"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

A Venezia Kafka ha cercato casa

Roberto Masiero

English abstract

… radicarsi nell’assenza di luogo.
Franco Rella

M. Cacciari, F. Rella, M. Tafuri, G.Teyssot, Il dispositivo Foucault. Introduzione di Franco Rella, Venezia 1977 >> PDF.

C’è stato un tempo nel quale il lavoro era tutto, proprio tutto. Non è stato sempre così. In altri tempi e/o in altri luoghi aveva dignità solo chi non era costretto a lavorare. L’umanità aveva una idea di se stessa molto diversa dalla nostra. Tant’è! Nel tempo nel quale il lavoro era tutto, su di esso si misuravano i valori sia sociali che economici. Se non avevi lavoro, eri un diseredato; se sfruttavi il lavoro altrui, eri ricco, potente e anche spesso classe dirigente; se eri costretto a lavorare e non avevi altro che la tua forza lavoro, non ti restava che organizzarti politicamente per affermare dei diritti magari dicendoli come universali. Perché no? E così nel bene e nel male il lavoro era proprio tutto.

In questo tempo, per contrappasso, o perché sempre ci vuole una differenza per confermare una regola, c’erano delle figure alle quali era concesso non dico di non lavorare, ma di poter fare e pensare le loro cose quando volevano e come volevano. Sono i “guardiani del regno della libertà”, vera o presunta che fosse o che sia. Queste due figure erano e sono ancora oggi (ma per quanto ancora?) l’artista e l’intellettuale.

Guardando un’opera d’arte in un museo vi siete per caso chiesti quante ore di lavoro ci sono volute? Penso proprio di no. O leggendo una poesia vi siete interrogati su quanto costa ogni verso che state leggendo? Ancora no! E se leggete uno scritto di un qualche intellettuale non vi indignate se venite a scoprire che è stato pagato da qualcuno per scrivere ciò che state leggendo? Chiaramente si! Gli artisti e gli intellettuali!? Eccoli – ambedue liberi dal lavoro, immersi nell’arcano dei valori e inevitabilmente inquieti, costretti a vivere lo sradicamento e a rincorrere la libertà per la libertà. Uguali e diversi, convivono. Il primo non può che fare cose, manipolare mondi, negare le opere del passato. Non c’è opera definita da noi opera d’arte che non tenti di uccidere le opere d’arte precedenti – così Theodor W. Adorno, che se ne intendeva. L’artista è inevitabilmente un assassino. Il secondo, l‘intellettuale, prova a liberare il pensiero dal vincolo delle cose e si ritrova spesso (e ovviamente, non solo) a intrufolarsi nel mondo dell’artista, per scoprirne i modi e le ragioni del delitto.

Tra l’artista e l’intellettuale c’è lo stesso rapporto che c’è tra l’assassino e il detective. Franco Rella prova a mettersi contemporaneamente da una parte e dall’altra: sogna di scambiare i ruoli e penetrare gli arcani dell’uno e dell’altro. Faticoso! Certo! Utile? Sì! E non solo per lui, ma per tutti noi. Artisti e intellettuali c’erano anche prima del tempo nel quale il lavoro era tutto. Ad esempio, nel tempo nel quale il lavoro era del servo mentre al signore (al padrone) spettava il consumo per il consumo, l’ostentazione per l’ostentazione, l’artista faceva il ritratto del re o rappresentava ciò che voleva il signore, e l’intellettuale, mosca cocchiera, sussurrava all’orecchio del potere il che fare. Così era! Non così in quello che per ora è ancora (per quanto?) il nostro tempo. Certo nel tempo nel quale il lavoro è tutto e tutto può essere razionalizzato, anche l’intellettuale dovrebbe e potrebbe svolgere un lavoro come professione ed essere portatore della implicita oggettività del mercato/sistema o del sistema/mercato. Diciamolo chiaramente: anche l’intellettuale dovrebbe o potrebbe diventare organico al sistema o al contro sistema e farsi così soggetto politico. Ma il sistema è tale perché astuto, astutissimo, e si rigenera fagocitando il negativo e così sia l’artista che l’intellettuale, che vivono abitando il regno della libertà (vera o presunta è indifferente), preferiscono per lo più essere organicamente disfunzionali lasciando che le opere come le interpretazioni del mondo incontrino le contraddizioni sempre in atto. Ed è così che due figure come l’artista e l’intellettuale, così diverse tra di loro e dagli altri, non trovano mai casa. Ed è così che la loro inevitabile solitudine – la loro differenza – li costringe continuamente a perdersi e a ritrovarsi, per poi perdersi di nuovo in sé, entro e oltre la politica, e inevitabilmente nel sociale. Quel sociale nel contempo amato e odiato.

