Il saggista si muove dunque nelle fratture che l’opera nasconde in sé.
Si muove nelle fratture che egli stesso apre nell’opera.
Svela le cesure, il vuoto, in cui, come egli ha affermato nel saggio su Goethe,
anche ciò che è privo di espressione, anche das Ausdruckslose, si manifesta.
Per questo il saggista apre il testo a tensioni e a dissonanze inconciliabili e inconciliate:
nel testo che attraversa, ma anche nel testo che lui stesso scrive,
nato forse come commento e che diventa un’approssimazione
al contenuto di verità dell’opera,e alla sua propria verità.
(Rella 2021, 88).
L’espressione Ausdruckslose, l’inespresso o, forse meglio ancora, l’inapparente, è un termine benjaminiano che ricorre in non poche pagine dei testi di Rella e che vorrei prendere qui come punto d’accesso per alcune brevi riflessioni. All’interno delle meditazioni di Benjamin sulle Affinità elettive di Goethe, l’inespresso si manifesta come un negativo che si oppone all’idea dell’opera d’arte come unità armonica: “L’inespresso è la potenza critica […] Esso spezza, cioè, quello che resta in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la totalità falsa e aberrante, la totalità assoluta. Esso compie l’opera riducendola a un ‘pezzo’, a un frammento del vero mondo, al torso di un simbolo.” (W. Benjamin 1981, Le affinità elettive di Goethe, trad. it. in Angelus Novus, Torino 1981, 221-222). Il concetto origina dalle riflessioni di Hölderlin attorno alla “violenza inespressa” che si manifesta, nella tragedia, nell’eroe che ammutolisce, e nella forma poetica nella cesura e interruzione del ritmo, nell’aprirsi di silenzi che interrompono il flusso armonico dell’opera. Anche ne L’origine del dramma barocco tedesco la decomposizione del mondo in frammenti è cruciale per il processo di significazione. Il senso emerge solo attraverso le rovine, attraverso ciò che è stato frantumato e disperso. Infine, riprendendo la celebre analisi di Benjamin sull’Angelus novus, Rella puntualizza che l’angelo della storia non solo è rivolto verso le macerie del passato, ma è anche rivolto verso il paradiso, la sorgente del vento che lo spinge verso il futuro; pertanto “il paradiso, se c’è, è tra le macerie, nelle rovine. Se dunque c’è una possibilità di salvezza, se c’è una possibilità di verità, questa sta in mezzo alle rovine. È qui che dobbiamo guardare” (Rella 2007, 8).
Se dunque “l’inespresso che si manifesta nelle cesure del visibile” (Rella 2021, 90) o “l’apparenza di ciò che è inapparente” (Rella 2007, 185) porta a compimento la perfezione dell’opera, ciò avviene perché lo spazio vuoto del testo poetico è la negazione di qualcosa che è già negativo, ovvero la “totalità falsa e aberrante” fondata sull’idea dell’arte come ciò che è in grado di ridurre il caos all’unità della bellezza. L’arte, che resta comunque apparenza, “riceve la sua irresistibilità da ciò che non ha apparenza” (Rella 2021, 148), dallo sforzo di rappresentare l’irrappresentabile: “È proprio l’apparenza dell’inapparente che legittima la forma artistica” (Rella 2017, 15).
L’Ausdruckslose è un motivo ricorrente nella riflessione di Rella non solo perché è cruciale per la riflessione sulla natura dell’opera d’arte, ma anche per la definizione del senso stesso del fare filosofia. La filosofia, reduce dalle sue crisi, non ha certamente più la pretesa di essere sistema totalizzante, che costruisce fondamenti. Ma anche il nichilismo fatto a sistema assume una posizione assoluta che non lascia spazio all’inespresso. È per questo che Rella esprime a più riprese il suo scetticismo verso le seduzioni di una filosofia che celebra la fine del senso, una filosofia “che scava in profondità la propria fine” (Rella 2021, 150). Nel momento in cui il gesto nichilista riconosce e ammette la fine del senso, anzi lo fa proprio, esso sfocia con facilità in una comoda apatia dove gli antagonismi si dissolvono e si distendono in “un’immanenza pura, senza più articolazione né increspature” (Rella 2021, 150). Egli vede in ciò un “pensiero neutro”, e dunque neutralizzante, che paradossalmente finisce per fare il gioco dei poteri che apparentemente dice di contrastare. Un’osservazione, certamente critica, che egli rivolge in particolare ai protagonisti cruciali della postmodernità contemporanea.
