Discorso sul metodo
Nel suo libro Ai confini del corpo (2000), Franco Rella scrive che lo strumento “più potente che la ragione ha prodotto, o sognato, per dominare il caso, per trasformarlo in una fitta rete causale, è indubbiamente il metodo”. Così, passando da Leonardo da Vinci e Cartesio al Monsieur Teste di Valéry, nello specchio del moderno la vocazione del poeta è quella di sognare il proprio metodo, perché in esso – cioè nello stile, dove forma e contenuto coincidono – trovi spazio la sua parola. Il coagulo di metodo e stile, infatti, traccia l’unico ritratto possibile del poeta: la sua stessa opera.
Se questo è vero, tra i pensatori italiani contemporanei, nessuno come Rella ha lasciato un’opera tanto difficile da avvicinare. L’ostacolo che il lettore incontra coincide con la stessa forma dell’oggetto interrogato – perché il profilo dell’opera di Rella disegna una sagoma apparentemente discontinua: critica d’arte e letteraria, pratica della traduzione e del commento, prosa saggistica e narrativa. La tentazione più triviale, continuamente assecondata, è quella di addomesticare questa incognita, schermando l’enigma-Rella attraverso definizioni come ‘scrittore’ (che andrebbe benissimo, se significasse qualcosa di esatto e preciso, e torneremo su questo punto) o ‘filosofo’ (termine impiegato tanto spesso per il solo fatto che Rella insegnò estetica).
Sarebbe utile, a questo punto, rilevare che questa mania della catalogazione disciplinare ha colpito anche altri inclassificabili del Novecento italiano: si pensi ai due ‘germanisti’ Ferruccio Masini e Furio Jesi, o allo ‘slavista’ Angelo Maria Ripellino. Ovviamente, chiunque ha letto i loro scritti sa bene che è impossibile ridurli a puerili etichette: ciò che questi autori hanno compiuto è l’esplorazione di territori di confine, senza nome e senza volto, come ogni soglia, e che solo attraverso metafore più o meno efficaci possiamo cercare di indicare.
Il fatto è che l’opera di Rella si colloca al centro di quell’evento fatale che è l’evaporazione delle discipline. Tutta la filosofia contemporanea – da Heidegger a Benjamin, da Deleuze a Corbin, da Merleau-Ponty a Florenskij – vive la vocazione al meticciamento, secondo cui la più autentica filosofia accade nel momento in cui il pensiero insegue, interroga e vivifica altre forme di razionalità: l’arte, la psicanalisi, la letteratura, la linguistica, la musica, le scienze fisiche. Si tratta di comprendere che è possibile incontrare la filosofia solo e soltanto quando da essa si esce, perché come l’Eros del Simposio platonico, l’amore del pensiero è privo di dimora (aoikos), ed è chiamato a procedere ‘espropriato’ di tutto.
E tuttavia, che un pensiero non sia riducibile a un ambito disciplinare, non significa affatto che debba, per questo, essere indisciplinato. Occorre sostare su questo punto, perché è la prima grande lezione di metodo che Rella ci ha lasciato: in un tempo in cui il venir meno delle discipline rischia di diventare (anche) l’alibi per falsi sperimentalismi ed esercizi di scrittura insignificanti (non di rado sfocianti in mediocri tentativi di autocelebrazione), il pensiero di Rella, all’opposto, testimonia l’obbedienza alla disciplina ferrea dello studio rigoroso. Riprendendo la celebre immagine di Wittgenstein, la scala (in questo caso, l’attenzione alla tradizione) serve a salire; dopo l’ascesa bisogna gettarla, altrimenti l’utile mezzo si muterebbe in un fardello insostenibile.
Ma, appunto, l’abbandono della scala è possibile solo dopo la salita. Per uscire dalla propria dimora, occorre anzitutto averla riconosciuta, e avervi sostato a lungo. Il rigore del percorso, infatti, garantisce la serietà delle future estroflessioni in cui il pensiero vorrà rischiarsi. E il venir meno di questa esigenza non produrrà altro che un discorso vuoto, in cui tutto conviene astrattamente con tutto (ovvero la notte, di hegeliana memoria, in cui tutte le vacche sono nere).
C’è una pagina esilarante di Giorgio Manganelli che denuncia esattamente queste derive: stigmatizzando l’idiozia di certi discorsi, che pretendono di muoversi “indipendentemente da qualsivoglia esigenza di coerenza intellettuale”, l’autore ricorda di aver seguito una tesi di laurea in cui “testi marxisti, ateocristiani, liberali, conservatori, deuteroleninisti si giustapponevano in un perfetto ecumenismo critico”. Ecco, nell’itinerario speculativo di Rella non vi è la minima traccia di simili volgarità. Il fatto che ogni suo libro costituisca un continuo pendolare da un’ossessione all’altra (e queste ossessioni avevano nomi ben precisi: Flaubert e Rilke, Hölderlin e Manet, Bataille e Kafka, Proust e Blanchot) non produce mai l’indistinzione caotica dell’ecumenismo critico di cui parla Manganelli. Ma allora la domanda è: che cosa faceva esattamente Rella quando leggeva e scriveva?