Franco Rella legge con inquietudine, l’inquietudine del nostro tempo. E in questo è, pienamente, un intellettuale. Si confronta all’inizio degli anni Settanta con Georges Bataille e Gilles Deleuze. Affronta i temi del marxismo, della “scienza del capitale”, curando un libro di Roger Establet e Pierre Macherey, sociologo il primo e filosofo il secondo, che si confrontano con Louis Althusser, per poi gettarsi a capofitto (proprio così: a capofitto) nell’analitica freudiana, riandando necessariamente al punto d’inizio: la grande crisi dei fondamenti della stessa epistemologia occidentale che esplode ovunque a fine Ottocento e nei primi anni del Novecento, e che si mette in scena con la decadenza dell’Impero asburgico a Vienna. Lì abita Freud ed esplode la crisi stessa dell’idea di soggetto. E che altro poteva entrare in crisi se non l’orgogliosa soggettività del dominio occidentale? Franco Rella vuole scoprire l’assassino e sa che è pericoloso provarci.

Nel 1976 Cacciari pubblica Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo, da Nietzsche a Wittengenstein. Sempre nel 1976 Rella viene chiamato al Dipartimento di Storia dell’Architettura di Venezia, istituito con la riforma avviata da Carlo Aymonino nel 1974. Il Dipartimento sostituisce l’Istituto di Storia fondato e diretto da Bruno Zevi, il quale nel 1963 si trasferisce all’Università di Roma lasciando la propria cattedra a Giuseppe Mazzariol. Il Dipartimento è voluto e diretto da Manfredo Tafuri, arrivato a Venezia nel 1968. Non un anno qualsiasi. A preparare il terreno c’era il giovane Massimo Cacciari.

Il dipartimento nasce con il preciso intento di dare dignità all’autonomia della ricerca storico-critica e per ripensare radicalmente la stessa storia dell’architettura. Verranno per questo chiamati da Roma Mario Manieri Elia e Giorgio Ciucci e poi, cooptati, Francesco Dal Co, Marco De Michelis, Paolo Morachiello, Antonio Foscari, Donatella Calabi, Ennio Concina e anche un giovane appena addottorato, Georges Teyssot. L’istituzione dei dipartimenti sperimenta e anticipa la significativa riforma universitaria, la 382 del 1980, che riconoscerà dignità di ricerca all’insieme del sistema accademico italiano. L’università non era più pensata solo come momento della formazione di professionisti necessari al sistema produttivo, ma anche come struttura rivolta alla ricerca, quindi anche con una funzione critica dello stesso sistema. L’università vuole essere sino in fondo la fabbrica del lavoro intellettuale.