In contrapposizione al pensiero neutro, Rella, ripercorrendo le tracce di Adorno, suggerisce di non abbandonare la tensione contraddittoria di un pensiero (e di un’arte) che ‘guarda’ il neutro senza assumerlo in sé e senza suturarlo, senza annullare le lacerazioni che esso produce, e lasciando quindi agire l’inespresso e il vuoto generato dalle zone d’ombra. Non si tratta dunque di accettare o celebrare la morte del senso, ma di permanere presso di essa e di testimoniarla. E questo può avvenire solo attraverso il frammento, un’apparenza che può solo richiamarsi in modo obliquo e residuale a ciò che resta inapparente.
Vedendo in Proust un autore in tal senso esemplare, Rella ci ricorda come La Ricerca del tempo perduto nasca dalla difficoltà di rapportarsi alla propria esperienza, e quindi “di trovarsi nella condizione di non poterla comunicare ad altri se non per frammenti” (Rella 2021, 147). Negli stessi anni in cui Proust scriveva, Sigmund Freud, nel suo Al di là del principio di piacere (1920), si sofferma sui reduci di guerra il cui trauma rende loro impossibile raccontare e rappresentare la propria esperienza: “La loro esperienza si è fatta paludosa, ai limiti dell’inesprimibile. La parola si è spezzata. E precipitata nell’afasia.” (Rella 2021, 147). Rella indica come compagni di viaggio differenti autori classici della modernità letteraria, come Dostoevskij, Kafka, Mann, Eliot, Montale, affini nelle loro differenze, ma non esita a includere anche scrittori contemporanei come Don De Lillo, Philip Roth e Cormak McCarthy. Per quest’ultimo “La morte è ciò che i vivi si portano dentro” (C. McCarthy, Suttree, tr. it. di M. Balmanelli, Torino 2009, 490); il vivente toccato dalla morte, ovvero dal neutro, si situa in un luogo di tensione inconciliabile, a differenza dei morti che non hanno memoria e che non esperiscono alcuna inquietudine.
L’attenzione di Rella, a questo proposito, è rivolta anche al ruolo delle arti nel contemporaneo. Nel contesto di un pensiero neutro figlio del nichilismo e di una “folle e vuota ermeneutica postmoderna” (Rella 2007, 104), l’arte contemporanea rischia di cedere al sovraccarico estetico e alla sovradeterminazione, in cui l’orribile e il terribile sono presentati senza pathos, e si finisce per assistere a un uso semplificato dell’allegoria e, talvolta, a una “fuga ludica” in cui si assume “il vuoto di senso come una paradossale totalità, una sorta di conciliazione consolatoria.” (Rella 2014, 96). Si potrebbe dire, interpretando lo spirito di queste parole, che l’ironia postmoderna nelle arti rispecchi il cinismo come fenomeno diffuso; l’assenza di progetto e di senso viene abbracciato in una “falsa coscienza illuminata” per usare le parole di Sloterdijk, la posa di disillusione diventa meccanismo di difesa confortante.
L’eccesso di “sovradeterminazione estetica” (Rella 2021, 149), di visibilità, e quindi l’assenza di zone d’ombra, di silenzi, può essere accostato a ciò che Rella ci dice a proposito della sovraesposizione al discorso razionale, “illuminato” e la risposta che a essa hanno dato le avanguardie: “La luce della verità, quando nega l’ombra, si fa radente e scortica il mondo da differenze e contraddizioni e degenera in una sorta di feticismo, in una vera e propria morte della cosa. La verità si fa culto di se stessa e diventa sostituto del mondo reale” (Rella 2021, 46). Il ruolo autentico delle avanguardie artistiche, come il surrealismo nelle sue intenzioni programmatiche, non è stato tanto l’esercizio dello choc e della sorpresa, quanto l’opposizione a questa “mostruosa ragione” (Rella 2021, 46). L’artista, in questo sforzo di opposizione, dà figura a ciò che non ha espressione, per amore paradossale di una verità che può essere solo obliqua. È quanto emerge con chiarezza nelle opere di Lucio Fontana, Mark Rothko e Samuel Beckett, dove l’artista assume la responsabilità di trovare una via per testimoniare l’afasia e il silenzio, sfidando la saturazione delle parole e l’eccesso espressivo. Un altro esempio, che Rella ci ricorda, è l’azione di Rauschenberg, che cancella un disegno di de Kooning e lo espone come Erased de Kooning Drawing, simboleggiando la volontà di dare forma e visibilità al vuoto e all’annientamento, di tradurlo in figura “con cui possiamo confrontarci, con cui è necessario confrontarsi” (Rella 2021, 148).