Tentazione al disfacimento
Per rispondere a una simile domanda occorre partire, apparentemente, da lontano. Il grande studioso di Sufismo Alberto Ventura, dovendo evidenziare le affinità profonde che legano l’esoterismo islamico con le pratiche dello yoga indiano, proponeva questo aut aut: da una parte, la sintesi (la visione dei nessi, delle segnature profonde che connettono e fanno dialogare fra loro le cose apparentemente più distanti); dall’altra, il sincretismo (la mescolanza arbitraria e artificiale dei nuclei speculativi più diversi).
La sintesi è originaria, una realtà trascendentale, non un’invenzione retorica o un artificio contingente. In questo senso, la sintesi che regge le indagini di Rella è un’esperienza che accomuna tutti i suoi amati autori: il legame profondo fra linguaggio e morte, il paradosso per cui al mortale è dato di parlare, e nelle sue stesse parole trovare la radice enigmatica della bellezza. Il fatto che questa radice eterna, informe e silenziosa innervi i suoni e le forme delle parole – questo è lo scandalo che agitava Rella.
Le parole, certo, indicano le cose; ma queste, non appena vengono nominate, spariscono. Il linguaggio scherma il mondo, e noi non vediamo mai le cose in se stesse. Il circolo invincibile di pensiero e linguaggio ci costringe a vedere nient’altro che le cose così come ce le siamo rappresentate. Ma se ogni parola ha una sua storia, una tradizione che la informa, se ogni parola è, quindi, piena di tempo, la strategia di Rella non è quella di inventare nuovi linguaggi, innocenti e non ancora macchiati da quella barbarie che è la storia; all’opposto, la parola non deve essere placidamente, falsamente atemporale ma, secondo la lezione di Benjamin, talmente carica di tempo da esplodere. Nel momento in cui la parola descrive con la massima precisione una cosa, chi pronuncia o scrive quella parola comprende che essa, proprio perché esatta (avente cioè un significato), non è un’immagine (irriducibile a qualsiasi significato).
In Forme del sapere (2014) l’esperienza della scrittura è evocata con una frontalità paragonabile, forse, solo all’ultimo Blanchot. In una pagina davvero insuperabile, Rella parla della pratica, felice e inquietante a un tempo, dello scrivere:
C’è felicità, ma anche inquietudine. L’ombra ritorna. Ho spento il computer. Lo schermo si abbuia, e io divento opaco. L’opacità è prossima all’angoscia. Talvolta l’opacità si insinua anche nei tempi della scrittura, negli intervalli vuoti, in cui l’attrazione è appunto quella del vuoto. Lo sguardo scivola su tutto e non si arresta su nulla, oppure si fissa vitreo in una zona d’ombra che assomiglia allo stato di tensione senza scopo e senza meta dell’insonnia. L’opaco è già nella scrittura […]. Scrivere è dunque, in qualche modo, convivere con il tempo che ci si propone in frammenti di tempo, in fra-tempi, con parole che, mentre definiscono un’immagine o un’idea, sono prese da una sorta di tentazione al disfacimento.
Cosa resta dopo questa consumazione del linguaggio? Resta l’immagine – o meglio: l’immagine del pensiero. Com’è noto, l’espressione ‘immagine di pensiero’ traduce il termine benjaminiano Denkbild. Ma la traduzione è problematica: che significa immagine di pensiero? È l’immagine a pensare, o è il pensiero che, esprimendosi, la genera? Senza entrare nella selva dei motivi benjaminiani, è possibile ravvisare in una pagina di Rella il senso che l’enigma-Denkbild ha nella sua opera.
Nel suo libro Asterischi (1989), Rella ha commentato il ritratto di Empedocle dipinto dal Signorelli nel Duomo di Orvieto, a fianco del celebre Giudizio Universale. Nell’affresco, Empedocle sporge da un cratere rotondo, proteso all’indietro, e il gomito sinistro appoggiato all’orlo del cratere sostiene il suo peso.
Sui libri di storia dell’arte leggiamo: ‘Empedocle si sporge a guardare il finimondo’. Ma se seguiamo la direzione del suo sguardo vediamo anche noi ciò che egli vede; e sono capri, ippogrifi, delfini, strani animali alati, cavalieri, che si intrecciano in uno straordinario arabesco su uno sfondo dorato. La scena, al bordo inferiore del cratere, si fa ancora più ricca: la fenice, divinità paniche e dionisiache, e metamorfosi che mescolano l’umano e il naturale, e il mondo cosiddetto reale al mondo immaginale.
Il Denkbild di Rella è questo contatto fra immagine e pensiero, che strofinandosi l’una con l’altro come pietre focaie riproducono ciò che resta dopo la consumazione del linguaggio: il silenzio del mondo, l’enigma a cui siamo continuamente destinati.
Scritti di Franco Rella citati nel contributo
- Rella 1989
F. Rella, Asterischi, Milano 1989. - Rella [2000] 2012
F. Rella, Ai confini del corpo, Milano [2000] 2012. - Rella 2014
F. Rella, Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza, Milano 2014.
English abstract
Franco Rella’s speculative itinerary is extremely suggestive: the author has written works of extraordinary stylistic variety throughout his life. But it is also an extremely complex path to follow in its vocation for rigorous method. This contribution aims to emphasise the character of Rella’s thought, thus showing the stable foundation of all his stylistic wanderings.
keywords | Franco Rella; Denkbild; Concept of Synthesis.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: T. Scarponi, Franco Rella, ipotesi per un ritratto, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 83-86 | PDF