Franco Rella legge, rilegge, si immedesima nei testi che colgono o vivono in vario modo la crisi e il sistema Occidente: Kafka, Musil, Weininger, Benjamin, Dostoevskij, Florenskij e chi sa quanti altri. La crisi è invasiva, paludosa, insinuante, alle volte persino suadente ed edulcorata. Rella si immedesima sino al punto da sacrificare se stesso nelle opere altrui. È il rito della interpretazione. Proprio così: offre anima e corpo alla dispersione sacrificale, alla ricerca di un varco che offra a se stesso e al lettore una possibilità verso il grande, necessario e umanissimo sogno della libertà. Lo offre al lettore che, per Franco Rella, come per Baudelaire, è un ipocrita fratello. “Tu, ipocrita lettore – mio simile e fratello” – così all’inizio dei Fiori del male, testo più e più volte interpretato da Rella. Si rivolge all’ipocrita fratello per liberarlo da se stesso e per tentare una impresa quasi impossibile: stanare con l’interpretazione del testo da una parte le contraddizioni del contesto (della stessa società), e dall’altra l’arcano del non detto, meglio dell’indicibile.

Nel tempo in cui il lavoro non è più l’unica variabile per la determinazione del valore e là dove la questione non è più come il lavoro produce il valore e come questo venga legittimamente o meno ridistribuito, ma come l’operaio possa diventare, organizzandosi, intelligenza collettiva, che può fare l’intellettuale? Ebbene questo tempo costringe a prendere posizione. O l’intellettuale diventa organico, mosca cocchiera dell’antisistema, e immediatamente politico, oppure si rintana in un estetismo onanistico per riti collettivi della cosiddetta cultura di massa, adattandosi a quella che veniva chiamata società dello spettacolo, animata da macchine desideranti: noi.

Certo qualcuno nel tempo della grande crisi percorsa da tutti gli autori che Rella interrogava poteva anche proporre il lavoro intellettuale come professione, cioè come capacità di oggettivare il mondo. Altri, tempo dopo, potevano anche proporre un intellettuale astuto come le colombe e temerario come i serpenti, pronto alla verifica dei poteri, cioè a scardinare il sistema, oppure disposto ad avvelenare i pozzi senza lasciare tracce in nome di una etica dei fini che giustificano i mezzi. Sta di fatto che alla fin fine ciò che emergeva – ed emerge – è che il sistema ha una potente caratteristica: si alimenta di ciò che lo nega, riesce a fare proprio, a rimetabolizzare, anche il contropotere.

E allora? Forse questo mondo è il migliore dei mondi possibili e quindi l’intellettuale è solo uno fra i tanti che gioca con quella cosa che chiamiamo intelligenza e non si preoccupa più del sociale, dell’‘altro’ e tanto meno del ‘totalmente altro’? Oppure c’è un altro modo di offrirsi al mondo o di provare a cambiarlo? Mi viene una parola antica, kénosis, che forse Franco avrebbe apprezzato. Significa ‘svuotamento’ e nel lessico dei greci assumeva anche una sfumatura morale negativa: indicava l’ambito del ‘vanitoso’, ‘frivolo’. Ma poi questa parola viene usata da Paolo di Tarso per segnalarci qualcosa di scandaloso che riguarda il Cristo. Come è possibile che il figlio di Dio riduca se stesso al nulla, rifiuti la sua stessa autorità, rinneghi la propria stessa divinità facendosi simile all’uomo e diventando così agnello sacrificale? Questa è la kénosis!

Predisporsi all’interpretazione – ed è questo che sempre fa Franco Rella nei suoi scritti, ma anche faceva nelle sue lezioni – significa annullare se stessi nel testo, per decostruire non solo il testo nelle sue trame, sino a ciò che non viene detto nel testo stesso, ma anche decostruire le proprie certezze, convinzioni, i preconcetti. Incarnare la crisi, farla diventa corpo sacrificale. Kénosis, appunto. Al di là di questioni di fede, questo riguarda il nostro stesso linguaggio e quindi la nostra stessa umanità. Franco lo sapeva e lo praticava con rara umiltà intellettuale. Ritorno a Paolo di Tarso, e non certo per presunzione teologale: il mondo può essere altro da com’è non perché lo neghi e rifiuti o perché individui in un altro o in un altrove delle colpe, ma perché sei disposto ad abbandonare il modo in cui pensi e fai, perché sei disponibile alla kénosis, sei disposto a svuotarti da ciò che pensi di essere e quindi fai o che fai perché pensi di essere in un determinato modo. Nella teologia del Nuovo Testamento e nella teologia politica questo è il tema della conversione; in sociologia politica questo è ciò che di più radicale si può pensare e fare: la rivoluzione.