In questo contesto si riecheggiano le tensioni delle avanguardie del dopoguerra verso la smaterializzazione, la ricerca volta all’obliterazione della forma e verso un’estetica del silenzio. Da un lato questo è il frutto della consapevolezza disincantata che l’arte non può ricucire le fratture, né offrire consolazioni: “L’arte non salverà il mondo. Questo lo aveva capito già Dmitrij Karamazov. Non rende buono il malvagio e giusto l’ingiusto. Non convincerà il tiranno alla democrazia” (Rella 2021, 154). L’artista, come d’altronde il filosofo, non è colui che indica vie alternative:
L’arte che risponde alla “stringente attualità” è un’arte che si piega alla logica del tempo, alla logica dominante del nostro tempo. Vuole cambiare il mondo e cambia se stessa “conciliandosi” con il mondo che pretende di cambiare. […] è dubbio se queste forme reagiscano ad altro che al mercato, là dove l’arte ha perduto la sua forza narrativa e si è, per così dire, neutralizzata (Rella 2014, 26).
L’opposizione di Rella al pensiero neutro non si declina quindi in una forma di filosofia impegnata o nell’attivismo artistico. La responsabilità del pensiero sta piuttosto nel mantenere aperte le domande radicali (Rella 2009). Non deve essere stato facile cercare di rendere chiara questa prospettiva all’interno di una scuola, come lo Iuav, in cui l’impegno ideologico si è sempre accompagnato alla pratica progettuale e artistica: “vediamo oggi giovani impegnati in tesi di laurea in cui prescrivono all’arte compiti direttamente politici: ambiente, emarginazione, coinvolgimento. A me pare che questo sia un equivoco […]” (Rella 2021, 153). L’atteggiamento neutro e neutralizzante per Rella si manifesta quindi sia nella rassegnazione malinconica delle illusioni perdute o nella sua cinica accettazione, sia, allo stesso tempo, nell’atteggiamento di chi crede che l’artista o il filosofo debbano offrire soluzioni, imporre modelli, affrontare le inquietudini con le risposte della saggezza. In entrambi i casi l’incertezza viene placata, la radicalità viene appianata e neutralizzata, mentre invece “il continuum deve essere fatto ‘saltare’. Deve esplodere. È attraverso l’incrinatura, attraverso questo varco che può emergere ciò che salva” (Rella 2014, 97).
Sarebbe dunque un errore pensare che per Rella l’artista si sottragga dalla dimensione della responsabilità e della politica. Al contrario: l’opera d’arte e il pensiero, dando forma all’inespresso, si fanno carico delle responsabilità nei confronti delle lacerazioni del mondo. Non offrendo soluzioni, ma portando al massimo grado le tensioni e le ferite, come già diceva Adorno. La responsabilità dell’artista è nei confronti della sua stessa opera e del senso che essa esprime, nell’ombra che tale opera proietta sul mondo, per usare un’espressione di Paul Celan a cui Rella più volte fa riferimento.
Se questa è la responsabilità dell’artista, qual è quella del pensatore? Ombre. Frammenti, crepe, incrinature: questi non sono solo i motivi che Rella utilizza per descrivere il filo che lega le questioni cruciali dei suoi autori ricorrenti (il “dialogo continuo con gli autori che ho amato” come scrive nella premessa a Forme del sapere), ma anche gli elementi di una riflessione personale e di un esercizio di pensiero che si manifesta nella sua peculiare esecuzione della forma saggistica, che fa uso della micrologia (Rella 2007), del frammento, che scava negli interstizi tra riflessione filosofica e linguaggio poetico:
L’artista, il poeta, il narratore, il saggista si muovono negli stessi territori, lungo le stesse frontiere, tentando con più o meno determinazione, con più o meno forza o violenza, di rendere porose, permeabili le frontiere, aperte a sentieri laterali, che forse non sono mai stati percorsi (Rella 2014, 180).
Quando parla di compito dell’arte, quindi, Rella parla anche del compito della filosofia e con voce autoriale sempre presente, mai distaccata, ci rende partecipi dei suoi attraversamenti, anche dei suoi dubbi e delle sue personali questioni impellenti: “Il saggista, come d’altronde l’artista, misura le contraddizioni del mondo attraverso le proprie laceranti contraddizioni. È proprio vero? Non è un tentativo di legittimare una dimensione etica anche al mio lavoro e alle opere di cui da sempre mi occupo?” (Rella 2014, 187; si veda anche Scrivere. Autoritratto con figure, 2022).
