’ingiuria. Perché come indicare al lettore quel che si promana da quella sacra ed immonda scena di scatenamento che è l’Andata al Calvario, se non assumendosi la responsabilità d’affermare che mai, come qui, il supremo e l’infernale, il divino e il maialesco, ciò che è sacro e ciò che è dissacrato, il celeste e lo stallatico, l’involucro del dolore e dell’offesa coscienti e quello del dolore e dell’offesa incoscienti (cioè animaleschi e vegetali) si erano trovati fusi, abbracciati e unificati? Che mai, come qui, il più lucente degli umani, il più vicino a Dio, perché ebbe quantomeno a proclamare d’esserne il Figlio e ad assumere così sulle proprie spalle la responsabilità più tremenda che mai uomo si sia preso, raggiunge in sé la possanza d’un vitello condotto al macello e l’irruenza, l’ira e la protervia d’essere lui, e non quelli che lo spingono, il vero bestemmiatore; e nello stesso tempo l’enorme, povero strazio di tutti i servi e di tutti i vinti che sempre furono e saranno infangati, assassinati e distrutti? Che mai, come qui, il colore della morte fu la sostanza stessa dei prati quando cominciano a piegarsi su di sé e a marcire senza aver niente compreso del loro senso e del loro significato (ove mai uno ne dovesse esistere veramente)?
Ora, come indicare tutto questo, senza prendersi il peso d’affermare che, qui, Cristo è anche bestia e cane; che il suo gemito è anche latrato; e che proprio e solo per questa via il suo istinto e la sua fatalità redentivi ci vengono spiegati in tutta la loro abissale vastità e in tutta la loro abbacinante incomprensibilità?
Ecco: la caduta di Grünewald dentro l’unicità dell’essere e dentro lo scandalo che in questo modo egli apre, sembra non aver fine. La prova più flagrante l’abbiamo passando dai quadri di malattia e di morte a quelli di resurrezione e di vita. In essi lo scandalo prosegue imperturbabile; anzi sembra farsi ancor più ultimativo e infittire la sua stessa lucente ferocia. Forse perché, col mutare dei temi, anche l’operazione del pittore sembra virare e giungere per vertici e cime (sempre sul punto di capovolgersi in crepe ed abissi) verso la risposta di quanto ci eravamo chiesti prima: e cioè, se, alle volte, non sia un catastrofico trionfo quello che aspetta l’essere a verifica ultimata.
Potremmo cominciare dall’architettura che s’installa e ricama poi se stessa, arborea e vegetale, come una pergola che nel suo crescere sia retta da un’intelligenza ben più dominante e segreta di quella dell’uomo; ma quell’arboreo e quel vegetale nascondono poi nelle loro liane infiniti tranelli di tipo oscuramente e oscenamente animalesco e perfin sessuale; in ogni loro voluta, essi schizzano da sé gocce d’un liquame certamente immondo ed umano, proprio là dove paiono poi tornirsi come trine d’alabastro o ghirigori di qualche introvabile, pregiatissimo marmo.
E che dire di quegli angeli, rosa, rossissimi e verdi, come strani agglomerati di fioriture pustolose e di pustolose fruttificazioni? E che di quegli altri, gonfi come tane che se ne stiano supine entro la guazza di un oro che mai fu più repellente e, insieme, mai più raggiunse la sua propria abbacinante qualità aurorale?
È un corteo di paradiso, quello che accompagna la piccola infante nello scomparto della Nascita, o invece una sua sabbatica e blasfema parodia? E quell’infante, nella sua destinazione fantastica e reale, chi sarà mai? La Vergine bambina o non la regressione di lei adulta nel ventre colmo di splendori e nefandezze, di reticoli venosi e, insieme, di brulichii d’oro, non già della madre, bensì e più totalmente della natura?
Non accade forse la stessa cosa nella Resurrezione, dove il Cristo sembra lasciar il sepolcro trascinandosi dietro qualcosa che non ha soltanto la forma e la sostanza d’un sudario, ma quella d’una placenta inzuppata di liquidi amniotici e accesa, insieme, di zolfi e di lampi innici e come trafugatori di ciò che sembra essere e appartenere veramente e solamente al Dio eterno e nevato?