Ma se provi l’emozione di poter cambiare l’esistente, devi non cercare il nemico ma capire che esso è in interiore homine. E in questo non puoi che affidarti all’interpretazione dell’altro come interpretazione del sé essendo disposto a pensare in altro modo. Essendo disposto alla conversione: interpretare significa percorrere i sentieri della conversione. Come non essere inquieti! Serve una metafora: il lavoro intellettuale come un dissodare e un seminare, meglio un disseminare. Franco scava e semina. Scava nei testi, nei contesti e in se stesso, nelle sue stesse idiosincrasie, nevrosi, e nostre paranoie … implicandoci. Scavare significa dissodare. L’intellettuale può essere colui che prepara il terreno per la semina, con la fatica nell’aprire il solco, nel togliere le erbacce e le radici invasive, le pietre che la geologia ha disseminato ovunque, e si sa quanto è potente ciò che sta nel tempo lunghissimo, di per se eterno, come la geologia. Dissodare significa rigenerare.

Questo è ciò che può fare l’intellettuale dopo essere stato mosca cocchiera e narciso collettivo e si ritrova con un mondo al quale sono venute a mancare persino le parole. Un mondo amato e odiato, idolatrato e sospettato. Un mondo che Rella prova ad affrontare oltre l’evidenza, scavando nel fondo di una parola che sempre torna in lui e nei suoi e nostri compagni di strada: l’indicibile. In un paradosso assoluto: prova a dire ciò che non può avere parola. Franco cercava tra le parole ciò che le parole non sanno o non possono dire. E qui, sull’indicibile, il mio più che amichevole disaccordo: non esiste null’altro che ciò che è possibile dire, e ciò che non è dicibile non esiste sino a quando qualcuno o qualcosa non lo dice. Se qualcuno pensa che tutto vada ricondotto all’indicibile, per cortesia, stia zitto (visto che l’indicibile è appunto non dicibile) e nel caso si predisponga a tacere si riconosca almeno nelle liturgie di un sacerdozio tra il metafisico e il religioso. Ciò che non esiste è semplicemente il possibile, mai presente e sempre in atto. E per quanto possa sembrare paradossale non c’è nulla di più concreto del possibile. Siamo parlati e crediamo di essere noi che nominando il mondo lo creiamo. Non è proprio così, siamo solo una delle relazioni possibili. Ecco di nuovo la questione: pensando/vivendo la kénosis, lo svuotamento, possiamo finalmente smettere di ritenere di essere fatti a immagine e somiglianza di Dio. Somma presunzione, peccato di orgoglio: non siamo la misura di tutte le cose e la nostra unica e vera dignità sta nell’interpretare, quindi nell’interrogare. La kénosis può liberarci dalla autoidolatria, ancor più scandalosa quando arriva a presupporre che non siamo noi ad essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio, ma è Dio fatto a nostra immagine e somiglianza.

Rella ha continuamente lavorato sulle parole e sulle grammatiche e sulle sintassi per scavare dentro a se stesso e dentro di noi. È come se avesse percepito che il lavoro intellettuale non può che essere lavoro collettivo nel quale tutti assieme e non solo lui proviamo a dissodare il terreno. La sua lezione non è mai stata solo la sua lezione, visto che tutti eravamo con lui in gioco: implicati, di nuovo. Raro! Non solo umanamente, ma intellettualmente raro. Forse aveva elaborato la giusta idea che nella crisi è inutile piangerci addosso, ma va elaborata una strategia, la libertà rigorosa dell’interpretazione per alimentare l’intelligenza e la creatività collettiva. Non Apollo, né Dioniso! E soprattutto andrebbe rotto lo specchio nel quale Narciso si ritrova. Per una rigorosa passione, per una distanza empatica. Di certo difficile, ma non impossibile. Rompere lo specchio? Forse sì. Franco sarebbe d’accordo: sapeva ascoltare Lacan.