Rella riflette e fa suo lo ‘stile tardo’, sulla scia delle riflessioni critiche di Benjamin e Adorno attorno alla teoria del saggio, una scrittura fatta di rotture e frammentazioni, che si colloca in una posizione di “esilio” che accomuna il saggista al poeta e al narratore. Il filosofo-saggista, ritirandosi in esilio, ovvero rifiutando la mondanità, l’attualità, oggi diremmo il problem solving, rifiuta così di non degradare – ma soprattutto di non ‘neutralizzare’ – la filosofia a scienza particolare: “Ci si ritira in esilio perché le parole e le immagini animano la paura, e ci rendono così coscienti dell’impronunciabile arretrare dell’organismo davanti alla propria distruzione, quasi questo fosse inesorabilmente il costo della verità che si cerca” (Rella 2014, 95).
Accomunati dallo stile dell’esilio, filosofia critica e arte s’incontrano nello ‘spazio estetico’. Il saggista si muove nelle fratture dell’opera, anzi le provoca e le svela; e così come l’opera “disgrega e riorganizza la vita così come la lettura critica, il saggio, disgrega l’opera e la ricompone nel suo universo di senso” (Rella 2014, 138). Il saggista cerca di dare parola all’Ausdruckslose, non senza esporsi alle tensioni che ciò comporta e anzi spingendosi fino agli stessi limiti che l’artista ha incontrato; e nel far ciò, egli “apre il testo a tensioni e a dissonanze inconciliabili e inconciliate: nel testo che attraversa, ma anche nel testo che lui stesso scrive” (Rella 2014, 138). In tal senso la filosofia non ha la funzione di offrire modelli esplicativi, di chiarire o di semplificare, ma anzi quella di complicare; solo in questo, Rella sottolinea, il pensiero può mantenere la forza della riflessione critica verso le domande più radicali, rendendo visibile la dimensione enigmatica contenuta nell’opera. Ciò non significa, beninteso, che il lavoro del filosofo e dell’artista siano lo stesso. Essi si muovono nello stesso territorio e nello stesso spazio estetico, si è detto, ma mentre l’artista e il poeta hanno solo una responsabilità nei confronti di un’opera e del senso che essa getta (come un’ombra sul mondo, si diceva), il filosofo resta vincolato alla verità:
Il poeta non decide, ma il filosofo deve decidere, perché la filosofia è sempre anche politica. L’indecisione poetica risponde alla responsabilità nei confronti del senso e dell’ombra. La filosofia risponde a una sua coerenza interna, ma in questo esprime una responsabilità che è anche politica e che dunque impone decisione (Rella 2017, 40).
Come la responsabilità dell’artista è nei confronti dell’opera così occorre precisare in che senso per Rella si debba intendere la responsabilità politica del pensatore: non nella classica immagine platonica del filosofo “reggitore della città”, ma nel riflettere criticamente sul pensiero stesso, nel tenere aperte le domande radicali, e soprattutto nell’esercitare quella “violenza critica” che agisca “contro la violenza del neutro, della neutralizzazione” (Rella 2014, 188).
Pur consapevole delle difficoltà del linguaggio nel rendere ragione dell’inespresso, la scrittura saggistica, e quindi la scrittura di Rella, agisce contro il pensiero neutro imponendosi lo sforzo di mantenere fermi la frattura e l’informe, e ciò che necessariamente resta fuori dal linguaggio, preservando “quel lì fuori”, che non è mai interamente assimilato o risolto (Rella 2014, 27). Su questo la filosofia si biforca dall’arte, “ma a ogni tornante torna nei suoi pressi, e in molti tratti si intreccia a esso” (Rella 2014, 27).
Scritti di Franco Rella citati nel contributo
- Rella 2007
F. Rella, Micrologie. Territori di confine, Roma 2007. - Rella 2009
F. Rella, La responsabilità del pensiero. Il nichilismo e i soggetti, Milano 2009. - Rella 2011
F. Rella, Interstizi. Tra arte e filosofia, Milano 2011. - Rella 2014
F. Rella, Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza, Milano 2014. - Rella 2017
F. Rella, Quale bellezza?, Napoli/Salerno 2017. - Rella 2021
F. Rella, L’arte e il tempo, Milano 2021. - Rella [2018] 2022
F. Rella, Scrivere. Autoritratto con Figure, Milano [2018] 2022.
English abstract
By engaging with Benjamin’s notion of Ausdruckslose, Franco Rella argues that authenticity in art and philosophy arises from confronting the fragmentation and contradictions of reality, rather than adhering to false totalities or succumbing to the apathy of neutrality. Rella advocates for a critical stance that acknowledges the potential for truth and redemption amid the ruins of history and modernity. Rella calls for an approach that embraces complexity and maintains a vigilant critique against the pacifying lure of neutrality in the arts and in philosophical discourse.
keywords | Franco Rella; Ausdruckslose; Art and Literature; Aesthetical space.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: E. Arielli, Contro il pensiero neutro, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 13-18 | PDF