È tuttavia chiaro che lo scatenamento, il vortice di quello che fin qui s’è detto, lo troveremo nel famoso e già citato scomparto con la Tentazione di sant’Antonio: perché in esso tutto quello che fin lì Grünewald aveva tenuto assieme, conflagra in una sorta di rissa; che dico, di vera e propria violazione psicologica e carnale. Ma una violazione in cui ogni particolare spalanca, apre e svergina se stesso proprio mentre s’infuria a penetrare, con l’avidità di un sesso cieco e furibondo, il particolare su cui si scatena. Qui l’unificazione, l’unicità della natura ci è mostrata nell’atto dell’autodeflorazione, dell’autopossesso e dell’autoerosione. E che il comune denominatore figurale penda dalla parte dell’immondo, dell’innominabile e del grifagno; che si trascini verso l’abominio di ciò che può diventare quella unicità una volta che vi si scateni, microbica e irrefrenabile, come dentro un formicaio impazzito, la guerra dei concetti e delle demenze; e che, nello stesso tempo, la pittura conduca se stessa ai vertici dell’esprimibilità, distruggendo ogni riferimento, uscendo quasi da ogni possibilità di venir cronologicizzata, incistandosi tutta come in un incendio di ghiacciai e di luci; che, insomma, l’infimo coincida col superno, l’immondo con l’adamantino, la nefandezza con una perfezione e una lucentezza di forme quasi imperquisibile (tant’è centrata in sé e tanto da sé subito si scentra; tanto sembra normale e subito risulta, invece, anomala e aberrante); che tutto questo si verifichi coi mezzi dell’arte e della forma, anzi nello scandalo e nell’agonia degli uni e degli altri, non sta solo a indicare il tipo di grandezza davvero unica, irripetibile e, in effetti, irripetuta, del nostro maestro, ma altresì il deposito, lo scrigno, la caverna, il loculo, la bara di buio e di luce, d’affermatività e di negatività, che l’uomo nella sua storia è stato capace di costruirsi; un loculo, uno scrigno e una bara da cui non hanno ancora cessato di venirci appelli, inviti, paure, vertigini, grida e lacerazioni. Esso è tale che, ove lo si potesse considerare con la lucidità e la passione necessarie, basterebbe ad allontanare la disperazione per la fine dell’essere proprio nell’atto stesso in cui sembra invece contenerla, scatenarla e, quasi, orrendamente inneggiarla.
Una vergogna, insomma, che è come una gloria; una bestemmia che è come un trionfo: l’unica gloria, sembra dirci Grünewald, e l’unico trionfo che ci sono concessi.
A questo punto decida il lettore se è stato giusto appendere l’azione di Grünewald al grande, eroico pronunciamento evangelico: quello che riguarda, spinge e quasi provoca la necessità che lo scandalo si verifichi; che avvenga; sempre e comunque; ove pur fosse contro il corpo di Cristo e contro l’essenza stessa della vita e dell’essere; perché, in ogni modo, non ne potrebbe derivare che una controprova, incarnante e concettuale, della realtà di quel corpo, di quell’essere e, insomma, di quella vita. Proprio come il sangue e la linfa provano prima di tutto la duplicità indivisibile della loro destinazione, che riguarda, e nello stesso tempo interscambia, la vita e la morte, il principio e la fine.
*Ripubblichiamo qui il prezioso testo edito in Grünewald, Classici dell’Arte Rizzoli, Milano 1972, pp. 5-10. Ringraziamo l’Associazione Giovanni Testori per la cortese concessione.
In the text La bestemmia e il trionfo (Blasphemy and Triumph), published for the first time in 1972 in the volume of the series “Classici dell'Arte Rizzoli” dedicated to Matthias Grünewald, Giovanni Testori offers a remarkable reading of the German artist’s work, dwelling in particular on the Isenheim Altarpiece, exhibited at the Unterlinden Museum in Colmar. Adopting a particularly intense and lexically daring writing style, Testori offers a conceptual ekphrasis of the painter’s dramatic force and expressive mood, and in particular of the care with which Grunewald depicts the corporeity of the Christ’s body, which includes in its carnality elements from all the kingdoms of Nature – animal, vegetable, mineral.
keywords | Grünewald; Isenheim Altarpiece; Christ’s body.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Testori, Grünewald, la bestemmia e il trionfo, già in Grünewald, Classici dell’Arte Rizzoli, Milano 1972, pp. 5-10, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 111-121 | PDF