E la politica? Dio mio, la politica! La politica in quegli anni!? Dalle contestazioni nelle università del ’68, all’omicidio di Aldo Moro nel maggio del ’78, molte le questioni: la trasformazione del sistema di diffusione e trasferimento dei saperi per riconfigurare anche una nuova classe al potere con una università che da élite diventa di massa; la forte contrazione della crescita economica; la crisi petrolifera con l’aumento del costo delle materie prime; i profondi processi di ristrutturazione del sistema produttivo; la questione cruciale dell’occupazione. Crescono allora vaste aree di emarginazione sociale dove sono coinvolti soprattutto i giovani e le donne. E ancora l’esito non previsto dal sistema di potere del referendum sul divorzio del 1974 che segnala un paese più laico e aperto e l’avanzata delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976. Cambiano le giunte nelle maggiori città italiane. Il PCI, che nel 1973 aveva teorizzato il “compromesso storico”, cioè l’alleanza di governo con le maggiori forze politiche popolari, lo mette in pratica tra il 1976 e il 1979, entrando nell’area di governo prima con l’astensione e poi con l’appoggio dall’esterno. Nello stesso tempo, con la rivendicazione di autonomia da Mosca, si comincia a parlare di un “eurocomunismo” con alla testa il PCI di Enrico Berlinguer, che comincia a fare i conti positivamente con il contesto delle società democratiche occidentali. Nel frattempo, emerge violento un “terrorismo rosso”, che assume particolare virulenza verso la fine del decennio, sino all’omicidio di Aldo Moro.

Nel 1976 il gruppo di lavoro del Dipartimento di Architettura dello Iuav di Venezia organizza un seminario dal titolo Il dispositivo Foucault. La proposta è del giovane Georges Teyssot, accolta dal Direttore Tafuri, da Massimo Cacciari e dallo stesso Franco Rella.

Teyssot intendeva utilizzare l’opera foucaultiana per costruire una storia sociale degli spazi sulla base di una serie di testi non ancora tradotti in italiano, come la conferenza che Foucault aveva tenuto dieci anni prima al Cercle d'études architecturales – dedicata alle eterotopie – e il testo sulle Machines à guérir, pubblicato dall’Institut de l'Environnement de Paris. Tuttavia, e indipendentemente dai desideri di Teyssot, furono ben altri gli esiti di quella giornata di studi. Com’è stato scritto, in effetti, lungo tutti gli anni Settanta la ricezione italiana di Foucault “riflette l'effervescenza della realtà politica italiana: la crisi dello storicismo e della cultura laica e liberale, l'emergere di una sinistra operaista, alternativa a quella del PCI, come anche di un movimento di contestazione politica e sociale nelle fabbriche e nelle università. Si potrebbe dire: Foucault politico, dunque.

Così Marco Assennato nell’importante saggio Il dispositivo Foucault. Un seminario a Venezia, dentro al lungo Sessantotto italiano, che invito a leggere, pubblicato in Engramma (“La Rivista di Engramma” 156, 2018, 119-140). Molte sono le posizioni che allora emergeranno. Nel sottofondo c’è comunque un problema: l‘intellettuale deve o può essere organico al potere o al contropotere? O che altro ruolo può avere che non sia quello dell’uomo di “apparato” o di “buffone di corte”? Per avere il quadro delle varie posizioni invito ancora a leggere il saggio di Assennato. Quello che mi interessa ora è rilevare la posizione di Franco Rella. Ecco allora ancora Marco Assennato: “Tanto nella sua introduzione al volume che nel suo intervento, Franco Rella si piazza sulla stessa lunghezza d’onda di Ginzburg”. Cosa aveva scritto Ginzburg su Foucault? Ancora da Assennato:

Foucault è accusato di irrazionalismo. Secondo Ginzburg, “nell’archeologia del silenzio” del filosofo francese gli anormali, i matti, i marginali – e più in generale “le vittime dell’esclusione sociale” – sono trattati come “i depositari dell’unico discorso radicalmente alternativo alle menzogne della società costituita”. Si tratterebbe allora di recuperare questo discorso altro per scagliarlo come una pietra contro il logocentrismo del potere. Tuttavia, secondo Ginzburg […] essendo, a parere di Foucault, impossibile “parlare della follia in un linguaggio partecipe della ragione occidentale”, la ricerca non può che arenarsi nel “rifiuto dell’analisi e dell’interpretazione” o, peggio, approdare a “un’estraneità assoluta che si pone al di là, o meglio al di qua della cultura”. Il foucaultismo sarebbe dunque una forma paradossale di neopirronismo al quale non restano che il “silenzio puro e semplice – eventualmente accompagnato da una muta contemplazione estetizzante”.

Per Rella questa è una “ideologia della fuga, impero incondizionato del desiderio, negazione delle contraddizioni attraverso le quali si costituiscono i soggetti” e vi oppone il severo metodo dell’analitica freudiana. Detto in altri termini, se ciò che rende potente il sistema costituito è il fatto che il potere si nasconde diffondendo le nebbie dell’indicibile, il compito di ognuno di noi (e non solo dell’intellettuale) è quello di diradare le nebbie dimostrando che nulla è indicibile e che ciò che è scandaloso va detto con la maggiore chiarezza possibile.

E allora l’interpretazione dei testi come dei fatti che ruolo può assumere rispetto allo svelamento dei dispositivi del potere? Quello di far proliferare all’infinito le nebbie, verso forme di un mai concluso edonismo, di un desiderio mai risolto e risolvibile, che rincorre se stesso per evitare di esaurirsi, oppure quello di provare a dissolvere le nebbie, di essere politico senza dover diventare politicamente apparato? Non facile scegliere – o ‘credere’ – da che parte stare. Rella non si fa soggetto politicamente identificabile, meglio formalmente riconoscibile. Per non schierarsi? Assolutamente no! Sapeva bene da che parte era: solo che interpretava il suo ruolo di studioso come colui che non domina, ma predispone, che non impone, ma che rende possibili e libere le interpretazioni inseguendo nel contempo quelle vere e false, plausibili e implausibili, dimostrate o meno, purché vive. Solo che perché questo avvenga il soggetto interpretante deve continuamente annullarsi e ritrovarsi, per ancora annullarsi nella interpretazione e nelle pratiche tra esegesi ed ermeneusi. Questa mi sembra la ‘partita’ di Franco Rella: non schierarsi, non oggettivarsi nella urgenza della politica, sacrificandosi invece al rituale della interpretazione come catarsi, o allo svelamento della possibilità stessa che lo svelamento possa accadere. Accettare di essere vittima sacrificale, allontanando da sé l’illusione che la soluzione sia nella elaborazione teoretica. Tanto meno rispetto alle pratiche immediate della politica.

Franco Rella ha cercato continuamente di radicarsi non tanto in un luogo ma nell’assenza di un luogo. La solitudine non si impara. Rella trova casa a Venezia. Non certo un non-luogo, ma di certo un luogo improbabile, se non altro perché non c’è nulla di simile in nessun altro luogo. Un mondo altro, o nessun-mondo, come Rella scrive in uno dei suoi ultimi saggi, per Alessandra Chemollo:

Ma esiste Venezia, può esistere una città che non ha confini, quella linea dove la terra finisce e comincia l’acqua, dove dunque sia possibile stabilire un qui e un là, un qui e un altrove, un dentro e un fuori? [...] Venezia però esiste davvero.

Un luogo tutto e sempre da interpretare e non solo da vivere. Forse qui a Venezia, la sua e la nostra inquietudine, trova un po’ di riposo nel languore che però ci costringe ad una interpretazione allusiva, sottile, al limite tra nevrosi e noia. Quanto pesano i luoghi! E Rella porta a Venezia in cuor suo molti amici, da Kafka a Baudelaire, da Benjamin a Valery, da Rilke a Montale, e molti, molti altri, nostri compagni di viaggio. Sapeva comunque di avere una tana dove tornare: Rovereto. Nell’inquietudine si impara anche la prudenza. Si prova ad andare e a tornare.

Viene chiamato dal Dipartimento di Storia dell’Architettura per gli insegnamenti di Letteratura artistica e, più tardi, Estetica. Estetica dell’architettura? Assolutamente no! Estetica e basta! Discorso attorno all’arte, al bello e alla percezione sensibile o se volete, come si usava allora, a molto altro ancora. Quasi tutto in quel tempo veniva interpretato come un momento di una complessiva totalizzazione estetica. Indubbiamente amava come tanti l’architettura, ma non era proprio il ‘suo’. Sbagliato? Assolutamente no! Anzi, proprio qui sta il meglio della sua chiamata all’istituto Universitario di Architettura di Venezia.

Cosa ha significato la presenza di Franco Rella in un contesto come quello di una facoltà di Architettura? Che il progetto di architettura è indubbiamente un mestiere con i suoi saperi e le sue tecniche specifiche, ma è anche capacità di interpretare il reale in tutte le sue sfaccettature e di elaborare una critica dell’esistente; che nella elaborazione delle forme e nell’uso delle tecniche ne va del sociale e che sempre viene implicata la percezione sensibile, l’estetica, soggettiva come collettiva; che questo richiede senso della responsabilità e visione del possibile come del futuro e che l’intera società collassa se è incapace di autoanalisi; che le arti tutte non hanno solo come scopo le emozioni ma anche le forme e i modi delle relazioni sociali e che è indubbiamente vero che quando c’è da costruire una abitazione, un palazzo, e tanto altro ancora, è inevitabile e giusto chiamare un architetto con tutti i suoi saperi, ma che c’è anche un sapere dei saperi, quello che ci rende cittadini. E soprattutto che siamo noi collettivamente che trasformiamo i luoghi in spazi abitandoli. Questo vale per l’architettura ma anche per il design e per le arti tutte. È così che Franco Rella diventò un protagonista fondamentale nel 2001 della nascita della Facoltà di Design e Arti dello Iuav.

A circa trecento o quattrocento metri dalla Piramide, mi inchinai, presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce: sto modificando il Sahara…

È un frammento di Borges intitolato Il deserto: chi sa come lo avrebbe interpretato Franco.

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella1977
    M. Cacciari, F. Rella, M. Tafuri, G.Teyssot, Il dispositivo Foucault. Introduzione di Franco Rella (a cura di F. Rella), Venezia 1977.
  • Rella 2022
    F. Rella, Immaginare Venezia, in A. Chemollo, Venezia Alter mundus. Con un  saggio di Franco Rella, Venezia 2022, pp. I-XVI.
English abstract

The years in which Franco Rella is called upon to teach at the Iuav University are those in which departments are established as places that combine research and teaching. In the Department of History of Architecture, directed by Manfredo Tafuri, the discussion on the role of the intellectual has a crucial moment in the symposium Dispositivo Foucault, organised by Tafuri, Massimo Cacciari, Georges Teyssot and Rella. The intellectual seems to have two alternatives: to become integrated into the system or the counter-system, into power or counter-power, on the one hand, or to retreat into an onanistic aestheticism. Instead, Rella chooses the lonely and demanding path of interpretive work. A path that can be read as Kénosis, self-emptying, self-annulment in the text, in its interpretation. From this perspective, Venice becomes the place to root oneself in the absence of place. And teaching Artistic Literature and Aesthetics in a School of Architecture helps to interpret reality in its multiple facets, and to elaborate a critique of what exists. 

keywords | Franco Rella; Michel Foucault; kénosis; Intellectual work; Università Iuav di Venezia.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Masiero, A Venezia Kafka ha cercato casa, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 47-55  | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.209.0008